Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 26 Apr 2024 20:00:36 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.25 Quei diabolici anni Settanta https://www.carmillaonline.com/2024/04/26/quei-diabolici-anni-settanta/ Fri, 26 Apr 2024 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82249 di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Le storie, i costumi e le estetiche del passato rappresentano un bacino per certi versi inesauribile per le opere di finzione, un bacino su cui posare uno sguardo che quel passato tende a ricostruirlo, selezionarlo e significarlo alla luce dell’oggi. In questo scritto si esporranno alcune considerazioni su un paio di serie televisive realizzate nel nuovo millennio che, narrando di vicende ambientate negli anni Settanta del secolo scorso, offrono di quel decennio una lettura incentrata sui suoi aspetti per così dire ‘diabolici’.

Attraverso la messa in scena del ‘male’ che si annida in alcuni individui, [...]]]> di Paolo Lago e Gioacchino Toni

Le storie, i costumi e le estetiche del passato rappresentano un bacino per certi versi inesauribile per le opere di finzione, un bacino su cui posare uno sguardo che quel passato tende a ricostruirlo, selezionarlo e significarlo alla luce dell’oggi. In questo scritto si esporranno alcune considerazioni su un paio di serie televisive realizzate nel nuovo millennio che, narrando di vicende ambientate negli anni Settanta del secolo scorso, offrono di quel decennio una lettura incentrata sui suoi aspetti per così dire ‘diabolici’.

Attraverso la messa in scena del ‘male’ che si annida in alcuni individui, Les papillons noirs (Arte-Netflix, 2022) di Bruno Merle e Olivier Abbou e The Serpent (BBC-Netlfix, 2021) di Mammoth Screen, proiettano uno sguardo sugli anni Settanta che rivela inevitabilmente anche qualcosa dei nostri tempi.

La serie Les papillons noirs racconta dello scrittore quarantenne Adrien Winckler (Nicolas Duvauchelle) che, in crisi creativa, accetta l’offerta di trascrivere in romanzo la vita che gli viene raccontata da un individuo ormai prossimo alla morte, Albert Desiderio (Niels Arestrup), imperniata attorno alla storia d’amore avuta con Solange (Alyzée Costes) negli anni Settanta.

Adrien, che vive con Nora (Alice Belaïdi), una ricercatrice di medicina, ha un passato burrascoso fatto di incontri clandestini di boxe in Thailandia, alcol e carcere. Figlio dell’infermiera ormai in pensione Catherine (Brigitte Catillon), sul piano personale lo scrittore si trova a dover dissipare un alone di mistero che riguarda il padre Vic, medico belga morto da tempo, e il fratello di quest’ultimo.

Nella sua abitazione di campagna, Albert racconta ad Adrien della difficile infanzia passata in orfanotrofio e dell’incontro con Solange, figlia di una prostituta. Da questo incontro tra ‘esseri respinti’ scaturisce una storia d’amore in cui i due si dimostrano disposti ad ogni complicità, una storia che nell’uomo assume tratti di irrefrenabile gelosia.

Nel corso del racconto, Albert riferisce di quando, in risposta a un’aggressione sessuale subita da Solange, la coppia si ritrova complice nell’uccisione del responsabile del gesto e del fratello di questo in quanto testimone. A partire da quell’episodio prende il via, attraverso diversi flashback, il racconto di una lunga scia di sangue che, si scoprirà, intreccia le esistenze di diversi personaggi del film. Mentre il racconto di Albert progredisce svelando allo scrittore le vicende della sua vita e quest’ultimo cerca di venire a capo del proprio passato, il poliziotto Carrel (Sami Bouajila) e la sua collaboratrice Mathilde (Marie Denarnaud) indagano su una serie di omicidi irrisolti risalenti agli anni Settanta.

La serie The Serpent trae invece ispirazione dalle vicende realmente accadute riguardanti Charles Sobhraj (Tahar Rahim), autore di una lunga serie di omicidi nel corso degli anni Settanta che hanno avuto come vittime giovani occidentali in cerca di nuove esperienze di vita lungo la “rotta hippie” nell’Asia meridionale. Mercante di gemme preziose, trafficante di droga ed abile truffatore, Sobhraj ha saputo sfruttare il suo carisma per raggirare numerosi viaggiatori al fine di impossessarsi dei loro documenti, travel cheque e contanti, per poi ucciderli così da non lasciare testimoni.

Non incline a violenza pulsionale e sadismo, questo omicida, amante del lusso, ha condotto i suoi crimini muovendosi con metodo e pianificazione ricorrendo all’aiuto della compagna canadese Marie-Andrée Leclerc (Jenna Coleman) e dell’indiano Ajay Chowdhury (Amesh Edireweera) che provvedevano a somministrare droghe alle vittime, la prima, e ad aiutare Sobhraj negli omicidi, dunque nel far sparire i cadaveri, il secondo. Dopo un periodo di detenzione in India tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta, Sobhraj ha sfruttato la sua fama rilasciando interviste a pagamento salvo poi recarsi in Nepal, ove era ricercato per l’omicidio di due giovani turiste statunitensi, venendo nuovamente arrestato e imprigionato all’inizio del nuovo millennio restandovi per quasi un ventennio.

Quegli anni Settanta ‘diabolici’, in Les papillons noirs e in The Serpent, sembrano appartenere ad un tempo mitico e mitizzato, allontanato in una dimensione dalle connotazioni quasi epiche. Gli stessi personaggi violenti ed assassini sembrano trasformarsi in eroi epici, mitici guerrieri di un tempo lontano. Vengono rappresentati estremamente eleganti, abbigliati all’ultima moda (dell’epoca) mentre, in ralenti, camminano o si atteggiano in espressioni ‘dure’ e sprezzanti.

Se l’uomo appare come un guerriero o un giustiziere, la donna è tratteggiata come una terribile femme fatale, una “dama senza pietà” dispensatrice di morte, specialmente in Les papillons noirs. Sono personaggi che sembrano emergere da quel passato epico ed “assoluto” di cui parla Bachtin: lontanissimo, irraggiungibile ed eterno, che appartiene esclusivamente all’universo dell’epopea1. Perché, in fin dei conti, gli anni Settanta si stanno trasformando in un tempo mitico anche nell’immaginario comune odierno: per rendersene conto basta girare un po’ sui social dove sono innumerevoli i gruppi dedicati a quel periodo, intrisi di una lancinante nostalgia.

Ma le serie televisive in questione non ci presentano l’universo ovattato e intimistico che incontriamo invece in molto cinema italiano, circondato da canzoni ‘iconiche’ del periodo e da pulitissime e perfette automobili vintage. Les papillons noirs e The Serpent non raccontano gli anni Settanta come un mondo incantato ed utopistico, come un’età dell’oro per sempre perduta. Sono lontani sì, ma non incastonati in una irraggiungibile utopia. Diventano uno sfondo caratterizzato da una inaudita violenza dove, come eroi, si muovono gli alfieri di quella stessa violenza. Quest’ultima, nei lacerti di flashback presenti in Les papillons noirs, emerge improvvisamente su uno sfondo vintage e quasi nostalgico: ben presto, i caratteri caricaturali della rappresentazione d’epoca (le auto, i vestiti, le canzoni e gli ambienti) precipitano nel baratro di una violenza cieca che sembra emergere dai più segreti interstizi di quei Settanta. I paesaggi e le ambientazioni dei luoghi di vacanza in cui si svolgono gli efferati omicidi della coppia si rivestono di connotazioni diaboliche e infernali, come se ci trovassimo all’interno del filone horror contemporaneo che si focalizza sui viaggi da incubo di turisti che si ritrovano nelle fauci di spietati serial killer.

Un luogo di vacanza, per certi aspetti, è anche lo sfondo in cui si svolge la vicenda di The Serpent, pure se allontanato negli spazi “lisci”2 lontani dall’Occidente, estreme lande orientali che sfuggono alla centralità europea o statunitense che connota le storie ambientate negli anni Settanta. Ci troviamo a Bangkok, in Thailandia, e il terribile Charles Sobhraj circuisce, rapina e uccide giovani turisti occidentali per derubarli e usare i loro documenti. Gli scenari di violenza, qui, sono la Thailandia, il Tibet, l’India: sono luoghi inediti per le ambientazioni vintage e gli stessi ambienti, il paesaggio nonché l’abbigliamento dei personaggi non sembrano eccessivi ed iperbolici come negli scenari europei. Gli unici personaggi tratteggiati con tinte un po’ caricaturali sono i giovani ‘figli dei fiori’ europei e americani che si avventurano in Oriente spinti da una nuova forma di “orientalismo” (un approccio ai territori orientali, secondo una definizione di Edward Said, filtrato da uno sguardo europeo e occidentale3 ) veicolato dalla controcultura.

Le ambientazioni appaiono meno naïf di quelle occidentali appunto perché sono allontanate in luoghi separati dai cliché europei e statunitensi, luoghi intrisi essi stessi di uno sguardo orientalista che trasforma la Bangkok del racconto in un vero e proprio baratro infernale che ingloba nelle sue spire gli ingenui occidentali. In questi luoghi infernali si muove il “serpente” Sobhraj, infido e imprendibile, braccato a sua volta dal giovane diplomatico olandese Herman Knippenberg (Billy Howle ).

Fin dai tempi di Baudelaire e di Flaubert, Oriente è sempre stato sinonimo di pericolo ambiguo e strisciante, di malattia e di corruzione: ecco allora il “serpente” Sobhraj, egli stesso di origine orientale, ambiguo e mostruoso (coadiuvato dall’altrettanto ambiguo e mostruoso, e altrettanto orientale, Ajay, di carnagione scura) che si contrappone ai perfetti occidentali rappresentati dal già ricordato diplomatico olandese, dalla sua moglie tedesca e dal belga Paul, nonché dalla coppia di francesi Nadine (Mathilde Warnier) e Remi (Grégoire Isvarine). Gli occidentali sembrano gli emblemi di una razionalità che cerca di infiltrarsi negli interstizi malati dell’Oriente: sono sempre riconoscibili, sempre ben vestiti in impeccabili abiti, come il diplomatico che veste sempre una camicia bianca con cravatta4. Sono il simbolo di una razionalità che si è lanciata verso l’ignoto, quasi come Jonathan Harker in Dracula di Bram Stoker, che si spinge verso le orrorifiche lande della Transilvania, proprio in bocca al mostruoso vampiro.

Se The serpent ci mostra i diabolici anni 70 ‘disambientati’ in territori orientali, lontani quindi nel tempo e nello spazio, Les papillons noirs ce li mostra soltanto lontani nel tempo. Ma è un tempo che equivale in tutto e per tutto ad un altro spazio, quello dell’orrore. Perché in quel tempo – sembrano voler ribadire le due serie televisive – c’è posto solo per l’orrore e la violenza, oltretutto scatenati da futili motivi. La Francia degli anni Settanta non sembra neppure la Francia: sembra un paese emerso da una fiaba crudele, un universo di cartapesta e di sangue, che si contrappone alla logicità e alla razionalità del nostro tempo. La contemporaneità appare quindi venata di una caratterizzazione ‘occidentale’ mentre gli anni Settanta – fatti di lunghe gonne colorate, di camicie sgargianti e di capelli lunghi – sono l’Oriente del nostro passato: un orrore clownesco che ci spia dalla sua notte. Non sono i cosiddetti ‘anni di piombo’ – mostrati, ad esempio, da una serie TV come Esterno notte (Rai, 2022) di Marco Bellocchio, incentrata sulla ‘vicenda Moro’, o da un film come La prima linea di Renato De Maria, liberamente ispirato al libro Miccia corta (2009) di Sergio Segio, che racconta un episodio dei primissimi anni Ottanta che assume la forma di epilogo degli anni Settanta vissuti da alcuni militanti che il mondo lo volevano cambiare, in cui la violenza emergeva da una lotta inesausta fra le classi, da logiche di protesta e di ribellione – ma sono gli anni di una futile e vacua efferatezza. Ancora più terribile se pensiamo che, in fondo, quella diabolica violenza è figlia delle nostre paure e del nostro tempo perché è proprio il nostro tempo che l’ha creata e che l’ha messa in scena. E allora, forse, quell’universo di cartapesta e di sangue, fra le guerre e le efferatezze che ci circondano, è più vicino di quanto possiamo immaginare.


  1. Cfr. M. Bachtin, Estetica e romanzo, trad. it. Einaudi, Torino, 1979, p. 457. 

  2. Per il concetto di “spazio liscio” cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. Castelvecchi, Roma, 2010, p. 451 e seguenti. 

  3. Cfr. E.W. Said, Orientalismo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2013. 

  4. Cfr. ivi, pp. 55-56: «Da un lato ci sono gli occidentali, dall’altro gli arabi-orientali; i primi sono, nell’ordine che preferite, razionali, propensi alla pace, democratici, logici, realistici, fiduciosi; i secondi sono quasi esattamente l’opposto». 

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Rebuilding America: Civil War di Alex Garland https://www.carmillaonline.com/2024/04/25/re-building-america-civil-war-di-alex-garland/ Thu, 25 Apr 2024 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82189 di Sandro Moiso

– Chi siete? – Siamo americani. – Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in [...]]]> di Sandro Moiso

– Chi siete?
– Siamo americani.
– Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in un panorama politico e culturale asfittico come quello italiano, diviso tra l’intimismo cinematografico troppo spesso travestito da impegno civile e lo sciapo dibattito “antifascista” sulla censura all’ancor più insipido monologo di chi vorrebbe atteggiarsi a novello Matteotti, esplode letteralmente sullo schermo e nello sguardo dello spettatore. Con una forza e una virulenza ormai lontane da qualsiasi prodotto della nostra intellighenzia vacua e perbenista.

Alexander Medawar Garland, scrittore di romanzi e già sceneggiatore di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle, non è la prima volta che porta sullo schermo le possibili conseguenze di una violenza a lungo repressa e negata che può, però, trasformarsi in autentica guerra interna alle società che si credono più evolute e liberali. Ma l’opera che gli ha dato la celebrità come sceneggiatore il tema era ancora collegato ad un contesto di carattere grosso modo fantascientifico e anticipatorio, Civil War ci parla, sostanzialmente, del qui e adesso.


Il viaggio della veterana fotoreporter di guerra Lee, dei due giornalisti Joel e Sammy e dell’aspirante e acerba fotoreporter Jessie, non è un viaggio in un futuro distopico, ma fa precipitare lo spettatore nelle contraddizioni di una guerra civile latente già visibile oggi, per gli osservatori più attenti, nelle pieghe di una società sorta da una guerra civile mai del tutto risolta e che da anni torna a presentarsi come inevitabile necessità storica1.

Sono 758 miglia quelle che separano New York, punto di partenza dell’equipe di reporter, da Washington, punto di arrivo programmato per un’ultima e incerta intervista a un Presidente degli Stati Uniti ferocemente abbarbicato al potere, ma ormai circondato dalle truppe del Fronte Occidentale, dell’alleanza tra Texas e California (i due stati più grandi dell’Unione), che hanno mantenuto le strisce bianche e rosse della bandiera nazionale riducendo però le stelle a due, e dell’Alleanza della Florida.

New York è sconvolta dalle proteste per le miserabili condizioni di vita e dagli attentati suicidi dei più disperati delle tendopoli che si sono sviluppate nelle vie della ex-Grande Mela, sul modello di quelle attuali e reali di Los Angeles. Così il viaggio, per motivi di convenienza, punterà prima ad ovest per poi rientrare verso est all’altezza di Charlottesville in Virginia. Quella Virginia che, nel 1862, durante la guerra civile “storica” vide una importante vittoria delle armate secessioniste del Sud e che proprio da lì, sotto la guida del generale Lee, decisero di attraversare il Potomac per marciare su Washington.

E’ un paesaggio di autostrade piene di mezzi civili e militari distrutti e abbandonati, di centri commerciali diventati zona di guerra e di campi profughi organizzati negli stadi; di crudeltà di ogni genere compiute da una parte contro l’altra, anche se ben si recepisce che le parti in gioco siano ben più di due, animate spesso da motivazioni diverse eppure guidate dalla stessa ferocia. Di cadaveri abbandonati nei parcheggi dei mall oppure nelle fosse comuni e cosparsi di calce oppure di corpi seviziati, umiliati e offesi in ogni modo, appesi ai cavalcavia se non negli autolavaggi. Di uccisioni a sangue freddo dopo interrogatori sommari oppure senza neanche il bisogno di quelli: la Land of the Free viene fotografata, letteralmente, in tutta la sua possibile barbarie, mentre la musica dei Suicide, da Rocket USA a Dream Baby Dream, funge egregiamente da viatico per l’impresa2.

E’ come se la guerra e la violenza esportata per decenni dall’impero occidentale nel resto del mondo, spesso sotto le spoglie di colpi di stato e guerre civili, avesse deciso di rientrare nel grembo materno, per divorare il corpo della madre dall’interno. Eppure, anche se qui e là appaiono cecchini dalle unghie smaltate, le camicie hawaiane dei Boogaloo Boys o gli sguardi esaltati che ricordano gli assalitori di Capitol Hill, non sono le milizie locali o le armi “casalinghe” a determinare il gioco delle parti, ma forze armate ben addestrate al compito di uccidere e distruggere, dotate di un arsenale e un potenziale di fuoco che comprende armi pesanti, carri armati, elicotteri, blindati Humvee e di ogni altro genere.

L’esercito si è evidentemente disgregato come la Guardia Nazionale, ma la macchina bellica e i suoi armamenti sono rimasti ben oliati e funzionanti e così, mentre le ultime truppe lealiste difendono Washington e il presidente annuncia ripetutamente, come d’uopo anche in questi giorni a proposito di Ucraina e Medio Oriente, la prossima storica vittoria delle forze del bene, tutto viene distrutto oppure violato, insieme alle ultime difese, al Lincoln Memorial e alla stessa Casa Bianca.

La violenza dispiegata e ben più terribile di quella immaginata ai tempi dei film che prevedevano invasioni sovietiche e nord-coreane degli Stati Uniti, come Alba rossa (Red Dawn, 1984) di John Milius. Quarant’anni non sono trascorsi invano, né nella storia reale del declino dell’impero né, tanto meno, per l’immaginario cinematografico americano che spesso, anche là dove non osa parlare della possibile guerra civile che attende l’impero, non smorza certo i toni della critica al dominio imperiale sul resto del mondo, sia nelle serie televisive che, in maniera mediata dalla fantascienza epica, in produzioni come Dune I e II del canadese Denis Villeneuve.

Non ci dice il film a quale campo appartenga il presidente, se repubblicano o democratico, in fin dei conti non occorre, anche se certamente tanta critica ben pensante nostrana e tanto pubblico avrebbero preferito una situazione più definita, per poter almeno parteggiare per una delle due parti in causa. Ma ciò che realmente conta è che il dollaro americano ha perso il suo valore e che la vita può esser considerata normale soltanto una volta accettata la normalità della guerra.

La produzione anglo-americana è seria. Sa che una guerra civile di tali proporzioni non è il prodotto di una semplice e retorica battaglia tra democrazia e autoritarismo oppure riconducibile ad una “lotta di classe” ridotta a teatrino tra due facilmente riconoscibili e “pure” classi in lotta: borghesia e proletariato. Come si è già affermato in un testo di alcuni anni or sono, la categoria di guerra civile può infatti costituire:

un elemento più adeguato per l’interpretazione di un insieme di contraddizioni sociali e di lotte manifestatesi a livello internazionale con una certa frequenza e intensità nel corso degli ultimi anni, la cui eterogeneità organizzativa e di scopi può difficilmente essere ancora rinchiusa soltanto all’interno della più tradizionale, e forse riduttiva, formula di lotta o guerra di classe. Contraddizioni sul piano sociale, economico e ambientale agite da attori multipli, cui gli Stati, indipendentemente dalla loro collocazione geopolitica, hanno dato, quasi sempre, risposte di carattere repressivo ed autoritario3.

Ma che proprio negli Stati Uniti potrebbe trovare, come ci indica il film di Garland, il suo punto finale di espressione. Anche se non è soltanto Garland a suggerirlo, ma anche svariati e attenti studi sulla realtà americana4.

