Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 03 Dec 2023 21:00:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.24 La finanza è guerra https://www.carmillaonline.com/2023/12/03/la-finanza-e-guerra/ Sun, 03 Dec 2023 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80208 di Silvano Cacciari

[La finanza è guerra (La Casa Usher, 2023) di Silvano Cacciari, nasce all’inizio del 2012 come progetto Underworld, su un piano di ricerca eloquente -tribalismo e guerra finanziaria senza limiti- in piena crisi del debito sovrano europeo che, all’epoca, altro non era che uno degli effetti collaterali del grande crack di Lehman Brothers. L’intenzione con Lorenzo Giudici, il responsabile della collana “il balzo di tigre” della casa Usher, era di dare vita ad un testo che portasse alla luce la natura non certo tecnica ma antropologica dei conflitti finanziari che, nelle nostre società’, sorgono con la nascita dello [...]]]> di Silvano Cacciari

[La finanza è guerra (La Casa Usher, 2023) di Silvano Cacciari, nasce all’inizio del 2012 come progetto Underworld, su un piano di ricerca eloquente -tribalismo e guerra finanziaria senza limiti- in piena crisi del debito sovrano europeo che, all’epoca, altro non era che uno degli effetti collaterali del grande crack di Lehman Brothers. L’intenzione con Lorenzo Giudici, il responsabile della collana “il balzo di tigre” della casa Usher, era di dare vita ad un testo che portasse alla luce la natura non certo tecnica ma antropologica dei conflitti finanziari che, nelle nostre società’, sorgono con la nascita dello stato moderno.
Da allora un lavoro di ricerca incessante – su fonti storiche, digitali, di mercato, legate alle strategie di borsa come sui classici dell’antropologia – che è sfociato in questo testo, uscito pochi giorni fa. E’ un lavoro che si divide in tre sezioni: la prima è dedicata all’antropologia dei conflitti finanziari senza fine; la seconda all’intreccio di tattiche e tecnologie tra guerra a finanza; la terza al terremoto che questa dimensione del dominio provoca.
L’anticipazione che qui pubblichiamo – ringraziando l’editore per la gentile concessione – riguarda l’inizio del quarto capitolo, seconda sezione, dedicata all’ibridazione tra finanza e guerra, che definisce il piano antropologico, e tecnologico, nel quale si gioca la guerra finanziaria senza limiti, quella finora sfuggita sia alla teoria politica che a molta analisi tecnica di mercato. – p.l.]

Capitolo 4. La guerra finanziaria senza limiti: verso lo spazio non naturale

“Ormai esistono operazioni di guerra non militari che ampliano la nostra percezione di ciò che, esattamente, costituisce uno stato di guerra esteso a tutti i campi dell’attività umana” , Qiao Liang, Wang Xiansui, colonnelli dell’Esercito Popolare Cinese, “Guerra senza limiti”.

Lo sguardo antropologico ci ha permesso di definire le pratiche, il simbolico e la materialità della guerra finanziaria permanente operata dal tribalismo di borsa. Dobbiamo ora rivolgerci al piano di ibridazione di tecnologie, tattiche, guerra e finanza che identifica la nuova realtà nella quale vengono dominati politica, economia e società, cioè lo spazio non naturale col quale si comprende come la tradizionale geografia politica sia costretta a guardare ad uno spazio tecnologico assente in natura per conoscere il proprio destino.
Il campo di forza detto guerra finanziaria è la superficie sulla quale evolve il tribalismo di borsa: un terreno di dominio senza limiti entro uno spazio non naturale senza limiti se non quelli dell’evoluzione tecnologica.
Ecco la vera novità materiale e teorica per la politica dei primi decenni del XXI secolo, qualcosa di più potente del semplice fenomeno sociale da regolare e di più complesso della naturale evoluzione tecnologica al servizio della finanza e dei mercati.

