Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 15 Mar 2025 21:00:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Morte astrale https://www.carmillaonline.com/2025/03/15/morte-astrale/ Sat, 15 Mar 2025 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87337 di Franco Pezzini

[È comparso per i tipi Polidoro, nella collana Interzona diretta da Orazio Labbate, Napoli 2025, il romanzo Morte astrale. La profezia della lapsit, pp. 432, € 18, a firma di chi scrive. Se ne propone qui uno stralcio.]

Veniva dalla direzione opposta, camminando spedito: grasso, sui cinquant’anni, gran baffi a manubrio sul viso molle, un soprabito scuro di buona fattura… ma erano stati gli occhi a colpirla, sbarrati come parevano da un panico assoluto, grottesco. Anche al primo incontro su quel tratto di strada non c’era molta gente, però lo sconosciuto aveva doppiato un poliziotto senza chiedere aiuto e [...]]]> di Franco Pezzini

[È comparso per i tipi Polidoro, nella collana Interzona diretta da Orazio Labbate, Napoli 2025, il romanzo Morte astrale. La profezia della lapsit, pp. 432, € 18, a firma di chi scrive. Se ne propone qui uno stralcio.]

Veniva dalla direzione opposta, camminando spedito: grasso, sui cinquant’anni, gran baffi a manubrio sul viso molle, un soprabito scuro di buona fattura… ma erano stati gli occhi a colpirla, sbarrati come parevano da un panico assoluto, grottesco. Anche al primo incontro su quel tratto di strada non c’era molta gente, però lo sconosciuto aveva doppiato un poliziotto senza chiedere aiuto e si guardava attorno con angosciata circospezione. Quasi aspettandosi – le era venuto da pensare – un aggressore che sbucasse all’improvviso da un tombino, o calasse dal cielo. Al punto che si era scoperta a voltarsi, a guardarlo allontanare: e ora si rincrociavano.

Quand’era bambina, specie se si trovava fuori casa o in ansia per qualcosa di nuovo, le capitava ogni tanto di astrarsi verso un altrove più consueto e quasi tangibile: questione di un attimo, il tempo di rientrare al posto giusto tra corpo e occhi e ritrovare la realtà. Ma adesso il ricordo di essersi buttata sul letto vestita e stanchissima pareva semplicemente appoggiato da qualche parte, non le importava recuperarlo e forse neppure vi sarebbe riuscita. Solo una desta inquietudine, piuttosto, le faceva notare che la via si perdeva in un nulla biancastro, nebbia o pigrizia del sogno – se di sogno si trattava – nel riprodurre i dettagli, o forse timore che velava lo sguardo. Forse era ciò a spaventare l’ometto, che continuava a guardarsi attorno. E l’inquietudine montava, come addensandosi in foschia appiccicosa.

A un tratto Ariadne ebbe la sensazione di sentir battere il cuore dell’uomo, e si domandò se a echeggiare non fosse piuttosto il proprio – polsi, vene, e giù  fino allo stomaco in subbuglio. Ma a quel punto, quasi l’udito si affinasse via via alla situazione, qualcosa davvero fremette nell’aria e palpitò ronzando, per definirsi infine in una sorta di litania ritmata, risacca ansimante e incomprensibile di voci lontane. Vibrando a tale frequenza, tutta l’immagine sembrò ora barcollare davanti ai suoi occhi, gli oggetti perdere definizione, sgranarsi in polvere pulsante, particelle elementari: e tutto affondò come in un ordito sottostante, nella vertigine di una diversa dimensione con un’eco stonata, selvaggia. Dal fondo degli occhi, Ariadne percepì confusa una frenesia di caratteri incandescenti, indefinitamente sovrapposti in sequenze come in un incommensurabile pallottoliere o nel delirio di un enigmista. Sequenze in continuo movimento, che qualcosa le suggerì alternare ripetizioni e mutamenti. A tratti il tessuto si squarciava in cascate di segni, rabbiose o invece rallentate in rispondenza al ritmo sonoro; ma poi tornava a riagglutinarsi in quell’immenso cruciverba fiammeggiante.

Fu l’intuizione di un’urgenza a costringere Ariadne a recuperare la visione: a poco a poco l’immagine riassunse una nebulosa definizione, poi la stessa scena che aveva lasciato con l’ometto e la strada. Il fremito nell’aria continuava sordo, minaccioso per quanto remoto: ma Ariadne si sforzò di non percepirlo, mentre qualcosa la richiamava al muro compatto di nebbia che fronteggiava la cancellata. Una porzione appena più scura poteva svelare l’imbocco di una via perpendicolare (le parve di ricordare che lì, in effetti, avesse quel giorno svoltato una carrozza), come una fessura d’ombra che lentamente prendesse consistenza. Certo il gelo metallico al tocco delle dita era quello delle aste del cancello, ma realmente faceva più freddo ed Ariadne avvertì quanto fosse vicina a qualcosa che stava arrivando. Anche l’ometto era paralizzato, la voce strozzata in gola, e fissava la porzione più buia della cortina traslucida.

Più che l’inizio di una via, ciò che progressivamente si definiva nella nebbia pareva il fondo di una grande nicchia, raggiato di filamenti lanuginosi come un’enorme ragnatela tra il manto stradale e i palazzi invisibili: una ragnatela, realizzò Ariadne con un misto d’inquietudine e disgusto, viscosa e abitata. Non era sicura di quanto vedesse, anzi si aggrappò all’ipotesi di un errore dello sguardo. Perché proprio adesso, circonfuso di quell’equivoca umidità, una sorta di bozzolo scuro si spingeva avanti ondeggiando in un groviglio di ramificazioni, tentacoli o zampe, allungate in tutte le direzioni come fili colossali. Quasi trascinato dall’immagine, un odore dolciastro, corrotto, permeava il gelo o ne costituiva semplicemente un altro aspetto, come i sensi faticassero a decrittare lo stimolo incongruo, storpiandolo in forme e dimensioni meglio descrivibili.

L’ometto restava incapace di reagire, mentre la cosa avanzava dondolando a mo’ di enorme ragnatela semovente. Alta come un elefante da circo, ma molto più estesa nel pigro ondeggiare dei tentacoli: e benché l’intrico di appendici tendesse a velarla, Ariadne intravide nel folto una specie di crisalide. Sembrava la caricatura malevola di un feto, ma lunga almeno quanto un uomo adulto, col molle capo puntato a tratti in un sordo digrigno. L’essere non faceva rumore, anzi avanzava tra la nebbia con la leggerezza irreale dei batuffoli di polline sparsi dal vento d’estate, le lunghissime appendici danzanti. Però il sordo raschiare della vibrazione nell’aria (che in qualche modo, avvertì Ariadne, doveva riguardarlo) si era fatto insidiosamente ripetitivo e ipnotico. Forse per questo l’ometto lo fissava come una mosca fascinata dal tessitore, sembrava inchiodato a quello spettacolo sempre più vicino, appariva spacciato.

All’improvviso qualcosa saettò. Le percezioni alterate di tempo e misura non permisero di cogliere la sequenza reale: i tentacoli-arpioni erano diretti all’uomo, e invece si abbatterono sfarinandosi sulla strada. Solo con la percezione differita dell’eco Ariadne si rese conto di avere avvertito, per un attimo, un nuovo squarcio di caratteri pulsanti e insieme molto diversi; la sensazione nell’aria di una luce o un fuoco di bizzarra forma geometrica, un orribile sfrigolio. E solo allora scorse l’altra sagoma sul fondo della strada.

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Tema di Lara: la disperazione del tempo https://www.carmillaonline.com/2025/03/14/tema-di-lara-la-disperazione-del-tempo/ Fri, 14 Mar 2025 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87262 di Giorgio Bona

Il dottor Živago fu scritto da Boris Pasternak tra il 1946 e il 1955, durante il periodo in cui lo scrittore era emarginato dal circuito letterario sovietico.

Fu il giornalista Sergio D’Angelo a recarsi in Unione Sovietica su incarico affidatogli da Giangiacomo Feltrinelli per incontrare lo scrittore, proponendogli una pubblicazione nel nostro paese.

La censura sovietica aveva negato la sua uscita in patria con la rivista letteraria “Novyj Mir”, che rifiutò con un secco no il romanzo.

L’editore italiano, nel frattempo, rischiava di provocare uno strappo violentissimo vista la posizione dei comunisti italiani: Feltrinelli era ancora iscritto al [...]]]> di Giorgio Bona

Il dottor Živago fu scritto da Boris Pasternak tra il 1946 e il 1955, durante il periodo in cui lo scrittore era emarginato dal circuito letterario sovietico.

Fu il giornalista Sergio D’Angelo a recarsi in Unione Sovietica su incarico affidatogli da Giangiacomo Feltrinelli per incontrare lo scrittore, proponendogli una pubblicazione nel nostro paese.

La censura sovietica aveva negato la sua uscita in patria con la rivista letteraria “Novyj Mir”, che rifiutò con un secco no il romanzo.

L’editore italiano, nel frattempo, rischiava di provocare uno strappo violentissimo vista la posizione dei comunisti italiani: Feltrinelli era ancora iscritto al Partito comunista quando le autorità sovietiche chiesero la restituzione del manoscritto, affidandosi a un tentativo di intercessione proprio dei comunisti di casa nostra.

Non ci fu nulla da fare.

A questo punto il tentativo fu di ritardarne l’uscita con la scusa di poterlo prima pubblicare in Unione Sovietica. Addirittura una delegazione di comunisti italiani si trovò nel paese del socialismo reale in occasione della festa della gioventù sovietica, e vi fu il coinvolgimento in una discussione sul caso Pasternak. Quando tornarono avevano con loro una lettera firmata e sicuramente apocrifa in cui lo scrittore diffidava l’editore italiano a pubblicalo.

Fu un buco nell’acqua. Il romanzo comparve in Italia nel 1957 e l’anno successivo lo scrittore venne insignito del Premio Nobel per la letteratura, anche se poi costretto a rinunciarvi su pressione delle autorità.

Il romanzo rimase out in Russia fino al 1988, quando la politica del Nuovo Corso promossa da Michail Gorbačëv consentì di vedere la luce.

Il romanzo divenne un film nel 1965 diretto da David Lean e fu presentato al Festival di Cannes vincendo cinque Golden Globe e cinque Oscar, tra cui quello per la sua colonna sonora, Tema di Lara, musicato dal compositore francese Maurice Jarre che ebbe un’estrema popolarità con molte rielaborazioni pop come Somewhere, My Love di Paul Francis Webster nell’interpretazione di Ray Conniff and The Singers.

A questa ne seguirono altre. Anche la musica pop italiana accolse Tema di Lara con un testo scritto da Giorgio Calabrese e interpretato da Rita Pavone, Dove non so (1967). Sarà Orietta Berti a riprenderlo (2000) con un’interpretazione fortemente melodica.

Quel che molti ascoltatori della canzone non sanno è che la donna amata da Jurij Živago, quella donna che offre senso a un amore destinato a resistere al gelo, alla rivoluzione, alla malattia, alla morte di lui, un amore che non si spegnerà neanche quando lei diviene “numero tra i numeri di qualche imprecisato elenco” avesse tratti reali.

La scena finale del film in cui Živago, appena salito su un tram vede camminare Lara per strada e cerca di richiamare la sua attenzione prima di essere schiantato dall’infarto è molto famosa, e viene ripresa anche da Nanni Moretti in Palombella rossa, dove gli spettatori gridano “Voltati!”, “Fatelo scendere!”, “Corri!” come reagiremmo noi d’istinto a scena tanto struggente.

In realtà il personaggio di lei trova un riscontro nella realtà di quel durissimo periodo sovietico. Lara ha un nome: Olga Vsevolodovna Ivinskaya (1912-1995), una donna che ha amato il poeta allo stremo, fino a sopportare la tortura e il gulag. Una storia intensa, fatta insomma non soltanto di letteratura e poesia, ma di vita concreta.

Boris Pasternak era sposato con Zinaida Nikolaevna che diceva pubblicamente che prima del marito e dei figli c’era Stalin. Stalin su tutto e tutti. Anche Nadežda Mandel’štam lo racconterà nelle sue memorie, quando lei e il marito Osip facevano la posta al sommo poeta per incontrarlo e cercare di ottenere un lavoro che potesse permettere loro di continuare a vivere.

Pur ricoprendo un ruolo di prestigio all’interno della Cooperativa Scrittori, Boris Pasternak non si espose più di tanto per difendere e aiutare un poeta che pure stimava e che come tanti colleghi di quel periodo si trovava alla deriva di una condizione disperata. Anche Marina Cvetaeva vedeva in Boris l’uomo con cui avrebbe potuto costruire un futuro dentro un paese difficile, e lui interruppe subito ogni rapporto facendo cadere tra loro una cortina di gelido silenzio.

Boris conobbe Olga quando lei lavorava per la rivista “Novyj Mir”. Lei era di ventidue anni più giovane e già vedova due volte, d’un primo marito suicida e un secondo morto in guerra.

Olga non si perdeva una lettura pubblica del sommo poeta e il loro incontro avvenne nel 1946, anno d’inizio della stesura de Il dottor Živago. Da quel momento Boris e Olga non smisero di vedersi, fino al 1949 quando lei venne arrestata e condotta alla Lubjanka, la sede dei servizi segreti a Mosca. Per giorni interi subì sevizie, torture, durissimi interrogatori, che tuttavia sopportò senza cedere.

Volevano colpire Pasternak, farle rilevare che stava scrivendo un libro antisovietico e riuscire a metterlo sotto processo mostrando a Stalin che si era sbagliato sul suo conto. Per lo stesso motivo, a luglio del 1950 Olga venne condannata a cinque anni di rieducazione nel gulag di Potma. Nei fatti, Pasternak aveva ancora un filo diretto con Stalin, mentre non era amato da molti burocrati del partito. Fu abile nel trovare un equilibrio tra la realtà sovietica e una qualche irreale dissidenza letteraria, camminando sempre come su un filo sospeso nel vuoto.

Olga sopportò anche questo. Non aprì bocca, subendo torture tali da provocarle un aborto – era incinta del figlio di Pasternak. Dopo la detenzione, la loro relazione riprenderà fino alla fine dei giorni del poeta nella sua dacia di Peredelkino (1960).

È Anna Pasternak, pronipote dello scrittore, a rompere il silenzio imposto dalla famiglia sulla figura di Olga che i discendenti avevano voluto nascondere tra gli affetti importanti del poeta.

Raccontare Boris Pasternak diviso tra la moglie Zinaida e Olga era come entrare nel romanzo dello scrittore e riconoscere chi stesse dietro le figure di Tonya e Lara, e una storia d’amore che diventa un romanzo, anche se di fatto in questa storia viene identificata una resistenza al potere sovietico.

Le molte poesie che Živago dedica a Lara nel romanzo sono quelle che Boris Pasternak dedicava a Olga.

La figura di Lara, quella che il pubblico ha amato fino alla commozione è esistita davvero, e nella realtà visse una vita di stenti e di sofferenze ben più dure e terribili di quelle della Lara del romanzo.

Ma mentre nel finale del film Lara scompare deportata in qualche campo di lavoro numero tra i numeri di qualche imprecisato elenco, Olga tornò dalla prigionia trasferendosi in una piccola casa vicino alla dacia di Boris, a Peredelkino, e la loro storia riprese da dove era stata interrotta.

“Ho amato Boris, e non posso ingannarmi quando penso che la mia persona è stata a lui necessaria, sono riconoscente al destino che mi ha riservato questo posto di privilegio accanto a lui, nella sua disperazione del tempo”.

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Yamanba. Donne ribelli del Giappone https://www.carmillaonline.com/2025/03/13/yamanba-donne-ribelli-del-giappone/ Thu, 13 Mar 2025 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87128 di Gioacchino Toni

Rossella Marangoni, Yamanba. Donne ribelli del Giappone, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 374, € 22,00

Come vorrei che il dormitorio venisse spazzato via, la fabbrica bruciasse, / e il guardiano morisse di colera! (Canto delle operaie del settore tessile, Giappone, fine del XIX sec.)

Dopo aver proposto con il volume Onibaba (Mimesis, 2023) un affascinate viaggio alla ricerca del mostruoso femminile che popola l’immaginario giapponese dall’antichità ai giorni nostri, con il suo nuovo libro, Yamanba. Donne ribelli del Giappone (Mimesis 2025), Rossella Marangoni va alla ricerca degli indizi di ribellione e delle istanze di libertà nei [...]]]> di Gioacchino Toni

Rossella Marangoni, Yamanba. Donne ribelli del Giappone, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 374, € 22,00

Come vorrei che il dormitorio venisse spazzato via, la fabbrica bruciasse, / e il guardiano morisse di colera! (Canto delle operaie del settore tessile, Giappone, fine del XIX sec.)