Tralasciando, per ora, il contenuto più evidentemente politico e sociologico del film, oltre a sottolineare l’essenzialità della regia di un film a medio costo e la bravura delle interpreti e degli attori, da Kirsten Dunst (Lee), Wagner Moura (Joel), Stephen McKinley Henderson (Sammy), Cailee Spaeny (Jessie) fino a Jesse Piemons (nei panni di un militare ultranazionalista), quello che occorre qui ancora sottolineare è un altro e importante aspetto delle vicende narrate.

Si tratta della differenza che intercorre tra fotografare la realtà della guerra oppure descriverla in un articolo. La differenza tra lo sguardo e la parola e il diverso collegamento tra occhio e mente rispetto a quello tra la facoltà di scrivere e la riflessione necessaria per metterla in atto. La prima azione è immediata e non può permettersi il lusso della mediazione, mentre la seconda fa della capacità di mediazione interpretativa il suo punto di forza. In altre parole: il reporter, se vuole, può re-inventarsi la guerra, rimuovendo ciò che potrebbe ferirlo di più, mentre il fotoreporter deve per forza accettarne gli aspetti più dolorosi, pena il venir meno alla sua funzione.

Questa semplice e immediata considerazione sembra riflettersi nel carattere dei personaggi, nelle loro scelte e nel loro destino. Apparentemente più cinica e distaccata appare la fotoreporter più vecchia, pienamente in grado, però, di trasmettere alla sua giovane “erede” la capacità di cogliere il momento attraverso lo scatto, costi quel che costi sia sul piano fisico che emozionale. Uno sporco mestiere in cui l’”attimo fuggente” è tutto e richiede di saper scollegare la sensibilità dalla disposizione ad agire automaticamente per mezzo della macchina fotografica, anche a costo di perdere la propria umanità, proprio per trasmettere al grande pubblico la disumanità di ogni guerra. Oppure conservarla dentro di sé, fimo ad esserne straziati, come accade a Lee, che proprio in virtù di questo è, però, ancora l’unica capace di un gesto estremo .

Mentre il giornalista può comunque prendere tempo per narrare i fatti attraverso la mediazione della scrittura. In viaggio, sul campo di battaglia oppure in uno di quegli hotel per giornalisti tipici delle zone di guerra che nel film, almeno per una volta, non sono più soltanto in Medio Oriente, Asia, Africa o sui confini orientali d’Europa, ma in una New York in cui l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 sembra costituire, più che un preavviso o un avvertimento, soltanto un pallido ricordo, mentre il cratere di Ground Zero sembra aver davvero inghiottito definitivamente tutto.


  1. Si veda in proposito quanto precedentemente affermato dall’autore di questo articolo qui, qui e qui.  

  2. A proposito del seminale gruppo musicale americano si veda qui  

  3. S. Moiso, Miseria, repressione e crollo delle verità/mondo: ovvero perché parlare ancora di guerra civile, introduzione a S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 9-10.  

  4. Si veda in proposito, solo per citare alcune riflessioni più recenti, la Parte III del numero 3/2024 di Limes, Mal d’America, con i saggi di Chris Griswold, Michael Bible, Kenneth J, Heineman, Tiziano Bonazzi, Jeremy D. Mayer, Mark J. Rozell e Jacob Ware, pp. 201-248.  

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Quando tutto è possibile: a 50 anni dalla rivoluzione portoghese. Intervista a Giulia Strippoli https://www.carmillaonline.com/2024/04/25/quando-tutto-e-possibile-a-50-anni-dalla-rivoluzione-portoghese-intervista-a-giulia-strippoli/ Wed, 24 Apr 2024 22:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82134 di Luca Cangianti

Cinquant’anni fa, poco dopo la mezzanotte Rádio Renascença trasmette una canzone: Grândola Vila Morena di José Alfonso. È il segnale a lungo atteso. Il Movimento delle forze armate, costituito da militari progressisti, abbatte una dittatura fascista durata 48 anni e chiede alla popolazione di rimanere a casa. La gente però fa di testa propria e così un colpo di stato che doveva metter fine a una guerra coloniale dispendiosa e priva di speranze di vittoria, si trasforma in una rivoluzione travolgente. Nelle fabbriche si creano le commissioni dei lavoratori che epurano gli elementi fascisti ed esercitano il controllo sulla [...]]]> di Luca Cangianti

Cinquant’anni fa, poco dopo la mezzanotte Rádio Renascença trasmette una canzone: Grândola Vila Morena di José Alfonso. È il segnale a lungo atteso. Il Movimento delle forze armate, costituito da militari progressisti, abbatte una dittatura fascista durata 48 anni e chiede alla popolazione di rimanere a casa. La gente però fa di testa propria e così un colpo di stato che doveva metter fine a una guerra coloniale dispendiosa e priva di speranze di vittoria, si trasforma in una rivoluzione travolgente. Nelle fabbriche si creano le commissioni dei lavoratori che epurano gli elementi fascisti ed esercitano il controllo sulla produzione. Nei quartieri nascono le commissioni degli abitanti che gestiscono occupazioni, asili nido e centri polifunzionali in cui vengono erogati mutualisticamente servizi di ogni tipo. Infine sorgono le commissioni dei soldati con cariche elettive e revocabili, come in tutti gli altri casi. Si tratta di una trama sociale di organismi autonomi dai partiti e dal sindacato unico neocorporativo che ricordano i soviet russi del 1905 e del 1917, i consigli italiani del 1919-20 e quelli cileni del 1972-73. È un potere parallelo che pratica la democrazia di base e compete con quello dello stato per diciannove mesi, cioè fino al colpo di stato del 25 novembre 1975 in seguito al quale la situazione politica è ricondotta entro i binari della democrazia parlamentare. Giulia Strippoli – ricercatrice di Storia contemporanea all’Universidade Nova di Lisbona – ha dedicato alla rivoluzione portoghese due saggi contenuti in un volume scritto insieme a Sandro Moiso, Riti di passaggio. Cronache di una rivoluzione rimossa. Portogallo e immaginario politico (Mimesis 2024).

Cosa sanno oggi i portoghesi della rivoluzione del 1974-75?
Farei una distinzione tra il colpo di stato del 25 aprile 1974 che abbatte la dittatura e il periodo di mobilitazione rivoluzionaria più intensa chiamato Prec (Processo revolucionário em curso) che va fino al colpo di stato liberal-democratico del 25 novembre del 1975, passando per sei governi provvisori e due tentativi di golpe reazionari, quello del 28 settembre 1974 e quello dell’11 marzo 1975.
La data del 25 aprile è consensuale: è una celebrazione trasversale, a differenza di quanto avviene in Italia per il giorno della Liberazione. Il consenso si deve in gran parte al fatto che il centro-destra non ha voluto rimanere escluso da una data così fondamentale. È consensuale come festa perché per alcuni – per le componenti di sinistra – fu la fine del fascismo e l’inizio della rivoluzione, per altri fu l’inizio della democrazia in Portogallo, associata all’idea di modernizzazione del paese. Il Prec, invece, è conflittuale perché nella sua analisi storica confliggono diverse interpretazioni: quelle che intravedevano la possibilità di un passaggio rivoluzionario ad un nuovo modo di produzione; quelle che affidavano alla rivoluzione il mero compito di far transitare il Portogallo dalla dittatura dell’Estado Novo alla democrazia parlamentare; quelle che vedono nei mesi rivoluzionari solo disordine e caos. Per questi motivi l’opinione pubblica portoghese è abbastanza informata sul 25 aprile e molto meno sul Prec.

Ci sono movimenti politici che si ispirano al Prec?
I due partiti che lo rivendicano sono Partito comunista portoghese – anche se ha contribuito alla sua sconfitta, avallando il colpo di stato del 25 novembre 1975 – e il Bloco de Esquerda, che si formò nel 1999 dalla convergenza di alcune organizzazioni di estrema sinistra di provenienza principalmente maoista e trotskista. Nell’uso pubblico della storia il Bloco si rifà spesso al Prec per evidenziare lo svuotamento neoliberista delle conquiste rivoluzionarie in materia di diritto alla salute, alla casa e al lavoro.

Giulia Strippoli

Perché ti sei occupata di questi temi?
Ho iniziato a studiare la storia del fascismo e della resistenza in Portogallo, di cui i manuali non parlavano, grazie a un corso seminariale di storia delle sinistre europee con Aldo Agosti, in cui commentavamo i capitoli del libro di Donald Sassoon Cento anni di socialismo. Il capitolo sulla fine dei regimi in Portogallo, Spagna e Grecia suscitò in particolare la mia attenzione. Poi mi dedicai al Sessantotto italiano e alla formazione della sinistra rivoluzionaria: durante il dottorato lessi le varie annate del quotidiano “Lotta continua” e venni a sapere da Enrico Artifoni, professore di Storia medievale, che qualche decennio prima, come tanti giovani militanti, era stato affascinato dalla rivoluzione portoghese, che centinaia di italiani erano andati in Portogallo per partecipare alla rivoluzione.

E così ti sei messa a studiare anche la parte più soggettiva di questa esperienza rivoluzionaria, cioè le memorie degli italiani che, per citare una frase di Sandro Moiso, andarono in Portogallo «per veder sorgere un mondo nuovo».
Ti racconto un aneddoto. Quando nel 2018 venne qui a Lisbona Franco Lorenzoni – uno di quei militanti italiani – andammo alla prima di uno spettacolo teatrale che poi è stato ripreso anche nel film documentario Rua do Prior 41 di Lorenzo d’Amico de Carvalho. In quella circostanza che stimolava i ricordi, mi venne l’idea di farlo parlare al telefono con una persona che aveva conosciuto più di quarant’anni prima condividendo l’esperienza straordinaria della rivoluzione. Si trattava di Lionello Massobrio, il regista di La vittoria è certa, un film incredibile sulla lotta per l’indipendenza dell’Angola. Insomma, Lionello risponde al telefono e Franco fa: «Ciao Lionello, sono Franchino, ti ricordi?» Io mi commossi perché lui per me era Franco Lorenzoni, un uomo di più di sessant’anni, un ex militante rivoluzionario di Lotta continua, un maestro elementare. Quel diminutivo mi ha fatto rivedere il ventenne ancora presente all’interno dell’uomo maturo. È come se l’entusiasmo e lo stupore di aver assistito a quegli eventi non fossero stati scalfiti dal tempo.

Quali caratteristiche hai riscontrato nel leggere e nell’ascoltare questi racconti?
Mi ha sorpreso costatare che, a differenza di molti altri esempi storici, queste memorie non sono state amareggiate dalla sconfitta e dai difficili anni successivi. Inoltre non mi è capitato mai di assistere ad atteggiamenti reducistici e autocelebrativi. Quei giovani di cinquant’anni fa non si sono trincerati nella retorica dell’ultima possibilità. Le memorie sono tutte soggettive, ma sono anche generalizzabili. Io ci vedo uno spaccato generazionale.

Cosa può ancora insegnare la rivoluzione portoghese a chi è attivo nelle lotte sociali?
Ci insegna che la storia non è lineare e la spontaneità delle masse rende possibili le cose più incredibili: i militari dicono alla popolazione «restate a casa, ci pensiamo noi» e invece la gente scende in piazza e rivoluziona tutto: fabbriche, banche, scuole, università, teatri, compagnie aeree, acqua, elettricità. Questa sensazione che con la rivoluzione tutto diventa possibile è fortissima nella memoria degli italiani che parteciparono agli eventi del 1974-75. Posso raccontarti un altro aneddoto?

Basílica da Estrela, Lisbona

Certo.
Lo riprendo da un memoriale di Lionello Massobrio che meriterebbe di essere pubblicato. Qualche giorno prima della proclamazione dell’indipendenza dell’Angola, confessa a un militare rivoluzionario che gli sarebbe piaciuto andare in quel paese dove infuriava la guerra civile e da cui tutti i portoghesi scappavano. Il militare positivamente sorpreso da questa manifestazione di coraggio (o d’incoscienza) gli dà un biglietto scarabocchiato e gli dice di consegnarlo in una caserma dell’aviazione militare sulla collina. Lì sarebbe arrivato un Boeing che avrebbe portato lui e il suo cameraman in Africa. Lionello rimane molto perplesso e insospettito dalla semplicità con la quale il suo desiderio sembrava realizzarsi. Era sicuro di finire in qualche guaio, forse in prigione.

E invece?
Invece l’aereo arriva, scarica i militari in fuga dall’Angola e imbarca i due cineoperatori che viaggiano da soli nella pancia del velivolo fino a destinazione, senza controllo di bagagli, né di passaporti.

Mi sembra un’ottima metafora di come i processi rivoluzionari rendono possibili cose impensabili.
Già, e pensa che a destinazione ritrovarono persino un loro amico del Mir cileno che gli organizza una festa di benvenuto.

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Il reale delle/nelle immagini. La magia del cinema-menzogna https://www.carmillaonline.com/2024/04/23/il-reale-delle-nelle-immagini-la-magia-del-cinema-menzogna/ Tue, 23 Apr 2024 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80713 di Gioacchino Toni

Il cinema è menzogna, quanto del resto lo sono la fotografia e tutte le arti visive, come, con estrema consapevolezza, ha messo in luce il pittore René Magritte e, prima di lui, per certi versi, lo stesso Diego Velázquez nel suo Las Meninas (1656). Detto ciò, ci si può domandare con Massimo Donà, Cinematocrazia (Mimesis 2021), se alla menzogna cinematografica occorra attribuire una qualche irriducibile specificità.

Già, perché il cinema, come argomenta lo studioso, «finge di non costituirsi come semplice finzione; come pura parvenza di vita » dissimulando la propria fantasmagoricità conferendo alle sue realizzazioni una veridicità tale [...]]]> di Gioacchino Toni

Il cinema è menzogna, quanto del resto lo sono la fotografia e tutte le arti visive, come, con estrema consapevolezza, ha messo in luce il pittore René Magritte e, prima di lui, per certi versi, lo stesso Diego Velázquez nel suo Las Meninas (1656). Detto ciò, ci si può domandare con Massimo Donà, Cinematocrazia (Mimesis 2021), se alla menzogna cinematografica occorra attribuire una qualche irriducibile specificità.

Già, perché il cinema, come argomenta lo studioso, «finge di non costituirsi come semplice finzione; come pura parvenza di vita » dissimulando la propria fantasmagoricità conferendo alle sue realizzazioni una veridicità tale da farci provare le emozioni dei protagonisti messi in scena.

A differenza della fotografia e della pittura, il cinema «non separa un frammento (inesistente) del reale», esso consente allo spettatore di vivere «davvero come nella vita di ogni giorno» pur trattandosi di un’altra vita, per quanto pur sempre “vita”, facendo dimenticare, al tempo stesso, «che questa vita non è vita». Il cinema, insomma, esige che si guardi al frammento di vita catturata dall’inquadratura dimenticandosi della sua esibita artificiosità.

Nonostante l’artificio al cinema sia palese, pur simulando il contrario, «è proprio la vita che in esso finisce per specchiarsi» trasfigurandosi in inganno, ed è proprio quest’ultimo a rendere il cinema attraente. Al cinema, sostiene Donà, ci si reca per «un indistinto bisogno di vivere la vita, di viverla vivendola» senza giudicare e scegliere, senza tentare di distinguere la sua natura menzognera dal “vero”, sentendo di «esser altri da quel che siamo; pur essendolo (quel che siamo). Essendolo, insomma, senza esserlo».

Il cinema sembra funzionare «come una finestra che, pur aprendosi sul mondo, non si spalanca mai sull’esterno… non apre cioè a improbabili vie di fuga. Ma si spalanca piuttosto sul mondo che, sulla sua trasparenza, finisce in qualche modo per riflettersi come sulla superficie di uno specchio – in cui, a riflettersi, sarà dunque, da ultimo, nient’altro che l’interno della casa. Il quale, proprio nell’attraversare l’apertura della finestra, è destinato a manifestarsi come “altro-da-sé”, negando in primis di essere quel che, della casa (di cui quella finestra è un elemento) dice appunto il semplice “interno”».

Se c’è un film che, secondo Donà, più di altri, è in grado di palesare la paradossale natura dell’esperienza cinematografica, questi è Melò, (1986) di Alain Resnais, nel suo rivelarsi, dietro a una storia di amore e tradimento, un film sulla menzogna, «sull’epifania dell’impossibilità del “vero”», un film «in cui, a tradirci, sono invero sempre e solamente la credibilità e la veridicità di quel che accade».

Riprendendo invece Blade Runner (1982) di Ridley Scott e The Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski, Donà ragiona su come al cinema il corpo dello spettatore venga destrutturato, su come il suo personale punto di vista si eclissi negandogli l’identificazione con uno specifico personaggio della narrazione, inducendolo ad attraversarli tutti senza scegliere “con chi stare”. Al cinema il corpo dello spettatore subisce un processo di trasfigurazione nei corpi proiettati sullo schermo ed il tempo della narrazione che lungi dall’essere il suo, vine da questo vissuto da questo come dall’esterno.

Analizzando Prénom Carmen (1983) di Jean-Luc Godard, scelto come esempio dell’intera opera del regista, Donà si sofferma su quanto la storia del film “non dica”, su quanto non possa raccontare, ossia su quello che Gilles Deleuze (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), riprendendo Michel Foucault (Le jeu de Michel Foucault, 1977), definisce il “dispositivo cinema”.

Se, come afferma Deleuze, «ogni dispositivo si definisce per il suo contenuto di novità e creatività che indica contemporaneamente la sua capacità di trasformarsi o già di incrinarsi a favore di un dispositivo futuro» (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), «il cinema di Godard, proprio presentando l’irresolubilità di tale antinomia – quella tra arte e vita, per l’appunto –, ed esibendola in tutta la sua irriducibile “separatezza”, nonché tragica incomponibilità, crea un vero e proprio “dispositivo”». «Godard riesce a restituire il cinema a quel sottosuolo che ogni opera invero custodisce, e che tanto Foucault quanto Deleuze cercarono di ricondurre alla specifica nozione di “dispositivo”; che ha, come propria primaria caratteristica, quella di determinarsi nella forma di un radicale “rifiuto degli universali”».

Riprendendo le riflessioni di Deleuze sul cinema, Donà sottolinea come a condurre il filosofo alla classificazione delle immagini e dei segni cinematografici nei suoi Cinéma 1. L’Image-mouvement (1983) e Cinéma 2. L’Image-temps (1985) sia la convinzione che «l’immagine non sia un evento della mente o della coscienza, e ancor meno una sorta di più o meno attendibile riproduzione del reale, ma stia nelle cose stesse, nel mondo, incisa nel reale più di qualsiasi altra sua (sempre del reale) possibile caratterizzazione».

Il cinema, secondo Deleuze, produrrebbe una vera e propria finzione di realtà negando di essere finzione così come di essere immagine della realtà, di esserne una copia. Il cinema metterebbe in scena «quel flusso indistinto che mai potremmo “permetterci” di esperire nella nostra quotidianità. Il cinema, cioè, libera il movimento della vita; senza ricondurlo (il movimento) alla vita; alla vita di questo o di quello. Il cinema rende equivalenti i buoni e i cattivi, i gangster e i poliziotti, gli omicidi e i benefattori». È attorno a tali snodi che Donà intesse le sue riflessioni sul modi di concepire il cinema da parte del filosofo francese.

Lo studioso si sofferma anche sulle riflessioni di Foucault sulle “eterotopie” – da questi considerate interessanti anzitutto per il loro fungere da contestazione di tutti gli altri spazi – e su come tali riflessioni si riverberino sul cinema alla luce del fatto che in esso «incontriamo un mondo altro che, nello stesso tempo, non è affatto altro da quello che continueremo a incontrare fuori dalla sala di proiezione». Il cinema «ci consente di vedere (theorein) in qualità di semplici “spettatori”; sì, di vedere lo stesso mondo che vediamo ogni santo giorno […], un mondo fatto anche di individui, certo… come quelli che incontriamo ogni giorno, ma che ogni giorno finiamo per trattare come significazioni meramente universali». Sull’onda dei ragionamenti del filoso francese, Donà si domanda se nel cinema sia possibile vedere «una forma di eterotopia ancor più ricca e completa di quella resa attraversabile ed esperibile dalla grande filosofia… se non altro, là dove quest’ultima abbia saputo farsi teoretica».