Si tratta di un campo e di uno spazio nei quali si gioca una guerra anch’essa senza limiti, in una dimensione nella quale tattiche di guerra sul campo e di guerra finanziaria finiscono per ibridarsi. E qui non si sa se c’è più da stupirsi per la complessità nella quale finanza, guerra e tecnologia si sono sovrapposte che per la velocità con la quale tutto questo è avvenuto e in un modo che ricorda la pirateria ma, mentre questa si presentava come atto aggressivo attraverso l’abbordaggio, oggi un comportamento apparentemente pacifico e civile come la vendita di azioni può essere il fatto ostile che prelude all’abbordaggio di una azienda o di uno stato.

C’è una scena del Crollo dei giganti di Curtis Hanson (2011) – la riduzione cinematografica di un instant book sulle trattative che hanno preceduto il crollo di Lehman Brothers – davvero esemplare in proposito. Siamo a Wall Street nei giorni che precedono la dichiarazione di fallimento di Lehman e due trader di alto rango scendono dalla loro limousine con i vetri oscurati. Entrambi sono inquadrati quasi di spalle, ma mentre si intuisce che il primo ha un aspetto tranquillo, come si può essere in un giorno qualsiasi di lavoro di borsa, l’altro è visibilmente turbato. Il primo trader dice all’altro “Che cos’hai? Non siamo in Iraq, questa è Wall Street, New York”, ricordando al collega che non stanno piovendo bombe e che quindi le strade, i grattacieli e i ristoranti di lusso alla fine della giornata di lavoro ci saranno ancora.
L’altro trader, quello scosso e turbato, lo guarda e annuisce senza convinzione. La scena è interessante perché associa due piani teoricamente separati che tendono invece a somigliarsi terribilmente. Nel film di Hanson, infatti, la finanza non è più un contesto al quale applicare metafore di guerra e nemmeno più solo un fenomeno che provoca eventi bellici, ma diviene un piano di realtà che si avvicina in modo tale alla guerra da non poterla più definire una metafora del mondo finanziario, ma piuttosto il terreno in cui si evidenzia la loro comune natura. Il disorientamento del trader davanti a Wall Street è comprensibile: nel suo ordine mentale, la guerra era sempre stata una metafora dalla quale estrarre suggerimenti, tattiche, aggettivazioni, ispirazioni per leggere i comportamenti finanziari.

Improvvisamente i confini si confondono: nausea, disorientamento, vertigini sono il registro soggettivo dell’ordine collettivo, cognitivo e simbolico di una partizione di realtà venuta meno. Una partizione saltata che significa che la finanza non è più protetta dagli effetti della guerra, che anche a Wall Street si distrugge, che crollano i giganti e non solo i risparmi delle casalinghe o dei taxisti sacrificati di norma in queste crisi.
Certo, era già accaduto nell’800, nel 1906-7, nel ’29, nell’87, nel ’98, nel 2001 e in molti altri crolli “minori”, ma il pianeta è cambiato e il mondo che emerge dal 2008 di Lehman Brothers è quello di una guerra finanziaria senza limiti, dotata di potenza distruttiva della morfologia di intere società, sia attraverso le mutazioni della sfera della guerra che di quelle della finanza.

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Agenda 2030, una rivoluzione colorata https://www.carmillaonline.com/2023/12/02/agenda-2030-una-rivoluzione-colorata/ Sat, 02 Dec 2023 22:55:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80217 17 passi verso la catastrofe

di Nico Maccentelli

Enzo Pennetta, Agenda 2030, una rivoluzione colorata, pubblicazione indipendente, novembre 2023, 177 pag. € 16,60