Dopo aver proposto con il volume Onibaba (Mimesis, 2023) un affascinate viaggio alla ricerca del mostruoso femminile che popola l’immaginario giapponese dall’antichità ai giorni nostri, con il suo nuovo libro, Yamanba. Donne ribelli del Giappone (Mimesis 2025), Rossella Marangoni va alla ricerca degli indizi di ribellione e delle istanze di libertà nei comportamenti, nei miti e nella scrittura delle donne giapponesi mostrando come queste abbiano saputo trasformare la mostruosità di cui venivano accusate in un gesto consapevole di rivolta.

La figura della yamanba, a cui fa riferimento il titolo del volume, è la vecchia strega di montagna antropofaga, archetipo del male, demonizzata e percepita come una tremenda alterità minacciosa che, dopo essere stata ridotta per secoli al silenzio, ha saputo ritrovare la voce e sottrarsi al modello di femminilità sottomessa e remissiva che le è stato imposto.

Se l’esotismo occidentale di fine Ottocento ha teso a ridurre la figura della donna giapponese alla silhouette bidimensionale della geisha tra paraventi, ventagli, ombrellini e fiori di ciliegio, non si può dire che la conoscenza più diretta dell’universo nipponico da parte occidentale, che si è data attraverso l’occupazione del Paese al termine del secondo conflitto mondiale, non sia stata da meno nel diffondere una visione della donna giapponese stereotipata, riduttiva e decisamente piegata all’immaginario maschile occidentale: il cinema, soprattutto hollywoodiano, degli anni Cinquanta ha spesso ridotto le figure femminili nipponiche a «delicate bellezze dagli occhi allungati da un trucco sapiente (e sono sempre, o quasi, attrici non asiatiche), a perpetuare il mito della geisha remissiva, sottomessa al volere dell’uomo bianco» (p. 14).

È proprio il constatare il perdurare del fenomeno di esotizzazione occidentale delle donne giapponesi, tanto che lo si ritrova facilmente anche in film ben più recenti rispetto alle produzioni dell’immediato secondo dopoguerra, che spinge Marangoni ad intraprendere la sua ricerca della donna nella società e nella cultura del Giappone guardando ad essa senza piegarla ai desideri dell’immaginario – soprattutto maschile – occidentale con l’intendo di verificare quanto abbia saputo sottrarsi o ribellarsi, nel corso dei secoli, alla remissività ed alla sottomissione imposte dagli uomini.

«Creature ambigue, che suscitano in noi sentimenti ambivalenti, pulsioni contraddittorie di orrore e meraviglia, di attrazione e rifiuto, di fascinazione e, al contempo, di respingimento» (p. 18); i mostri sono esseri ambigui, capaci di suscitare repulsione ed attrazione allo stesso tempo, esseri liminali fra mondi diversi, tra noi e l’altro, tra il buono ed il cattivo, tra il bene ed il male, ma anche tra il passato ed il presente, tra la vita e la morte. Esseri destinati a metterci in discussione in quanto sfidano l’idea di normalità e lo stesso concetto di identità. «Tutti questi temi che stanno alla base del nostro modo di essere nel mondo, di concepirci come esseri umani, sono i temi della mostruosità di cui, nel corso dei secoli, sono state investite le donne. Un’irriducibile anomalia che sconvolge un universo altrimenti armonico, perfetto: quello maschile» (19).

La demonizzazione della donna nel Giappone antico ha certamente a che fare con il pensiero confuciano classico, con la sua insistenza sulle Tre Obbedienze (al padre, al marito ed al figlio maggiore) a cui deve sottostare la donna, così come ha a che fare con l’orrore per la contaminazione del sangue, tipico della spiritualità arcaica e che ricompare nei culti e nei riti dello shintō e in alcuni sutra buddhisti tendenti ad emarginare la donna dalla sfera del sacro e dal sistema di potere che ruota attorno ad esso.

Più che alle radici culturali ed alle modalità di estromissione della donna e della sua riduzione al silenzio, Marangoni decide di guardare alle ribellioni delle donne. Se si risale alle origini della civiltà giapponese, ci si imbatte in un’importante divinità femminile, Amaterasu, per nulla remissiva, in lotta con il fratello. Il conflitto tra i due tra i due si risolve attraverso danze orgiastiche che sanciscono «il trionfo del sesso femminile come artefice di gioia e di vitalità» (p. 24), capace di portare pacificazione e sconfiggere il male (maschile).

Proseguendo nel suo percorso, Marangoni si dice convinta che per quanto si tenda a guardare al Taketori monogatari (Racconto del tagliabambù), trasposizione letteraria del X secolo di un racconto popolare giapponese, come ad una parodia dei costumi di corte, pur con qualche forzatura, sia possibile leggerlo, soprattutto nelle riprese più recenti del testo, anche come la narrazione di una ribellione femminile, visto che narra di una principessa da fiaba che osa sottrarsi all’istituzione matrimoniale, affermando la sua volontà.

Nella raccolta di storie del XII secolo Tsutsumi chūnagon monogatari (Racconti del consigliere medio della riva del fiume), si incontra una principessa incline a farsi beffe del sentire comune, delle convenzioni estetiche e dei costumi del tempo. Per quanto si tratti di un racconto parodico attraverso cui l’autore intende farsi beffe dell’eccentricità delle donne poco inclini a conformarsi ai modelli loro imposti, secondo Marangoni, la determinazione con cui la principessa del racconto persegue le sue passioni e le sue convinzioni, il suo anticonformismo ed il suo disinteresse per il modello di femminilità vigente al tempo, la rendono una figura quasi contemporanea, lontana dall’immagine eterea e dimessa della donna convenzionalmente raccontata.

Per secoli la donna dovrà mettere in essere strategie ingegnose di resistenza, dal silenzio alla vendetta psicologica, sottile ma inesorabile. Mai aperta, sempre nascosta dietro una cortina di ritegno, di sommesso sussurro, come un grido soffocato, la rivolta delle donne in Giappone, nei secoli passati, si è fatta strada dilagando come acqua che tracima da un pozzo, il pozzo della prigionia e della rabbia, come acqua che fuoriesce da un canale e allaga i campi, le risaie, impantanando gli uomini nel fango originato dal loro stesso disprezzo (p. 37).

Sono tanti i volti con cui si è manifestata la rabbia femminile, così come sono molteplici le strategie di ribellione a cui hanno fatto ricorso le donne. Ci sono stati periodi e contesti in cui la possessione ha assunto per le donne le forme di un atto di ribellione. In epoca pre-buddhista, in Giappone, le donne sono state regine sciamane, delle sacerdotesse che svolgevano un ruolo di mediazione tra gli esseri umani ed i kami, le entità supreme che, attraverso danze sciamaniche, prendevano possesso del corpo di queste mediatrici.

Le memorie delle nyōbō, dame in servizio alla corte imperiale, rappresentano una prima forma di riflessione su sé stesse di un gruppo di donne, per quanto appartenenti ad un ambito privilegiato vicino al potere. Nelle loro memorie è possibile vedere un’anticipazione della corrente autobiografica che sarà base della letteratura moderna giapponese. «Scrivere di sé per parlare di sé. Per raccontarsi o per sfogarsi? E sfogarsi non è già prendere coscienza della propria situazione? Denunciarla? O addirittura, pur sommessamente, cercare di opporvi resistenza?» (p. 40).

È interessante notare come lo stereotipo maschile secondo cui “la gelosia è donna” derivi da una società, come quella heian, caratterizzata dalla poligamia maschile, che non può che indurre a sentimenti di gelosia tra le donne. Se il tema della possessione femminile, molto presente nella letteratura classica e moderna, nel teatro nō e nel cinema, con il suo trasformare le donne viventi in dèmoni, può essere letto come monito ad accettare passivamente lo stato di subordinazione al fine di evitare di «uscire da sé stesse e di commettere azioni potenzialmente letali» (p. 57), nella possessione della donna da parte di uno spirito si potrebbe scorgere una delle tante strategie poste in essere dalle donne per palesare il proprio malessere.

Marangoni si sofferma sulla figura dell’anziana antropofaga yamanba che abita nelle montagne presente nel folklore giapponese, ripresa e aggiornata più volte ne corso del tempo. In particolare l’autrice prende in esame la riproposizione che ne fa il teatro che, con le molteplici rappresentazioni che si sono susseguite nel tempo, ha concorso a definire l’immagine di questo mostro femminile generando, al contempo, un archetipo di femminilità.

Pur essendo il dramma imperniato attorno ad una visione della donna propria della sua epoca, fortemente legata al messaggio buddhista ed alla visione maschile della duplicità della donna, seduttiva e minacciosa allo stesso tempo, rappresenta una rilettura capace di ribaltare la narrazione tradizionale e di aprire nuove strade. È infatti al modello della yamanba del , ben più che al demone femminile del folclore, che fanno riferimento le scrittrici novecentesche per creare una narrativa di ribellione, in cui la yamanba viene riletta «come ideale di donna che vive, nella società giapponese, oltre lo stereotipo della femminilità» (p. 70). Insomma, la yamanba, nelle mani delle donne, diviene uno strumento «per raccontare la propria versione della storia» (p. 71).

Altro ambito approfondito dall’autrice riguarda lo spettacolo onna kabuki o yujō kabuki (kabuki delle prostitute) nel Giappone di epoca Tokugawa creato dall’attrice e balleria Okuni. Il kabuki delle donne viene proibito nel 1629 con l’accusa di “disturbo della moralità”; spetterà ai ragazzini che le donne avevano introdotto nelle loro compagnie mantenere in vita questa forma di spettacolo, ora chiamato wakashū kabuki, il kabuki dei ragazzi. Nel 1652 anche questi spettacoli vengono vietati lasciando il posto al kabuki di soli uomini adulti che impersonano anche le parti femminili mettendo in scena una donna sublimata. È così che, paradossalmente, il teatro creato da una donna, Okuni, finisce per essere sottratto e negato alle donne.

Se la figura della yamanba è centrale nei drammi cosiddetti yamanba mono, spetta al dramma Komochi yamauba (Yamauba con un bambino) di Chikamatsu Monzaemon imprimere, nel corso del XVIII secolo, una svolta nella rappresentazione della mostruosa creatura femminile: presentata «non più come la donna anziana di spaventoso aspetto del folclore e non solo come una donna giovane e bella, ma anche come una moglie e una madre devota» (p. 102).

Altro approfondimento proposto dall’autrice riguarda le cosiddette daraku jogakusei, le “studentesse degenerate” delle città del Giappone del XIX secolo che si sta aprendo all’Occidente e che intende modernizzarsi velocemente. Si tratta di giovani poco inclini a seguire le regole e desiderose di studiare. La scolarizzazione femminile permetterà l’accesso alla scrittura diretta delle donne, e la figura della jogakusei degenerata inizia a comparire nelle opere letterarie, come nel caso del romanzo Makaze koikaze (Vento di demoni, vento d’amore) del 1903 di Kosugi Tengai sebbene, in questo caso, l’intento dell’autore sia quello di mostrare come «l’istruzione, per le donne, sia pericolosa se non è mirata alla formazione di una persona che incarni il modello di sposa fedele e madre saggia, una donna patriottica al servizio di una nazione moderna» (p. 131). Prese di posizione moralistiche, votate a mettere in guardia le ragazze da un’istruzione non finalizzata al mantenimento dello status quo, le si ritrovano, a cavallo tra i due secoli, anche in diversi scritti di donne.

Se da un lato il governo Meiji guarda alle giovani donne come esempio della modernizzazione auspicata, non appena queste fanno capolino in ambito pubblico, si affretta a condannarle accusandole di perversione. È in questo stesso periodo che si sviluppa una sorta di “culto della verginità” che, almeno fino ad allora, ricorda l’autrice, non apparteneva alle classi popolari giapponesi. Proprio nel momento in cui il Paese intende darsi una veste illuminata sui modelli occidentali, si assiste ad una sostanziale confluenza fra un moralismo di stampo vittoriano e un rigorismo confuciano in direzione di uno Stato-famiglia (kazoku kokka) incentrato sul controllo della castità della donna “in età da marito”.

Se è difficile indicare le daraku jogakusei come vere e proprie ribelli, il fatto stesso che siano demonizzate, mostrificate e disprezzate conferisce loro un potere sovversivo, per quanto più percepito che agito. Se a dare voce alla sofferenza e alla disperazione delle donne di epoca Meiji contribuiscono scrittrici come Higuchi Natsu (Ichiyō), anche nella scelta del silenzio è possibile cogliere una forma di resistenza, come accade nel romanzo Onnazaka (1949) e nel racconto Ossa di uomini (Otoko no hone, 1956), entrambi della scrittrice Fumiko Enchi.

Spazio viene dedicato dall’autrice non solo ad attiviste come Kishida Toshiko, Fukuda Hideko e Kusunose Kita, attive sul finire del XIX secolo nella lotta per i diritti delle donne, ma anche a testimonianze che raccontano di come gli ideali del Movimento per la libertà e i diritti del popolo serpeggiassero persino tra le geisha. A tal proposito Marangoni ricorda la nascita nel 1883 a Kyōto di un’organizzazione di geisha denominata Jiyūkō (Associazione per la libertà) e di una associazione analoga a Kōchi, sull’isola di Shikoku, chiamata Geigi konshinkai (Società di amicizia delle geisha) mentre, nella stessa località, alcune di queste donne non mancano di partecipare attivamente alle assemblee prefettizie, mettendo persino in scena una “danza dei diritti civili” (minken odori).

Al libro Jokō aishi (La miserabile storia delle operaie) scritto dall’operaio tessile Hosoi Wakizō nel 1925, tra i fondatori della corrente della letteratura proletaria, si deve un importante racconto delle condizioni di vita delle giovani operaie di periodo Meiji, per quanto le dipinga come «soggetti passivi, inconsapevoli, incapaci di scegliere e di ribellarsi al proprio destino» (p. 209). Anche la moglie e collega di lavoro Takai Toshio racconterà, sebbene diverso tempo dopo, di quel mondo nel suo Watashi no “jokō aishi” (La mia miserabile storia delle operaie, 1980). Storie di vita di giovani operaie sono raccontate, in forma di diario, anche da Wada Ei nel testo uscito postumo Tomioka nikki.

Le avrebbero volute docili, perché così le hanno create: utilizzando abilmente le leggi che impedivano alle donne la partecipazione alla vita politica e che le relegavano perennemente allo stato di minore, attraverso una gestione paternalistica delle manifatture che esigeva lealtà e obbedienza e prevedeva contratti a breve termine per giovani che di lì a poco si sarebbero sposate e avrebbero abbandonato la fabbrica e che quindi non valeva la pena formare e responsabilizzare, i datori di lavoro idearono un prototipo di lavoro femminile che […] avrebbe costituito il modello per eccellenza di lavoro femminile nelle aziende per tutto o quasi il XX secolo. Un paradigma di successo ancora una volta destinato a limitare, arginare, circoscrivere il cammino delle donne verso una vera indipendenza (p. 214).

In realtà, tutt’altro che docili e remissive, le giovani operaie dei setifici e dei cotonifici (che costituivano l’80% della forza lavoro nel comparto tessile), negli anni Venti e Trenta del Novecento, diedero filo da torcere ai datori di lavoro «con scioperi massicci contro gli abusi sessuali dei sorveglianti, per la riduzione dell’orario di lavoro, per l’apertura dei dormitori. Lo faranno organizzandosi da sé, perché gli uomini – anche i loro compagni di lavoro – alla fine si rivelavano tutti preda di un’unica convinzione: che le donne non possano prendere l’iniziativa, che portano guai, che sono deboli e incapaci» (p. 216).