Donà riprende anche le riflessioni di Foucault riportate in apertura di Le mots et le choses (1966) in merito al dipinto Las Meninas di Velázquez in cui il filosofo francese giunge a prospettare che ad essere messa in scena dal dipinto «sia innanzitutto la questione della possibilità di rappresentare l’atto stesso della rappresentazione. O anche, di far vedere gli scarti e le pieghe da cui sarebbe intimamente costituita, in verità, ogni visione, ossia ogni rappresentazione. E per ciò stesso ogni immagine». Il celebre dipinto farebbe riferimento dunque a «qualcosa che rimane costitutivamente “invisibile”, e che rimane tale in quanto valevole come semplice “fuori” rispetto alla scena cui tutti gli occhi, nello spazio scenico della rappresentazione, si rivolgono quasi incantati».

L’analisi di un film come King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack permette a Donà di sottolineare come l’antropomorfizzazione cinematografica dell’animalità permetta la resa di un sentimento puro, non calcolato o giudicato e «la realissima illusione di un patimento finalmente libero da costrizioni o sofferenze di sorta, anche in quanto capace di percepirsi e riconoscersi come tale in virtù di una semplice e per ciò stesso immediata esperienza di libertà».

Le pellicole sul cibo e sull’atto del mangiare Babettes gæstebud (1987) di Gabriel Axel e La grande bouffe (1973) di Marco Ferreri, per quanto muovano da prospettive differenti, permettono a Donà di strutturare una riflessione su quanto come spettatori – partecipi di una collettività eppure al tempo stesso soli in sala – ci si “rifugi” al cinema in uno spazio “separato” al pari dei personaggi del film di Axel (abitanti un paesino isolato) e quello di Ferreri (rinchiusi in una villa). «Ma ci separiamo dal mondo, per fare, sempre del medesimo mondo, qualcos’altro, e per fare di noi stessi altro da quel che siamo. Per ‘divorare’ la soglia che ci separa e distingue dal mondo».

Analizzando invece Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni, lo studioso argomenta come ad essere messo in scena dal regista sia in definitiva l’atto del fotografare come risposta all’insoddisfazione per quanto offre la vita. Nel ricorrere allo scatto il protagonista ignora cosa esso possa far emergere; la sua, in fin dei conti, sostiene Donà, è una fotografia che «non “rappresenta” e non “ripete” alcunché; ma “presenta”… sola mente». Il protagonista, al termine di quello che si struttura come un viaggio iniziatico, capisce che «malata non è tanto la realtà in ragione della sua insensatezza, quanto piuttosto la nostra pretesa di sostituire questa negatività (o insensatezza) con un altro positivo – che sarebbe solo da scoprire e mettere finalmente a fuoco… per liberarsi da quello che appare come un sempre meno sopportabile mal di vivere».

In conclusione, lo studioso argomenta come nella messa in scena dell’individuo di fronte alla Storia di violenza e di sopraffazione subita dai neri negli Stati Uniti, Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino in definitiva mostri come «l’assolutamente altro può anche presentarsi con un volto simile al nostro, mettendo in crisi il nostro esserci collocati da una parte ben precisa dell’opposizione assoluta; in genere quella dell’essere, ossia del bene», ed ogni volta che ci scagliamo contro un “altro”, lo scambiamo per un “altro assoluto”. «Mentre si tratta solamente di un altro “essere”». La forza icastica di questo film, sostiene Donà, è tale da farci capire che «parla di un reietto che non solo si libera dalla condizione di schiavitù e mostra a tutti noi spettatori come ci si possa liberare da una schiavitù che è sempre schiavitù anzitutto nei confronti della grande illusione, o dal grande fraintendimento che governa le nostre vite».

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Nessun governo è peggiore di chi lo ha votato… https://www.carmillaonline.com/2024/04/23/nessun-governo-e-peggiore-di-chi-lo-ha-votato/ Mon, 22 Apr 2024 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81997 di Carlo Modesti Pauer

Si discute da anni di una grave crisi della Democrazia e ancor più il dibattito è acceso da quando, attraverso la truffa elettorale ordita con una legge che trucca la realtà materiale, il governo del Paese è infine collassato negli artigli di un partitino personale di matrice neofascista, un aborto dello strappo a destra in risposta al fallimento del progetto (AN) ideato dal delfino del fascista Almirante (il quale nel 1987 aveva dichiarato “Siamo fascisti, siamo il fascismo in movimento, il fascismo non è il nostro passato ma il nostro futuro”). L’incauto segretario di AN [...]]]> di Carlo Modesti Pauer

Si discute da anni di una grave crisi della Democrazia e ancor più il dibattito è acceso da quando, attraverso la truffa elettorale ordita con una legge che trucca la realtà materiale, il governo del Paese è infine collassato negli artigli di un partitino personale di matrice neofascista, un aborto dello strappo a destra in risposta al fallimento del progetto (AN) ideato dal delfino del fascista Almirante (il quale nel 1987 aveva dichiarato “Siamo fascisti, siamo il fascismo in movimento, il fascismo non è il nostro passato ma il nostro futuro”). L’incauto segretario di AN osò sfidare (“Che fai, mi cacci?”) il potente imbonitore di Arcore – proprietario del partito “Tengo famiglia” – e per quella intimazione, divenne obiettivo delle bordate di vituperi scatenate dalla grancassa mediatica a libro paga del magnate (riferite per lo più alla vicenda di un appartamento a Montecarlo).Il programma di una “destra liberale” (sic!) naufragò sul dorso d’un “elefantino”, ammiccando al modello Repubblicano made in USA. Nulla di fatto e il tutto fu consegnato all’oblio.La base neofascista, che mai davvero aveva digerito la deriva “moderata” del segretario – omonimo di celebri tortellini in busta – si radunò in una cabina telefonica, guidata da un oscuro ex-democristiano mannaro, da un vecchio fascista collezionista di rottami del Ventennio e il consueto seguito di cascami nostalgici dell’orbace. L’astuto manipolo di residuati scippa l’incipit dell’inno nazionale e riattizzando la vecchia fiamma fonda il partito, piazzando al comando una piccola megalomane, mancata cabarettista e fanatica di romanzi fantasy, i suoi Bignami per l’avviamento alla pseudo-scienza politica. Nel volgere di dieci anni, l’orribile accozzaglia si ritrova al vertice del potere insieme ai devoti del dio Po guidati da Mr. Papeete e ai residui portaborse del defunto pregiudicato miliardario, già definito dal comico Grillo “la merda nel ventilatore”.”How the fuck did this happen?” (cit.).

Alle origini della democrazia

La distruzione del Giappone sconfitto nel suo sogno imperialista, completata con lo sterminio dei 200mila civili vaporizzati dalle atomiche di Truman, per le particolari condizioni storiche della politica e della cultura nipponica non fornì una nuova classe dirigente alla ricostruzione, tutt’altro. Come è stato notato dagli storici, le stanze del potere nel Giappone del dopoguerra si rivelano affollate di quelle stesse persone, criminali nazionalisti, che le frequentavano durante la guerra, le quali scoprirono che il loro già ben noto talento era ancora più apprezzato nel “nuovo” Giappone.Piegato e in macerie, il dissolto impero subì passivamente l’imposizione della democrazia e la dettatura della fondativa Costituzione da parte dell’occupante. Nella spartizione del Sol Levante, l’uso degli ordigni nucleari ancora tanto discusso appare invece limpido nella sua funzione: impedire un contributo essenziale dell’Armata Rossa nella vittoria. La scelta di Washington – favorita dall’improvvisa morte di Roosevelt più incline al dialogo con l’URSS – evitò con ogni probabilità la divisione del Giappone in due sfere d’influenza e quindi la creazione di una Repubblica popolare filosovietica come si ebbe in Germania. Il controllo pressoché totale del territorio fu perciò affidato al generale Douglas MacArthur, comandante in capo delle Forze alleate (ancora oggi le basi USA in Giappone sono 83 gestite da oltre 50mila soldati americani).

Se in Europa i due capi dell’Asse “Ro.Ber.To.” erano finiti uno suicida nel suo bunker e l’altro appeso a testa in giù (mentre il vile monarca responsabile del suo ingresso al potere nel 1922 aveva subdolamente abdicato guadagnandosi l’esilio dopo l’ignominiosa “fuga al sud”), nonostante le numerose sollecitazioni provenienti da più parti che reclamavano di processare Hirohito come criminale di guerra quale era, MacArthur tramò abilmente per salvare dalla forca il controverso imperatore e non solo; per le evidenti necessità della Guerra Fredda iniziata proprio con il lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, il generale rilasciò presto noti criminali di guerra di estrema destra e subito li ingaggiò, come Kishi Nobusuke che più tardi sarebbe diventato primo ministro.

In queste condizioni, MacArthur aveva ordinato al governo giapponese il compito di redigere una nuova costituzione che includesse un articolo “pacifista” di ripudio della guerra e un articolo che rendesse l’imperatore un simbolo dello stato. Quando la redazione della costituzione si concretizzò in una bozza che non conteneva nessuno dei due articoli, il generale ne prese in mano in prima persona la stesura, producendo una nuova bozza in una settimana. Il modello strutturale era quello britannico, perciò fu sostenuta la preservazione del sistema monarchico nel quale la forma democratica introdotta, permetteva un apparato istituzionale che avrebbe facilitato le politiche statunitensi di occupazione. Da allora, in effetti, il partito di destra governerà quasi ininterrottamente (da solo o in coalizioni sempre di destra) e sul Giappone in 80 anni mai davvero è “aleggiato lo spettro” del Socialismo.

In Italia, ex alleata di Germania e Giappone, la rapida sconfitta del delirio megalomane di Mussolini (Operazione Husky, luglio 1943) avrà una soluzione molto diversa esclusivamente per merito della Resistenza, organizzata dal CLN sorto all’indomani dell’8 settembre. Presieduto da Ivanoe Bonomi, il CLN – composto da azionisti, comunisti, democristiani, demolaburisti, liberali e socialisti – fu decisivo attraverso la guerriglia antifascista condotta dai partigiani per determinare l’insurrezione nazionale del 25 aprile, approdando così alla formazione del governo Parri (giugno – novembre 1945), il primo dell’Italia liberata dal nazifascismo. Sebbene l’ingerenza degli occupanti angloamericani fu durissima, ancorché addolcita dalle apparenze “amichevoli” abilmente allestite dalla propaganda alleata, sul piano costituzionale l’Italia non subirà la spregevole umiliazione imposta ai giapponesi (salvo l’art. 11, più ampie limitazioni sulla dotazione bellica offensiva) e la propria nuova Carta fondativa la scriverà autonomamente dopo aver scelto la Repubblica per via referendaria e contestualmente eletto un parlamento dotato di “potere costituente” (2 giugno 1946).

Come s’è detto per l’art. 11 imposto dai vincitori, che collocherà l’Italia nella cornice delle “tre costituzioni pacifiste” sorte dalla 2GM, c’è da ricordare un altro articolo, il famigerato n. 7, che costituirà un gravissimo vulnus alla sovranità piegando il Paese al “giogo clericale” (cit.). Tuttavia, l’architettura costituzionale, al netto delle critiche in punta di diritto, dell’ingerenza per l’art. 11 e del virus dell’art. 7, consegna alla neonata Repubblica un sistema democratico e un paradigma politico sostanzialmente aperto alle istanze del Socialismo, proprio per il contributo della rappresentanza dei due partiti di Nenni e Togliatti, insieme ai gruppi laici minori di sinistra, eletta dal “popolo sovrano” (art. 1).

I principi generali, politici, sociali, culturali, economici della Costituzione, poggeranno su fondamenta di cemento armato, le quali ebbero come plinti di riferimento: il sistema elettorale proporzionale; il bicameralismo perfetto; un bilanciamento dei tre poteri garantito dal Presidente della Repubblica.

Per questo suo essere “originalmente anomala” rispetto alle costituzioni tedesca e giapponese, quella italiana fu immediatamente oggetto di preoccupazione e attenzione da parte dell’imperialismo angloamericano che la bollò presto di “cripto-comunismo”. L’anomalia italiana, come s’è detto, stava nel crollo anticipato del regime (25 luglio ’43) rispetto alla fine di Berlino (maggio ’45) e Tokyo (agosto ’45), condizione che favorì l’immediata riorganizzazione dei partiti democratici soppressi dalle “leggi fascistissime” del ’25-26.

Quando si dice che l’Italia è nata dalla Resistenza e nutrita dal sangue dei Partigiani, si dice una VERITA’ inoppugnabile e significa esattamente questo: l’impegno dei patrioti italiani per impedire – come accadrà ai nostri due ex alleati – la totale ingerenza del vincitore sulla ricostruzione politica dello Stato.

Perciò, dopo il fortunoso arresto mentre fuggiva verso la Svizzera con l’amante di 30 anni più giovane, il CLN-AI ordina il processo e l’immediata esecuzione del criminale di Predappio: si doveva sottrarre la preda più ambita e contesa tra i servizi britannici e statunitensi.

L’attacco al cuore dello Stato

L’opzione del colpo di Stato in Italia, dato il suo “peso” strategico di “base USA nel Mediterraneo”, fu sostanzialmente un sanguinoso spauracchio agitato dalla manovalanza neofascista pilotata dai “servizi”, infatti, la pressione della minaccia costante aveva innanzitutto l’obiettivo d’indebolire le fondamenta democratiche del Paese e svuotare la Costituzione negli effetti in contrasto col paradigma economico dell’Impero.

Le putride bande nere, presenti e disponibili fin dall’immediato dopoguerra soprattutto grazie all’inconsistenza della pulizia dalla spazzatura umana erede del Regime fascista, praticarono attraverso lo stragismo a colpi di bombe, gli omicidi politici e le sanguinose provocazioni armate nelle piazze l’unico, vero terrorismo, operativo in Italia fin dalle origini repubblicane.

Fu, difatti, proprio il sorpasso social comunista (30%) sulla DC (20%) alle elezioni regionali siciliane nel ’47 a scatenare il primo avvertimento col massacro di Portella della Ginestra, durante la ritrovata festa del 1° maggio dello stesso anno (era la prima volta dopo la soppressione fascista). I mandanti che si servirono del bandito Giuliano, vollero letteralmente seminare la paura paralizzante tra gli strati sociali sensibili alle lotte contadine contro il latifondo e per l’occupazione delle terre incolte, poiché niente doveva accadere che potesse scardinare gli antichi assetti gerarchici della Sicilia tardo-feudale, dove l’inedito intreccio tra poteri locali (la mafia in guanti gialli) e neonato stato repubblicano sottostava inderogabilmente al vaglio e alla restrittiva sorveglianza del “padrone-liberatore” americano.

Come da copione, Giuliano fu ammazzato in circostanze “oscure” per evitare l’arresto da vivo ed eventuali rivelazioni; il braccio destro Gaspare Pisciotta, successivamente arrestato dal questore di Palermo, Carmelo Marzano, che in polemica per quanto fecero i carabinieri con Giuliano, disse “io i banditi li prendo vivi”, arrivò al processo e fu condannato all’ergastolo. Per quanto poi completamente scagionati dal tribunale, nel ’51 Pisciotta aveva fatto i nomi dei mandanti e, come risulta dal verbale del processo, a suo dire i fatti erano questi: “Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: il deputato DC Bernardo Mattarella, il principe Alliata, l’onorevole monarchico Marchesano e anche il signor Scelba. I primi tre si servivano di Geloso Cusumano come ambasciatore. Furono Marchesano, il principe Alliata, l’onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra. Prima del massacro incontrarono Giuliano”. Un depistaggio? Un complotto? Una verità talmente assurda da apparire falsa? Domande ancora oggetto di studio storico. Pisciotta fu recluso all’Ucciardone a scontare la pena, ma nel ’54 – per sicurezza – fu messo a tacere per sempre, con un cucchiaio di stricnina mescolato a “vitamine”. In un documento del 1953, il procuratore Scaglione aveva parlato apertamente di finalità anticomuniste della strage e di rapporti tra le forze dell’ordine e il banditismo. Pietro Scaglione, poi procuratore capo della Repubblica di Palermo, sarà infine assassinato da Cosa Nostra il 5 maggio del 1971.

Intanto, uscita dalla guerra l’Italia di De Gasperi ha a che fare con il Partito Comunista e il sindacato di sinistra più forti d’Europa e la sua polizia, sotto il controllo del ministro Scelba, spara e ammazza contadini, operai e studenti che hanno la colpa di voler vedere attuati i principi e i diritti costituzionali.

La violenza bruta per reprimere le manifestazioni, a Washington è affatto sufficiente. Mentre pubblicamente, per bocca dell’ambasciatrice a Roma, Claire B. Luce, la Casa Bianca chiede al governo di rendere illegale il PCI e De Gasperi – conscio del pericolo – rifiuta, a insaputa dello stesso Presidente del consiglio, la CIA consegna al SIFAR nel 1952 il Piano Demagnetize (lo stesso avviene con i servizi francesi – il PCF è fortissimo – ma il piano è denominato Cloven). Vi si legge tra l’altro: “L’obiettivo ultimo del piano è quello di ridurre la forza dei partiti comunisti, le loro risorse materiali, la loro influenza nei governi italiano e francese e in particolare nei sindacati, di modo da ridurre al massimo il pericolo che il comunismo possa trapiantarsi in Italia e in Francia, danneggiando gli interessi degli Stati Uniti nei due paesi… La limitazione del potere dei comunisti in Italia e in Francia è un obiettivo prioritario: esso deve essere raggiunto con qualsiasi mezzo… Del piano i governi italiano e francese non devono essere a conoscenza, essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale…”. Come si vede è tutto molto chiaro (“danneggiando gli INTERESSI degli Stati Uniti”) e suona agghiacciante, 70 anni dopo, la frase “deve essere raggiunto con qualsiasi mezzo”. Sono le basi di quella che sarà nota come Gladio e della “strategia della tensione”. Ma andiamo con ordine.

Nel testo del maggio ’52 si legge pure che il governo italiano avrebbe dovuto “apportare revisioni alla legge elettorale per diminuire la rappresentanza del PCI a tutti i livelli governativi”.

E cosa accade pochi mesi più tardi? Scelba, il manganellatore della DC, è il (titubante) relatore in Parlamento della legge 31 marzo 1953, n. 148, nota storicamente come “Legge truffa” (la prima di tante che aggrediranno la sempre più fragile democrazia italiana). In breve, si tratta della demolizione del proporzionale, come da desiderata USA per recidere le gambe delle sinistre, realizzando un sistema truccato con l’introduzione “magica” – in spregio alla matematica – di un premio di maggioranza consistente nell’assegnazione del 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse superato il 50% dei voti validi. Ovvero: paghi 50 mele, ne porti a casa 65. Un’oscenità.

I padri costituenti democratici del ’48, che al momento son tutti vivi, davanti a un golpe bianco (la legge fu approvata con un “inquieto” voto di fiducia e la discussione si tenne la Domenica delle Palme) tentano il tutto e per tutto. Per le elezioni politiche del 1953, Calamandrei e Parri danno vita a Unione Popolare (uscendo dal PSDI) e perfino i liberali Corvino e Nitti (in polemica col PLI) crearono Alleanza Democratica Nazionale. Insieme presero l’1% e il piano riuscì, perché il fronte dei truffatori arrivò al 49,8% mancando il “premio” per un soffio (53mila voti). Inoltre, il risultato della truffa comportò una sconfitta della DC che perse oltre l’8% di voti e un’avanzata del PCI e del PSI, con 35 seggi in più rispetto alle precedenti consultazioni.

La legge è abrogata il 31 luglio 1954.

L’attività contro la sovranità del popolo italiano, invece, non si ferma.

A questo punto, l’elenco di fatti e dei nomi che operano negli anni per limitare, soffocare, sopprimere, rovesciare, negare, la democrazia italiana è lungo e ben conosciuto, attraversato da una orribile scia di sangue innocente. Non lo riproponiamo qui, ne analizziamo gli snodi essenziali. È perciò necessario, spostare per un momento l’attenzione dal programma geo-politico dell’imperialismo USA alla revisione del modello economico.