Sono anni in cui chi ha la governance delle nostre città e delle istituzioni in generale dà una percezione diversa di questo esercizio, come una realtà ormai distopica a cui adeguarsi. Percepiamo il potere dei tecnici come un’attività eterodiretta e quello che è stata governabilità nell’alternanza delle parti, diviene esercizio di un dominio incontrastato e indiscutibile. Il tatcheriano TINA (there is not alternative) è entrato nei cervelli creando nella vita quotidiana una sorta di ineluttabilità degli eventi, in un’emergenza [...]]]> 17 passi verso la catastrofe

di Nico Maccentelli

Enzo Pennetta, Agenda 2030, una rivoluzione colorata, pubblicazione indipendente, novembre 2023, 177 pag. € 16,60

Sono anni in cui chi ha la governance delle nostre città e delle istituzioni in generale dà una percezione diversa di questo esercizio, come una realtà ormai distopica a cui adeguarsi. Percepiamo il potere dei tecnici come un’attività eterodiretta e quello che è stata governabilità nell’alternanza delle parti, diviene esercizio di un dominio incontrastato e indiscutibile. Il tatcheriano TINA (there is not alternative) è entrato nei cervelli creando nella vita quotidiana una sorta di ineluttabilità degli eventi, in un’emergenza permanente, una dopo l’altra o insieme: dal covid alla guerra, passando per il clima e così via chissà cos’altro.

Dalle restrizioni pandemiche all’applicazione di tecnologie del controllo di spazi, corpi e degli accessi alle informazioni gestite da tecnici della manipolazione e della censura, i cd fact checkers, ci ritroviamo in un sistema sempre più lontano dalle nostre possibilità di incidervi, dove tutte le forze deputate a gestirlo sono pressoché uguali, hanno la stessa agenda di fondo.

Ecco, in questo lavoro di Enzo Pennetta sull’Agenda 2030, vi è un’analisi di questo processo di irrigimentazione disciplinare della società. Un affresco impietoso e inquietante in cui emerge il progetto delle oligarchie di Davos, sintetizzato nel pensiero di Schwab. Un progetto che procede per esperimenti e colpi di mano, dove i tecnici pastori si muovono per incanalare quello che viene considerato un gregge, dentro gli steccati che delimitano un mutamento antropologico, basato sulla compressione della vitalità umana, dove le tecnologie si integrano sempre più verso un umano condizionato e privo di libertà e autonomia.

In sintesi, ecco la spiegazione che si trova online:
«L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione sottoscritto il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite ed è costituita da 17 obiettivi da raggiungere in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale entro il 2030.
È un programma che viene proposto e imposto in tutti paesi del mondo, l’Agenda è entrata anche nella scuola italiana di ogni ordine e grado divenendo una nuova dottrina a cui aderire senza possibilità di obiezione o dibattito.
In questo libro si compie un’analisi dei 17 obiettivi e delle finalità complessive dell’Agenda mostrandone tutti gli evidenti limiti e le contraddizioni che la mostrano per quello che in realtà è: un programma ideologico.
Questo libro si propone di mostrare la natura dell’Agenda 2030 e i modi per affrontarla nella scuola e nel dibattito pubblico.»

Pennetta individua tre aspetti dominanti: la colpa con la relativa espiazione e il concetto di uomo malthusiano che rappresenta una cancrena per il pianeta.

Di conseguenza la paura come propellente dei cambiamenti autoritari.
Questo pensiero non è nuovo nelle religioni monoteistiche e in certa filosofia occidentale a partire dallo stoicismo e poi ancora, la cristiana auto-fustigazione, il cilicio.
Tutto l’opposto della liberazione umana dallo sfruttamento, dal “vogliamo tutto” di balestriniana memoria, che ha animato i movimenti di massa anticapitalistici per decenni, non ultimi i nostri Settanta. La paura è il tratto dominante dell’emergenzialismo, lo scopo ultimo della manipolazione mediatica, che a volte si serve del ricatto (vedi il greenpass), dell’ostracismo (vedi la criminalizzazione delle diverse opinioni, non allineate con quelle mainstream…), della desolidarizzazione nella denuncia dell’altro.