Secondo l’autrice il 1911 rappresenta per le donne giapponesi il momento di svolta in cui hanno acquisito consapevolezza della possibilità di rifiutare l’ideale di femminilità loro imposto. L’anno si apre con la messa a morte dell’anarchica Kanno Sugako, insieme ad una ventina di complici, per aver ideato un complotto per assassinare l’imperatore Meiji. Il 1911 è anche l’anno in cui a Tōkyō debutta in teatro la prima produzione giapponese di Ningyō no ie (Casa di bambola, Et dukkehjem, 1879) di Henrik Ibsen, diretta da Shimamura Hōgetsu con l’interpretazione di Matsui Sumako, la prima attrice diplomata in una scuola di teatro a salire sul palco in Giappone: «la rappresentazione fece scalpore per i contenuti esplosivi del dramma, che rivelavano l’ipocrisia del matrimonio, denunciavano la sottomissione della donna e mettevano in discussione l’autorità del capofamiglia in una realtà, come quella giapponese di fine Meiji, che non riconosceva alla donna neppure lo status di soggetto giuridico» (p. 223).

Lo spettacolo, scrive Marangoni, ha avuto un ruolo importante nello scuotere le coscienze delle donne giapponesi, nell’invitarle a quell’auto-risveglio che in giapponese, ricorrendo a un termine buddhista, verrà detto jikaku. Termine che verrà utilizzato anche a proposito della Nuova Donna moderna giapponese. Se da una parte le vicende della protagonista Nora, messe in scena sul palco, scuotono le coscienze femminili, queste, sottolinea la studiosa, inducono le donne giapponesi a domandarsi quanto sono disposte a sacrificare per la propria liberazione.

L’anno successivo ad essere messa in scena a Tōkyō è Magda (Heimat, 1893) del drammaturgo tedesco Hermann Sudermann, con la regia di Shimamura Hōgetsu. Si tratta di un dramma incentrato su di una giovane determinata a svincolarsi dalle ingerenze del padre per dedicarsi al canto che si trova a dare alla luce un figlio al di fuori del matrimonio ed a causare, suo malgrado, la morte del padre, colpito da un colpo apoplettico dopo aver tentato di uccidere la figlia in preda all’ira. Per l’attacco portato alla famiglia, lo spettacolo viene proibito subito dopo la prima: agli occhi del potere del tempo, quella della protagonista Magda rappresenta un’intollerabile insubordinazione alla famiglia gerarchica e, con essa, allo Stato stesso. Occorrerà aggiungere le scuse finali della donna affinché lo spettacolo possa essere nuovamente messo in scena, ma ormai «Magda, che rifiuta un matrimonio riparatore per perseguire da sola un’esistenza di madre indipendente che sfida le leggi del patriarcato, diventa per tutte l’eroina prediletta, colei che accompagna ciascuna nella presa di coscienza della propria condizione subalterna» (p. 227).

Il 1911 vede anche l’uscita del primo numero di “Seitō”, la prima rivista letteraria redatta e pubblicata esclusivamente da donne che, nei suoi cinque anni di vita, a cui contribuiscono centosessanta autrici, si trova più volte ad avere a che fare con la censura. Se la prima ondata femminista in Giappone, portata avanti dalle pioniere di epoca Meiji, si era battuta per la libertà di espressione, per l’eguaglianza dei diritti e delle opportunità educative, la seconda ondata, a cui prende parte la rivista, presenta nuovi temi e rivendicazioni «quali il riconoscimento di sé, della sessualità femminile e della libertà sentimentale e sessuale, affrontando nella scrittura argomenti finora inesplorati perché considerati tabù: prostituzione, castità, maternità, aborto, infelicità coniugale, divorzio, relazioni omosessuali» (pp. 232-233). Le ragazze di “Seitō”, scrive Marangoni,

sono cattive ragazze e le idee che propugnano di indipendenza, di libertà sessuale e sentimentale, di rifiuto di nozze combinate e di esistenze consumate nel chiuso delle case, queste idee le vivono, ribellandosi ai modelli, assumendo comportamenti che l’opinione pubblica considerava immorali e inammissibili. Sì, volevano vivere liberamente la propria sessualità e lo dichiaravano e lo scrivevano, senza i legami di costrizione, appunto, del matrimonio (p. 234).

L’autrice ricostruisce le tappe principali dell’esperienza della rivista, soffermandosi anche sull’anarchica femminista di Itō Noe che ne assume la direzione nel 1915 affiancando alle tematiche femministe anche istanze del movimento anarchico internazionale e rivendicazioni del movimento operaio. In seguito al grande terremoto della regione del Kantō (il cosiddetto Kantōdaijishin) che semina morte e distruzione (oltre centodiecimila morti e due milioni e mezzo senzatetto) si scatena in Giappone una furiosa e folle caccia ai coreani (incolpati di aver provocato incendi e di aver avvelenato pozzi), agli anarchici ed ai socialisti (accusati di approfittare della tragedia per fomentare una rivolta contro le autorità politiche). A farne le spese è anche l’anarchica Noe, assassinata in prigione, e l’anarco-nichilista coreana Kaneko Fumiko, che si suicida in carcere.

Di un certo interesse sono le modalità con cui viene raffigurata la figura femminile nel Giappone degli anni Venti del Novecento nelle cartoline satiriche chiamate saikun tenka (“il regno delle spose”): «mogli tiranniche che regnano su mariti deboli e li obbligano a occuparsi delle faccende domestiche e della prole» (p. 256). A parte il sorriso che poteva generare questa inversione di ruoli, tali cartoline, scrive Marangoni, rivelano piuttosto «una visione generalizzata decisamente maschilista e delle ansie che le donne moderne del Giappone ingeneravano» (p. 256).

Ad inquietare maggiormente la società giapponese nei primi decenni del XX secolo è la comparsa della shokugyō fujin, la donna lavoratrice che, uscendo di casa, può prendere coscienza della propria condizione confrontandosi con compagne di lavoro, una donna che può, finalmente, avanzare rivendicazioni, esprimere proprie idee ed esibire il proprio corpo e la propria sessualità. Se le popolane si erano già trovate a lavorare fuori casa, ora il fenomeno riguarda anche le donne dalla classe media.

La Nuova Donna di inizio Novecento è un pericolo perché rappresenta l’antitesi perfetta al modello di donna che era stato stabilito per lei, ossia «funzionale al mantenimento della famiglia patriarcale in uno Stato-famiglia sotto la guida di un imperatore-padre» (p. 258). Alla donna remissiva, obbediente, priva di diritti, voce e visibilità, fa da contraltare una Nuova Donna che, evitando di sottostare a tutto ciò, genera timore in quanto mina la stabilità sociale. Se questa nuova figura femminile è considerata svergognata e immorale dai conservatori, non manca di venire attaccata anche dagli ambienti di sinistra che la giudicano edonista e borghese.

Fatte le debite distinzioni, dettate dai differenti contesti, questo nuovo tipo di donna spavalda, con tutte le inquietudini che genera, fa la sua comparsa tra le due guerre mondiali anche in Occidente: la garçonne, la flapper, la Neue Frau, la maschietta ecc. Donne moderne a cui lo sguardo maschile guarda con ambivalenza: seduttive e utili all’economia (sia in ambito produttivo che di consumo) ma anche minacciose per l’integrità delle istituzioni fondanti della società tradizionale.

La modern girl che si ritrova nei romanzi giapponesi – in Chijin no ai (L’amore di uno sciocco, 1924), di Tanizaki Jun’ichirō, ad esempio, vine descritta come viziata e tirannica – è certamente differente da quella che si può trovare nella realtà ove, non di rado, dietro alle apparenze moderne, soprattutto nei locali, si cela un tragico universo di sfruttamento.

Nei primi anni Venti, le cameriere di Ōsaka danno vita ad un proprio sindacato, l’Ōsaka jokyū dōmei – presto sconfessato dalla sezione di Ōsaka della Nihon rōdō sōdōmei, la Confederazione giapponese del lavoro, che le accusa di “scarsa moralità” – con l’intenzione di rivendicare, tra le altre cose, l’abolizione del sistema delle mance che le obbligava a flirtare con i clienti ed il diritto ad essere rimborsate delle spese di lavanderia, dei pasti e dei materiali di consumo utilizzati durante il lavoro per presentarsi come richiesto dagli uomini che guardavano loro sospesi tra attrazione e timore. Per attenuare l’inquietudine che queste donne generano, gli uomini adottando facilmente rapporti di autorità su di esse. Nel raccontare delle forme di ribellione che si sono date in questo Giappone di inizio Novecento teso alla modernizzazione, Marangoni ricorda anche la lotta delle manekin gāru, ragazze impiegate nei negozi per stare in vetrina come manichini viventi.

Negli anni Cinquanta, complici le riviste patinate e lo stesso cinema, la figura della donna propagandata continua a ridurla a moglie e madre, come non esistesse al di fuori di questi due ruoli in cui è al servizio del marito o dei figli e che ha nella figura della casalinga il modello perfetto. Tale modello, però, viene fortemente messo in discussione negli anni Sessanta, quando prende piede una nuova generazione di attiviste femministe che prende il nome di ūman rību e che, nel decennio successivo non manca di lottare a difesa del diritto di aborto e per la legalizzazione della pillola contraccettiva. Particolarmente attivo è il movimento Chūpiren per l’autodeterminazione della donna nato nei primi anni Settanta.

In tale contesto ecco rifare capolino la yamanba: sono le donne stesse, come avviene del resto in Occidente, ad impossessarsi dell’appellativo di “strega”, tanto che i concerti di autofinanziamento organizzati dal movimento ūman ribu vengono chiamati dalle stesse attiviste witch concert. Nelle arti e nella letteratura si fanno sempre più potenti le voci delle donne che, attraverso tematiche intrise di sessualità e di erotismo, affermano un altro modo di essere donna in Giappone.

E il femminile demoniaco diventa così un motivo femminista. Protagoniste o comprimarie di queste narrazioni saranno le yamanba, le figure archetipiche di cui inseguo le impronte, che tornano sotto spoglie diverse nella letteratura giapponese degli anni Settanta, Ottanta e Novanta del XX secolo quali numi tutelari. O forse no, meglio, riappaiono come frecce scagliate contro un sistema che ancora guarda con sospetto questo Altro che è la donna. Andare verso yamanba, però, vuol dire scavarsi dentro, guardarsi con lucidità, per trovare in sé tutta la forza, tutta l’energia utile a uscire allo scoperto, a imporre le proprie idee, i propri desideri, con determinazione, senza vacillare (p. 295).

Quello proposto dalle storie scritte da donne ribelli è un nuovo modo di raccontare la yamanba. Punto di svolta in tal senso è il racconto Yamanba no bishō (Il sorriso della yamanba, 1976) della scrittrice Ōba Minako. La sua yamanba non è quella del folclore che la vuole isolata, ma una donna che vive in società nello spazio urbano, capace di leggere nella mente altrui. A partire da allora si sono susseguite svariate riletture della yamanba, tra queste Marangoni cita il racconto Yamanba (2009) della scrittrice e monaca buddhista Setouchi Jakuchō. Guardando più in generale alle tante riscritture che hanno fatto rifermento alla yamanba, la studiosa evidenzia che

si tratta per lo più di storie in cui l’elemento fantastico è prevalente o di racconti di fantascienza poiché, per immaginare un nuovo modo di essere donna, occorre immaginare mondi nuovi. E, sempre, queste fantasie di violenza, di morte, di antropofagia o di sadomasochismo liberano la donna dallo status di vittima e la rendono protagonista attiva in un percorso di liberazione doloroso e catartico al tempo stesso (p. 312).

Al termine del viaggio proposto da Rossella Marangoni, ci si accorge di come la donna che rifiutava/rifiuta di adeguarsi al modello femminile imposto, diventava/diventa facilmente un mostro, una minaccia per il patriarcato: una yamanba. Dedicato «Alle “cattive ragazze” del Giappone. E a tutte le yamanba che vagano libere», il viaggio proposto da Rossella Marangoni, impreziosito da un ricco apparato iconografico, è davvero un viaggio che vale la pena di compiere.

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Semiologia di una svolta “epocale” https://www.carmillaonline.com/2025/03/12/linee-di-tendenza-e-svolte-epocali/ Wed, 12 Mar 2025 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87245 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 348, 22 euro.

Fondamentalismo religioso, populismo, capitalismo d’assalto, uso distorto delle tecnologie: le origini del presente sono da ricercare negli anni Ottanta, quando tutto cominciò con due attentati: uno al papa, che si salvò e uscì vincitore dallo scontro con il “mostro” sovietico; l’altro a John Lennon, trafitto da quattro colpi di pistola alla schiena all’angolo della 72 ͣ con Central Park West. Faceva un freddo becco, quel giorno. Il mondo stava cambiando. (Diego Gabutti, Ottanta)

Giunti ancora una volta ad un [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 348, 22 euro.

Fondamentalismo religioso, populismo, capitalismo d’assalto, uso distorto delle tecnologie: le origini del presente sono da ricercare negli anni Ottanta, quando tutto cominciò con due attentati: uno al papa, che si salvò e uscì vincitore dallo scontro con il “mostro” sovietico; l’altro a John Lennon, trafitto da quattro colpi di pistola alla schiena all’angolo della 72 ͣ con Central Park West. Faceva un freddo becco, quel giorno. Il mondo stava cambiando. (Diego Gabutti, Ottanta)

Giunti ancora una volta ad un marinettiano e, ormai, tutt’altro che futuristico «estremo promontorio dei secoli» del mondo che conosciamo, o che credevamo di conoscere, torna utile riandare, con il testo appena pubblicato da Neri Pozza nella collana Colibrì, ad un altro svolto storico importante del secolo passato: quello degli anni Ottanta.

Diego Gabutti, con la sua lingua tagliente e lo sguardo ironico come al solito, ci conduce a rivisitare un momento in cui le illusioni dei due decenni precedenti, o forse quattro considerando tutto il tempo intercorso tra la fine del secondo conflitto mondiale e gli anni di cui si parla nel libro, sarebbero finite o, perlomeno, sarebbero state messe seriamente in crisi.

Sia chiaro, ad essere rimesse in discussione non furono soltanto le foscoliane illusioni del cuore, ma tutto l‘insieme di certezze di vario colore e senso politico, economico e culturale, su cui si era retto il mondo dei cosiddetti “Trenta ruggenti” ovvero gli anni intercorsi grosso modo tra il 1945 e il 1975, marcati da un’espansione economica che ebbe nell’Occidente, e in particolare nell’Europa del Mercato Comune, il suo baricentro consumistico e di benessere sociale.

Un ribaltamento delle prospettive che ha permesso in seguito di parlare di una sorta d nuova rivoluzione “conservatrice”, ammesso che una rivoluzione possa mai essere conservatrice, di cui Ronald Reagan, papa Wojtyla e Margaret Thatcher avrebbero costituito, ma soltanto col senno di poi, i deus ex-machina. Ma il cui primum movens fu forse quello di riportare nelle tasche dei “ricchi” ciò che per un illusorio momento era finito nelle tasche dei “poveri”.

Tutto questo secondo l’autore, e proprio in ciò risiede il maggior pregio del libro, non fu pianificato a tavolino, come troppo spesso le letture eccessivamente semplificate della storia e della politica vogliono suggerire, ma fu invece la conseguenza di una miriade di fatti di cui, pur non potendo elencarli tutti, l’autore ci racconta, più che spiegare, l’essenza in trentadue capitoli, più un Prologo ed un Epilogo, che vanno dal capodanno del 1980 con l’invasione sovietica dell’Afghanistan alla caduta del Muro di Berlino. Insomma: Dieci anni che sconvolsero il mondo, come giustamente recita il titolo.

C’erano state, nel giro di soli trent’anni, due guerre devastanti, guerre al di là d’ogni indignazione, perché come ci sono vignette comiche senza parole ci sono anche tragedie mute, o meglio ammutolenti: nubi di gas tossico sulle trincee, città incenerite, pietà l’è morta, il genocidio pianificato degli ebrei e degli zingari e prima ancora degli armeni, campi di lavoro, filo spinato, bombe nucleari, il nazifascismo e il bolscevismo sciamanti in ogni continente come la cavalleria dell’Apocalisse. Sembrava, ed era, la fine del mondo. Nell’ombra delle due guerre mondiali, vinte dai buoni ma non del tutto perdute dai cattivi, prendevano forma la cosiddetta «guerra fredda», che impazzava da un capo all’altro del pianeta, e il suo doppio sociologico: la guerra civile in permanenza che attraversava (e ancora attraversa) le società aperte, e che è la vera eredità del Novecento.