Sul finire degli anni Sessanta, si afferma un indirizzo teorico del capitalismo che prevede l’archiviazione del pericolosissimo keynesismo – ritenuto anticamera della socialdemocrazia – a vantaggio di un neoliberismo aggressivo i cui nemici della divina “proprietà privata” sarebbero la mano pubblica e l’intervento dello Stato.

In Italia la questione è bruciante, poiché nonostante tutto le sinistre crescono nei consensi e il Paese diventa addirittura terreno di una rivolta generale ben più complessa che altrove. Il “Sessantotto” non si placa, nemmeno le cinque bombe del 12 dicembre 1969, il “volo” di Pinelli e la “belva umana” Valpreda, compiono il loro abietto dovere, anzi, saranno benzina sul fuoco.

A sinistra del PCI – che opera per conquistare il governo con le elezioni e perciò cerca un dialogo con la borghesia – si era aperta una voragine politica, colmata da organizzazioni rivoluzionarie poco inclini ai compromessi. All’inizio del decennio Settanta lo scenario politico è incandescente e il progetto neogollista, la ristrutturazione neocapitalista verso l’utopica “globalizzazione”, rischia di schiantarsi contro un’opposizione enorme, multiforme e durissima.

Intanto, dall’altra parte del Mondo, il Sudamerica è in subbuglio e a Washington – impantanata in Indocina e Medioriente – la preoccupazione è grande, perfino la Chiesa cattolica con la sua assurda “opzione dei poveri” (Medellin 1968) sta creando problemi insidiosi nel “cortile di casa” (cit. Roosevelt, 1904). Poi, in Cile accade l’incredibile: la vittoria politica di Allende ha l’ardire di mostrare la reale possibilità della via democratica al socialismo. L’intervento degli USA è immediato e con l’appoggio della CIA a un colpo di Stato, il Cile fu consegnato alle grinfie di un sanguinario macellaio fascista, obbediente alle direttive imperialiste ordite da Kissinger. Così, prima di dettare le regole globali, gli economisti angloamericani profeti della fede neoliberista poterono fare il rodaggio al loro infame paradigma nell’osceno laboratorio cileno.

Tornando in Europa, il paese più a rischio di un’altra “occasione cilena” – ben più influente strategicamente della lunghissima striscia di terra sudamericana – era proprio l’Italia, dove la presenza di un partito comunista in crescita di consenso, associato alla robusta organizzazione sindacale, avevano amplificato le crepe ontologiche nella DC al giogo di Washington. La componente “sociale” del cattolicesimo politico – spinta dal rinnovamento pastorale emerso dal Concilio Vaticano II – si proponeva, in quel primo decennio ’70, di rilanciare la soluzione strategica del centro-sinistra sperimentata dieci anni prima, che aveva visto l’ingresso (a caro prezzo) del PSI di Nenni in un governo guidato dal democristiano Aldo Moro, questa volta aprendo la porta per l’accesso nella “stanza dei bottoni” al PCI di Berlinguer.

Doppio colpo al cuore dello Stato

S’è visto che la repressione e le sconce manovre per impedire a metà del Paese di far parte del governo non vanno a buon fine, anzi, producono un effetto tale che all’interno del grande “movimento” a sinistra del PCI pronto all’ingresso nel “Palazzo”, si organizzano vari gruppi inizialmente orientati all’insurrezione o alla rivoluzione armata secondo strategie e tattiche provenienti da letture diverse di Marx, Lenin, Mao e altri teorici. Il più organizzato, radicale e determinato si rivelerà nel tempo quello delle Brigate Rosse che cominciano la loro avventura nell’aprile 1970, ma emergeranno decisamente nelle cronache nazionali il 3 marzo 1972, quando prelevano l’ingegner Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, di fronte alla fabbrica e lo fotografano con un cartello al collo, sul quale si leggeva: “Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato!”. Macchiarini è liberato meno di un’ora dopo.

Per la imponente complessità della Storia che si sta brevemente riassumendo, nel marzo 1978, il paradosso di due “attacchi al cuore dello Stato”, di segno completamente opposto, si ritroverà a occupare la scena politica nazionale e internazionale.

Le BR il 16 marzo rapiscono Aldo Moro per avviare una trattativa e ottenere il riconoscimento politico del partito armato secondo la loro strategia resa nota in otto anni di comunicati. Immediatamente, il fronte dell’altro attacco al cuore dello Stato (che abbiamo visto operare ininterrottamente “con ogni mezzo” dal ’47), si attiva per manovrare occultamente dall’esterno – al di sopra della sovranità nazionale – obbligando la DC, lacerata al suo interno, al rifiuto di ogni mediazione e dialogo, imponendo di fatto la morte del Presidente. Con ben altri obiettivi politici, senza volerlo i brigatisti determinano l’evolversi di uno scenario nel quale gli USA afferrano l’opportunità di evitare all’Italia un’eventuale soluzione cilena (magari con più appropriate caratteristiche locali). Moro, infatti, teorico della “strategia dell’attenzione” (1968) avrebbe traghettato al governo i comunisti (benché ormai “socialdemocratizzati” secondo le letture critiche alla sua sinistra) per via parlamentare, impedendo di fatto un’oliata realizzazione del piano economico neoliberista necessario alla loro sopravvivenza. Washington, uscita con le ossa rotte e l’ignominia mondiale dal Vietnam, in Europa vedeva gonfiarsi venti contestatari sempre più ostili, un sentimento antimperialista che aveva tra gli obiettivi il superamento del bipolarismo fra Est e Ovest; perciò, una svolta italiana come quella del cosiddetto “compromesso storico” sarebbe stata devastante o quantomeno dagli esiti imprevedibili, di certo sfavorevoli per il loro comando imperialista nella Guerra fredda. Va detto, che dall’altra parte, anche l’URSS di Brežnev non sembrava apprezzare le teorie dell’Eurocomunismo di Berlinguer, Marchais e Carrillo, ma ciò non è qui oggetto d’analisi poiché l’Italia era (è) nella NATO e non nel Patto di Varsavia.

Messe alle corde – nonostante il tentativo estremo di Moretti con una drammatica telefonata (30 aprile) alla famiglia Moro nella quale dice: “Il problema è politico, e a questo punto deve intervenire la DC. Abbiamo insistito moltissimo su questo, è l’unica maniera in cui si può arrivare a una trattativa. Se questo non avviene… solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore, preciso di Zaccagnini può modificare la situazione” – le BR decideranno (non senza tormento) di dare seguito alla sentenza.

Nel corso della seduta del 1° ottobre 1980 della prima Commissione Moro, la moglie, signora Eleonora, dichiarò che (probabilmente nel marzo ‘76) una persona disse a suo marito “o lei smette di fare questa cosa o lei la pagherà cara”. Già nel settembre del 1974, a un anno esatto dal golpe cileno, Kissinger avvertì Moro dei “pericoli” della politica di “compromesso”. L’eterogenesi dei fini consentì inaspettatamente di risolvere il problema dei “comunisti” al governo. Della possibile ucronia ci occuperemo in altra sede, nella realtà storica, durante i giorni del sequestro il PCI – nella speranza di confermare la totale affidabilità e la distanza dal comunismo rivoluzionario – si esibirà come il più granitico pilastro della “fermezza”, assai più inflessibile della stessa DC, dacché in fondo Moro non era un loro uomo. I democristiani, particolarmente in quanto cattolici, furono a vario titolo personale angosciati dalla decisione di sacrificare il loro presidente, tuttavia, gli ordini “atlantici” erano chiarissimi. Mai come in quei 55 giorni, la sovranità del popolo italiano – e dunque la Costituzione – fu calpestata, negata e annientata dal dominio straniero.

La buia parabola degli anni Ottanta e il crollo fin de siècle

Alle elezioni politiche del giugno 1979, la DC ottiene un risultato significativo (38,3%) mentre il PCI, che nel 1976 aveva toccato il suo massimo storico (34,3%) e raggiunto la conquista del Comune di Roma (col sindaco Argan), arretra (31,4%). L’VIII legislatura vedrà la formazione di sei governi e tra essi per la prima volta, Pertini incaricherà un presidente del consiglio non democristiano, il repubblicano Spadolini (1981).

La sconfitta di una prospettiva diversa, quale che sia il punto di vista, si palesa e diventa palpabile a partire dalle elezioni del 1983 quando il PCI crolla al 22,87%, la DC “tiene” (36,7%) e si afferma decisamente il PSI di Craxi (12,8%) che raggiungerà il suo massimo nell’87 con il 14,2%. Nel 1984 muore improvvisamente Berlinguer, mentre la svolta a destra del partito capeggiato da Craxi lo ha condotto alla guida del governo.

La crisi del Partito Comunista (ormai tale solo nominalmente) è la cartina di tornasole del collasso di una cultura che si sgretola sotto la pressione della globalizzazione. In uno scritto sul tema, del 1993, Primo Moroni riportava il ricordo di una “frase esagerata, ma significativa” che nemmeno dieci anni prima aveva ascoltato da un vecchio lavoratore: “Siamo come gli ebrei; ora ci aspetta la ‘soluzione finale’”.

In USA e UK sono al potere le destre più spietate del dopoguerra (Reagan e Thatcher) e hanno il mandato per l’annientamento definitivo di ogni orizzonte socialista e qualsiasi prospettiva di democrazia radicale che sia d’intralcio al trionfo del Capitale “privato”. L’inquilina di Downing Street, davanti alla contestazione delle violente misure impopolari, dirà “le persone si renderanno conto che non esiste nessuna reale alternativa”.

Così, come l’improvvisa morte del geniale Sergej Korolëv il 14 gennaio 1966 scompaginerà il sicuramente vincente programma sovietico di allunaggio, favorendo gli arretrati USA che riusciranno fortunosamente ad avere la meglio nel luglio ’69, esattamente vent’anni dopo, la catastrofe di Chernobyl del 26 aprile 1986 sarà il colpo di grazia per dissanguare l’economia dell’URSS impegnata nel complesso tentativo di transizione guidato da Michail Gorbačëv. Tre anni dopo, la Germania Est sblocca le frontiere di Berlino e il decennio finale del XX secolo si apre con la fine della Guerra fredda e la fortunata dichiarazione – priva di qualunque fondamento – che l’Occidente capitalista al comando degli USA avrebbe vinto definitivamente. Era La fine della storia, come recitava il titolo del citatissimo saggio pubblicato da Fukuyama nel ’92 (poi nel 2016, l’Autore sarà costretto ad ammettere onestamente il dispiegarsi di una crisi dell’ordine mondiale talmente grave che “potrebbe essere grande quanto il collasso sovietico”).

Con questa formula escatologica si riprende, in forme moderne, esattamente quanto sostenuto dalla teologia cristiana a partire dal V secolo, ovvero che la venuta del Cristo e la Rivelazione erano definitive in accordo con l’Apocalisse di Giovanni per il quale Cristo prendeva il titolo di Α (alfa) e Ω (omega); dove la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco simboleggiano inizio e fine. Dio incarnato in un uomo aveva offerto la Verità assoluta, altro non c’era da conoscere. Ora, alle soglie del 2000, giungeva a compimento la teologia economica concepita nell’evoluzione di quel paradigma occidentale, affermando il medesimo concetto di verità ma, il nuovo dio è il $, la sua Chiesa, Wall Street. L’ultima Santa Alleanza.

In Italia, il crollo del Muro e la dissoluzione dell’URSS hanno l’effetto di un temporaneo allentamento del controllo USA. La presidenza Bush Sr. è impegnata sia da una crisi economica interna, sia dall’intervento in Iraq e ciò condurrà alla sua sconfitta nel novembre 1992 (Clinton). Intanto, alcuni mesi prima, a Milano era stato arrestato il socialista Mario Chiesa e il suo capo, in campagna elettorale per le politiche di aprile, aveva dichiarato alla stampa il 15 febbraio che si trattava di un “mariuolo isolato”.

Alle elezioni, la DC crolla al 28%, il PCI – che ha gettato il bambino con l’acqua sporca – in pieno delirio americanofilo si è trasformato in Partito Democratico della Sinistra (PDS) e racimola il 16%, i “mariuoli” – essendo trascorsi appena due mesi dall’arresto di Chiesa – tengono, portando a casa un 13,6%. In realtà, tutto sta per franare.

Al Quirinale, dopo l’uscita di scena del “picconatore” Kossiga, autore di un messaggio alle Camere (che l’amico Andreotti – presidente del consiglio – rifiutò di controfirmare) dove in gloria della “governabilità” invocava la necessità di una nuova Assemblea costituente, il Parlamento del ’92 uscito dalle politiche di aprile elegge a maggio il democristiano, ex magistrato, e al momento presidente della Camera O.L. Scalfaro. Kossiga avrebbe terminato il mandato a luglio ma a seguito della batosta presa dal suo partito decide di anticipare la fine del suo settennato, caratterizzato nell’ultimo periodo – post-Guerra fredda – da un interventismo inconsueto attraverso dichiarazioni sempre più esplicite a favore di una svolta presidenzialista del sistema politico italiano, caldeggiando vieppiù una riforma elettorale che abolisse il proporzionale e adottasse il modello maggioritario. Il nome di Scalfaro al Quirinale s’impone improvviso durante una complicata elezione cominciata il 13 maggio. Lo scontro è tra Forlani (segretario Dc) e Andreotti. Craxi sarebbe tornato a Palazzo Chigi e il “CAF” al potere. Il conflitto interno alla DC vorrebbe puntare su Forlani ma questi finisce bruciato e si devia su Vassalli, il quale però, cade il 22 maggio sotto i colpi dei franchi tiratori così l’Arnaldo, ormai annientato, poche ore dopo si dimette dalla segreteria di Piazza del Gesù. La direzione del 25 maggio sarebbe quella di convergere, caduta la F, sulla A del CAF, il piano di Belzebù sembra riuscito, è a un passo dal Colle. È l’uomo di cui Moro prigioniero scrisse: “Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita”, ma il diavolo fa le pentole…e al quindicesimo scrutinio, giunge da Capaci la notizia del massacro. Andreotti diventa impresentabile, tre mesi prima gli avevano ammazzato Salvo Lima, suo referente mafioso a Palermo. Si deve giocare la carta della seconda o terza carica dello Stato. Il Presidente del Senato, Spadolini, odiatissimo da Craxi è escluso, non resta che quello della Camera e alla fine, dopo velocissime consultazioni nei corridoi si torna al voto, anche Occhetto ha dato il via libera per Scalfaro: 672 voti sui 508 richiesti. E sarà Scalfaro a dire qualche giorno dopo NO a Craxi per la terza volta sulla Poltrona del Governo dopo essere stato “fottuto” da De Mita nel 1987. Il 28 giugno Amato giura a capo del quarantanovesimo esecutivo della Repubblica Italiana. Ma perché Scalfaro negò l’incarico al segretario del PSI? Le tessere del domino dopo la prima (Mario Chiesa) sarebbero cadute l’una addosso all’altra e il Presidente della Repubblica fu messo a conoscenza che l’ultima era proprio Craxi. Infatti, riceverà l’avviso di garanzia il 15 dicembre 1992.

Autodissolto il PCI, trascinati PSI e DC in tribunale (insieme ai sodali PSDI, PLI e PRI), si parla di “fine della prima Repubblica” ed è la ghiotta occasione per fare carne di porco dell’assetto democratico costituzionale emerso dal referendum e dalla costituente del ’46.

Il delitto perfetto

Nell’aprile del ’93 gli italiani votano un pacchetto di otto referendum, tra i quali c’è la proposta di consentire il maggioritario al Senato. Dicono di sì l’87%, solo il 17% difende il sistema vigente. È la fine del proporzionale consacrata dalla nuova legge elettorale presentata da Sergio Mattarella. Essa prevedeva che il 75 per cento dei seggi di Camera e Senato fosse assegnato con un sistema maggioritario a turno unico in collegi uninominali, mentre il restante 25 per cento doveva essere attribuito attraverso un complicatissimo meccanismo proporzionale, incomprensibile al 95% degli elettori. L’assegnazione dei seggi al Senato era regionale, mentre alla Camera nazionale con sbarramento al 4%.

Noto volgarmente come Mattarellum, il sistema intendeva forzare la politica alla mitologia del “bipolarismo”, obbligando i partiti a formare coalizioni che fossero abbastanza forti da eleggere i propri candidati nei collegi uninominali. Oltre alla soppressione dispotica delle idee di minoranza, sicché i piccoli partiti si trovano privi dell’autonomia e condannati – per sopravvivere – all’annacquamento in coalizioni, si era pure avviato un drammatico cortocircuito costituzionale che avrebbe sabotato l’immaginario dell’elettorato, trasfigurando il discorso pubblico sul significato del voto come rappresentanza nel quadro della pratica democratica.

Difatti, mentre vigeva ancora il sistema parlamentare bicamerale, con le maggioranze che si formano alla Camera e al Senato, l’obbligo di accordi preventivi simulava l’osceno spettacolo di un governo votato direttamente dagli elettori. Inoltre, con l’irruzione in scena per evitare galera e bancarotta del “più grande piazzista d’Italia”, come lo definì da destra lo stesso Montanelli, alla turpe leggenda del “bipolarismo” si aggiunse l’abietta menzogna del “candidato premier”, permettendo l’inquinamento definitivo della politica democratica con un’iniezione tossica di pseudo-presidenzialismo che spianava la strada alla seduzione dell’uomo forte, al mito dell’unto, rianimando tanto spudoratamente quanto esplicitamente l’orrore messo in scena dal megalomane di Predappio all’inizio del Novecento.

Il delitto perfetto era compiuto e il mandante veniva da molto lontano, affondando convenzionalmente le radici nel famigerato rapporto (poi divenuto un libro) pubblicato nel 1975 con il titolo “The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission” (scritto a sei mani da M. Crozier, S. Huntington e J. Watanuki). Tradotto in italiano (1977), il testo ostentava la prefazione di Gianni Agnelli nella quale il tema della ricerca era calato nello specifico nazionale e il padrone della FIAT scriveva senza alcun imbarazzo che “la caratteristica principale italiana è la mancanza di una vera opposizione e la poca autorità delle istituzioni di governo”. Lasciamo all’immaginazione del lettore individuare la natura dell’idea di “opposizione” e “autorità” dell’infido Avvocato, il quale sottolineava poi, che i tre autori “hanno parlato di crisi della democrazia in termini di governabilità del sistema democratico”. Come si capisce fin dal titolo, la parola – letteralmente magica – che irrompe nel discorso politico è “governabilità” e darà linfa a una vera e propria mistica in virtù del suo significato trascendentale, diventando il piede di porco con cui scardinare la democrazia. Nel testo del ’75, infatti, l’argomento centrale individuato dai subdoli studiosi a libro paga di Wall Street è “l’eccesso di democrazia” che attraverso un’opportuna propaganda penetra nel senso comune mimetizzato nel “tarlo” della governabilità.

Scritto probabilmente – e affatto casualmente – tra il ‘76 e il ’77, Il piano di rinascita democratica sarà scoperto nel luglio del 1981 in un doppiofondo d’una valigia della figlia di Licio Gelli, noto “venerabile” della loggia massonica P2 (dove P stava per “propaganda”). Il tema della governabilità era l’impalcatura in filigrana del disegno politico sovversivo pidduista, di cui un elenco per punti proponeva rigorosamente la soluzione all’eccesso di democrazia attraverso interventi “riformatori” nella direzione di un “autoritarismo legale” (per avere un’idea, oggi si può guardare all’Ungheria di Orbán, da egli stesso definita “democrazia illiberale”). Delle tante linee guida per i diversi affiliati, qui interessa segnalare che “Il Piano” chiedeva ai politici iscritti di attivarsi per: il bipolarismo, la fine del bicameralismo perfetto, una riforma elettorale in senso uninominale e la riduzione del numero dei parlamentari.