Con il concetto di resilienza, ossia di sopportazione delle condizioni imposte senza lottare per il loro superamento, sta tutta l’architettura persino costituzionale del “nuovo mondo” tecnocratico. Resilienza ha in pratica sostituito la parola “resistenza”, ed è l’altro volto del TINA: non puoi e non devi resistere, puoi solo adeguarti nella soppotazione e in definitiva nell’accettazione delle tue condizioni sociali e individuali.

Su questo paradigma si regge il transumanesimo che nell’integrazione macchinica è negazione dell’umano in quanto essere che aspira alla libertà e a una socialità non mediata da costrizioni e recinti.
L’integrazione con la machina nano-micro-tecnologica e biopolitica è basata sulla negazione dell’umano e sul controllo integrato di ciò che resta assoggettato del medesimo.
Si tratta quindi di comprendere che oggi la lotta al capitalismo deve comprendere altre categorie innestabili in quelle marxiane. Che egalité si regge solo sul liberté e fraternité, altrimenti è una truffa tecno-cyber-capitalista.

L’uguaglianza di cui parlano le oligarchie è quella della moltitudine informe di tecno-servi, incapaci di identità e di riconoscersi come collettività se non nel rapporto univoco e unidirezionale con il comando imperiale.
Dalla democrazia alla tecnocrazia. Il trionfo del liberismo e del colonialismo. Alla fine riaffiora l’aristocrazia che domina su una moltitudine di lumpen, servi lobotomizzati, apolitici nel senso originario di politica definito da Aristotele: polis e tecnica, ossia pratica dell’amministrazione della polis per il bene di tutti, che però non riguarderà più il demos, ma l’aristos. Una sostituzione fraudolenta del soggetto dentro la categoria di “potere”, su cui oggi si poggia l’intero sistema occidentale e non solo, dato che rischiano di prendere questa strada anche altre nazioni e paesi.

Il demos non avrà kratos, ossia la facoltà di decidere, la sovranità, ma di conseguenza neppure le cose, i beni, che sino ad oggi marcavano le differenze e le contraddizioni sociali e intersoggettive. La tua felicità si baserà sul nulla sociale: non avrai niente e sarai felice. Chi avrà, penserà e sceglierà per te. Non avrai altra identità che questa. Perché la tua libertà libera il virus uomo nel mondo che è entità vivente e non va alterata. Gaia si fonde con aristos. E la visione del mondo fonde la scienza dentro una nuova religione, un nuovo dogma. Già abbiamo visto la scienza come dogma e strumento di pochi sulle moltitudini su quel grande esperimento che è stato il covid-19 e la biopolitica di potere fatta di restrizioni antidemocratiche e imposte dall’alto dei regimi oligarchici.

Fin qui Pennetta (1)

Ciò che invece nell’antagonismo di classe oggi si muove su questo terreno, sottolinea che l’attacco del potere è in…
«… tutti gli ambiti della nostra quotidianità che controllo, disciplinamento e militarizzazione stanno riplasmando, sottraendo diritti, benessere, territori con la volontà di ristrutturare fortemente la società.
Le città vengono svendute pezzo pezzo, quartiere per quartiere alle multinazionali che ne gestiscono già pulizia, servizi e viabilità “pubblica” e a mano a mano anche tutta la digitalizzazione in ogni suo più piccolo aspetto.
L’obiettivo è quello di creare delle città prigioni con i centri inavvicinabili dai più, salvo chi avrà il privilegio di abitarci. Il Comune di Milano ha calato il numero degli autobus del 5% negli ultimi due mesi dichiarando di averlo fatto per le emissioni di CO2 e perché a causa della guerra si deve risparmiare carburante. La cosa potrà ripetersi fino a negare il diritto ai mezzi e agli spostamenti non solo con la propria auto.»

La punta di diamante di questa esperienza unitaria è Miracolo a Milano, che insieme ad altre realtà della sinistra rivoluzionaria, dopo l’esperienza delle lotte sociali contro le restrizioni pandemiche, oggi scende in piazza nel capoluogo meneghino con una manifestazione nazionale(2).