[…] Eppure, inconfutabile, di un’evidenza abbagliante, ecco il miracolo del secondo dopoguerra: rock’n’roll, piena occupazione, anticoncezionali e automobili col sedile ribaltabile che cambiano per sempre la vita sessuale dell’umanità occidentale, televisione, radioline a transistor, lo sbarco sulla Luna, la Beat Generation, Hollywood, un ascensore sociale funzionante a pieno regime, Volare oh-oh, il nascente turismo di massa, Elvis Presley, My Way, i Beatles, Satisfaction, la decolonizzazione, mutui facili da estinguere, il boom edilizio, i cineclub, Agente Lemmy Caution: missione Alphaville e Ma papà ti manda sola?, le vacanze al mare, sindacati potentissimi, generose (e precoci) pensioni per tutti, libertà di pensiero come nemmeno nei sogni più arditi degl’illuministi, libri economici diffusi in milioni di copie, il west di Sergio Leone, il movimento studentesco, la bestemmia non è più un reato, il femminismo, l’educazione permissiva, Il Padrino, la chirurgia dei trapianti e quella estetica, i vaccini, ogni sorta di miracoloso farmaco salvavita, l’età media che sale ad altezze vertiginose. Mai nella storia universale s’erano viste nazioni così opulente e generazioni così sazie, così istruite, così edoniste, e così politicamente impegnate, così militanti, e soprattutto così forever young, decise a rimanere giovani per sempre, come nel secondo dopoguerra, negli anni tra il 1945-46 e i primi Settanta, quando l’Occidente conosce una crescita e una trasformazione senza precedenti. Isole incantate e mari blu fin dove arrivava l’occhio.

[…] il capitalismo, qualunque cosa se ne sdottoreggi in giro, non è regolato da leggi; e non è nemmeno autocosciente, a differenza delle malmostose e iettatorie IA o intelligenze artificiali dei film di fantascienza (e oggi anche degli editoriali chic-choc dei giornali). Come sia capitato il secondo dopoguerra, e perché sia capitato, o dove abbia affondato le sue radici, non lo sa dunque nessuno, tanto meno lo stesso «grande capitale» (così s’ostinano a chiamarlo, duri, i marxisti pomposi e irriducibili) che pure di questa speciale festa è stato il generoso anfitrione. Non lo sa «il sistema», altro nome del babau sociologico che tutti sovrasta, e non lo sanno i chiromanti né gli economisti. Figurarsi se lo sanno gli editorialisti dei giornali, che tanto meno sanno e capiscono tanto più montano in cattedra. Capitato e basta – prima non c’era niente di simile o anche solo di paragonabile ed ecco che d’un tratto l’abbondanza era lì e il mondo si vestiva a festa – questo portento non suscitò sorpresa, ma fu dato per scontato, o meglio per dovuto, come se ci fosse sempre stato e così dovesse restare, eterno e inviolabile come un contratto sottoscritto col sangue nello studio odoroso di zolfo d’un notaio da melò luciferino1.

Eppure, eppure…un giorno o un anno o un decennio,,, all’improvviso…

Non ci fu mai, intendiamoci, una brusca frenata, tanto meno la crisi spaventosa profetizzata da Marx e corifei, come quando la produzione di beni si schianta, le banche falliscono, la gente si tuffa giù dai tetti e le strade si riempiono di senzatetto (tipo Furore di Steinbeck) che dormono all’addiaccio, arrostendo patate e cipolle rubate nei campi al fuoco crepitante dei falò. Niente di tutto questo. Solo che a un certo momento si dovette ammettere che il party dell’abbondanza era finito. Uno schianto, dopotutto, c’era stato.
[…] Morale: a metà dei Settanta, i nodi del boom (anzi dei boom, al plurale) vennero rapidamente, o meglio fulmineamente, al pettine – e la festa abortì. Un attimo prima rock’n’roll, l’attimo dopo ogni band taceva.[…] Nessuno s’aspettava né aveva previsto il saltafosso degli anni Ottanta esattamente come nessuno – venti, trent’anni prima – s’era aspettato o aveva previsto l’incantato Paese dei Balocchi del secondo dopoguerra. Non di meno l’incanto ci fu, e poi svanì2.

Tra tutte le storie che Gabutti ci narra nei capitoli successivi per illustrare, più che cercare di capire, le infinite cause che avrebbero portato al ribaltamento dei valori e delle tasche nel corso degli anni Ottanta, sembra particolarmente significativa la vicenda dell’incontro fatale, dostoevskiano si potrebbe quasi definire, tra una delle icone della cultura pop degli anni Sessanta e Settanta e un giovane sconosciuto e depresso della fine di quel periodo, che avrebbe in qualche modo contribuito a definire l’inizio del nuovo.

La data è fatale: 8 dicembre 1980, il primo anno del nuovo decennio sta per concludersi e, dal capodanno afgano all’elezione di Ronald Reagan, ha già visto succedere some weird things, alcune cose che, qualche tempo prima, sarebbero state considerate “strane” oppure impossibili. Ma lì, in quel momento e sulle scale che scendono dal Dakota Building, dove John Lennon vive con Yoko Ono, il sogno del punk più feroce di far fuori il rock e le rockstar precedenti, si avvera. Con spari, sangue, morto e tutto il resto. Altro che Sid Vicious nell’esilarante e feroce performance di My way messa in scena nel film The Great Rock’n’Roll Swindle di Julian Temple (uscito anch’esso nel 1980).

Il giovane (tenete a mente questo aggettivo) Rodion Romanovič Raskol’nikov, protagonista di Delitto e castigo, quando nella realtà si presenta sulla scena per fare la posta al cantautore di Imagine, veste i panni e i malesseri esistenziali di Mark David Chapman, bambino difficilissimo di Fort Worth, Texas occidentale, che in tasca non ha soltanto una Charter Arms Undercover calibro.38, ma anche una copia di The Catcher in the Rye, da noi Il giovane Holden, il romanzo di J.D. Salinger apparso in prima edizione nel 1951, all’inizio di tutto. «Holden Caulfield, il protagonista del romanzo, è l’Ur-adolescente –l’adolescente originario dei Fifties e Sixties e Seventies a venire.» Con Holden era cominciata l’avventura dei giovani ribelli «che si conclude bruscamente ventinove anni più tardi, l’8 dicembre del 1980, quando Mark David Chapman spara a John Lennon. Parentesi aperta, parentesi chiusa.»3

[Lennon] È stato un giovane della classe operaia inglese che ascolta Mystery Train e Rock around the Clock alla radio e capisce la musica meglio di quanto capisca o presti attenzione a qualunque altra cosa. Incontra un’anima affine, Paul McCartney, un altro musicofilo di Liverpool stregato come lui dal rock’n’roll, col quale mette in piedi una band e porta le canzonette orecchiabili dove non sono mai state prima: «tra i modelli di comportamento», dove secondo il filosofo [Bob Dylan] sono state di guardia fino a quel giorno, cioè prima dei Beatles e di quel che ne è seguito, soltanto le opere d’arte.»4

Forse Chapman, oltre che di americanissimo cibo spazzatura, si è nutrito di quelle canzonette e di quei modelli comportamentali. Mentre John, dopo l’incontro con Yoko, per così dire, si è intellettualizzato. Una miscela potenzialmente esplosiva:

patatine fritte nell’olio saturo e affogate nella maionese, manuali controculturali che inneggiano al furto e alla guerriglia, poster di Che Guevara, hot dog stracarichi di senape e ketchup e bacon e salse senza nome, John Lennon che canta Power to the People e Woman is the Nigger of the World (insomma canzoni sempre più ruffiane tirandosela da militante di sinistra, proprio lui che, quando cantava Revolution con Paul e Ringo e George, metteva bene in chiaro a futura memoria che non gli piacevano tutti quei ritratti del presidente Mao in giro per le strade e che non era il caso di chiedere soldi per la rivoluzione a lui e agli altri ragazzi, che di quelle sciocchezze non ne volevano sapere). Proprio Lennon ricapitola da solo l’intera stagione dei boom5.

Il fatidico incontro tra il “creatore” e il suo prodotto culturale e sociale, proprio come in Blade Runner di Ridley Scott (1982) i replicanti umanoidi cercano il loro ideatore per risolvere i loro problemi oppure ucciderlo, non potrà essere che catastrofico, finendo col definire una delle infinite linee di tendenza che avrebbero contribuito a fare degli anni Ottanta ciò che, poi, sarebbero stati.

Gli altri trentuno capitoli procedono in ordine cronologico accompagnando il lettore a scoprire i sintomi del cambiamento all’epoca in atto e l’infinito disordine che regna in un mondo retto da nessun fato. Di cui soltanto il caso e il caos possono delinearne il divenire futuro, al di fuori di ogni oggettività data per scontata e di ogni impossibile e fasullo sogno di “geometrica potenza” rigeneratrice.


  1. D. Gabutti, Prologo o delle utopie realizzate in D. Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 12-15.  

  2. Ivi, pp. 15-17.  

  3. D. Gabutti, Pop. John Lenno e le culture della società opulenta in D. Gabutti, op. cit., pp. 58-59.  

  4. Ivi, pp. 59-60.  

  5. Ibidem, p. 59.  

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Kafka il realista https://www.carmillaonline.com/2025/03/11/kafka-il-realista/ Tue, 11 Mar 2025 22:55:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87299 (Seconda parte dell’intervento su Kafka)

di Francisco Soriano

Come afferma Michael Löwy (Kafka, sognatore ribelle, edito da Elèuthera), la questione del realismo negli scritti di Franz Kafka non ha mai attratto l’attenzione degli studiosi di matrice marxista. In questa schiera di “disinteressati” vengono annoverati anche Theodor Adorno, Karel Korsk e André Breton. Un caso diverso, invece, riguarda György Lukács, che nel Significato attuale del realismo critico, scritto nel 1955, nega categoricamente in Kafka una seppur modesta propensione al realismo. Senza mezzi termini Michael Löwy taccia il critico ungherese di essere ormai «affetto» dall’ideologia autoritaria stalinista, in un momento che nulla ha [...]]]> (Seconda parte dell’intervento su Kafka)

di Francisco Soriano

Come afferma Michael Löwy (Kafka, sognatore ribelle, edito da Elèuthera), la questione del realismo negli scritti di Franz Kafka non ha mai attratto l’attenzione degli studiosi di matrice marxista. In questa schiera di “disinteressati” vengono annoverati anche Theodor Adorno, Karel Korsk e André Breton. Un caso diverso, invece, riguarda György Lukács, che nel Significato attuale del realismo critico, scritto nel 1955, nega categoricamente in Kafka una seppur modesta propensione al realismo. Senza mezzi termini Michael Löwy taccia il critico ungherese di essere ormai «affetto» dall’ideologia autoritaria stalinista, in un momento che nulla ha a che vedere con il brillante Lukács dei primordi, il filosofo rivoluzionario di Storia e coscienza di classe, testo scritto nel 1923 (1). Il giudizio “definitivo” di Lukács, utilizzando un confronto fra Mann e Kafka, è che quest’ultimo per la mancanza di realismo nelle sue opere non merita «nessun interesse per la cultura di sinistra» (2).

Michael Löwy accusa, a ragione, György Lukács di aver diviso semplicisticamente il mondo degli intellettuali in due spazi ben distinti: da una parte quelli che aderirono al Movimento per la pace patrocinato in quei tempi dall’Urss e, dall’altra, gli intellettuali borghesi che non aderendo al movimento denotavano una propensione al fatalismo, con una caratteristica specifica su tutte, quella di appartenere a un «avanguardismo decadente»; non a caso la scelta fra Mann e Kafka equivaleva a quella fra «la salute e la malattia sociale» (3). Questo orientamento era condiviso integralmente dall’apparato burocratico comunista ceco, che impediva la pubblicazione dei libri di Kafka, i quali rappresentavano una visione della società assolutamente decadente. In ultima analisi Lukács vede in Kafka uno scrittore soggettivista, individualista, che rappresenta la realtà in un’ottica astratta, lontana dall’oggettività e, dunque, determinata dal «nulla» in termini di contenuti: in Kafka «il mondo viene concepito come l’allegoria di un mondo trascendente» (4). La questione invece che pone Löwy, argomentando la critica impietosa di Lukács, si concentra proprio sulla «trascendenza» e sull’«irraggiungibile aldilà». Dire che i testi di Kafka conducono al “nulla” in termini di contenuti è il frutto di un vero e proprio «abbaglio» (5). In verità il cosiddetto antirealismo di Kafka è la plastica rappresentazione di una profonda conoscenza critica del potere, e senza ombra di dubbio, infatti, esso oggi definisce la realtà e la pratica del potere nella maggioranza dei Paesi del mondo moderno.

Il potere è essenza laddove costruisce un apparato burocratico che si avvita volontariamente, si contorce, aliena e reifica. Tuttavia Löwy racconta riguardo a Lukács un aneddoto molto interessante. Infatti nel 1956, dopo l’invasione dei sovietici in Ungheria e la fine della repubblica dei consigli operai, furono arrestati Imre Nagy, che presiedeva questi ultimi, e lo stesso Lukács, quale ex ministro della Cultura. I due furono condotti in un castello fortilizio in Romania, in attesa di un giudizio da parte dei giudici. In quell’occasione i malcapitati non ebbero accesso agli atti processuali, né furono avvertiti dei capi di imputazione, così rimanendo nell’impossibilità di difendersi. C’era qualcosa di più «kafkiano» di questo?

Continuando il racconto, Löwy si pone le domande che Lukács e Nagy sicuramente fecero a se stessi: di quale natura sarebbe stato il tribunale che li avrebbe giudicati? Civile, penale? I magistrati sarebbero stati ungheresi o di altra nazionalità? Quale sarebbe stata la direzione del partito che si sarebbe occupata del caso, forse una nuova? Forse se ne sarebbe interessato il Politburo sovietico?
O magari una commissione mista della polizia politica ungherese insieme a quella sovietica? Nagy venne giustiziato. Lukács fu scarcerato con il «beneficio del dubbio». Ma il fatto più interessante di questa tragedia, nella narrazione di Löwy, si verificò quando in una delle tante giornate estenuanti di attesa e speranza in prigione, Lukács ricevette la visita della moglie e le sussurrò queste parole:

«Kafka war doch ein Realist (Kafka era un realista)» (6). In un saggio del 1965 lo stesso Lukács, pur non sviluppando un’analisi articolata che smentisse quanto affermato dieci anni prima, fu costretto ad ammettere che: «Kafka […] mette in scena un’intera epoca di disumanità […]. Per questo il suo universo […] acquista una caratteristica toccante e profonda, in contraddizione con gli scrittori che, in quello sfondo storico, scorgono direttamente la generalità nuda e astratta […] dell’esistenza umana e finiscono infallibilmente in un vuoto assoluto, nel nulla» (7).

Löwy ci ricorda la famosa conferenza su Kafka patrocinata, nel 1963, da Eduard Goldstücker a Liblice, in Cecoslovacchia. In questo incontro fra intellettuali di alto profilo parteciparono Ernst Fischer, Anna Seghers, Klaus Hermsdorf, Roger Garaudy e altri studiosi cechi, sovietici, polacchi, ungheresi, jugoslavi e tedesco-orientali (8). Le idee su Kafka di Lukács non erano condivise da tutti, tanto che il filosofo e storico austriaco Ernst Fisher, contrapponendosi alle interpretazioni dello studioso ungherese, sottolineò che «la poesia è spesso in anticipo sulla prosa» ed esaltò in Kafka proprio la forza poetica, che non conteneva nulla di irrealistico. Il ribaltamento del concetto di realtà da parte di Fisher aiutò a capire quanto invece Kafka fosse realista, addirittura profetico, mettendo a nudo le idee di coloro che avevano ridotto a semplice esteriorità ciò che intendevano manifestare come reale. La domanda era: «[La realtà] non comprende anche quello che sogna, sospetta o avverte come ancora non esistente, o esistente solo in modo invisibile?» (9). Nello stesso momento venne contestato il negativismo di Kafka. Agli scrittori, dice Fischer, «non viene chiesto di produrre soluzioni, i punti di domanda contengono contenuti, molto meglio di tanti “punti esclamativi” di altri autori». Nella conferenza di Liblice si verificò, infatti, una polarizzazione su due posizioni distinte: una in cui confluivano coloro che criticavano Kafka in quanto soggettivista, e l’altra in cui vi era una interpretazione dello scrittore ceco avulsa da questioni prettamente ideologiche e partitiche. La questione non era semplicemente di tipo letterario. I cosiddetti comunisti riformatori, consapevoli comunque di agire in un perimetro marxista, intravedevano in Kafka una concreta
critica alla negatività del mondo capitalista e una ancor più radicale critica ai crimini dello stalinismo, quest’ultimo rappresentato nella sua realtà come un potere immanente e deviante dalle vere necessità degli uomini, una forza che traeva dalla sua autorità sferzante disumanizzazione e persecuzione. Non solo Fischer dunque, ma anche Jiří Hájek metteva il dito nella piaga affermando che:

«L’opera di Kafka condanna tutto ciò che è in contraddizione con la missione storica umanista del socialismo, tutto ciò che la deformazione staliniana ha prodotto nel nostro sistema con tutte le conseguenze che sopravvivono ancora tra noi» (10).