A questo punto, giova una breve parentesi per ricordare i componenti del comitato di crisi istituito da Kossiga all’indomani del rapimento di Moro nel marzo ’78: Federico Umberto D’Amato, “la spia intoccabile”, già capo del disciolto ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno (tessera numero 554); Giulio Grassini, capo del Sisde (tessera numero 1620); Giuseppe Santovito, capo del Sismi (tessera numero 1630); Walter Pelosi capo del Cesis (tessera numero 754); il generale Raffaele Giudice, comandante generale della Guardia di Finanza (tessera 535); il generale Donato Lo Prete, Guardia di Finanza (tessera 1600); l’ammiraglio Giovanni Torrisi, capo di Stato maggiore della Marina (tessera numero 631); il colonnello Giuseppe Siracusano (tessera numero 1607); il prefetto Mario Semprini (tessera numero 1637); il professore criminologo Franco Ferracuti (tessera 2137), agente della Cia e consulente personale di Kossiga; il colonnello Pietro Musumeci dell’Arma dei Carabinieri, vice capo del Sismi (tessera 487); infine, Steve Pieczenik, funzionario della sezione antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano, uomo di fiducia di Kissinger inviato per insegnare agli italiani come NON si tratta con i comunisti.

Le posizioni che criticavano i “meccanismi compromissori” e che vedevano il Parlamento come un ostacolo alla decisione politica, iniziarono a farsi strada sempre più a livello istituzionale e sfociarono rapidamente, già nel 1983, nell’istituzione formale della prima Commissione bicamerale per le riforme, poi nota come Commissione Bozzi. Sullo sfondo, la proposta di una “grande riforma” costituzionale avanzata dal PSI per voce del segretario Craxi, volta a modificare la forma di governo nell’ottica del rafforzamento dell’esecutivo. Numerose altre proposte si sono poi succedute e tutte hanno, a grandi linee, sempre inteso dare risposta al problema della governabilità, elevando ad assioma l’idea per la quale nella Costituzione vi sarebbero controlli e bilanciamenti che atrofizzano i poteri del governo.

Sotto il totem della governabilità, si annienta la polifonia delle idee come motore di crescita di una comunità che si vorrebbe vedere nella pienezza della complessità, rappresentata in Parlamento. Lo scopo della “parola magica” è azzerare il dibattito e il conflitto, trasformando le elezioni nell’osceno, vuoto rito di stabilire chi ha vinto la sera stessa del voto e non invece quello di comporre prima assemblee rappresentative di tutti e consentire dopo alle diverse forze politiche di confrontarsi per stabilire le alleanze adatte per governare al meglio. Esattamente il contrario dell’idea di “chi vince prende tutto”.

Giunti al capolinea, nel corso degli anni 2000, il battage della stampa fa credere al popolo che i crimini del neoliberismo, le nefandezze dell’oligarchia al comando dell’imperialismo USA, la paralisi della politica interna, il debito colossale del Paese, la corruzione, il distacco abissale del potere dai cittadini, dei rappresentanti dai rappresentati, siano colpa del sistema elettorale.

Nel corso di questi tre decenni, le “bicamerali”, gli assalti alla Costituzione, i tentativi di revisione che si sono susseguiti hanno fortuitamente mancato il bersaglio, salvo lo scempio della “riforma del titolo V”; mentre orrendamente fallimentari si sono rivelate, non stupendo alcuno, le diverse leggi elettorali. Fino all’abisso del raccapricciante sistema vigente che insieme alla scemenza populista della riduzione del numero dei parlamentari e alla perversa abolizione delle preferenze, ha consentito il lugubre, minaccioso, abominevole scenario attuale.

L’affluenza del 25 settembre per le elezioni politiche ha toccato il suo punto più basso. Dei 50ml aventi diritto hanno raggiunto le urne in 32ml. Il minimo storico dal 1946 (anche record negativo europeo), un 63% che impressiona se confrontato con gli anni ’50, quando alle politiche si sfiorava il 95%. Anni durante i quali per gli emigranti, i fuori sede, gli invalidi, gli anziani, gli ammalati, era ben più difficile andare a votare. Il che, se ce ne fosse bisogno, svuota di senso le ignobili capriole argomentative dei pennivendoli di regime che hanno imperversato su stampa e tv con l’intento di occultare o negare la realtà fattuale. La catastrofe culturale, tra le infinte vittime, ha travolto il nemico più irriducibile: la matematica. Facendone un’opinione come il resto, nell’epoca che è stata definita della post-verità.

Il partito più votato ha ottenuto 7,3 ml di preferenze che sulla base dell’intero corpo elettorale significa il 14% ma con l’artificio del solo conteggio dei voti espressi ottiene un 26%. Unitamente ai due “alleati”, il fronte nero consegue (sempre sulla base dei soli votanti) il 44% che per magia (il cd. Rosatellum) diventa 59%. Sull’altro fronte, rigorosamente in ordine sparso, dunque una somma teorica delle preferenze, si avrebbe un 48% (il cd. “campo largo”). Ragionando in linea teorica, con il “vecchio” sistema proporzionale il primo partito (in questo caso i neofascisti di Colle Oppio) dovrebbe essere incaricato dal Presidente della Repubblica di trovare una maggioranza nell’arcipelago nero che però non avrebbe (44%, 12ml); la mano passerebbe quindi ad un altro esploratore, il quale potrebbe magari unire – sempre sul piano dell’astrazione prevista dai Costituenti – il 48% (13,5ml) e provare a formare un governo, essendo la Repubblica ancora “parlamentare”. Per aggirare la complessità della Politica con la letale menzogna della “governabilità”, i partiti – assetati di potere e via via sempre più lontani dalla realtà, inginocchiati agli ordini dell’Impero – hanno avviato, appunto trent’anni or sono, le pratiche di smantellamento della democrazia costituzionale sorta dagli orrori e le macerie del fascismo.

Accade così, che con soli 7,3 ml di voti Calimera ottiene 119 seggi alla Camera (su 400) e 65 al Senato (su 200), grazie alla beffa della stolida riduzione della rappresentanza introdotta dal taglio dei parlamentari. Unendo i restanti 4,7 ml equamente divisi tra i due alleati si arriva a 235\400 scranni alla Camera e 115\200 al Senato. In pieno delirio di onnipotenza, con il 14% di rappresentanza reale, la saltimbanca a capo del governo delle menzogne recita la sua volgare pantomima, sbraita, gesticola, minaccia, pontifica di “patria” e “nazione” a nome “degli italiani”, dei quali però – oggettivamente – l’86% non l’ha direttamente votata e il 72%, cioè un’enorme maggioranza effettiva del corpo elettorale nulla condivide della sua politica criminale. Del resto, il primo partito da tempo è quello eterogeneo dell’astensione ormai oscillante tra il 40 e il 50 percento con picchi locali oltre il 60%. Tuttavia, è esattamente ciò che si prefigurava 70 anni fa.

A dare lezioni di democrazia per “correggere” le storture costituzionali della provincia italiana, sedeva in cattedra un Paese che praticava la voter suppression e allo stesso tempo eleggeva un solo uomo al comando con un sistema elettorale raccapricciante. Da un lato, si impediva (e si impedisce) alle minoranze con mezzi subdoli i più diversi (su base razziale ed economica) di accedere al voto; dall’altro – com’è oggi ben noto – il potentissimo Presidente può essere eletto perdendo, cioè ottenendo meno voti reali dello “sconfitto” (il recente caso Trump vs Clinton H.). In sostanza, siccome è previsto che ciascuno Stato federale esprima due senatori indipendentemente dalla sua popolazione, accade l’incredibile: i 40 milioni di cittadini della California “pesano” allo stesso modo dei 560.000 cittadini del Wyoming; dunque, due senatori californiani democratici sostenuti da 20 milioni di elettori ciascuno, hanno lo stesso effetto di rappresentanza dei due senatori repubblicani dello staterello con il Parco di Yoghi e Bubu, votati da 260mila elettori ciascuno. Curiosamente, il beffardo motto del Wyoming è “Equal Rights”…

In Italia, l’effetto della legge ideata dai geni imperituri del PD per annientare il M5S, s’è visto che – come la fata di Cenerentola – trucca la zucca della minoranza in carrozzone di maggioranza; mentre la voter suppression prende corpo in varie forme: nell’esclusione dei potenziali elettori della cd. “sinistra radicale”; nella demotivazione degli oppressi, degli sfruttati, dei poveracci, di molti giovani disillusi e di coloro che nel silenzio assenso galleggiano come sugheri in balia delle onde convinti che non vi siano differenze tra i due blocchi di potere. Su tutto, aleggia la metafisica neoplatonica del “centro”.

Espulsa una gran parte dell’elettorato, la minuscola minoranza si erge a maggioranza muscolare fino a sostenere senza pudore la menzogna personale definitiva “io rappresento gli italiani”.

La Democrazia con tutti i limiti non oggetto della presente discussione, è svuotata, ridotta a un lacero sacco floscio da riempire alla bisogna con l’aria fritta della demagogia degli imbonitori dei baracconi nelle fiere di paese, dei ciarlatani girovaghi del Far West spacciatori dell’elisir di lunga vita. A questo è svilito il confronto politico dei partiti nel dibattito elettorale: uno spettacolo dominato e condotto da professionisti della propaganda, corifei della menzogna, periti della manipolazione che si esibiscono su copione dove le questioni apparentemente discusse sono decise altrove dalle élite rappresentative – quasi esclusivamente – di precisi interessi economici in totale opposizione alla Res publica, sempre più disumani.

Sono stati versati fiumi d’inchiostro sul problema del rapporto tra democrazia e capitalismo, ora le diverse posizioni teoriche sono tacitate dalla prova dei fatti e l’ago della bilancia non mente, il divorzio nel matrimonio forzato tra sovranità popolare e Capitale è compiuto.

Intanto, il fallimento globale dell’impero allo sbando, ha dato prova di sé con l’incredibile tentativo di insurrezione del 6 gennaio 2021, quando branchi di “trumpiani” hanno preso d’assalto il Campidoglio degli Stati Uniti a Washington. Quello che fino a poco tempo prima sarebbe stato considerato materia per un grottesco b-movie, diventava evidente realtà in diretta mondiale su ogni media. Ma già l’11 settembre la macchina mitologica nordamericana era letteralmente crollata sotto i colpi del micidiale contro-spettacolo messo in atto da Al-Qāʿida, capace di mostrare la vulnerabilità e la fragilità dei “padroni del Mondo”.

Fondati sulla leggenda dei pionieri che costruiscono la nazione delle “opportunità” (American dream), supportati dalla favola del Manifest destiny e imbellettati dalla fantasticheria dell’American way of life, gli Stati Uniti sono un gigantesco ossimoro. Il genocidio dei nativi, l’arricchimento originario realizzato con il lavoro “gratuito” di milioni di schiavi neri, la violenza armata alla base della politica internazionale e una guerra civile dell’altro ieri, brace ardente sotto la cenere, sono la coscienza nera di un impero nelle mani di un’oligarchia sovvenzionata dalle multinazionali, le banche d’affari e la finanza che hanno incatenato il sistema culturale all’impossibilità di dire la verità, ovvero il dover riconoscere e ammettere la catastrofica, irrazionale ideologia della “crescita infinita”, imboccando la via dell’Armageddon.

 

 

 

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Tutto il mondo è Palestina. Un’intervista su resistenza, Asia Occidentale e dintorni. https://www.carmillaonline.com/2024/04/22/82221/ Sun, 21 Apr 2024 22:20:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82221 di Jack Orlando

A sei mesi dal 7 ottobre, tra resistenza, genocidio ed escalation internazionali, la Palestina si conferma non solo uno dei più importanti nodi strategici della questione mediorientale, ma un prisma attraverso cui è possibile vedere un mondo che va delineandosi. Un mondo dove sempre meno contano le parole e le intuizioni europee. Ci sembra necessario quindi provare ad assumere punti di vista altri, in grado di superare schemi arrugginiti, e per farlo crediamo che il metodo migliore sia confrontarsi con chi, da fuori ed oltre noi, si trova ad affrontare gli stessi temi con occhi diversi. [...]]]> di Jack Orlando

A sei mesi dal 7 ottobre, tra resistenza, genocidio ed escalation internazionali, la Palestina si conferma non solo uno dei più importanti nodi strategici della questione mediorientale, ma un prisma attraverso cui è possibile vedere un mondo che va delineandosi. Un mondo dove sempre meno contano le parole e le intuizioni europee.
Ci sembra necessario quindi provare ad assumere punti di vista altri, in grado di superare schemi arrugginiti, e per farlo crediamo che il metodo migliore sia confrontarsi con chi, da fuori ed oltre noi, si trova ad affrontare gli stessi temi con occhi diversi.
Quella che segue è una lunga chiacchierata con Silvano Falessi, militante di lungo corso e partecipante della Global Campaign To Return To Palestine (qui).
Una lega internazionale animata sia da singoli che organizzazioni, partecipata da oltre ottanta paesi nel mondo, il cui obbiettivo è quello di fornire supporto alla causa palestinese, seguirne e divulgarne gli sviluppi ma, soprattutto, è uno spazio di confronto e approfondimento tra soggetti estremamente eterogenei in grado di sviluppare posizioni condivise pur nelle differenze specifiche.
L’ultima conferenza internazionale della Campagna si è tenuta a Pretoria, Sudafrica, nello scorso dicembre, poche settimane prima che la diplomazia sudafricana accusasse pubblicamente Israele di genocidio, portandolo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia.

Per cominciare vorrei chiederti, dal punto di vista di un’organizzazione internazionale, come valuti lo scenario in atto in Palestina e soprattutto le sue implicazioni a livello internazionale?

Anzitutto vorrei partire dalla “Giornata della Terra” del 30 marzo che, nel suo quarantottesimo anniversario, si è intitolata “Tutto il mondo è Palestina”. Questo già un po’ risponde alla domanda: quello che sta avvenendo a Gaza non è solo un fatto relativo alla Palestina e ai palestinesi ma un evento che riguarda tutto il mondo.
Gli avanzamenti e gli arretramenti che si determineranno in questo momento saranno degli sviluppi di portata globale; non è semplicemente uno scontro tra colonizzati e colonizzatori. Dentro c’è un simbolismo in cui tutti ormai, data l’ampiezza la durata dello scontro, si identificano in un modo o nell’altro.
E tutti in questo scontro, non identificano soltanto il sionismo di insediamento israeliano come nemico, ma il sionismo internazionale, ossia quello che è la sua forma generale, il suo retroterra strategico, ossia il mondo occidentale e in particolar modo le sue istituzioni.
In primis la NATO e l’Unione Europea, che costituiscono la base materiale oltre che culturale e politica della dell’azione sionista anche oltre la Palestina.
Non a caso lo scontro con il sionismo, inteso come politica d’occupazione coloniale e apartheid, non riguarda solo la Palestina ma tutte quelle parti del mondo in cui un meccanismo del genere si è determinato.
Basti solo pensare che nell’Asia Occidentale, quello che noi attualmente chiamiamo in maniera eurocentrica Medio Oriente, l’entità sionista non occupa solo la Palestina ma anche parti del Libano e della Siria; la NATO a sua volta controlla militarmente porzioni di Siria e Iraq.
Per cui è evidente come sia in atto una dinamica di ampia portata in cui si identifica un po’ tutta la quella parte del pianeta che, in un modo nell’altro, noi potremmo definire extra occidentale; ma in particolar modo per quello che oggi viene definito come il Sud Globale, quell’umanità che ha subito secoli di colonizzazione da parte delle potenze occidentali. Il simbolismo e la rilevanza politica dello scontro in atto sono racchiusi in questo elemento comune.

Credo infatti che sia molto importante evidenziare un aspetto di ciò che dici, ossia la proiezione del sionismo, il fatto che non si limiti semplicemente al colonialismo di insediamento nella Palestina Storica ma si estende agendo su tutto il territorio circostante; c’è quindi una politica di aggressione imperiale rispetto a tutti i paesi della regione…

Se ci pensiamo bene, questa proiezione è congenita nel sionismo perché è nato nelle cancellerie europee, in particolar modo nell’Impero britannico (ad esempio con la Dichiarazione di Balfour e le promesse a Rothschild) a cui serviva sul momento come testa di ponte nella regione.
Poi è diventato effettivamente operativo nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il processo di decolonizzazione formale è iniziato a procedere velocemente; di fronte alla quale si è pensato di sostituire il colonialismo formale con quello sostanziale della Palestina, ma anche con una proiezione “informale” del neocolonialismo sul territorio mediorientale.
Non a caso “Israele” è un partner della NATO, anche se non ufficialmente per non disturbare una parte di interlocutori internazionali, ma “Israele” in quanto tale è inserita nel dispositivo politico unitario della NATO a tutti gli effetti; ne è anzi uno degli attori principali di questa proiezione.
In questo senso è interessante analizzare i concetti di avanzamento e arretramento in termini generali: alla fine di quest’ultimo scontro le idee di vittoria e di sconfitta non potranno essere valutate per come le intendiamo classicamente, piuttosto dovranno essere intese come un processo di arretramento o avanzamento a livello non solo specifico, ma internazionale.
In questo senso se perde l’entità sionista sarà un’avanzata non solo della Resistenza arabo-palestinese ma di tutto il Sud globale.
Se invece si avrà un prevalere delle istanze sioniste, questo in realtà non sarà neanche percepito come un arretramento; perché di fatto dal 7 ottobre si è dato un passaggio che già ha determinato un avanzamento assoluto non più negabile, che significa innanzitutto che la proiezione imperial-sionista sull’area non è più un fatto ineludibile, non c’è più quella invincibilità, quell’impossibilità di scontrarsi con la sua forza.
Questo non è un dato tattico ma strategico a cui bisogna aggiungere che, dopo oltre sei mesi, la Resistenza palestinese sia ancora in grado di reggere l’onda d’urto fenomenale dell’entità sionista.
Noi oggi parliamo di genocidio e non c’è onda d’urto più potente di un di genocidio. Il fatto che la Resistenza ancora sia in piedi significa che gode dell’appoggio della maggior parte della popolazione palestinese, questo anche è un risultato strategico che nessuno può negare.
L’altro aspetto di avanzamento collettivo è che si è ristabilita, dal 7 Ottobre in poi, la questione palestinese non più come una questione “identitaria” ma una questione internazionalista.
Perché nello scontro con l’entità sionista non sono coinvolti direttamente solo i palestinesi ma molti altri attori: la Resistenza libanese, quella irachena, gli yemeniti, che erano i paria del mondo nel paese più povero dell’Asia occidentale, che tuttora tengono testa a una coalizione internazionale e hanno interrotto uno dei canali di transito commerciale più importanti del mondo. In questo senso si dimostra una composizione di quella parte di mondo arabo e islamico che prima non era così evidente. Quello che alcuni definiscono l’Asse della Resistenza e che emerge rafforzato.

A livello macroscopico, nello scacchiere che definiamo Sud globale ci sono tutta una serie di attori estremamente attivi, anche se non interessati direttamente dalle dinamiche regionali in senso stretto; penso ad esempio al Sudafrica, al Brasile di Lula, l’Irlanda o anche l’Indonesia. Possiamo dire che si stiano schierando al fianco della Palestina anche per ridefinire proprio questo quadro di rapporti tra Sud e Nord globale?
Il fatto che l’ONU sia uno dei terreni di scontro di questa contesa sembra significativo perché da un lato abbiamo chi ha costruito quest’ordine, cioè il mondo occidentale, che ora cerca di svincolarsene sentendolo troppo stretto, mentre dall’altro troviamo invece tutti gli altri paesi che sono entrati in seconda battuta, spesso in posizione subalterna anche dentro le Nazioni Unite, ma che usano proprio quell’organismo per far valere le proprie ragioni, rendendolo un terreno di contesa.