Questo è l’ottimo ed esplicativo trailer, che vale più di ogni documento politico:

Oggi i marxisti che hanno coscienza e capacità di comprensione di questi mutamenti antropologici sono i rivoluzionari di un presente che sta divenendo futuro, quando tanti altri sono rimasti ancorati a una sorta di economicismo ottocentesco del passato spacciato per presente. E di Marx hanno compreso poco o nulla, soprattutto sul piano del materialismo storico e dialettico, sulla metodologia marxiana. I marxisti autocompiaciuti in un’estetica autoreferenziale fatta di pure celebrazioni e rimasticature dei classici.

Qualcuno era comunista…

Se non si affronta il nemico su questo terreno del controllo, della premialità e della sanzione a ogni passo della vita quotidiana, della mutazione antropologica degli individui e delle relazioni, di una forza-lavoro incapace di ribellione o anche solo vertenza. Resterà solo una lotta di classe pensata nelle conventicole dei sempiterni soloni del veteromarxismo, resterà una vuota liturgia che si aggiungerà al dirittumanitarismo, all’antifascismo retrò, a un politically correct de noantri, che sarà come il gabbiano di Giorgio Gaber, senza ali e, forse, senza neppure più l’intenzione di volare.

 

Note:

1. Qui un’intervista di Toscano a Pennetta sul suo libro Agenda 2030 una rivoluzione colorata

 

2. In questi link trovate della documentazione sull’argomento e su altro:

https://sfero.me/spheres/miracolo-a-milano

Assemblea Antifascista contro il green pass

e sotto la locandna della manifestazione di oggi

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Nigredo: né comprensione né assoluzione https://www.carmillaonline.com/2023/12/01/nigredo-ne-comprensione-ne-assoluzione/ Fri, 01 Dec 2023 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80188 di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, Ballata per Nina, pp. 183, € 10, Marsilio, Venezia 2023.

Dopo Tracce dal silenzio (Marsilio, 2019) e Bunny Boy (Marsilio, 2021) arriva in libreria la terza e ultima puntata della trilogia Le visioni di Nina. Un esito che conferma appieno – se mai qualche distratto avesse avuto dubbi – non solo una scintillante capacità dell’autrice di offrire narrativa di genere del tutto letteraria (e anzi letteratura tout court – ne ha prodotto anche ottima mainstream – con un controllo stilistico assoluto) ma anche l’urgenza di dar voce a dimensioni interiori estreme, sofferte, autentiche in [...]]]> di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, Ballata per Nina, pp. 183, € 10, Marsilio, Venezia 2023.

Dopo Tracce dal silenzio (Marsilio, 2019) e Bunny Boy (Marsilio, 2021) arriva in libreria la terza e ultima puntata della trilogia Le visioni di Nina. Un esito che conferma appieno – se mai qualche distratto avesse avuto dubbi – non solo una scintillante capacità dell’autrice di offrire narrativa di genere del tutto letteraria (e anzi letteratura tout court – ne ha prodotto anche ottima mainstream – con un controllo stilistico assoluto) ma anche l’urgenza di dar voce a dimensioni interiori estreme, sofferte, autentiche in una scrittura che rappresenta di fatto un unicum. Con un’empatia che fa amare Ghinelli anche da chi non abbia la ventura di conoscerla direttamente e apprezzarne l’onestà assoluta e la sensibilità tanto viva. Il risultato è una scrittura alta, profonda, preziosa in un’epoca in cui troppo spesso l’uscita letteraria rileva non tanto per lo specifico valore di un testo ma per l’evento e il personaggio di chi scrive (le confidenze personali nei suoi testi restano ancorate al senso intrinseco delle singole opere, e non puntano riflettori su di lei). Una premessa che non sembra inutile, considerando il gran circo delle uscite librarie e il panorama umano – ma in realtà anche letterario – non sempre entusiasmante che esso offre.