Per opinione generale, la conferenza di Liblice del 1963 rappresenta un punto di partenza del cambiamento del clima culturale in quegli anni, che giungerà alla Primavera di Praga del 1968.

Nel cosiddetto onirismo kafkiano, inoltre, non vi è nulla di inconsistente e di neppure lontanamente surrealista: il sogno in Kafka non ha come obiettivo la riproduzione di una realtà, ma ne rappresenta una critica serrata e radicale, talvolta feroce e ironica. L’opera di Kafka è, secondo l’ennesima intuizione di Benjamin, «uno degli esempi più impressionanti della “forza di illuminazione profana” della letteratura» (11). Per Breton, infine, lo scrittore era «capace di sondare l’invisibile e intendere l’inaudito» (12). La storia dell’ostracismo subito grazie alla critica riservatagli dagli intellettuali dei
suoi tempi ci insegna molto. La necessità di ricercare negli scrittori e negli artisti, in generale, una «militanza», una affezione e una soluzione delle «contraddizioni» sociali soprattutto in ottica marxista, ha generato fraintendimenti e distorsioni sulla funzione della letteratura e delle arti nel quotidiano delle società. Il realismo in opposizione al soggettivismo come lotta alla borghesia e alle sue «distorsioni» ha dimostrato miopia nel corso degli anni, a prezzo di gravissime persecuzioni, violenze, ingiustizie. La forza illuminante e profetica di Kafka ha subito per tanto tempo un ostracismo vergognoso, un tentativo di accantonamento senza precedenti frutto di un errore determinato da ideologismo e disonestà intellettuale. Il «caso Kafka» è purtroppo molto comune e ci ha tramandato storie di ordinaria ingiustizia, patita da intellettuali, scrittori e artisti che hanno pagato anche con la vita la correttezza e la perseveranza nel perseguire il proprio afflato contro ogni potere manipolatore. La tragica morte di Osip Emil´evič Mandel´štam rappresenta soltanto uno degli esempi, lampanti e coerenti, dell’ingiustizia subita da un intellettuale di quegli anni dello stalinismo sovietico.

Da quando Kafka è divenuto un aggettivo, si comprende l’impatto realistico della sua opera, della sua critica sociale e della sua pervasiva visione profetica del potere. Il romanzo dello scrittore ceco Il processo è l’esempio pratico, il riferimento principe, la versione più realistica della violenza insensata del potere sull’individuo sociale, il cittadino, e l’uomo. L’accusa insensata di un innocente, di tutti gli innocenti, colpevoli soltanto di asimmetricità con il potere, è il modello più realistico delle moderne società in cui la teocrazia, la dittatura tecnocratica, lo stato di polizia si riconoscono, si manifestano e si definiscono senza alcun dubbio. Che cosa possa significare nella realtà più spietata di questi regimi il termine «kafkiano» è facile immaginarlo, con elementi chiari e incontestabili. L’esempio iraniano del «moharebeh», un reato perpetrato contro dio riconducibile a una qualsiasi pratica umana non coerente con il volere del potere, è la plastica e reale manifestazione di una pratica kafkiana nell’applicazione di una legge assolutamente incomprensibile e insensata. In moltissimi Paesi del mondo l’autorità e il potere attuano incondizionatamente persecuzioni, sequestri, incarcerazioni, torture, sparizioni, individuabili per insensatezza proprio nei racconti, perciò realistici, di Kafka. Nessuna critica diretta se non ammissione che soluzioni non esistono, finché ci sarà un solo potere sulla faccia della terra a determinare la vita delle persone. L’esperienza assurda e grottesca degli uomini in regimi che brandiscono il grimaldello della burocrazia si svolge alla luce di una deriva sociale e umana senza precedenti.
Leggere Kafka, il libertario realista, diventa, a questo punto, il più plateale smascheramento di una realtà che non lascia appelli: che non esistono poteri buoni.

 

§ § § § § § §

NOTE:

1 Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, Elèuthera, Milano 2022, p. 181.
2 Ivi, p. 181.
3 Ivi, p. 182.
4 Ivi, p. 183.
5 Ibid.
6 Ivi, p. 184.
7 Ibid.
8 Ibid.
9 Ivi, p. 185.
10 Ivi, p. 186.
11 Ivi, p. 187.
12 Ibid.

 

 

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Stefano e Rosa https://www.carmillaonline.com/2025/03/10/stefano-e-rosa/ Mon, 10 Mar 2025 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87047 di Sandro Moiso

Chiara Sasso, In Rosa, prima edizione 1986, Edit. Tipolito Melli, Susa; seconda edizione 2024, pp. 124, 12 euro

Un anno fa Stefanino o “Steu” Milanesi ha abbandonato questo pianeta alla ricerca di un luogo migliore in cui continuare a vivere, lasciandoci tutti più soli. Accompagnati, però, dal ricordo e dall’esempio di un militante coraggioso e lottatore instancabile, dalle esperienze degli anni Settanta fino alle vicende della lotta contro il TAV in Valsusa.

Ma chi ha conosciuto Stefano ha sicuramente conosciuto anche la madre Rosa, instancabile come il figlio nel supportarlo anche nei momenti più difficili [...]]]> di Sandro Moiso

Chiara Sasso, In Rosa, prima edizione 1986, Edit. Tipolito Melli, Susa; seconda edizione 2024, pp. 124, 12 euro

Un anno fa Stefanino o “Steu” Milanesi ha abbandonato questo pianeta alla ricerca di un luogo migliore in cui continuare a vivere, lasciandoci tutti più soli. Accompagnati, però, dal ricordo e dall’esempio di un militante coraggioso e lottatore instancabile, dalle esperienze degli anni Settanta fino alle vicende della lotta contro il TAV in Valsusa.

Ma chi ha conosciuto Stefano ha sicuramente conosciuto anche la madre Rosa, instancabile come il figlio nel supportarlo anche nei momenti più difficili della lotta e della carcerazione. Donna di carattere in cui l’amore materno non si è mai abbandonato all’accettazione passiva e addolorata o alla semplice rassegnazione sia nei confronti di tutto quanto colpiva Stefano per opera della repressione statuale, sia nel confronto con le idee e della scelte che avevano portato il figlio a trascorrere diversi anni in prigione e, successivamente, ad essere in prima linea nel circuito dei centri sociali, in particolare Askatasuna, e nel movimento No Tav.

Il libro di Chiara Sasso, edito per la prima volta nel 1986, allora con una meditata prefazione di Giorgio Bocca, riportata anche in quello successivamente ristampato lo scorso anno in occasione della morte di Stefano1, ci dona uno sguardo in profondità su un rapporto madre-figlio fatto non solo di sentimenti ed emozioni, ma anche di confronto, spesso epistolare, anche se Rosa, per anni, accettò di intraprendere lunghe e scomode trasferte in giro per l’Italia per incontrare il figlio detenuto e sostenerlo moralmente.

Una storia narrata in prima persona da Rosa stessa2 e filtrata soltanto dalla scrittura di Chiara che diventa in qualche modo quella non solo di Stefano e Rosa, ma quella di un’intera generazione imprigionata e dei famigliari della stessa. In un contesto in cui, non dimentichiamolo mai, ad aver voce sono quasi sempre solo quelli delle “vittime” della stagione della lotta armata, di Pl e Br.

Nella Introduzione alla attuale edizione l’autrice ci ricorda che:

La ristampa di questa testimonianza, In Rosa, la devo a Mariagrazia e a Luigi che si sono messi in testa di “ripescare” il libro per ricordare Stefano che ci aveva lasciato il mattino di un lunedì di marzo. Era sempre un lunedì mattina, a Bussoleno, giorno di mercato, quando nel 1977 la vicina di casa aveva bussato alla porta di Rosa per chiederle di non uscire quella mattina. La spesa l’avrebbe fatta lei per tutte e due. Rosa non capiva. Stefano era a Napoli in vacanza. Si ripete di lunedì (11 marzo 2024), lo scampanellio alla porta. Per uno di quei casi strani della vita, sul pianerottolo c’è proprio un’amica conosciuta in quei periodi a Napoli. “Io non ero pronta”.
“Ho aperto la porta, non avevo neppure messo le calze, non capivo. Non ero pronta. L’avevo sentito la sera prima, come sempre”. Le stavano dicendo che Stefano non c’era più.
[…] Era maggio (1985) quando Stefano ha lasciato il carcere, per tre giorni non ha dormito. Aveva trascorso quasi otto anni in un carcere duro, negli anni importanti della sua giovinezza, ma non è stato piegato alle brutture, alla violenza di quella reclusione. Rosa aveva fatto di tutto per legarlo al fuori, alla bellezza. Fiori appiccicati su fogli di carta, indumenti colorati. “Quando vieni portami più lavanda che puoi non dovrebbero fare storie”. (Il suo profumo mi salva, diceva). Oggi come allora aggrappato alla Madre Terra, alla natura, ad ogni filo d’erba. Alla ricerca di giustizia. È stato normale impegnarsi anima e corpo nel movimento No Tav. La resistenza contro la speculazione, la distruzione della valle. Sempre presente, sorridente disponibile (Con un piano separato, intimo, nascosto ai più)3.

Subito dopo Gioacchino Criaco può aggiungere:

Per otto anni Rosa ha vissuto un giorno al mese, sentendosi viva solo la mezzora o l’ora in cui poteva abbracciare Stefano, il tempo in mezzo è stato solo un intervallo fra un abbraccio e l’altro, spesso solo tra uno sguardo e l’altro, perché la galera italiana […] è stata merda, una deiezione puzzolente di circuiti carcerari speciali, di terrore che prima di diventare 41bis era art. 90. I detenuti politici hanno assaggiato tutto il sadismo di cui è capace il potere.
Il giro di Rosa attraverso i penitenziari italiani, a sud, al centro, al nord, è la drammatica cronaca di un circuito dell’orrore che della Costituzione più bella del mondo non ha mai annusato l’odore, non ne ha mai sentito nemmeno la puzza. E da colpevoli sono stati trattati i colpevoli veri e quelli presunti, e da colpevoli sono stati trattati coloro che per amore vero non li hanno abbandonati, facendosi unico trattamento costituzionale vero. Essere trattati da colpevoli non è stato essere sottoposti al percorso trattamentale previsto dalla Legge, solo rimanere in balia alle emergenze di un potere convinto che la propria sopravvivenza passasse dall’annientamento4.

E’ una narrazione “fresca” e diretta quella di Rosa cui fanno da contrappunto le lettere di Stefano dal carcere e estratti dalle denunce per i maltrattamenti, per dirla con un eufemismo, subiti dai detenuti. Un dialogo a distanza in cui amore materno e figliale si mescolano alle diverse interpretazioni su tutto ciò che stava accadendo, soprattutto nel circuito delle carceri speciali, ed era accaduto precedentemente. In cui il reciproco rispetto si accompagna a considerazioni spesso di carattere famigliare, ma ancor di più politico e/o morale. Ma per comprendere meglio il clima politico, carcerario e famigliare che circondava sia Stefano che Rosa, vale la pena di iniziare da due lettre del 1978:

Napoli, 28/2/78
Cara mamma, ti scrivo questa lettera un po’ per completare la risposta alla tua, un po’ per parlarti dei miei problemi. Forse ho bisogno di sfogarmi, anzi, senz’altro… […] Io non voglio, non voglio, conoscere solo l’odio, non voglio diventare una macchina, non voglio essere distrutto nelle mie cose, non voglio impazzire.
Cerca di capire il senso di queste parole, sono in galera, posso cavarmela, ma posso anche passare gli anni più belli in galera, le probabilità sono pari, per il momento io di qua voglio uscire integro, di questo ne sono certo; se vuoi è la mia forza di lotta qua dentro, quella di non lasciarmi distruggere, quella di uscire immune.
Non è facile per niente, non è facile ambientarsi in una stanza 10 x 4 da dividere con otto persone, con queste mura e sbarre opprimenti, e guardare in alto per vedere un pezzetto di cielo o leggere il giornale e guardare la tele per sentire che “ fuori” la vita continua, che esiste ancora un mondo. E questo giorno dopo giorno, notte dopo notte. Non sei un uomo, sei una bestia.
Ed allora ti estranei da questa realtà, pensi al fuori, a tutto quello che hai lasciato, a quello che troverai a quello che farai. È l’unica cosa che ti può far sentire vivo, che ti aiuta a sopportare tutto, l’unica cosa che per il momento rimane impenetrabile, il pensare a tutti i momenti belli che ho avuto…

Con la successiva, però, inizia quel dialogo sulle differenti visioni del mondo e del modo di stare nel mondo che caratterizzerà poi il confronto madre-figlio.

Napoli, 14/3/78
Cara mamma, ho ricevuto la tua lettera in risposta alla mia e ti ringrazio di essermi vicina e di cercare di capire i miei problemi. L’unica cosa di cui non ti vuoi ancora convincere è che non sono più un bambino o se preferisci, un ragazzo immaturo.
Forse la risposta è che a te piace pensarmi ancora così, rifiutando in questo modo quella parte che non condividi di me, che però è la più vera. Non te ne voglio fare però una critica, voglio solo che possiamo chiarirci e capirci nella massima serenità.
Secondo me non ti vuoi arrendere alla realtà e non dirmi che non è vero. Queste cose si capiscono subito, io ho “tradito” quello che tu volevi diventassi, tu oggi mi vorresti vedere diplomato, con un buon lavoro, un po’ se vuoi come Paola, e invece no, sono in galera, accusato di essere un terrorista, che, a quanto pare, è la peggior cosa del mondo, e con un futuro incerto.
Quello che però dovresti chiederti è se a me sarebbe piaciuto fare un certo tipo di vita. Certo adesso potrei essere più o meno sistemato, con un po’ di fortuna, magari con qualche calcetto, avere così una vita cosiddetta tranquilla.
Ma non hai pensato che forse quella sarebbe stata la peggiore delle galere. Essere schiavi del lavoro, del padrone, dei soldi, della preoccupazione di dover vivere…ma non era quella la mia vita.

Rosa allora si interroga sulle eventuali responsabilità famigliari per la scelta fatta da Stefano che, comunque, non poteva condividere, anche se le successive vicende carcerarie, fatte di pestaggi e torture la avvicineranno ancora di più a quel figlio ribelle.

Fossombrone, 8/3/80
Carissimi, come vedete ho cambiato di nuovo residenza, il pellegrinaggio nelle patrie galere continua, anche se nel circuito degli speciali.
Cara mamma, le cose che mi dici e mi riferisco alla tua lettera, non sono “prediche” né io le prendo come tali, sono soltanto due concezioni di vita differenti, diametralmente opposte se vuoi, comunque ti assicuro che in ciò che credo c’è molta poca ideologia.
Mi parli di alberi, di gemme, fiori, di vita, mi chiedo se questo è valido anche per Seveso, e non per sottolineare certi recenti fatti, ma soltanto per farti capire che “vita” rischia di essere una parola vuota, un concetto astratto, quando c’è chi cerca di distruggerla costantemente perseverando nel più efferato dei crimini, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Io non dico che quello che facciamo noi sia bello, sono convinto che in tutto questo c’è qualcosa di tragico e triste, dico soltanto che è giusto, necessario, è l’unico percorso – quello della guerra – che vale la pena di essere vissuto a meno di non essere complici, anche se involontari, di questa società e dei suoi meccanismi perversi.
Sicuramente è meglio essere qua “bollati” con tutti i titoli che ogni giorno TV e giornali ci dedicano, che non ad esempio, in uno dei tanti posti dove si producono prodotti chimici o altro, quando la gente è disposta a prendersi il cancro o malattie simili per poter campare, ti rendi conto che questa società è marcia.

Un’attenzione per l’ambiente e la sua devastazione che Stefano si porterà sempre dietro, come la sua militanza nel movimento NO Tav dimostrerà in seguito. Ma il “giro” delle carceri cui accenna Stefano rivelerà ben presto il suo truce volto persecutorio che spingerà Rosa a scrivere una lettera al quotidiano «La Stampa».