Sì, in questo senso forse sarebbe più corretto dire che quello che sta avvenendo in particolare in Palestina, ma in realtà su tutta l’Asia Occidentale, è un’occasione per il Sud del mondo per riequilibrare il proprio rapporto con una buona parte del mondo occidentale, quello a cui è legata una matrice storica di sopraffazione e colonialismo.
Si potrebbe parlare anche della Cina e dei BRICS, ma il problema non è quello. Piuttosto c’è da chiedersi com’è che la parte più povera del mondo vive le contraddizioni internazionali di una fase storica che dura dalle colonie: cinque secoli in cui il Sud del mondo ha sempre subita questa sopraffazione da parte occidentale; ecco che questa è vista come l’occasione per riequilibrare i rapporti.
C’è tutta una parte del mondo africano che sta sfruttando l’occasione per regolare i suoi conti in sospeso con la secolare sopraffazione europea, non solo il Sudafrica con la sua proattività, con il ruolo di paese più forte del continente, sia economicamente e politicamente sia storicamente, essendo la nazione dell’Apartheid e della vittoria su un meccanismo segregazionista che è molto assimilabile ai dispositivi di governo (sionista) della Palestina.
Ma se parliamo di tutto quello che sta avvenendo nell’Africa occidentale francofona, dal Mali al Niger fino alle elezioni in Senegal, vediamo una spinta a estromettere l’ingerenza e l’egemonia europea incarnata dalla Francia, che per secoli è stata il tallone di ferro che ha schiacciato le possibilità d’emancipazione di quelle aree.
Qualcosa di simile vale anche per l’America Latina; basti vedere le posizioni espresse dalla Colombia che solo qualche tempo fa erano impensabili, essendo stata per decenni una pedina controrivoluzionaria in mano all’imperialismo statunitense, molto foraggiata dalla macchina bellica sionista; il fatto che oggi si interrompano le relazioni con l’entità sionista è un’ulteriore dimostrazione che questa è vista come un’occasione storica per regolare i conti e tentare di riequilibrare le relazioni internazionali.
In questo senso è giusto parlare di avanzamento e arretramento: perché non ci sarà né una vittoria assoluta né una sconfitta assoluta.
Non è immaginabile che chiunque avanzi o arretri si dia per vincitore o sconfitto definitivo. Non sarà così perché ogni risultato è legato alle dinamiche internazionali complessive.
Però oggi come oggi, comunque vada a finire, a più di sei mesi dal 7 Ottobre si può dire che comunque la causa palestinese e indirettamente la causa del Sud del mondo, è sicuramente avanzata perché quello che è successo e che sta succedendo anche ora, che non ha precedenti in questo secolo.

Tornando invece al Sudafrica e quindi alla questione dell’ONU, qual è il rilievo effettivo del fatto che il Sudafrica abbia portato Israele, accusandolo di genocidio, alla Corte Internazionale di Giustizia? Quanto quel processo effettivamente pesa su Israele e sulla sua percezione anche a livello mondiale, considerando che una buona metà della partita si gioca sul piano dell’opinione pubblica? Inoltre, dato che l’ultima conferenza della Campagna Globale per il Ritorno in Palestina si è tenuta proprio in Sudafrica, che ruolo ha giocato in questo passaggio?

Posso dire con orgoglio che l’idea di portare a processo l’entità sionista in un tribunale internazionale è nata proprio in quell’occasione. Nello scorso dicembre la Campagna si è riunita in Sudafrica in occasione del Decimo Anniversario della morte di Nelson Mandela, per cui si è pensato che proprio il Sudafrica fosse in quel momento la tappa giusta per il suo sviluppo a livello internazionale, soprattutto perché i simbolismi erano molto evidenti; quindi all’interno della conferenza si è creato un gruppo di lavoro specifico per approfondire e studiare quali potessero essere gli elementi in grado di mettere all’angolo internazionalmente lo stato israeliano.
Va precisato che ha un senso politico aver portato a processo “Israele” alla Corte Internazionale dell’Aia non tanto per il valore di per sé della Corte Internazionale o per il responso di processabilità. Più semplicemente è stato un passaggio in cui politicamente è stato sancito per la prima volta che “Israele” potrebbe essere uno Stato genocida ed è questo che ha effettivamente un valore politico in sé.
All’atto pratico non è cambiato niente sul campo di battaglia in terra di Palestina, anzi se possibile le cose sono anche peggiorate; ma lo scopo era mettere in risalto un dato politico con la convinzione che, qualsiasi fosse stato il responso, sarebbe stata una vittoria.
Poteva darsi che il Tribunale, come poi è avvenuto, decidesse di esporsi solo a metà, riconoscendo la processabilità ma non formalizzando una sentenza di colpevolezza di genocidio. Però ha anche dimostrato che non poteva non riconoscere ciò che sta avvenendo e questa comunque è già una prima vittoria.
Ma se il Tribunale Internazionale non avesse riconosciuto nulla e rifiutando qualsiasi ipotesi di genocidio, che poi era la posizione soprattutto degli Stati Uniti e di tutto l’ambiente NATO, allora si sarebbe dimostrato che quell’istituzione non funziona in maniera imparziale.
Se invece avesse avuto più coraggio e avesse sanzionato direttamente, con provvedimenti concreti, sarebbe stata una vittoria completa.
Per cui la valutazione è stata di tipo politico generale: facciamola, perché qualsiasi sarà responso sarà una vittoria. È stata pensata in questi termini, non perché ci si affida a una dubbia istituzione internazionale per risolvere qualcosa che solo la Resistenza sul campo potrà risolvere, su questo c’è grande consapevolezza.
L’altro aspetto del riferirsi al Tribunale Internazionale è il concepire lo scontro in atto come conflitto su più livelli, non solo uno scontro con mezzi militari ma anche con mezzi pacifici, tutti questi metodi possono concorrere a ottenere il risultato voluto.
Oggi opporsi a “Israele”, uno Stato che è comunque sotto processo per genocidio, è più semplice e dirlo pubblicamente non può più passare per antisemitismo, questo anche è un risvolto ideologico importante. Insomma, c’era poco da perdere ma tutto da guadagnare; era un megafono che ha fatto sì che oggi tutte le piazze del mondo parlino di genocidio.

In questo avanzamento, come tu dici, è centrale la dimensione simbolica che ha permesso di sdoganare il termine genocidio e farlo assumere a livello di massa. Però forse era relativamente facile far passare questo concetto all’opinione pubblica davanti a quello sta che succedendo.
Molto più difficile invece è riuscire a superare un preconcetto islamofobo molto diffuso. Nel 7 ottobre, ad esempio, alcuni hanno riconosciuto immediatamente un’azione di Resistenza, molti ci hanno visto esclusivamente un’azione violenta e deplorevole, secondo un classico registro democratico-umanitario, ma soprattutto trovano scandaloso il solo associare l’idea di Resistenza al fatto che a portarne la bandiera fosse Hamas, una formazione islamista.
Questa cosa a un certo punto si è arginata, più nelle piazze che nei discorsi mediatico-politici ovviamente.
Un po’ perché le piazze filo-palestinesi hanno rifiutato qualsiasi distinzione tra una Resistenza buona ed una cattiva, ma anche dal fatto che la mobilitazione internazionale fuori dall’Occidente ha sgito molto sul campo di una “solidarietà di fede”, una solidarietà del mondo islamico di cui gli Houti possono essere un esempio, anche se non esaustivo, di come si sia messa in moto non solo un’azione di vicinanza ma una vera e propria pratica antiimperialista. Ci troviamo quindi in un corto circuito in cui bisogna riconoscere legittimità per la prima volta ad una Liberazione i cui valori restano alieni ai nostri, in cui non c’è il socialismo come bandiera unificatrice. Per la prima volta ci si confronta esplicitamente con una pratica di autodeterminazione che esce completamente dai nostri schemi di ragionamento, perché non gioca più su un discorso di matrice europea come poteva essere per la fase della “decolonizzazione”. Siamo quindi immersi in un paradigma inedito…

È una delle ricadute che rientrano in quella logica di avanzamento irreversibile che si è determinata dal 7 Ottobre e dai suoi effetti ancora in corso, che hanno messo in discussione una visione dell’Arena Internazionale fondamentalmente eurocentrica, che vedeva tutto ciò che si muoveva a livello internazionale con le lenti di un movimento di chiara matrice Europea, nelle cui categorie esisteva semplicemente il meccanismo del Socialismo, che però non è più elemento preponderante dentro la dinamica internazionale ormai da un trentennio buono. Ma anche perché questo protagonismo estraneo alla concezione “occidentale” effettivamente mette in discussione l’assunto per cui tutto il mondo non ruota più intorno ad una logica eurocentrica.
Lo stesso fatto di non chiamare l’area Medio Oriente ma Asia Occidentale è già una messa in discussione tutto ciò che finora siamo stati abituati a leggere come realtà.
Oltretutto avanzamento ha significato anche aver un po’ disintossicato gli ambienti politici e sociali qui da noi, perché tutto sommato il problema dell’islamofobia non mai è stato centrale se non nei paesi occidentali, che hanno condotto per un quarto di secolo la “Guerra al Terrore”, di cui l’islamofobia è stata un meccanismo primario di coesione ideologica e culturale.
Oggi tutto questo è messo in discussione perché, se all’indomani del 7 ottobre era difficile affrontare la discussione sulla Resistenza, in sei mesi si è riusciti a scalfire e modificare anche insospettabili “eurocentrici”, che oggi sono costretti a riconoscere che il problema di ciò che sta avvenendo in Palestina e dintorni non è un fatto dell’islam, ma è un fatto anticoloniale.
Questo è un dato di fatto oggi inoppugnabile. Che la Resistenza arabo-palestinese venga presentata nei termini di uno scontro tra Hamas e Israele è una costruzione tutta occidentale e sionista; in realtà per qualunque palestinese o arabo è uno scontro contro il sionismo non di Hamas ma della Resistenza palestinese.
Su questo i palestinesi fanno molta attenzione e un risultato in tal senso è dovuto proprio alla loro determinazione sin dall’inizio a configurare la questione come uno scontro tra la Resistenza palestinese contro l’entità Sionista e non come uno scontro frontale tra due fazioni, pur consapevoli che i rapporti di forza all’interno della Resistenza palestinese sono determinati dalla potenza di fuoco della struttura militare messa sul campo. Di fatto togliendo ossigeno al collaborazionismo palestinese dell’ANP e quello arabo delle Petrolmonarchie.
È innegabile che oggi si facciano operazioni congiunte di Hamas insieme al Fronte Popolare o insieme alla Jihad Islamica piuttosto che al Fronte Democratico.
In questo senso la stessa Campagna Globale per il Ritorno in Palestina non è determinata solo dalle forze della Resistenza arabo-islamica, ci sono dentro componenti internazionali laiche o marxiste senza nessun problema e senza che nessuno sollevi il fatto che il Sudafrica, che sicuramente non può essere configurato come potenza islamica, si sia fatto carico di rappresentare le istanze arabo-palestinesi di fronte al Tribunale di Giustizia Internazionale.
Questo smottamento della narrazione eurocentrica è confermato ad esempio dal confronto nello stesso Tribunale Internazionale tra Nicaragua e Germania. Perché il Nicaragua si è presentato come parte accusatoria rispetto alla complicità tedesche nel genocidio, la stessa Irlanda oggi sta dalla parte dell’accusa al sionismo. L’avanzamento è palpabile.
Si aggiunga che la presenza nei paesi occidentali di grandi componenti immigrate ha fatto sì che oggi la narrazione di ciò che avviene in Palestina si sia anche adeguata alla composizione sociale di chi si è mobilitato e che, a differenza di venti anni fa, è composta non sono solo di indigeni ma di seconde e terze generazioni figlie di immigrati; soprattutto la componente araba e palestinese ha stabilito su cosa muoversi e su cosa tacere, anche scontrandosi con quelle istanze indigene che sentenziavano “Né con uno né con l’altro”, a cui hanno risposto chiaramente “con la Resistenza, contro l’entità sonista”.
E questo è anche il frutto di una battaglia politica latente ma comunque condotta, dove le parti più coscienti del Movimento indigeno si sono schierate apertamente su questa linea nelle manifestazioni per la Palestina, dove oggi non c’è più spazio per una posizione equidistante o che in qualche modo ricalca le istanze istituzionali.
Sono le istituzioni italiane che oggi sono schierate apertamente col sionismo mentre le piazze, le università, non hanno più una posizione equidistante ma sono chiaramente dalla parte della Resistenza dal momento in cui il concetto di “Potenza genocida” ha rotto l’indugio e il pudore verso quella narrazione dell’unica democrazia in Medio Oriente e del valore morale dell’esercito sionista è stato spazzato via dagli eventi. Spazzato via sia per le capacità della Resistenza sia dall’opera di macelleria che sta facendo l’entità Sionista sotto gli occhi di tutti.
Quando si ammazzano quasi 40.000 persone e di queste il 70%, se non di più, è costituito da bambini e donne non regge più una narrazione vittimista, sono talmente evidenti il torto e la ragione, che è assolutamente indifendibile qualsiasi equidistanza.
Per cui torniamo al concetto di avanzamento e arretramento: questo enorme sacrificio fatto dai palestinesi ha ristabilito le categorie di giustizia, di torto e ragione, di colono e colonizzato e così via. È un merito che va riconosciuto a prescindere ed è di valore universale.

Questo momento di scontro in Palestina si inserisce dentro una tendenza alla guerra che è un acceleratore esploso già due anni fa in Ucraina e sembra ormai un processo irreversibile molto chiaro e determinato. Ancora un anno fa gli attori istituzionali più democratici o più ottimisti, potevano dirsi coinvolti nell’aiuto all’Ucraina poiché paese aggredito; a un certo punto non solo sono scivolati verso un registro sempre più sciovinista, ma hanno dovuto adottare un doppio registro, estremamente ipocrita e difficile da mantenere, rispetto alla Palestina dove le condanne verso i crimini israeliani sono estremamente reticenti.
Prova ne è la reazione generale alla rappresaglia iraniana dopo che l’aviazione israeliana ne ha bombardato l’ambasciata a Damasco, in una provocazione senza precedenti.
Si sono insomma iniziate a creare le condizioni per cui parlare tranquillamente del fatto che la guerra è una realtà tornata concretamente e che di qui a un paio d’anni si assisterà probabilmente a un conflitto di proporzioni molto più grandi e devastanti.
In questa fase però il bellicismo è ancora una volontà politica delle classi dirigenti sostanzialmente autoreferenziale, senza alcuna partecipazione o condivisione popolare, c’è uno scollamento netto tra quello che è il sentire della popolazione e ciò che sono la narrazione mediatica e la volontà istituzionale. Un abisso evidente anche da tutte le statistiche in merito.
In mezzo in questa tendenza alla guerra, che spazi di mobilitazione si aprono a partire dalla questione palestinese e dalla sua capacità di mobilitare globalmente?

Quando si dice “tendenza alla guerra”, dal mio punto di vista, non credo che rispetto al passato ci sia stata un’accelerazione, perché basta pensare alla “guerra al terrore” che ha contraddistinto già tutto questo secolo, all’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, eventi che hanno coinvolto enormi masse di forza materiale e umana dall’Occidente. Per dire: a un certo punto in Iraq era presente mezzo milione di occidentali legati alle operazioni militari.
Il problema è che questa tendenza alla guerra è insita al capitalismo in quanto tale, ne è una componente essenziale, anche perché nell’assetto del capitalismo, soprattutto occidentale, la sezione di capitale collegata al comparto militare-industriale ha preso il sopravvento.
In questo senso, dalle “nostre” parti, ciò che c’è di economicamente produttivo è più legato alla dinamica della guerra che non in altre latitudini.
Ma la novità è il fatto che oggi l’imperialismo è diventato più aggressivo perché sembra stia perdendo terreno; la presenza italiana nel Mar Rosso è sintomatica di quella proiezione delle classi dirigenti capitaliste privo un riscontro sociale né materiale o economico; questo lo dimostrano anche gli eventi in Ucraina dove la base produttiva occidentale, tanto terziarizzata da aver scelto di esternalizzare anche le risorse umane piuttosto che costruirle, non è in grado di garantire una base materiale per uno scontro generalizzato.
In questo senso, paradossalmente, più si allargherà e protrarrà il conflitto, più la tigre si dimostrerà di carta.
Non a caso si parla della re-immissione della coscrizione obbligatoria: per fare una guerra come loro vorrebbero bisogna avere il personale; questo è uno dei limiti che si sta palesando in Ucraina, dove non solo si necessita del “capitale umano” da sacrificare, ma la narrazione bellica deve reggere e questo è un punto debole perché, per quanto si veda lo sforzo bellicista fatto attraverso il mainstream mediatico, il consenso sociale è minimo.
Oggi non si può dire certo che la popolazione italiana si voglia lanciare nell’avventura. Non regge perché sono masse nella maggior parte dei casi politicamente amorfe o passive, ma che non scalpitano certo per andare a farsi massacrare per garantire i profitti alle multinazionali o la gloria alla nazione.
È certo che rispetto al pericolo sono ancora troppo passive, ma la realtà è che non c’è proprio culturalmente e psicologicamente una popolazione in Occidente disposta a fare la guerra.
Questo è un fatto di cui va tenuto conto, nonostante un quarto di secolo di narrazione bellicista molto improntata sulla proiezione all’esterno del capitalismo occidentale, non è stata amalgamata una base sociale disponibile da mandare “al macello”. Quelle europee non sono società “pronte” ad affrontare questi scenari, sono le classi dominanti che vorrebbero affrontarle anche senza esserne in grado. Questo è, da punto di vista storico, un fatto positivo – nel rifiuto della guerra imperialista -, è evidente che anche qui si è scollata la società, che è polarizzata al suo interno: le élite vogliono andare a fare guerra ma non ci vanno direttamente, servono le classi sottomesse per farla, che però attualmente non sembrano disponibili a farsi ammazzare, come poteva essere durante la Prima Guerra Mondiale, o per altri versi nella Seconda. Non c’è alcun entusiasmo bellicista all’interno delle società occidentali.
Questo non significa che l’animale ferito non diventi più aggressivo quando è stretto all’angolo, perché se la dinamica che è in corso di avanzamento di altre istanze internazionali avverse rispetto all’Occidente ne limita il campo d’agibilità, potremmo assistere a delle scelte isteriche e dissennate, che saranno però dei colpi di coda.
Ciò che probabilmente sta avvenendo in questo momento storico è il fatto che il processo di perdita della supremazia dell’Occidente rispetto al resto del mondo sia abbastanza irreversibile. Una sorta di “Crollo del Muro di Berlino” in salsa occidentale, per cui quella arabo-palestinese potrebbe essere una picconata decisiva.
Si può dire che tutto questo apra una finestra di solidarietà internazionale che potrà essere, in prospettiva, trasformata in una logica internazionalista e di classe.
Perché, oggi come oggi, da questa perdita di supremazia a guadagnarci non saranno solo i popoli oppressi, colonizzati o segregati, ma potranno essere gli stessi proletari dei paesi occidentali, cui spazzare via una classe dominante strategicamente indebolita è necessario più che mai. In questo senso vediamo un possibile punto di incontro tra le istanze del Sud globale e le possibili istanze di classe nell’occidente capitalista, e da questo punto di vista potrebbe essere un’occasione storica importante. Certo, come tutte occasioni, o le sfrutti o le perdi.
Se l’occasione si incontra con l’organizzazione diventa opportunità, se invece la si attraversa nella disorganizzazione e nella frammentazione allora passerà e basta.

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La Labbazia degli incubi (2) https://www.carmillaonline.com/2024/04/20/la-labbazia-degli-incubi-2/ Sat, 20 Apr 2024 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82013 di Franco Pezzini

Il genere scuru

Orazio Labbate, Lo Scuru, pp. 144, € 16, Bompiani, Milano 2024.

1970 (o giù di lì). Mio padre, dipendente Fiat a Torino, è stato trasferito per un lavoro alla Grandi Motori a Trieste: trattandosi di un soggiorno di anni, porta tutta la famiglia e prende in affitto dalla famiglia di un collega una casetta a due piani su Scala Santa, una delle vie scoscese che si inerpicano sulla collina dal popolarissimo e periferico (almeno allora) quartiere Roiano. La casetta è arredata secondo un gusto che oggi potremmo definire un po’ rétro, compresi una tappezzeria vinaccia [...]]]> di Franco Pezzini

Il genere scuru

Orazio Labbate, Lo Scuru, pp. 144, € 16, Bompiani, Milano 2024.

1970 (o giù di lì). Mio padre, dipendente Fiat a Torino, è stato trasferito per un lavoro alla Grandi Motori a Trieste: trattandosi di un soggiorno di anni, porta tutta la famiglia e prende in affitto dalla famiglia di un collega una casetta a due piani su Scala Santa, una delle vie scoscese che si inerpicano sulla collina dal popolarissimo e periferico (almeno allora) quartiere Roiano. La casetta è arredata secondo un gusto che oggi potremmo definire un po’ rétro, compresi una tappezzeria vinaccia nel salotto, una pittoresca cucina e un gigantesco quadro – quasi un’inquadratura all’americana, ma per il resto grandezza naturale – della Madonna sovrastante il letto dei miei. Quadro oggetto della vicenda che segue.

