di Paolo Lago
Domenico Conoscenti, Manomissione, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2025, pp. 221, euro 16,00.
Domenico Conoscenti, con il suo recente romanzo Manomissione, realizza un interessante esperimento: crea, cioè, una sorta di anomala discronia intessuta di un realismo immaginario che racchiude – come leggiamo nel risvolto di copertina – “in un unico arco temporale momenti diversi di un trentennio di democrazia, proponendosi al lettore come un paradossale romanzo storico”. Siamo in un’Italia governata da un “cancelliere” che ricorda molto da vicino il “Grande Fratello” di orwelliana memoria e si potrebbe pensare di trovarsi in una specie di futuro distopico alla “1984”. Ma così non è perché Conoscenti, con maestria, crea un interessante pastiche in cui vari piani temporali si confondono e si contraggono. Non sveleremo nulla della trama, la quale assume le intricate spirali tipiche di un giallo noir, che si può abbozzare a grandi linee come segue: è passato non molto tempo da una “manifestazione” in cui è emersa una brutale violenza delle forze dell’ordine e l’ex insegnate omosessuale Leonardo Lascari si trova coinvolto in uno strano caso di omicidio. Leonardo viene ripetutamente interrogato da Rosaria Petrotta e da Demetrio Lojacono, rispettivamente commissario e sovrintendente di polizia, in interrogatori che possiamo leggere nei capitoli dispari, introdotti dal titolo “Trascrizione filmato QF 0…” seguito da un numero crescente.
Fermo restando che Manomissione è poco restio a essere incluso nella gabbia di un genere (né giallo, né noir, né distopia o discronia, e neppure romanzo storico), i capitoli relativi agli interrogatori possono far venire in mente un universo del futuro già obsoleto, una fantascienza venata di senescenti macchinari legati al passato: si può pensare, allora, agli interrogatori dei potenziali androidi in Blade Runner (1982) di Ridley Scott e, sempre nello stesso film, all’ufficio del capitano Bryant, inserito in un futuro che è anche contemporaneamente putrescente passato. Si tratta di uno spazio saturo di vecchi e desueti schedari, video dagli schermi rétro e lampade stile anni Cinquanta. È un passato emerso dal futuro, come vediamo anche negli uffici del National Organ Registry di Crimes of the future (2022) di David Cronenberg, in cui si muovono due oscuri e ambigui burocrati. E se l’anomala discronia messa in scena da Conoscenti può, per certi aspetti, far pensare anche ad un futuro in cui vige una onnipervasiva dittatura orwelliana, come quella allestita da Liliana Cavani ne I cannibali (1970), in cui le strade di Milano sono piene di cadaveri insepolti per volontà del regime, quello stesso futuro è pieno di passato, come nei film sopra citati. È un non tempo in cui convergono non solo eventi tragici ed oscuri degli ultimi trent’anni, come leggiamo nel risvolto di copertina, ma in cui ritroviamo anche idee, mentalità, atteggiamenti tipici dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, legati strettamente al ventennio fascista. Sembra che l’Italia non possa mai liberarsi di un pensiero violento derivante da quei terribili anni, né nel futuro, né tantomeno nel presente, e neppure in un’epoca discronica immaginaria.
Il potere e i suoi accoliti, nel mondo messo in scena da Manomissione, sono intrisi di patriarcato e di omofobia, di paura del diverso e del sovversivo: quest’ultimo è oggetto di costruzioni stereotipe e incasellate nate appunto in quegli oscuri anni Cinquanta e Sessanta che puzzavano ancora di clericofascismo. Basta dare uno sguardo all’illuminante inchiesta realizzata da Pasolini con Comizi d’amore (1964), in cui emerge un’Italia moralistica e impaurita dalla diversità sessuale. Questa sacca oscura di vetusta ideologia, e anche di razzismo, in Italia non è mai morta, e oggi è più viva che mai. Azzeccata è quindi l’ambientazione italiana presente in Manomissione; tanto più che la “manifestazione” a cui nel libro più volte si fa riferimento e in cui Gaetano, compagno di Leonardo, ha trovato la morte per mano di un poliziotto, è una chiara allusione a Genova 2001, un altro momento in cui quell’oscura ideologia mai morta ha cantato i suoi funerei fasti.
A fare da pendant con i capitoli dispari (significativamente riportati in numeri romani, con un’allusione ulteriore al Ventennio), in cui leggiamo degli interrogatori riportati con linguaggio tecnico e burocratico (introdotti da versi di canzoni contestatarie degli anni Sessanta e Settanta), ci sono quelli pari, in cui il personaggio di Leonardo Lascari parla in prima persona esprimendo i suoi dubbi e le sue angosce, quasi rivolgendosi direttamente al lettore in un’allusione continua alla composizione proemiale dei Fiori del Male di Baudelaire (“ipocrita lettore, mio simile, fratello!”). E allora lo stile cambia: a quello burocratico e spezzato, dialogico e meccanico, laddove molte frasi dette nei dialoghi si interrompevano senza un perché e, nonostante queste interruzioni, i personaggi (come inceppate intelligenze artificiali) sapevano già cosa si sarebbe detto, subentra uno stile narrativo e poetico, lento e cadenzato, in cui trovano spazio le confessioni più intime e private. E in cui emerge, anche, il desiderio di essere lontano da quell’anomala discronia, da quell’Italia del futuro-passato, in cui ormai anche agli inizi di Novembre è sempre estate e ci sono trenta gradi. Un caldo che non lascia tregua e che sembra quasi un’appendice incorporea, da “iperoggetto” impalpabile (per utilizzare un’espressione coniata dal filosofo Timothy Morton), dell’ideologia gretta e meschina del potere.
E gli altri? Cioè, il resto della popolazione che non compare nel romanzo? Come stanno, cosa fanno, sono assuefatti totalmente all’ideologia imposta dal “cancelliere” (si legge forse “cavaliere” nella realtà?), esclusi i pochi consapevoli resistenti? C’è l’atroce sospetto che la risposta a questa domanda sia positiva. Sono tutti assuefatti, silenti e magari anche contenti. Dei trenta gradi, del caldo anomalo e di tutto quell’apparato d’ordine, sicurezza e controllo sociale imposto dall’alto. E se c’è un riferimento all’oggi e a questa realtà (che ha da tempo archiviato in peggio qualsiasi cancelliere o cavaliere), come sottilmente sottolinea più volte lo stesso autore, è puramente casuale.