Egregio Direttore,
sono una mamma così disperata, perché non avendo trovato una risposta da altre fonti, spero di trovarla attraverso il suo giornale e con la sua comprensione, anche perché questo è un problema molto spinoso.
Da due anni e nove mesi mio figlio si trova in carcere perché definito terrorista (militava nella sinistra extraparlamentare, aveva appena compiuto venti anni) con l’accusa di banda armata e la pena di cinque anni e sei mesi ancora appellabili. Ora succede questo: in questo periodo di detenzione, il ragazzo ha già fatto il giro di ben otto carceri tra normali e maggiormente speciali, con l’ultimo approdo a Pianosa.
Ora le chiedo; con quale criterio il ministro di Grazia e Giustizia fa questi spostamenti visto che nessuno è riuscito a spiegarmelo e che non dipende dal carcere o dal comportamento del ragazzo? Può immaginare per noi genitori (non li abbiamo certo voluti così) che abbiamo già questo grande dispiacere, quando succedono questi spostamenti cosa voglia dire, dobbiamo riprendere da capo tutta la trafila con conseguenze di ogni genere, sia morali che materiali, con il dilemma: abbandonarli o aiutarli? Poi prevale sempre il cuore di genitore e si pensa che cambino, ma così quale recupero si può avere quando fanno questa scuola?
Ecco, per questo mi sono rivolta a lei per un aiuto e per un invito a tutti i genitori che si trovano nelle mie stesse condizioni a unirsi perché queste cose non succedano.
Nella speranza di trovare un piccolo spazio nel suo giornale e perché non siano calpestati i diritti umani la saluto caramente.
Rosa Milanesi e le altre mamme dei detenuti della Valle di Susa

I continui trasferimenti avrebbero ben presto rivelato di costituire soltanto l’antipasto dell’autentico inferno che si sarebbe abbattuto sui detenuti politici. Come rivelano alcuni estratti dalle denunce presentate in quei giorni al Ministero di “Grazia e Giustizia”. Soprattutto dopo l’autentico massacro avvenuto all’interno del carcere di Pianosa nella primavera del 1981.

Dalla denuncia al Ministero di Grazia e Giustizia del 22/04/ 81:
“…L’operazione descritta appariva preordinata; alcuni agenti, durante il pestaggio, ripetevano le seguenti frasi: l’Asinara l’avete chiusa voi, Pianosa la chiudiamo noi. Alcuni agenti, a suon di botte, pretendevano che i detenuti gridassero: Viva il corpo agenti di custodia! Altri sembravano in possesso di indicazioni relative a detenuti nominalmente indicati, da picchiare con intensità particolare. Ciò è tanto vero che, alcuni detenuti (due o tre) che versavano in condizioni di salute precaria, sono stati risparmiati. Erano presenti anche carabinieri e agenti di polizia, i quali assistevano al pestaggio ed intervenivano quando a loro parere poteva essere letale…”
“…In seguito ad una cosiddetta perquisizione, gli effetti personali degli internati (radio, occhiali, libri, abbigliamento, foto ecc.) sono stati frantumati, strappati, danneggiati o distrutti.
Per i tredici, quattordici giorni successivi, i detenuti rinchiusi nelle celle di isolamento, ciascuna delle quali capace di ospitare una sola persona, in un primo tempo in sette per cella, poi in tre per cella, sono stati costretti a dormire sul pavimento, privi persino di un materasso e dotati soltanto di una coperta a persona …”.
“…il 10/04/81 alle ore 12 circa è avvenuto il secondo pestaggio, non si sa bene da quale occasione determinato; anche in questo caso la solita squadretta di agenti incappucciati ha estratto dalle celle un certo numero di detenuti e li ha trascinati in cortile picchiandoli nel modo che si è detto.
In seguito ad una serie di provvedimenti non si sa bene da chi ordinati e che trascendono qualsiasi logica, anche primitive, oggi, i detenuti della sezione speciale Agrippa versano in condizioni subumane; ad un trattamento umiliante, protervo ed arbitrario, vengono sottoposti, ovviamente con le dovute differenze, anche i familiari, che hanno ricevuto il consenso, dopo diverso tempo, di visitare i propri cari…’’

Fatti che, dopo un colloquio con Stefano, spingono Rosa a ricordare: «Stefano era riuscito a farmi capire con pochissime parole tutto quello che era accaduto e, del resto, bastava che lo guardassi per rendermene conto; continuava a ripetermi, come pure gli altri compagni e gli altri parenti, di far sapere fuori che cosa era successo; avevano un’ansia spaventosa di essere ricacciati in quella tomba e coperti di silenzio per settimane, qualunque cosa fosse successa. Di quei pochi effetti personali che aveva non possedeva più niente,»

Anche se pochi mesi dopo Stefano avrebbe scritto:

Pianosa 14/6/81
…ho letto la tua intervista a Luna Nuova e non è che mi sia piaciuta molto, soprattutto nelle conclusioni che traggono. È già una faticaccia tenere salda la propria identità e non è proprio il caso che la sua messa in discussione venga anche da persone che dicono di esserci vicine. I ‘duri’, è proprio ora di finirla con queste puttanate, con queste semplificazioni delle nostre vite e storie, c’è già lo Stato che ci pensa, come sai bene anche tu.

Per poi giungere però, dopo qualche anno, alle seguenti conclusioni:

Rebibbia 10/4/84
…guarda che ormai è da un pezzo che ho smesso di guardare a mia madre con la ‘velina’, insomma il nostro rapporto, madre-figlio, è quello che ho sempre messo in discussione.
Amo molto Rosa, per me è la mia migliore amica.
Non pensare che rivendichi qualcosa per questa sua crescita, in fondo ha fatto tutto da sola.
Ti dirò di più, una volta fuori da qui, è una delle persone che voglio frequentare di più e non certo perché glielo devo, ma proprio per la sua compagnia mi stimola un casino.
Insomma, con lei ci sto bene… Stefano

Dialettica conclusione di un rapporto che era andato crescendo e rafforzandosi negli anni e di cui Stefano avrebbe mantenuto memoria e impegno. Ma vale la pena di concludere questa riflessione con le parole della stessa Rosa, dettate alla prima uscita del libro, ma sicuramente ancora valide oggi, dopo la scomparsa di Steu.

Quasi otto anni nelle supercarceri sono un tempo infinito, un’esperienza bestiale, tanto più fatta a vent’anni. Se ci sono state delle aperture comunque i problemi grandi rimangono. Non mi sono mai nascosta dietro alle loro scelte, alle loro responsabilità, ma non posso neppure evitare di pensare che si è trattato di un percorso che ha travolto un’intera generazione. Mi sveglio la notte e mi alzo per pensare a tutte queste cose. […] Mi alzo non riesco più a dormire. Accendo la stufa in questi giorni piove sento il freddo. Ma sai quante volte ci penso a queste cose?

Come acquistare il libro:

È possibile inviare una donazione – contributo proposto 12 euro (spedizione inclusa) – con causale In Rosa con un bonifico sul c/c bancario dell’associazione Persone comuni (Iban IT17A0501803200000011641644);

Appena inviata la donazione scrivete a info@comune-info.net indicando Nome, Cognome e Indirizzo per ricevere il libro.


  1. Stefano Milanesi residente a Bussoleno, dove è deceduto l’11 marzo 2024. Arrestato a Napoli il 16 dicembre 1977, è stato condannato per partecipazione a Prima Linea e
    scarcerato per decorrenza termine il 2 maggio 1985. In seguito poi ancora inseguito da denunce e condanne agli arresti domiciliari per la sua appartenenza al movimento No Tav.  

  2. Rosa Peruch Milanesi vive e abita a Bussoleno dal 1958 Nata in Friuli il 5 maggio 1932. E’ stata presidente dell’associazione parenti detenuti nel 1980 a Torino.  

  3. C. Sasso, In Rosa, p. 3.  

  4. G. Criaco, Una donna a motore in C. Sasso, op. cit., pp. 5-6.  

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“Ribelle innalzandosi va, fino alle stelle”: la poesia operaia di abiti-lavoro (1980-1993) https://www.carmillaonline.com/2025/03/10/ribelle-innalzandosi-va-fino-alle-stelle-la-poesia-operaia-di-abiti-lavoro-1980-1993/ Mon, 10 Mar 2025 06:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87039 di Monica Dati

La poesia dei lavoratori che confluiva nella rivista abiti – lavoro era una scrittura in presa diretta, il poeta e lo scrittore si esprimevano direttamente, senza intermediari del settore letterario o giornalistico. Si era passati dagli intellettuali che parlavano del lavoro (es. Ottiero Ottieri…) agli intellettuali che raccoglievano i pensieri dei lavoratori (es. Nanni Balestrini…) infine, agli operai che scrivevano loro stessi la propria storia (es. Ferruccio Brugnaro, Tommaso Di Ciaula, Luigi Di Ruscio…). Il percorso è abbastanza definito, abiti- lavoro era un polo dell’ultimo scenario di narrazione ed esplorazione del mondo del lavoro: quello della autorappresentazione (Giovanni Trimeri).

Con la [...]]]> di Monica Dati

La poesia dei lavoratori che confluiva nella rivista abiti – lavoro era una scrittura in presa diretta, il poeta e lo scrittore si esprimevano direttamente, senza intermediari del settore letterario o giornalistico. Si era passati dagli intellettuali che parlavano del lavoro (es. Ottiero Ottieri…) agli intellettuali che raccoglievano i pensieri dei lavoratori (es. Nanni Balestrini…) infine, agli operai che scrivevano loro stessi la propria storia (es. Ferruccio Brugnaro, Tommaso Di Ciaula, Luigi Di Ruscio…). Il percorso è abbastanza definito, abiti- lavoro era un polo dell’ultimo scenario di narrazione ed esplorazione del mondo del lavoro: quello della autorappresentazione (Giovanni Trimeri).

Con la fondazione di abiti-lavoro nel 1980, prende vita quello che può definirsi «il primo tentativo di dare forma organizzata alla letteratura operaia» tramite un progetto culturale strutturato. In passato, infatti, la poesia era legata soprattutto a occasioni estemporanee: una forma espressiva spontanea e accessibile, che permetteva a contadini, mezzadri, operai di fabbriche e miniere, spesso privi di istruzione formale di raccontare in modo creativo emozioni, storie e lotte, attraverso la parola parlata, la musica, il canto o altre forme artistiche:

O bei giorni infantili, intreccio santo
di baci, di profumi e d’esultanza
Io vi ricordo, mentre ne la stanza
mi giunge degli oppressi il novo canto.
Si tenta soffocarlo; ma ribelle
innalzandosi va, fino alle stelle […]
(Pietro Mandrè, Poesie di un proletario, 1892)

Osserva ironicamente Alessandro Portelli a proposito della passione che caratterizzava la cultura popolare che “sfogliando vecchie copie de Il Messagero per cercare altre cose, mi capita un numero del 1907, ottobre, Rissa a coltellate a Cori per il canto a poeta. Cioè a Cori nel 1907 c’era un morto per una gara di poesia in osteria”.

Nella seconda metà del Novecento, il panorama cambia radicalmente, in particolare con l’onda lunga del “biennio caldo” 1968-69, che vede un protagonismo operaio senza precedenti. Le lotte per il diritto allo studio, l’uso del ciclostile, la diffusione dei giornali di fabbrica e la nascita di organi di rappresentanza dei lavoratori creano il terreno per una letteratura—e un’arte—sui subalterni fatta dai subalterni stessi. Questi non rivendicano più soltanto aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro, ma reclamano anche l’accesso a opportunità culturali e ricreative, tempo libero, vita, comunicazione e arte: non solo il pane, ma anche le rose.

I versi alla rosa non sono borghesi
E non sono borghesi le rose

Anche la Rivoluzione le coltiverà
Si tratta certo di ridistribuire le rose e la poesia.
(Ernesto Cardenal, Oràculo sobre Managua, 1973)

La rivista, che prende il nome da una voce della busta paga, l’indennità vestiario, nasce ad Arcore, notoriamente riconosciuta come la sede della prestigiosa moto Gilera e della rinomata residenza di Silvio Berlusconi. Il suo “quartier generale” è la libreria Novantadue e la guida editoriale è affidata a Giovanni Garancini con la collaborazione, tra i tanti, di Sandro Sardella, Ferruccio Brugnaro, Tommaso Di Ciaula, Giovanni Trimeri, Michele Licheri, Oscar Locatelli, Luigi di Ruscio, Loretta Povellato, Alida Airaghi, Gisa Legatti, Anna Lombardo e due figure centrali venute a mancare troppo presto: Claudio Galuzzi e Franco Cardinale. Non un cenacolo accartocciato su sé stesso ma spazio autentico e aperto a tutti che riesce addirittura ad arrivare in luoghi di deprivazione umana e culturale come le carceri e a beneficiare della collaborazione di molti artisti nonché della stima di intellettuali come Giancarlo Majorino e Roberto Roversi (interlocutori e non più padrini).

Dal 1980 al 1993 sono usciti diciassette numeri che rappresentano un importante progetto nel quale sono confluiti poesie e prose operaie, interviste e dibattiti letterari, canti di popoli in lotta per la liberazione, musiche, vignette, recensioni, versi in dialetto, pitture alternative e mail art, rubriche internazionali, omaggi e ricordi. Con uno sguardo rivolto alla cultura underground, la rivista ha proposto una prospettiva innovativa: gli operai non devono essere letti solo attraverso la lente del lavoro, ma come individui capaci di abbracciare l’intera vita, perché «tutta una cultura, tutto un sapere deve essere messo in discussione» (Giovanni Garancini). Anche le copertine sono simbolo di questa tensione innovativa, spaziando dalla rappresentazione neorealista di I mangiatori di fave di Vincenzo Guerrazzi alle ballerine rosse e leggere di Mario Schifano, che fluttuano leggere in aria, testimoniando la volontà di superare lo stereotipo «dell’operaio che si piange addosso», riconoscendo invece la sua capacità di «abbracciare e cavalcare il mondo» (Sandro Sardella).

I materiali e la documentazione che compaiono su abiti-lavoro costituiscono dunque fonti originali e preziose, difficilmente reperibili altrove, perché rappresentano voci sommerse, ignorate dall’indifferenza ufficiale e legate a occasioni di comunicazione rare e frammentarie.

[…] Penso che a molti sia capitato di trovarsi sempre più da soli a gestire il proprio stupore di fronti a fatti del mondo e tutto ciò ci paralizza, lega la lingua e le mani. Io credo, che lo scrivere quello che sentiamo, quello che accadde e cade intorno a noi, con i nostri molteplici linguaggi, senza cattedre o microfoni, possa aiutarci a ripopolare, e ritrovare una nostra personale dimensione. […]  I diversi linguaggi di espressione che in abiti-lavoro convivono perfettamente, dandole una impronta di cammino sì collettivo ma che rispetta e fa da cassa di risonanza al percorso individuale, indicano a mio giudizio, appunto, la voglia di reagire all’appiattimento socio culturale dei giorni nostri (Anna Lombardo, abiti-lavoro, n. 16, 1993).