L’episodio che narro si svolge un tardo pomeriggio d’inverno, a tramonto consumato: con vari amici coetanei – neanche dieci anni a testa – saliamo al piano superiore per recuperare un paio di forbici (arrotondate) dalla nostra camera da letto, comunicante con quella dei miei. In stile piccoli esploratori nel buio, non accendiamo la luce, brandendo invece una piccola pila elettrica.

Recuperiamo le forbici, il temerario che regge la pila la punta distrattamente attraverso la porta aperta della stanza dei miei, illumina l’enorme quadro sul loro letto. Sappiamo che scherzi combini una luce su un quadro… Al grido “La Madonna si muove!”, presi dal panico, ci tuffiamo giù dalle scale e raggiungiamo le luci tranquillizzanti del piano di sotto e le madri in attesa. Ultima della fila, mia sorella – al tempo piccola – che non ha capito niente e trotterella giù dai gradini.

L’episodio è oggi incomprensibile a buona parte dei bambini, ma il panico descritto, e omogeneamente diffuso nella nostra piccola squadra, la dice lunga su un linguaggio d’epoca, che ci faceva considerare neppure troppo implausibile un simile evento. Al tempo, storie di apparizioni mariane più o meno impressionanti (quadri che piangono o – peggio – sanguinano, immagini che si staccano da dipinti per interagire con gli umani, eccetera) facevano ancora parte di un linguaggio devoto diffuso. Fortunatamente, nella fede della mia famiglia – o tra gli stessi preti incontrati via via – quell’arsenale miracolistico faceva parte di curiosità tramandate più per spiegare soggetti d’affreschi o fenomeni sociodevozionali che per punti saldi d’un credere: il Vaticano II stava venendo metabolizzato, e la fede medievaleggiante dei prodigi e della paura si ritraeva. Ma nello stanzone d’ingresso della casa di campagna dove andavamo d’estate ci sarebbe stato per anni – e lo ricordo con vaga inquietudine – un vecchio quadro molto scuro riproducente non so quale effigie della Madonna che colpita da sassi avrebbe sanguinato, e storie di rapporti agitati tra il sacro e le immagini sono del resto documentate un po’ su tutto il territorio nazionale.

L’idea che entità luminose – uso volutamente una formulazione generica – scelgano di comunicare con fragili esseri umani e tanto più con impressionabili bambini attraverso simili epifanie da cardiopalmo mi è sempre risultata difficile da comprendere: io ne avrei tratto più panico che confidenza spirituale. Vero che i testimoni – veri o presunti, non ci interessa – di simili eventi non ne risulterebbero in genere scioccati, ma almeno nelle Scritture l’apparizione mette subito le mani avanti: “non aver paura”, “non abbiate timore” sono le formule ricorrenti, perché è chiaro che paura e timore sono i nostri atteggiamenti più immediati di fronte a tali epifanie che lacerano il velo del naturale.

D’altronde la devozione popolare, allargando indebitamente e in modo talora molto losco il fronte del miracoloso, è ricorsa assai spesso a un immaginario che con le Scritture c’entra ben poco. Il teatro di mirabilia allestito una ventina d’anni fa da Carlo Dogheria nel volume Santi e vampiri. Le avventure del cadavere (Stampa alternativa, 2006), mostrando i percorsi di due assai diversi tipi di corpi, ricorda come un certo tipo di linguaggio devoto parli assai più di convinzioni arcaiche, di paure e archetipi primordiali e senz’altro pagani, che non del credo delle grandi religioni odierne. Tra i miracoli degli Acta sanctorum, di sconcertante varietà, si ravvisano manifestazioni talora incongrue o addirittura frivole o ingiuste – al punto che solo le pirotecnie interpretative di agiografi compiacenti riescono a conciliarle (in termini anche parecchio laschi) con lo spirito evangelico.

E un elemento risulta determinante: il ruolo di un supporto materiale vicario al corpo, di un’icona – dipinto, statua… – che catalizza l’inquietudine. Da bambino non potevo sapere che quell’effetto viene definito Perturbante: quando si muove qualcosa che per definizione non dovrebbe muoversi, quando interagisce con noi qualcosa che non dovrebbe farlo (pensiamo anche solo agli occhi di certi quadri, capaci di inseguirti in giro per la stanza). Ma è qualcosa che colpiva già gli antichi: non si contano le storie – e anzi i rituali teurgici – sull’animazione di statue. Come bambino dalla ricca fantasia, bastavano alcune immagini a colpirmi, tanto più se collocate in spazi dove dovevo passare da solo, o persino in certi libri – dove sapevo che voltando le pagine avrei incontrato a un certo punto una figura disturbante. E tante storie di miracoli non le avrei conosciute, se girando per la Torino barocca con mia madre e mia nonna non avessi ricevuto spiegazioni sul senso di una certa figura, sull’immagine in cera di un certo santo coricato, su certi soggetti di tele negli altari minori: tranquillissime, ma tali da attecchire come a una miccia del materiale esplosivo della mia fantasia.

Un simile carnevale di paure sovrannaturalistiche “pie”, “devote”, può accedere oggi a un linguaggio narrativo codificato, quello del folk horror – o piuttosto, considerando la scena italica, dell’orrore popolare, come riflettono Fabio Camilletti e Fabrizio Foni in una coppia di belle raccolte edite da Odoya (Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, 2021 e Almanacco dell’Italia occulta. Orrore popolare e inquietudini metropolitane, 2022); e rientra nell’orizzonte ormai riconosciuto di un gotico mediterraneo e peculiarmente nostrano (cfr. Italian Gothic. An Edinburgh Companion, a cura di Marco Malvestio e Stefano Serafini, Edinburgh University Press, 2023). Ma da un lato presuppone, per essere compreso davvero, una intensa appartenenza – culturale o psicologica – o almeno una vivida impressione recata da un orizzonte di convinzioni e di linguaggio, con adesione a un sistema immaginale diffuso. Ben difficilmente un gruppo di bambini di oggi può vivere un evento come quello descritto supra, legato alla cultura cattolicissima di un passato italiano.

Mentre avrebbe potuto capirlo, con lo stacco critico di un diverso referente culturale ma insieme con l’impressione di un’esperienza fortissima, un viaggiatore eccellente come Horace Walpole, che proprio quel tipo di suggestioni devote stranianti, oniriche, grottesche, traghetterà nel suo Castello d’Otranto. Giocando sulle situazioni incontrate in gioventù durante il Grand Tour in Italia, Walpole avrà la genialità di sviluppare questo immaginario in chiave narrativa, a colpi di incubi e miracoli. Eppure, persino nel grembo del genere gotico da lui avviato, pochi sapranno coglierne l’esplosivo specifico, il teatro emotivo e iconico, e gli stessi epigoni anglosassoni ne recupereranno solo modiche suggestioni, in genere tramite altri filtri (l’Irlanda cattolica a monte della santabarbara di res sacrae del Dracula, alcuni elementi sincretizzati nelle culture creole o latinoamericane, il Camera con vista folkloristico-streghesco stile Aradia).

E, molto tempo dopo, sta qui – più che nel set trinacrio in sé – una delle spiazzanti novità del gotico siciliano di Orazio Labbate: capace di riprendere in nero miracolismi e devozioni, icone e rituali idealmente sulla scia di Walpole. Immagini conturbanti come quelle del Signore dei Puci e della Madonna dell’Alemanna, riti di liberazione esorcistica che non liberano affatto, castelli e chiese e un intero abitato dalle presenze convulse e disturbanti: processioni da incubo, incendi finali dal sapor di crollo…

Di più: in Labbate troviamo il ricorso ad altri due elementi-chiave della novità walpoliana, cioè l’uso del grottesco – figure ossesse e burattinesche, sghembe derive, un teatro di eccessi che alla poesia alterna il sogghigno – e il contrappunto a un mondo anglosassone qui non inglese, ma americano. D’altra parte, vedendo citare (giustamente), tra le fonti ideali di Labbate, oltre a Bufalino, Consolo e D’Arrigo, anche Faulkner e McCarthy, sembra senz’altro il caso di ascrivere all’elenco il landlord di Strawberry Hill.

Di più: il Walpole tanto colpito da linguaggio e febbri immaginali del barocco “papista” – estremo e paradossale per un viaggiatore giunto da un’esperienza culturale diversa come quella britannica – vede eruttare le sue fantasie da un bacino onirico, un sogno o piuttosto (confesserà) un incubo occorsogli: quel set non è dunque colto puramente al filtro di un linguaggio da folklorista, filologo o protosemiologo, ma ruminato nel segno del notturno e dell’inconscio. Un linguaggio degli abissi, interiori come inferi, che può ben riconoscersi – a leggere Labbate – come peculiare linguaggio dello Scuru, come linguaggio scuru: un linguaggio aspro, febbricitante e immansueto, voce della perturbazione e del notturno, voce delle crisi di mondi diversi. E che paradossalmente ci accoglie in questo nostro faticoso oggi, prestandoci toni per parlarne e forse placarci:

 

La notte mi parla con la lingua dei fantasmi e mi dice che sarò perdonato. […] Vienimi a prendere Scuru. Proprio tu, Scuru. Salvami. Ti imploro. Prenditi la mia luce e spegnimi. Taglia la glossa e dalla a qualcheduno perché io possa spirare subito.

 

Di qui idealmente promanano le riflessioni articolate da Labbate nel suo saggio L’orrore letterario (Italo Svevo, 2022) che de Lo Scuru diventa l’esito inevitabile a raccolta di tutta una letteratura.

 

La riproposta in libreria de Lo Scuru, uscito inizialmente per Tunué, 2014 – dunque dieci anni fa – e riedito ora da Bompiani in attesa di un videogioco ispirato (entro l’anno) e della trasposizione cinematografica attualmente in lavorazione (2024 o 2025), sembra una buona occasione per riflettere sul rapporto con le fonti prime di un genere che Labbate non si limita a riprendere con passione, ma reinventa originalmente sulla base di un personale sentire. E proprio l’edizione Bompiani in uscita accompagna al testo del romanzo un vero e proprio manifesto, Genesi del Gotico siciliano di Orazio Labbate.

Che è anzitutto un bellissimo e intenso racconto autobiografico, a partire dai venti chilometri di deserto della strada provinciale tra Butera e Gela. Un deserto “sconfinato, eppure conchiuso nei pochi chilometri, su tutti i lati, in cui la desolazione domina lo sguardo”; un deserto malinconico e crudele, privo d’illuminazione notturna, ma insieme pronto a liberare energie in chi lo traversi non accidentalmente. Di qui la volontà dell’autore diciottenne di far sua quell’esperienza di iniziazione all’estremo vivendo la strada frammento dopo frammento: “Sentivo […] di dare un nome definitivo alla tenebra, non poteva considerarsi mero buio, emanava, complice il deserto, un’orribile filosofia esistenziale, emanava un’identità” diversa dalle entità cristianeggiate – ma memori di un retroterra antichissimo, pagano – dei riti comunitari di Butera.

Brandendo come ideali testi sacri le sue letture del tempo (McCarthy e Faulkner, Kafka, Bufalino e Consolo, D’Arrigo, Cioran: “Queste opere tentavano di suggerire un nome al buio della Sp8, mi aiutavano a definire l’astrattezza emotiva e teologica del territorio attorno e dentro di me”) Labbate riflette sul tipo di lingua necessaria a narrare quel tipo di esperienza. Che come nel gotico americano vede sostanziarsi

 

prospettive simboliche, culturali, visionarie, locative, in comune. A partire dall’attenzione nei confronti di una religione cattolica quale centro fanaticamente nevralgico della fede, dall’onnipresenza di ambientazioni desolate (nella cristica e avventurosa dimensione del deserto, come in quella di una più tangibile trascuratezza cittadina di contorno). Senza tralasciare la focale questione dell’invocazione delle divinità cattoliche, da parte dei più dubbiosi e controversi filosofi del posto, non per acquietarle bensì per scatenarvisi contro. Causa del dolore, della solitudine, della pazzia di tutta la popolazione.

 

Una religione in nero dove sedimenta il Perturbante da cui siamo partiti, certo da un altro luogo e un altro tempo, e che conduce a esiti simbolicamente anche molto distanti. Ma che in fondo richiama ancora una volta al lascito impressionante di devozioni & inquietudine importato in letteratura per la prima volta da Walpole.

Il tutto in una lingua congrua, un siciliano inconciliante, scheggiato e gutturale privo di ironia da commedia all’italiana o concessioni folkloriche. E la notte di Natale del 2010 (ricordiamo che il vecchio gotico era nato con Walpole la vigilia di Natale), nel buio della strada, l’autore vive un’agnizione che costituirà lo sbocco della sua narrativa, proclamando “al vento freddo del deserto, con sicurezza, certo del battesimo soprannaturale, come quando si dice a sé stessi una cosa giusta senza alcuna prova: ‘Questo è lo Scuru’”. Che acquista una sorta di dignità teologica e insieme finisce col richiamare vagamente le entità fronteggiate nel Salmo 91 (91), versetti 5-6: “Tu non temerai gli spaventi della notte, / né la freccia che vola di giorno, / né la peste che vaga nelle tenebre, / né lo sterminio che imperversa in pieno mezzogiorno” – a loro volta in origine, probabilmente, non concetti astratti ma figure demoniache.

Di qui, a reinventare il gotico americano in chiave nuova, nasce il gotico siciliano di Labbate, con la sua simbologia, l’iconografia, l’“immaginario cattolico quasi draculesco”, paganeggiante e connotato da una sorta di minacciosa retroflessione simbolica: e un viaggio del 2023 negli Stati Uniti lungo la storica Route 66 porrà una sorta di suggello immaginale a quell’esperienza pregressa.

Si è accennato al linguaggio scuru, qualcosa che in Labbate erutta in voce e lingua narrativa propria (il visionario, puntuto, apocrifo italo-buterese della sua saga) declinando il referente americano – ma, vorrei dire, la stessa remota eredità gotica settecentesca – in forma postmoderna. Dove il senso di un gioco di specchi – oscuri, ci ricorderebbe Le Fanu – finisce con il dire qualcosa sulla voce e le potenzialità del gotico in quanto tale: che non si consuma nell’horror, neppure trattenendo di tale termine (latino, prima che inglese) la nuda accezione di brivido e compulsione. Il gotico è il linguaggio del nostro specchio umbratile e di identità irriconosciute, del labirinto di un passato che ci portiamo dentro a sperderci (castello interiore, camera da letto infestata e relativi sipari). Un linguaggio che provoca la nostra fantasia fin dalle paure d’infanzia – se vogliamo, dal “La Madonna si muove!” del cardiopalmo bambino nutrito di racconti devoti maldigeriti, ma senz’altro da prima – e fino a nostalgie e malinconie, al non detto e non dicibile del trovarci invecchiati, che visita le insonnie e innerva le tentazioni. Proprio come ne Lo Scuro le confidenze in articulo mortis di Razziddu Buscemi accanto al corpo della donna amata, sul precipizio di una vita, e il riagganciare la sua esperienza di bimbo e la svolta di formazione, e tutte le dualità e contraddizioni conseguenti.

Persino provocatorio – serendipity, serendipity… – è che il Theodore del Castello d’Otranto appartenga alla stirpe siciliana dei signori di Falconara: la sua avventura di formazione (nel buio come tutte le iniziazioni) comporta il recupero di quel lignaggio. Ma anche Razziddu consuma la propria formazione al castello di Falconara, suggestivamente vicino a Butera. Mi conferma Labbate di non aver assolutamente pensato di stabilire un nesso, semplicemente il castello di Falconara sorge nell’area della sua storia. Tout se tient, come nel caso di Walpole che scopre a posteriori che un castello a Otranto esistesse davvero.

Poi, vero che Razziddu in punto di morte commenta: “Rosa non mi ha dato figli. Però li ho sognati. Li abbiamo sognati”, e invece nel seguito Suttaterra un suo figlio lo troviamo, il protagonista Giuseppe. Ennesimo paradosso che conduce al mondo dei sogni e dei morti: e insieme alla letteratura, ai figli letterari, a un teatro in costume come quello del Castello per celebrare pantomime interiori – in particolare quelle dei piani bassi di noi.

E poi (vorrei dire soprattutto) c’è appunto la lingua, magmatica e ipnotica, congrua alle catabasi e alle agnizioni, alle emersioni dal buio e alle iniziazioni infere. Del resto, come spiegava Labbate in un incontro a Torino, la Sicilia delle sue storie e della sua lingua è ancora quella nera dei culti inferi grecosiculi e del ratto di Kore, di gorgoniche entità pagane e di misteri di discesa nell’abisso. Le processioni sono quelle che ricorda lui, anche se – forse per scelta di qualche parroco prudente – l’antica statua del Signore dei Puci dei riti della Passione è stata ormai sostituita da una meno impressionante. Ma il fiato che esala come vapori allucinatori dall’ipotetica fenditura sotto il tripode della Sibilla pitonica è quello antico.

E antichi sono gli echi di questa storia al buio. Come in quella sorta di disperato rito di passaggio in cui Razziddu tenta il suicidio – quello rituale-iniziatico, di corda – e viene salvato dalla propria Arianna in un labirinto scuru anzitutto interiore, come il dedalo tenebroso di Manfred sottostante il castello. E poi ecco una schiera di doppi, figure grottesche o deformate nei fondamentali connotati umani e sociali (il mago, il prete, lo zio piromane, il pazzo Pidocchiuso che balla dietro la macchina delle pompe funebri come nell’inversione mortifera della danza di Davide avanti all’Arca); una Madre Terribile – per Razziddu, la nonna, il cui funerale si svela momento d’agnizione – e un padre dalla sorte inconosciuta come accaduto ai legittimi eredi dell’Otranto walpoliana; una Kore deliziosa dal ruolo salvifico, che gli permette di varcare l’oceano – che, com’è noto, permette lo sbarco alla terra dei morti – dopo un viaggio assai più lungo di quello toccato al genitore.

Leggere Lo Scuru alla luce del manifesto ora premessovi – e che pure sintetizza racconti offerti dall’autore in varie occasioni – è sicuramente illuminante: e l’intera saga di Butera vi trova un’esegesi fondamentale. Se d’altra parte può essere difficile prefigurarsi a quali sviluppi ulteriori condurrà la machina immaginale avviata da Labbate, resta fin d’ora il dato oggettivo di uno sviluppo nuovo, che porta il gotico salutarmente lontano da cortiletti fandom e loro beghe di pollaio per pretendergli pubblicamente una dignità meritata e opportuna.

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Per Valerio (20 giugno 1952 – 18 aprile 2022) https://www.carmillaonline.com/2024/04/20/per-valerio-20-giugno-1952-18-aprile-2022/ Sat, 20 Apr 2024 05:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82003 Caro Valerio,

sono passati due anni da quando hai scelto di ritirarti su un pianeta migliore di questo.

Due anni possono essere molto lunghi e allo stesso molto brevi: lunghi perché non c’è stato momento in cui la tua figura e le tue parole non ci siano mancate, brevi perché ci è sembrato sempre che tu fossi ancora qui, con noi.

Alla notizia della tua scomparsa, in redazione, il dolore si era subito sommato al timore. Il timore di non farcela a continuare il tuo lavoro, lo sconforto per non essere magari in grado di mantenere la barra salda e [...]]]> Caro Valerio,

sono passati due anni da quando hai scelto di ritirarti su un pianeta migliore di questo.

Due anni possono essere molto lunghi e allo stesso molto brevi: lunghi perché non c’è stato momento in cui la tua figura e le tue parole non ci siano mancate, brevi perché ci è sembrato sempre che tu fossi ancora qui, con noi.

Alla notizia della tua scomparsa, in redazione, il dolore si era subito sommato al timore.
Il timore di non farcela a continuare il tuo lavoro, lo sconforto per non essere magari in grado di mantenere la barra salda e rischiare, per questo motivo, di andare a sbattere contro scogli e demoni che tu sapevi sempre indicare e prevedere per tempo.

Con le gambe inizialmente molli siamo riusciti, però, ad andare avanti e a mantenere quella unità nella diversità che ha sempre contraddistinto Carmilla, la tua creatura.
L’abbiamo fatto continuando a scrivere, “ostinatamente in direzione contraria” come avrebbe detto De André; ad osservare il mondo, la cultura e la letteratura con strumenti sempre diversi per ognuno di noi, ma che tu ci hai insegnato ad affinare.

Alcuni di noi ti hanno dedicato un libro, sperando che altri, magari ad opera di studiosi più giovani, possano seguire, per sottolineare l’importanza della tua opera e dei tuoi scritti in un ambito letterario e culturale spesso asfittico, anche quando si pensa “altro” e di “opposizione”.

Abbiamo continuato ad immaginare e re-immaginare il mondo, conducendo la battaglia che forse ti stava più a cuore: quella contro la colonizzazione dell’immaginario collettivo ad opera del capitalismo e dei suoi servi e scherani.

Unico italiano a farlo e ad anticiparlo, insieme a James Ballard e Philip Dick, hai saputo cogliere nella continua rifondazione dell’immagine del mondo uno dei momenti e modi topici per combattere e controbattere il dominio reale instaurato dal capitale. Non solo sul terreno del valore e della sua costante accumulazione attraverso lo sfruttamento di ogni risorsa vivente, ma soprattutto su quello di ciò che davvero conta, oppure no, per la prosecuzione della vita su questo pianeta.

Una vita vera e piena che, per te e per noi tutti, non può essere sottomessa o ridotta alle esigenze del capitale morto. Quel capitale accumulato che si nutre di orari di lavoro e ricatti sullo stesso sempre più pesanti e dal quale occorre far di tutto per fuggire.

Abbiamo seguito le tue tracce sul cammino che porta alla capacità di resistere, comunque, al vampiro che ancora attanaglia il mondo dei viventi e che cerca, in modi sempre più abbietti, distruttivi, perversi e demoniaci di trasformarlo in un mondo di zombie, di morti viventi. Chiamando vita ciò che è morto e condannando tutto ciò che gli si oppone.
Chiamando pace la guerra ed esaltando quest’ultima come mezzo definitivo per affermare in eterno i propri, miserabili valori.
Travestendo da “diritto” ogni individualistica affermazione del povero e impotente “io” borghese contro il ben più importante interesse collettivo e la potenza della riflessione che può scaturirne.

Noi siamo ancora qui, al nostro posto e al tuo fianco: contro il nazionalismo, il fascismo, l’egoismo, la miseria economica e morale di un sempre più finto liberalismo.
No pasaran….anzi meglio Venceremos!

La Redazione
20 aprile 2024

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L’ebreo immaginario degli antisemiti non abita a Tel Aviv https://www.carmillaonline.com/2024/04/19/lebreo-immaginario-degli-antisemiti-non-abita-a-tel-aviv/ Thu, 18 Apr 2024 22:10:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81974 di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro [...]]]> di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro di essa, si nasconde il tentativo truffaldino di attribuire lo stigma dell’antisemitismo a tutta una tradizione politica che a Marx si richiama o, molto più spesso, si richiamava. E questo per alimentare la narrazione degli opposti estremismi, di destra e di sinistra, a beneficio di un centrismo liberale tanto nobile quanto introvabile. O, peggio ancora, il presunto peccato di Marx servirebbe a ripulire l’immagine di una destra che verso gli ebrei ha avuto storicamente un’ostilità esplicita e feroce. Come dire, tutti antisemiti, nessun antisemita. 

E allora prendiamo il toro per le corna, utilizzando l’interessante testo Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo di Manuel Disegni. Attraverso questo libro vogliamo partire da Marx per giungere a questioni di più stretta attualità arrivando a conclusioni che, meglio dichiararlo subito, potrebbero anche non piacere all’autore. Marx tratta apertamente dell’antisemitismo in un solo testo, per di più giovanile. Si tratta del famoso articolo intitolato Sulla questione ebraica in cui Marx non ha remore nell’utilizzare stereotipi ripresi dalla tradizione antiebraica a lui coeva. Senonché, nota l’autore, non li utilizza perché li condivide ma perché li vuole ritorcere contro chi li propugna. La natura “sordidamente giudaica” infatti non viene attribuita agli ebrei, ma a tutta la società contemporanea, caratterizzata dalla scissione tra il citoyen, il cittadino astratto dedito al bene comune, incarnazione della volontà generale, portatore della razionalità illuministica, da una parte, e il bourgeois, l’uomo concreto, egoista, dedito esclusivamente ai suoi interessi individuali, ostinatamente attaccato alla sua particolarità, dall’altra. La raffigurazione dell’ebreo altro non è che il risultato dell’attribuzione a un’alterità mostruosa delle caratteristiche proprie del bourgeois. Le caratteristiche, cioè, della società civile che mettono costantemente a rischio l’appartenenza dell’individuo alla comunità politica raggiunta attraverso la partecipazione alla vita dello stato.
In queste pagine del giovane filosofo tedesco abbiamo, insomma, un’anticipazione del concetto psicoanalitico di proiezione, il meccanismo inconscio attraverso il quale un soggetto attribuisce a un nemico immaginario il proprio lato oscuro e inconfessabile. Nel caso specifico, la sua essenziale asocialità. Questo stesso dispositivo retorico viene replicato in molti altri testi, come accade ripetutamente con l’utilizzo da parte di Marx della figura dell’usuraio ebreo Shylock, il personaggio del Mercante di Venezia di Shakespeare. E ciò testimonia, secondo Disegni, come il tema dell’antisemitismo sia presente in tutta la sua produzione teorica. Sebbene in modo implicito, Marx ci ripete che gli antisemiti hanno la stessa religione dei loro ebrei immaginari: adorano solo il dio denaro.

Ma c’è di più. Secondo l’autore l’opera matura di Marx si può configurare anche come una critica dell’economia politica dell’antisemitismo. Quest’ultimo, sin dai suoi inizi fino al suo apice nazista, si basa sulla dicotomia tra lavoro e denaro. Il primo santificato, il secondo demonizzato. Il lavoro rende liberi, sta scritto all’entrata del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Quella che potrebbe sembrare soltanto una macabra ironia è in realtà uno dei fondamenti dell’antisemitismo, secondo Disegni.
Il lavoro è al centro del progetto emancipatore della modernità borghese. È ciò che consente all’uomo di liberarsi dalla tirannia della natura e di costruire liberamente il proprio mondo. È il naturale fondamento della proprietà. Ma il lavoro è anche ciò che, nell’ideologia nazista, connette i singoli alla comunità razzialmente connotata. Esso è pensato come intrinsecamente nazionale, ariano. Ma il mondo in cui si esplica questo lavoro è tutt’altro che coeso, pacificato, comunitario. È un mondo in profonda crisi, scisso. E questa crisi deve essere attribuita al potere del denaro che ha un carattere cosmopolita, ubiquo, astratto. In una parola, ebraico. Il potere del denaro opprime e disgrega la laboriosa comunità nazionale. Bisogna perciò eliminare ciò che impedisce il naturale compimento del benessere collettivo sopprimendo il mostruoso detentore di questo potere. In sintesi, si parte dalla dicotomia tra lavoro e denaro e si arriva alla soluzione finale. 

Vedremo tra breve la critica di Marx a questo dispositivo, ma prima bisogna notare che esso può funzionare solo se viene accettato il binomio ebrei-denaro. Un binomio che affonda le sue radici nel medioevo quando gli ebrei, impediti nel partecipare alle più comuni attività produttive, si specializzano nel commercio e nel prestito di denaro. Tutto ciò potrebbe far pensare a una sostanziale continuità tra il medioevo e modernità quanto a discriminazione contro gli ebrei. Cosa che Disegni nega decisamente. L’antisemitismo, afferma, è un fatto moderno che ha natura completamente diversa dall’antigiudaismo medioevale. Insomma, “soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare”, per dirla con Marx, può sorgere una questione ebraica, cioè il problema se sia lecito o meno negare l’emancipazione a un gruppo particolare.
Il trattamento discriminatorio riservato agli ebrei non poneva alcun problema alla coscienza medioevale. Quel mondo era esplicitamente composto da diversi gruppi caratterizzati da differenti diritti e doveri. La mancata emancipazione degli ebrei è dunque una questione che si pone nell’ambito del progetto illuministico, segnalando le sue interne contraddizioni. Anche se il binomio ebrei-denaro nasce in un lontano passato il suo significato muta con il mutare del significato del denaro che, nel mondo borghese, ha un ruolo essenzialmente diverso rispetto a quanto accadeva nei modi di produzione precapitalistici.

E qui è il concetto di modo di produzione ad essere quanto mai rilevante. Marx non parla semplicemente di un modo di appropriazione della ricchezza prodotta dal lavoro. Cosa che sarebbe tutto sommato compatibile, secondo Disegni, con l’idea, antisemita, che è il potere del denaro ad espropriare il lavoro. Marx parla, appunto, di modo di produzione e cioè di una modalità in cui si esplica il lavoro che è essa stessa la forma in cui si realizza l’espropriazione. Insomma, la contraddizione è tutta interna al lavoro che, da una parte è strumento di potenziale emancipazione, dall’altra di effettivo sfruttamento.
Non è un caso che Marx giunge a formulare i suoi concetti più maturi sul capitale passando attraverso la critica di Proudhon che vorrebbe abolire il denaro per salvaguardare il lavoro. Il lavoro così com’è. Il socialista francese, veemente antisemita fino al punto di invocare lo sterminio degli ebrei, sarà sempre uno dei suoi bersagli polemici da un punto di vista teorico e politico. Perché la sua puerile dialettica tra un lato buono da salvaguardare (il lavoro) e un lato cattivo da abolire (il denaro) mette capo ad un programma che potremmo sintetizzare con la famosa formula “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Marx invece vuole un cambiamento radicale, a partire dal rivoluzionamento dei rapporti di produzione. Il filosofo tedesco non nega l’importanza del lavoro per l’emancipazione dell’umanità, ma ritiene che è proprio in questo ambito che si infrangono le promesse della modernità. Ed è proprio da qui che bisogna iniziare ad incidere se a quelle promesse si vuol tener fede.

Ma non è tutto. Il potere del denaro non è un mero abbaglio, ma un’apparenza necessaria che scaturisce dallo stesso modo di produzione capitalistico. È la realtà fenomenica, il mondo come appare immediatamente agli individui che si sentono soggiogati da una potenza aliena, estranea di cui non riescono a comprendere il funzionamento. Il denaro è la manifestazione più appariscente del capitale, anche se in realtà è solo una delle forme in cui si incarna il capitale stesso per adempiere alla sua natura di valore che incessantemente si valorizza. Tutto ciò sarebbe assolutamente impensabile al di fuori del modo di produzione capitalistico in cui il denaro, nelle sue diverse forme, è il medium universale della produzione materiale e dunque della riproduzione degli individui. Per questo il binomio ebrei-denaro nella modernità capitalistica mette capo a un particolare tipo di pregiudizio antiebraico, l’antisemitismo, che è cosa storicamente diversa dall’antigiudaismo del medioevo, epoca in cui il denaro ha solo un ruolo limitato.
Questo ci spiega, secondo Disegni, la pervasività dell’antisemitismo. Non è sbagliato parlare della radice piccolo-borghese di questo fenomeno, ma è limitativo. Se ci si fermasse a questa considerazione di natura sociologica, sostiene l’autore, non potremmo capire perché l’antisemitismo abbia attecchito ampiamente anche tra la borghesia propriamente detta e tra le classi popolari. L’apparenza necessaria di cui abbiamo parlato, essendo un fenomeno che in modi diversi riguarda tutti, ci può infatti spiegare la diffusione del pregiudizio antiebraico. 

In sede di commento, come già anticipato, prendiamo spunto da alcune questioni suscitate dal libro per arrivare ai giorni nostri. Sebbene Disegni non lo espliciti, a partire dalla connotazione storicamente determinata del pregiudizio antiebraico moderno, così come la descrive lo stesso autore, si può contestare alla radice l’idea che le critiche allo stato di Israele possano rappresentare una forma di antisemitismo, come pretenderebbe, per esempio, la cosiddetta definizione operativa dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto. La connotazione ectoplasmatica dell’ebraismo immaginario degli antisemiti è infatti l’esatto opposto della natura concreta di uno Stato. A maggior ragione se abbiamo a che fare con una potenza fortemente militarizzata e pervicacemente impegnata a conquistare palmo a palmo la “terra promessa”, incurante di chi da secoli la abita. Il forte legame con la terra contrasta in modo netto la natura deterritorializzata del potere del denaro, espressione per eccellenza del presunto potere ebraico.
Insomma, se vogliamo capire dove attecchiscono oggi le radici della sempreverde malapianta dell’antisemitismo dobbiamo guardare altrove. Bisognerebbe indagare il rapporto tra il pregiudizio antiebraico e il razzismo genericamente inteso, tema che è completamente assente nel testo di Disegni. Per esempio si potrebbe fare riferimento al ruolo attribuito al miliardario ebreo Soros nell’attuazione del fantomatico Piano Kalergi, cioè la sostituzione etnica delle popolazioni bianche attraverso l’immigrazione extraoccidentale. In questo ever green del complottismo più farneticante, vediamo fondersi il più classico antisemitismo con il razzismo altrettanto classico nei confronti delle popolazioni non occidentali che oggi si declina soprattutto come islamofobia. La comunità nazionale degli onesti lavoratori, per riprendere uno dei temi del libro di Disegni, non sarebbe oggi minacciata solo dall’alto, dal potere “ebraico” del denaro, ma anche (o forse soprattutto) dal basso, dalla marea di colore formata dai migranti. 

Il fatto è che in tempi recenti il capitale ha iniziato a dismettere le sembianze cosmopolite e multiculturaliste degli anni ruggenti della mondializzazione neoliberista. In tempi di deglobalizzazione selettiva (processo, invero, assai contraddittorio) indossa sempre più volentieri una maschera nazionale. Ma, sotto questa maschera, la comunità nazionale rimane un’ombra priva di corpo perché la scissione marxiana tra citoyen e bourgeois rimane operativa e, semmai, si è approfondita. Per questo si cerca dare nuova linfa a questo corpo esangue attraverso una retorica etno-nazionalista. Il risultato, però, è solo una fragile soggettività pseudo-collettiva caratterizzata da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Un rancore che può avere come bersaglio, anche se con motivazioni differenti, gli immigrati o un qualsiasi altro gruppo razzializzato. Compresi, evidentemente, gli ebrei perché il capitale deterritorializzato può tornare a rappresentare un nemico da dare in pasto alla plebe impoverita in un periodo in cui monta la retorica del rimpatrio dei capitali (che poi si rivela essere una parziale rilocalizzazione in chiave geopolitica).
Inutile girarci attorno, mettere a tema il rapporto tra antisemitismo e razzismo non può che creare imbarazzo tra i sostenitori a prescindere dello stato di Israele (per essere chiari, non sto parlando dell’autore del libro recensito di cui non conosco le posizioni in proposito). Il legame indissolubile tra colonialismo e razzismo, infatti, riguarda anche il sionismo che, sin dalle sue origini tardo ottocentesche, è un progetto di carattere coloniale. L’idea che la Palestina fosse una terra senza popolo da destinare a un popolo senza terra (in teoria al popolo ebraico, in realtà al movimento politico sionista che non ha mai coinciso con l’insieme delle persone di fede e cultura ebraiche) è tutto sommato sovrapponibile al concetto che da sempre giustifica la spoliazione coloniale, quello terra nullius: terra di nessuno, appunto, e per questo liberamente appropriabile. Il fatto che il sionismo abbia avuto successo perché ha offerto un approdo di salvezza agli ebrei perseguitati in Europa nulla toglie alla sua natura coloniale, mentre aggiunge sale sulle ferite del popolo palestinese che, utilizzando le parole di Edward Said, si trova a vivere non solo il dramma dell’occupazione, ma anche “la tragedia di essere vittima delle vittime”. 

In conclusione, tornando al testo di Disegni, è senz’altro vero, come sostiene l’autore, che l’antisemitismo ha una sua connotazione peculiare che lo distingue dal razzismo genericamente inteso. Ma distinto non significa privo di relazioni. Se, per contrastare un supposto antisemitismo, si finiscono per alimentare stereotipi razzisti di altra natura (per esempio quelli nei confronti delle popolazioni di fede islamica che si oppongono allo stato di Israele), si rischia seriamente di bruciarsi con il fuoco che si sta appiccando per tenere lontano dal proprio fortino le orde di barbari. Ha di nuovo ragione Disegni quando sostiene che l’antisemitismo è il frutto di una mancanza di radicalità nell’affrontare il tema del lavoro sfruttato e alienato, ma lo stesso vale per il razzismo in quanto tale. Una radicalità che possiamo ritrovare anche con l’aiuto di Marx. Una radicalità che la leggenda del suo antisemitismo vorrebbe screditare. Anche per questo è oggi utile leggere Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo.

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Due anni… https://www.carmillaonline.com/2024/04/17/due-anni/ Wed, 17 Apr 2024 21:55:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82144 di Nico Maccentelli

Due anni fa ci lasciava Valerio. Due anni che sono volati tra vicende che stanno cambiando radicalemte il mondo. Me lo ricordo ancora, a operazione speciale russa iniziata, in una delle ultime assemblee contro la guerra, in teleconferenza, sostenere quello che poi gli analisti più acuti, quelli che non fanno propaganda e non sono a libro paga dei centri di potere mediatico delle élite atlantiste, vanno dicendo da un paio d’anni. L’analisi lucida di Valerio proveniva da quanto accadeva in Donbass fin dal 2014, da un sostegno internazionalista autentico verso quelle popolazioni martoriate da anni di bombardamenti nazisti.

Non [...]]]> di Nico Maccentelli

Due anni fa ci lasciava Valerio. Due anni che sono volati tra vicende che stanno cambiando radicalemte il mondo. Me lo ricordo ancora, a operazione speciale russa iniziata, in una delle ultime assemblee contro la guerra, in teleconferenza, sostenere quello che poi gli analisti più acuti, quelli che non fanno propaganda e non sono a libro paga dei centri di potere mediatico delle élite atlantiste, vanno dicendo da un paio d’anni. L’analisi lucida di Valerio proveniva da quanto accadeva in Donbass fin dal 2014, da un sostegno internazionalista autentico verso quelle popolazioni martoriate da anni di bombardamenti nazisti.

Non faccio certo fatica oggi a immaginare cosa direbbe Valerio di fronte a questa guerra imperialista a pezzi, a un imperialismo a dominanza USA in declino e all’ignavia complice dei vassalli tra i quali si distingue il nostro paese senza alcuna discontinuità tra centrosinistra e destre atlantiste, che proseguono a svendere il paese e a macellare le classi popolari.

E non faccio neppure fatica (a differenza di alcuni che questa “fatica” l’hanno fatta, prendendo solo ciò che faceva comodo…), a pensare a quali posizioni avrebbe avuto Evangelisti anche dopo i tre anni di pandemia: l’intervento a tre firme, di Valerio, Roberto Sassi (un compagno che anche lui se ne è andato recentemente) e mia (qui) aveva già tutto quello che serviva per svilupare un’analisi puntuale sulla svolta biopolitica autoritaria che poi ha fatto da preludio alla guerra imperialista: guerra sociale interna in tandem con quella esterna, basate entrambe sul ricatto, la paura, la criminalizzazione.

L’ultimo periodo di Valerio è stato molto limitante, non avendo lui il greepass. E uso un eufemismo. Anche gli ultimi compleanni fatti da Mimì, il ristorante sotto casa sua, erano un ricordo. Ci siamo ridotti a dei pranzi clandestini, dove ci ritrovavamo a parlare di quella fase di cui non si vedeva allora via d’uscita e della protesta sociale che andava letta al di là delle lenti ideologiche di chi da sempre cerca di adattarle alla realtà oggettiva e dei fatti.

È per questo che quest’anno, questi compagni hanno deciso di ricordare Valerio con un pranzo rievocativo di quei momenti. Un’iniziativa semplice, senza tanti fronzoli: non si è invitato praticamente nessun relatore, ci saranno solo interventi a ruota libera di chi ci vorrà essere. Penso che a lui sarebbe piaciuto così. Lui che non amava il frastuono delle lusinghe, le mitologie personalistiche, le corti dei miracoli. Ma invece una buona birra insieme, in sincera amicizia, sì.

 

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