Non mi sento più solo quando arriva la voglia di scrivere, quando mi chiedo se è giusto che scriva anche per gli altri. […]. Ho letto alcune copie, anche i primi, numeri e ho capito di trovare qualcosa di diverso dalle solite talvolta banali raccolte di poesie: un insieme di esercitazioni, di accorte analisi, di testi che tendono ad esplorare le radici della necessità operaia di scrivere, di comunicare, di occupare uno spazio culturale insolito, se paragonato agli imperi dell’industria della comunicazione di massa.  Ribelli le strofe, accorati gli appelli, provocatori le rime e i simboli: qui le parole scavano la realtà per il gusto di far riflettere sull’importanza di non adagiarsi nemmeno per un istante al conformismo, di privilegiare lo “scatto” dell’arte improvvisata, fresca, mai viziata dall’opportunismo.
(Orlando Casellini, abiti- lavoro, n. 16,  1993)

La rivista non solo ha offerto uno spazio di espressione originale senza conformismi, ma ci dimostra anche come la poesia e, più in generale, l’arte possano essere molto più di semplici forme di svago o intrattenimento: rappresentano infatti esperienze di scoperta capaci di suscitare emozioni e riflessioni, aprendo la strada a una comprensione più profonda di sé e del mondo. Un esempio emblematico e attuale è rappresentato dai lavoratori della ex GKN di Campi Bisenzio e il loro festival di letteratura working class che con lo slogan  “Non siamo qua per intrattenervi”, mutuato dallo studioso Mark Fisher, vogliono richiamare la natura politica e culturale dell’evento. Come sottolinea infatti Antonio Catalfamo in un numero speciale de Il calendiario del Popolo (n. 730, anno 64, 2008), la poesia è uno strumento di presa di coscienza individuale e, nel contempo, di lotta, di sensibilizzazione dei compagni e compagne di lavoro e della società. La dimensione personale non scompare ma l’individualità viene messa al servizio della collettività: questa la grande novità della poesia fatta dagli operai rispetto alla letteratura operaia prodotta dagli intellettuali. Essa diviene riacquisizione del proprio io negato dalla società capitalista che funzionalizza tutto nell’interesse produttivo dell’impresa:

[…] per poter lottare contro i padroni è necessario
il sapere il parlare… la cultura come strumento non per essere
come loro ma per ribaltargliela  contro…
non solo contrattare economicamente… ma per un
“altro” vivere… la tutela della  salute da non contrattare…
la qualità del cibo… e del bere… del tempo “liberato”…
scrivere per capire capirsi far capire… la scoperta della ricchezza del
vivere… non il consumare… il viaggiare non il turismo… la
frugalità non l’accontentarsi…
le arti… le tante capacità e possibilità umane oltre l’economico…
(Sandro Sardella)

 

 

Questo contributo offre una sintetica introduzione alla poesia operaia di “abiti-lavoro” (1980-1993). È un primo spunto sul tema e intende stimolare ulteriori approfondimenti dedicati agli autori, ai testi e ai contesti di questa esperienza, nonché al ruolo della poesia come voce e strumento di resistenza culturale.

 

 

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Hyde, le censure e il sentire (Victoriana 57) https://www.carmillaonline.com/2025/03/08/hyde-le-censure-e-il-sentire-victoriana-57/ Sat, 08 Mar 2025 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87198 di Franco Pezzini

Hyde in Time, a cura di Mario Gazzola, ricerche iconografiche e grafica a cura di Roberta Guardascione, pp. 251, € 20, EdiKiT, Brescia 2023.

Tra i miti dell’età vittoriana passati transmedialmente nell’orizzonte postmoderno, uno notissimo riguarda il personaggio duplice ed eponimo della novella gotica Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde di Robert Louis Stevenson (1886). Può interessare poco in questa sede la plausibile ispirazione al caso di Eugène Marie Chantrelle (1834-1878), conosciuto personalmente da Stevenson, assassino della moglie ed ex-pupilla Elizabeth Dyer e impiccato a Edimburgo, la cui vicenda piuttosto squallida tuttavia è ben lungi dall’esaurire [...]]]> di Franco Pezzini

Hyde in Time, a cura di Mario Gazzola, ricerche iconografiche e grafica a cura di Roberta Guardascione, pp. 251, € 20, EdiKiT, Brescia 2023.

Tra i miti dell’età vittoriana passati transmedialmente nell’orizzonte postmoderno, uno notissimo riguarda il personaggio duplice ed eponimo della novella gotica Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde di Robert Louis Stevenson (1886). Può interessare poco in questa sede la plausibile ispirazione al caso di Eugène Marie Chantrelle (1834-1878), conosciuto personalmente da Stevenson, assassino della moglie ed ex-pupilla Elizabeth Dyer e impiccato a Edimburgo, la cui vicenda piuttosto squallida tuttavia è ben lungi dall’esaurire la ricchezza di spunti dello Strange Case stevensoniano. Sull’onda dei quali, ma con inevitabili impoverimenti, questo troverà infiniti trasposizioni e derivati – teatrali, su schermo eccetera –, assurgendo a mito pop di straordinaria fortuna. Il cinema ne miscelerà la saga con quelle di altre storie nere vittoriane (soprattutto Jack the Ripper, 1888, e Sherlock Holmes, ma si arriverà alle fantasie pseudostokeriane su The Mummy) o precedenti (le “iene di Edimburgo” Burke & Hare, 1828): e tutto ciò in un crescendo al pastiche che traghetterà il dottore e il suo scimmiesco alterego (Darwin scànsete) all’interno di summae geniali come Anno Dracula di Kim Newman (a partire dal 1992) e The League of Extraordinary Gentlemen di Alan Moore (a partire dal 1999). Dove però il discorso si sposta semmai sulle ragioni e potenzialità dello strumento pastiche, in riferimento alla specifica scelta dello sfondo vittoriano.

Tale vortice di imprestiti e adattamenti per cui Hyde diventa di volta in volta la versione (non più bruta, ma) più disinvolta e faustianamente giovane del vecchio dottore, o quella femminile, o altro (parodie comprese), è evocato con ironia, consapevolezza e una buona mappatura di citazioni da questo Hyde in Time, a cura – o piuttosto a firma – di Mario Gazzola, che tra gioco semiotico e fantasia pop impazza sul tema dei manoscritti ritrovati: ben tre, già a suggerire una tensione a mappare le più diverse variabili. Hyde e l’altro si presenta come apocrifo di Stevenson, presunta prima versione “estrema” della novella; Il lupo di Whitechapel attribuito a Samuel Lloyd Osbourne, figlioccio di Stevenson, vede la rivincita di Hyde nei panni di Jack the Ripper; Hyde in Time di Samuel Osbourne II, ultimo della famiglia, presenta nerissime ricadute della storia nel XXI secolo, tra arte e psicoterapia. Strepitose le tavole di Roberta Guardascione, che gioca liberamente con stili dell’Otto (Walter Sickert compreso) e del Novecento. Il gioco è colto e divertente, il libro intelligente e godibile: emerge evocato tra l’altro un ricco tessuto di scoperte e novità tecniche d’epoca, a denunciare una buona ricerca alla base.

Poi ovvio, sul tema la fantasia di un narratore popolare insegue oggi, quasi inevitabilmente, le tinte dell’estremo: violenza e componenti sessuali esplicite sono fatti reagire in termini sornioni con le agenzie immaginali delle diverse società susseguitesi, dai paradigmi dell’età vittoriana profonda al crepuscolo di quel mondo e fino alle odierne categorie psicopatologiche. E tutto questo può avere un senso nell’ambito di una narrativa popolare, di cui accoglie un fitto tessuto di citazioni sottese. Quindi successo dell’operazione.

Resta un dato da ricordare, non solo per pignoleria critica ma proprio per ragionare su eventuali nuove provocazioni narrative: Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde come Stevenson ce lo affida è una straordinaria e sottile opera letteraria, che non si esaurisce nella brillantezza di una trama e neppure nell’oggettivo interesse di un contesto (le scienze umane in età vittoriana, eccetera). E di fronte all’insistenza di riletture odierne – comprensibile, sensata – sulle dimensioni estreme richiama a una chiave letteraria molto più censurata, con tutto ciò che il gioco di allusioni comporta e attiva. Questo tipo di narrativa impregnata di puritanesimo almeno culturale implicava ineludibilmente nella sua evocazione dell’orrore – pensiamo anche a Carmilla, a Dracula… o a tanto Poe, quando evoca nefandezze peggiori di quelle di Erode, Caligola o Eliogabalo (che saranno mai?) – proprio una straniante dimensione censoria, uno sforzo mitologico di tenere tanta roba sotto il tappeto.

Nelle trasposizioni e in questo libro, troviamo Hyde perpetrare eccessi – potremmo dire – a luci rosse: per quanto riguarda quello di Stevenson, al contrario, vediamo assai poco. Un omicidio brutale, la violenza cieca nel calpestare una bambina, una serie di allusioni dall’eco sessuale che potrebbero far pensare alla frequentazione di prostitute e a sodomia, ma nell’ambito di una nebulosa mitica sul sesso perverso le cui censure linguistiche risultano infinitamente più minacciose nella loro vaghezza di qualunque tentativo di puntarvi i riflettori. Perché giocate al filtro di un sentire meglio espresso dall’allusione che da qualunque visione diretta: un sentire mitologico, di impliciti e indicibili, di pelle più che di ascolto di notizie. Il lettore odierno potrebbe persino chiedersi: Tutto qui? Ma non comprenderebbe quel magma di turbamenti che sta in fondo dietro a tutto il nero vittoriano e agli spettri del suo registro narrativo.

Il che costringe forse a ricordarci che non è tanto la trama a suggerire un sapore gotico, ma il rapporto di echi, allusioni e non detti con i brividi e i perturbanti, con le censure e i desideri inconfessabili di una società. Più che vedere Hyde, il Nascosto per antonomasia, dovremo dunque sentirlo: al filtro delle censure nostre, di ciò che per noi è un’esperienza limite – ma lui sta oltre. Potremmo obiettare che i vittoriani, catafratti da pudori e fantasmi puritani oggi dismessi un po’ ovunque in occidente, vincono facile, e forse anche per questo un certo tipo di immaginario ha saputo restare nel tempo, adattandosi attraverso infiniti mascheramenti, declinando diversamente gli oggetti dei fremiti ma mantenendo un’ambigua numinosità.

Eppure il nostro tempo che crede di poter vedere tutto, di poter mostrare tutto, non è esente da censure – saranno meno evidenti, ma forse non meno gravide di mito. Vi entrerà il sesso, con ogni probabilità; plausibilmente la politica, forse la religione, ma così si resta fin troppo sul generico. Però per capire il Nascosto o almeno provarci, occorre costringerci su questa pista. Non tanto per comprendere se Hyde sarà scimmiesco, o invece giovane e belloccio, o magari di un diverso genere sessuale; ma per mettere a fuoco cosa davvero ci turbi, ci provochi e non riusciamo a dire, cosa i miti del nostro tempo qualifichino come indicibile o irriducibile al vocabolario. Forse per questo, al di là di un eterno ritorno condotto anche con intelligenza – come senz’altro in questo caso – la sfida oggi dello scrivere gotico (o weird) non riguarda tanto un’originalità di contenuti ma di tagli per parlarne, di passi e di forme. Che non sono mai semplici vestitini della sostanza, ma identificano una voce.

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Pezzi di vetro https://www.carmillaonline.com/2025/03/07/pezzi-di-vetro/ Fri, 07 Mar 2025 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87253 di Serena Penni

Avrei voglia di piangere, lo sai? Ma sento che se adesso inizio non smetto più. Del resto, le mie lacrime ti hanno sempre messo a disagio. La pioggia batte contro i vetri delle finestre e contro il tetto: sembra che voglia seppellirci. Magari potessimo sparire in un mare d’acqua. Magari queste montagne che ci circondano potessero accoglierci nel loro ventre. Mi guardo intorno, nel mio soggiorno ordinato, arredato con cura, dove le tende sono intonate con i cuscini del divano, dove i mobili sono stati scelti uno per uno dall’antiquario più famoso di Milano, dove una vetrina ospita [...]]]> di Serena Penni

Avrei voglia di piangere, lo sai? Ma sento che se adesso inizio non smetto più. Del resto, le mie lacrime ti hanno sempre messo a disagio. La pioggia batte contro i vetri delle finestre e contro il tetto: sembra che voglia seppellirci. Magari potessimo sparire in un mare d’acqua. Magari queste montagne che ci circondano potessero accoglierci nel loro ventre. Mi guardo intorno, nel mio soggiorno ordinato, arredato con cura, dove le tende sono intonate con i cuscini del divano, dove i mobili sono stati scelti uno per uno dall’antiquario più famoso di Milano, dove una vetrina ospita la mia collezione di animali di cristallo. Mi guardo intorno e non credo a questo vuoto. Persino tu, ormai, non mi sembri altro che un fantasma. Mi chiedo dove abbiamo sbagliato. Le mie mani sono le stesse di quelle che da bambina costruivano insieme a te castelli di sabbia sempre troppo alti per stare in piedi, e che finivano per crollare prima di essere conclusi.

Ora tu vuoi farmi un sacco di domande. Te le leggo tutte in quei tuoi occhi azzurri, confusi e atterriti. Vorresti chiedermi cosa sapevo di Stefano. Vorresti chiedermi se mi ricordo cosa è successo veramente quella notte. Vorresti chiedermi quando mi sono accorta che il bambino aveva qualcosa che non andava. Sono le stesse domande che mi hanno fatto durante gli interrogatori. Me le hanno fatte più e più volte, di continuo, dopo molte ore che non dormivo e alla mattina presto – immaginando forse che avessi potuto riposare. Le mie risposte non sono cambiate. Ho ripetuto come un pappagallo la verità che avevo imparato a raccontarmi, ma a te darò un’altra versione. Perché a te non ha senso mentire. Sono settimane che scambio il giorno con la notte, che mangio senza regole, che mi muovo come una bambola caricata per il mio appartamento. Ho abbandonato i sonniferi. Non ho mai sonno, passo le notti a guardare le vette che ci circondano e le poche macchine che percorrono i tornanti. Ogni tanto, però, mi assale una stanchezza devastante, un torpore improvviso che mi taglia le gambe e mi fa accasciare in un angolo, sul divano, sul letto oppure anche per terra, sul tappeto o sul pavimento di legno. Stasera sei venuta a trovarmi senza preavviso. Non sono stata io a invitarti, e per essere qui non hai disdetto nessun appuntamento. Appena hai varcato la porta di casa, ti sei guardata intorno con aria schifata e sei andata a spalancare la finestra. Ma non credo che tu ti sia illusa che il puzzo se ne sarebbe andato. Questo è il mio odore, è l’odore tuo, di Stefano, del bambino; è l’odore della nostra storia, imprigionata per sempre in questo appartamento, attaccata alle pareti, ai mobili, alla tappezzeria. Perché sei venuta? Per chi hai indossato quel tailleur bordeaux? Sei mia sorella, e allora? Volevi vedere come stavo? E ora che lo hai visto, cambia qualcosa? Fanno forse la differenza le mie unghie rovinate, i capelli in disordine, gli occhi gonfi? Inizierò dall’ultima delle domande che, per paura della risposta, non mi hai fatto. Quando mi sono accorta che il bambino aveva qualcosa che non andava. Potrei dirti che l’ho scoperto un giorno in cui eravamo ai giardini pubblici e lui si è messo a urlare come un ossesso, ma non sarebbe la verità. Certo, quel pomeriggio d’autunno, in un parco con l’altalena gialla e lo scivolo di metallo che rifletteva il grigio del cielo, non lo scorderò mai. In un attimo mi si è spezzato il cuore. Se mi concentro, sento ancora la musica jazz, malinconica e amara, che proveniva dal locale di dubbio gusto, con le poltroncine foderate di velluto rosso già mezzo consumate, di fronte all’entrata principale del giardino. Ma in realtà, ho sempre saputo che il bambino nascondeva un segreto. Da quando l’ho attaccato al seno la prima volta e mi ha fatto troppo male per essere così piccolo, così indifeso. Il dolore che ho sentito me l’ha reso estraneo, ma subito dopo ho provato per lui compassione perché appunto aveva sul piccolo viso, sui minuscoli occhi, nelle microscopiche orecchie, il marchio di uno sbaglio. Il suo destino era segnato perché persino io, sua madre, non riuscivo ad amarlo.

Vorresti chiedermi quando mi sono resa conto che anche in Stefano qualcosa si era rotto. È successo un po’ alla volta, e tutto è culminato in quella notte maledetta. Mi ricordo che un pomeriggio stavo parlando al telefono quando mi è caduto l’occhio sulle bottiglie di superalcolici che tengo in soggiorno. Quelle che ti ho appena offerto, esatto. Mi sono accorta che erano tutte vuote. La mia mente ha registrato il dato senza darci importanza. Me ne sono ricordata solo alcune settimane dopo, quando ho visto Stefano piangere la mattina presto seduto in cucina, davanti a un caffè che continuava a portarsi alle labbra ma che non riusciva a bere. Singhiozzava in silenzio e con la mano sinistra si teneva la fronte. Lo ho osservato per qualche istante poi sono tornata a letto.

Stefano è diventato di giorno in giorno più stanco, più scostante, più assente. Una sera sono tornata tardi dal lavoro perché una paziente aveva avuto una reazione allergica al botox; lui, appena ho varcato la porta di casa, mi ha detto: “dove cazzo eri finita? Tuo figlio ha fame”. Non sono state tanto le sue parole a stupirmi, ma il suono stesso della sua voce, che era del tutto diverso da quello che conoscevo. Era acuto, quasi femminile. Gli ho spiegato cosa era capitato. Lui è rimasto in silenzio per un po’, poi ha iniziato con la storia che avrei dovuto lasciare l’ambulatorio, perché così non si poteva andare avanti. Ma io amavo troppo il mio lavoro per poterci rinunciare. Eppure, ora non mi sembra che una delle tante cose che ho perso, e neppure la più importante.

Nel giro di qualche mese, la situazione con Stefano è precipitata, ma non voglio annoiarti. Arriviamo a quella notte. Tu eri venuta a trovarmi per parlarmi di una delle tue stupidaggini, che adesso non ricordo più. Stefano è tornato a casa tardi. Aveva bevuto molto vino, si sentiva dal suo alito. Io gli sono andata incontro e lui mi ha spinto dicendomi: “Spostati troia”. Il bambino, allora ha cominciato a ridere e a ripetere troia senza sapere cosa stava dicendo. Stefano è andato a chiudersi nel suo studio, tu sei andata sul balcone a fumare: non volevi immischiarti in disagi che non ti appartenevano. Sei sempre stata così, ed è proprio per questo, solo per farti un dispetto, che stasera ti racconto finalmente la verità.

Ero nella mia cucina moderna e perfettamente ordinata, con un figlio che non riconoscevo, che rideva e che mi chiamava troia perché lo aveva sentito dal padre. Per lui tutto ciò che il padre diceva o faceva era meraviglioso. A un tratto, io e il bambino abbiamo alzato lo sguardo e sono stata certa che tutti e due nello stesso momento abbiamo visto le montagne fissarci con occhi enormi, gialli e cattivi. Abbiamo anche sentito la loro voce – profonda, baritonale – che si faceva strada tra le rocce. Era un richiamo verso la morte, verso la fine di tutte le cose. Il bambino si è girato nella mia direzione. Continuava a ridere e a ripetere troia ma il suo sguardo ora era terrorizzato. Una forza oscura ci aveva trascinato altrove. Dopo pochi istanti, eravamo già in un inferno freddo e buio. Ho supplicato ancora una volta quel mio figlio sbagliato di stare zitto. Non mi ha ascoltato. I suoi occhi, la sua voce si confondevano con quelli della montagna. Non so perché si sia seduto sulla finestra, ma posso dirti che sono stata io a farlo precipitare nel vuoto. Quando ha raggiunto il terreno, alle mie orecchie è arrivato il rumore di un vaso che si rompe in mille pezzi. Ho pensato che fosse anche lui di vetro come i miei soprammobili. Poi ho sentito il mio urlo. Tu, senza lasciare la sigaretta che ancora tenevi in mano, hai chiamato i soccorsi. Tutti hanno creduto che si fosse trattato di un incidente; sono riuscita a mentire ai giudici perché prima di tutto ho mentito a me stessa. Ci hanno creduto tutti tranne Stefano, che al funerale stava in disparte e che, da quella notte, non mi ha più parlato. Quando è sparito, non ero stupita né preoccupata, ma solo arrabbiata. Se ne è andato senza dirmi addio, senza nemmeno salutarmi. È stata una vigliaccata, dopo tanti anni passati insieme, dopo tante parole buttate al vento. La vigilia di Natale ho ricevuto una telefonata anonima che mi ha rivelato che era entrato in un brutto giro di scommesse e di gioco d’azzardo. Ma anche questo in fondo non mi ha sorpreso.

Ora sono sola. Non ho più un figlio, né un marito, né amici, né un lavoro. A farmi compagnia ci sono abiti maschili che nessuno più indossa, giocattoli che nessuno più guarda. Ci sei tu, con i tuoi ritagli di tempo, le tue sigarette e i tuoi abiti troppo eleganti per il paesino sperduto in cui viviamo. Ci sono le montagne che, chissà, forse un giorno mi parleranno di nuovo. Se ripenso alla mia vita, capisco che sono stata felice, a tratti, forse, ma in fondo non ho mai creduto del tutto alla felicità.

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Una questione estetica https://www.carmillaonline.com/2025/03/07/una-questione-estetica/ Thu, 06 Mar 2025 23:39:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87193 di Stefania Consigliere

Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024.

Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.

Malessere senza [...]]]> di Stefania Consigliere

Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024.

Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.

Malessere senza nome
È una questione estetica, ha a che fare con la percezione. Molti di noi avvertono in sé una dissonanza, la non-coincidenza fra quel che sentiamo e quel che siamo tenuti a pensare; fra quel che sappiamo e il modo in cui viviamo; fra i timbri della comunicazione e i sussulti del diaframma. A volte la distanza si fa insostenibile e ci si trova allora a fuggire dagli odori dei grandi magazzini; angosciati per le file di TIR in autostrada, di dentifrici al supermercato, di uomini armati in centro città; atterriti dalle rassicurazioni dei politici; perplessi per un biglietto aereo che costa meno di quello del treno per l’aeroporto; attraversati da improvvisi impulsi luddisti – e via dicendo, ciascuno secondo un proprio spettrogramma di sensibilità lese. È raro che la dissonanza arrivi a piena coscienza: più spesso se ne resta nelle retrovie del sentimento come scarto o angoscia senza nome, una fibrillazione da silenziare subito perché, se ascoltata, subito ci renderebbe incoerenti rispetto al mondo in cui viviamo. Folli, dunque, o più probabilmente depressi, intristiti a morte per qualcosa che sentiamo ma non sappiamo nominare.

Primo e secondo consulto
In linea con la strategia globale della modernità, ogni dissonanza è letta come disfunzione individuale. Depressione, ADHD, crisi di panico, ecoansia, anoressia, paranoie complottiste, dropout scolastico, dolore cronico: tutte queste fratture sono interpretate, diagnosticate e infine curate come malfunzionamenti dell’individuo, pensato – in linea con tutta la filosofia moderna – come entità ontologica a sé stante, autosufficiente, che intrattiene con il mondo e con gli altri soggetti relazioni di tipo estrinseco e utilitaristico, che non ne mutano l’essenza.

Per ragioni del tutto imponderabili, alcuni individui portano in sé difetti di programmazione, bachi fisici o psicologici che non permettono loro di funzionare come si deve. Per fortuna però – così prosegue il ragionamento – grazie al progresso tecnico e alle sue creature, oggi è possibile sopperire a questi malfunzionamenti dei singoli con un mix ben dosato di innesti tecnici, (psico)farmaci e distrazioni.
Su questo piano inclinato si ritrova rapidamente chiunque decida di restarsene al calduccio nella doxa del progresso. Sono pochi, e assai malvisti, i protervi che non si accontentano della via larga e vanno in cerca di altre diagnosi e letture diverse della realtà.
Alcuni di loro atterrano nei cosiddetti movimenti olistici (ex new age), una galassia pirotecnica di filosofie, pratiche di vita e sistemi terapeutici – talvolta seri e affidabili, talaltra ambigui e cialtroneschi – accomunati dal proporre eziologie indubbiamente altre. Dai movimenti delle orbite al flusso del qi nei meridiani, dalla divinazione all’incontro con le piante, queste piste sono rifiutate in blocco dai custodi della verità in quanto non scientifiche. Qui si aprirebbe in discorso lunghissimo, che provo a riassumere nel modo più antipatico possibile: antropologicamente parlando, la scienza è solo uno dei molti modi conoscitivi sviluppati dagli umani e la sua presunzione di superiorità deriva in primo luogo dall’essere il sistema di conoscenza dei colonizzatori (chi avesse voglia di approfondire troverà grandi soddisfazioni nei testi di Philippe Descola, Piero Coppo, Eduardo Viveiros de Castro, Boaventura de Sousa Santos, Mike Singleton, Ramon Grosfoguel).

Qui mi interessa invece sottolineare che, spesso, neanche i movimenti olistici superano il presupposto dell’individualità del dolore: come nella biomedicina, anche qui l’attenzione è quasi sempre messa sul singolo, sulle cause soggettive del malessere e sulla guarigione intesa come processo personale.
Altri, presi da sconcerto davanti a un mondo così incredibilmente malmesso, giungono invece a pensare che la stragrande maggioranza dei malesseri, delle dissonanze e delle insopportazioni che avvertiamo in noi è perfettamente giustificata dallo stato del mondo intorno a noi. Questa consapevolezza è ciò che, nella sfera comunicativa para-totalitaria di questi anni, bisogna rintuzzare a ogni costo: i pochi che provano a dire altro sono subito violentemente irrisi e tacitati, nel silenzio – spesso intimidito, a volte compiaciuto – di una maggioranza che al momento, come cantava De André, sta: come una malattia, una sfortuna, un’anestesia…
In alcuni casi, le operazioni di censura sono fin troppo facili. Forse per via del poco allenamento all’analisi critica, alcuni fra i refuseniks del mondo-così-com’è vengono agganciati da spiegazioni risibili (i rettiliani, QAnon, la grande sostituzione), che i guardiani della ragione non faticano a squalificare. Pur nella loro puerilità, tuttavia, queste narrazioni hanno due pregi notevoli: spostano la causa del malessere dall’interiorità del soggetto allo stato di cose in cui è immerso, e forniscono una ragione per i mali del mondo senza nascondere il disastro il corso (sono quelli che Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto chiama “nuclei di verità”; un eccellente approfondimento della questione “complottismo” si legge nella prefazione di Elisa Lello, scaricabile qui).
In altri casi, invece, l’insopportazione allunga le sue radici nell’analisi storica, nel confronto con forme altre di umanità, nell’archeologia filosofica, nell’esperienza di piccole comunità che “fanno altro”: in breve, nel terriccio del grande pensiero critico a cui il libro di Amiech, di fatto, appartiene.

Esame obiettivo
L’industria del complottismo funziona come bussola, come lenitivo e come parte di una diagnosi complessa, in cui sofferenza individuale e stato del mondo, intimo e politica, non sono separabili. Per certi aspetti, l’incedere di Amiech ricorda quello dell’Encyclopédie des Nuisances, una delle più straordinarie imprese contro-culturali transalpine, la cui intelligenza critica non ha perso un grammo di mordente (ne approfitto per menzionare almeno i nomi di Jaime Semprun, René Riesel e Jacques Philipponnau; in Italia, il principale alleato dell’Encyclopédie è stato a lungo Piero Coppo, non a caso pioniere dell’etnopsichiatria: v. sotto).

L’accusa di complottismo, nota l’autore, equivale a una psichiatrizzazione della critica. Se sentiamo di non poterci fidare della narrazione pubblica, non è perché siamo paranoici o psichicamente farlocchi, ma perché leggiamo correttamente i segni: della narrazione pubblica non c’è proprio da fidarsi. La carrellata degli orrori comincia, a ragion veduta, con la storia del nucleare. Attingendo a un altro ottimo libro di recente pubblicazione (J.M. Royer, Il mondo come progetto Manhattan. Dai laboratori nucleari alla guerra generalizzata alla vita. Mimesis, Milano-Udine 2023), Amiech mostra, dati alla mano, come il nucleare sia probabilmente il segreto meglio custodito e la menzogna più colossale di tutti i tempi. Lascio volentieri a chi leggerà il piacere di scoprire i dettagli, un crescendo di atrocità che, diverse volte, mi ha costretta a interrompere la lettura per riprendere fiato. Qui basti dire che, dall’inizio dell’era nucleare, i morti causati dalla sua filiera si contano a decine di milioni e che la crisi climatica stessa potrebbe avere origine dalle sperimentazioni nucleari.
La commistione di interessi industriali, statali, militari e medici rende pubblicamente invisibile e imparlabile ciò che lavoratori e vittime vedono benissimo. Il caso del nucleare è il più colossale, ma non certo l’unico: Amiech prosegue con la storia del piombo e dell’amianto, con la menzogna della transizione green, con il saccheggio delle risorse fossili, con l’estrattivismo “di superficie” spacciato per meno dannoso di quello fossile, con la sciagura dell’informatizzazione coatta descritta come accesso a una vita smart e sicura.
C’è di che mettersi a battere i coperchi.

Diagnosi (dove sta la follia?)

Secondo una celebre ipotesi eziologica, la schizofrenia insorge a seguito dell’esposizione a messaggi contraddittori da parte di qualcuno la cui “versione dei fatti” non può essere contestata. Così, un genitore che malmeni un figlio dicendogli che lo fa perché gli vuole bene, rischia di produrre dissociazione: al figlio, infatti, non è possibile né ipotizzare che il genitore sia disfunzionale, né tenere insieme due messaggi così contraddittori.
L’insieme della comunicazione a cui siamo esposti presenta più di qualche analogia con questa situazione. Qualche esempio: il tecno-entusiasmo, con la promessa che il progresso tecnico risolverà tutti i problemi (e chi non ci crede è un oscurantista), unito alla consapevolezza che lo sviluppo tecno-industriale è la causa prima della catastrofe ambientale; la diffusione dell’agribusiness per “nutrire il pianeta” (e chi non ci crede è un cinico) e le ondate di suicidi fra i contadini; una green transition che punta dritta all’ossimoro del “nucleare pulito” e l’impossibilità di bonificare i siti dei disastri nucleari; il green pass descritto come strumento di prevenzione del contagio e vaccini nel cui bugiardino stava scritto che non proteggevano dal contagio. Per non dire dei molti conti che non tornano: non torna che nel migliore e più progredito dei mondi la maggioranza delle persone sia afflitta da durevole tristezza; che la sola impresa conoscitiva valida non riesca neanche più a prevedere che tempo farà domani; che la lotta di tutti contro tutti possa portare alla maggiore felicità possibile. E via dicendo.

Mala tempora currunt quando la lingua del potere può ignorare la logica e imporre la sua versione unica dei fatti; peggiori ancora, e già prossimi al totalitarismo, quando le menti dei sudditi si acconciano al bipensiero, a tener per vere nello stesso momento due cose contradditorie, a scivolare nella dissociazione pur di non ammettere che la follia è quella del mondo che ci circonda, degli infami che lo governano, della struttura stessa del dominio e del plusvalore.

Cura, cure
I Rage Against the Machine hanno scritto uno dei versi più angoscianti nella storia del rock: There is no other pill to take, so swallow the one that makes you ill. Non c’è cura, finché si resta nell’orizzonte del sistema. Bisogna guardare altrove.
Antropologia medica ed etnopsichiatria hanno descritto un buon numero di sistemi terapeutici non occidentali in cui si fa di tutto per sganciare la malattia dal soggetto che la manifesta, costruendo complesse eziologie sociali. Sono luoghi dove guarire una malattia non significa guarire l’organo malato, e neanche la persona che sta male, ma sciogliere i nodi, gli incastri e i nessi sociali che sono la causa prima del malessere. Coltivata, in tempi migliori, anche dall’antipsichiatria e dalla medicina sociale, questa intuizione è stata poi spazzata via dal riduzionismo e dai protocolli dell’attuale medicina biotech.
Il pensiero critico le è in qualche modo imparentato. Spostando lo sguardo dall’interno all’esterno, dal malessere del singolo allo stato del mondo in cui vive, mette a fuoco il nesso che lega i soggetti all’ecologia complessa in cui sono immersi; accantona le epistemologie della cecità e le ontologie della dissociazione imposte dal pensiero macchinico; non nasconde la portata del disastro in corso; e, nei casi migliori, non rinuncia a cercare strumenti per sciogliere il dolore e rimettere il mondo sulle sue gambe.
Che il nostro mondo è orribile lo sentiamo anche senza saperlo coscientemente. Ma non è l’unico: un po’ perché ancora ne esistono altri (quelli che il colonialismo ci ha insegnato a disprezzare), un altro po’ perché ecologie vivibili di umani e non umani non sono impossibili da immaginare e mettere in pratica. Amiech dà qualche indicazione di massima: disintossicarsi dal digitale; ripensare le forme di autonomia e sussistenza; coltivare la vita comune e le decisioni collettive. E cioè tornare in sé e al proprio mondo.

(Infine, e fra parentesi, un breve nota che riporta all’estetica, alle qualità del sentire. I luddisti non lottavano tanto contro le macchine in sé, quanto contro l’inabissamento dell’autonomia delle collettività e la perdita di qualità – dei prodotti, del tempo, della vita – che ciò comporta. Ebbene, a differenza di quanto accade comunemente presso editori ben più blasonati, il libro di Amiech è ben tradotto, privo di errori di stampa, curato nell’impaginazione e quindi piacevole da leggere. Se lo scopo della rivoluzione è la qualità del nostro quotidiano collettivo, allora bisogna farla finita anche coi libri impaginati a caso, tradotti con DeepL, mai riletti e stampati su carta dozzinale.)

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