Dimensioni interiori autentiche: e non stupisce che ciò sia offerto con un linguaggio ricco di potenzialità simboliche ed evocative quale quello fantastico, in particolare a proposito delle singolari capacità che affliggono la protagonista, qui ormai quattordicenne (nei precedenti romanzi ne abbiamo seguito la crescita, in grazia della speciale attenzione di Ghinelli – un po’ in tutta la sua produzione – allo sviluppo e alle crisi dei ragazzi). Inevitabile pensare, per sfondi e suggestioni al suo seminale, fortissimo Il divoratore (caso letterario nel 2010, uscito per Newton Compton 2011).

L’asciuttezza, la brevità feroce di questa chiusa tanto nera della trilogia – tanto nera ma capace di un colpo d’ala finale, non tanto nel senso del lieto fine quanto per la capacità di uscire e non contentarsi di un nichilistico, pigro, manieristico restare a mollo nel male – dice già qualcosa per Nina di un rito di passaggio all’età adulta che è sempre un morire, ma qui assume toni anche più foschi. Un’opera al nero, dunque, sobbollente tra i decreti ministeriali della pandemia, i sequestri in casa di un’intera popolazione, le dinamiche elettroniche non sane – ma in fondo le uniche a disposizione – per dialogare: i suicidi non dichiarati di quel periodo emergono qui assieme ad altri spettri tutti interiori, al ritmo del ritrovamento notturno di ossa di topo e di uscite impossibili in una tenebra dai plurimi significati.

In tale sterilità d’ambiente in cui la famiglia di Nina – con l’eccezione del tormentato e adorabile fratello Alfredo – è finita alla deriva di un’ottusa passività e di riti compulsivi vuotamente problematizzanti assieme al resto della popolazione, l’adolescente coglie frequenze di morte di tipo nuovo, ma soprattutto incontra un predatore: un quindicenne dal passato travagliato che però, complice la molle distrazione delle agenzie di appoggio attorno (un’affidataria miope, dolciastra e ambigua, un prete superficialotto), ha maturato peculiari caratteristiche. Onde evitare spoiler, limitiamoci alla definizione da quarta di copertina: “il male corrisponde pienamente alla natura di chi agisce, e non cerca né comprensione né assoluzione” (appunto: l’affidataria e il prete, ma in fondo una platea di lettori dai buoni sentimenti). Se nell’Ottocento dei teologi salutisti Joseph Sheridan Le Fanu li mostrava incapaci di cogliere la vertigine autentica del Male e dunque di intervenire a soccorso di chi soffra, con un’operazione in parte simile e più laica Ghinelli punta qui il dito su alcune terribili possibilità di Male (lasciamogli la lettera maiuscola per le sue dimensioni di mistero etico tutto umano, non importa se secolarizzato) in fondo agevolato da fenomeni dei nostri tempi.

Tuttavia le peculiarità paranormali di Nina non la rendono realmente diversa da qualunque adolescente sensibile, e le manifestazioni “parapsicologiche” rappresentano in fondo solo un’espressione letteraria fantastica di irruzioni reali dell’orrore e del nonsenso nel tessuto sensibile, plastico e ancora tanto fragile, dei giovanissimi dei nostri giorni. Mentre il nero cui l’autrice offre voce per narrare è qualcosa che riconosciamo anche come adulti, scesi almeno qualche volta in quegli inferi che non frequenteremo solo post mortem, ma che ci vengono spalancati da contingenze storiche (come appunto la pandemia) o catabasi personali. La lingua asciutta del romanzo pare la più congrua a una simile opera al nero.

Le visioni di Nina si chiudono così con un quadro dove tutto punta verso la necessità di porsi domande, di maturare consapevolezze – superando anche limiti umanissimi di chi sta intorno, come qui i genitori, ma salvando quel quid di sacro che offre senso al vivere. Di ribellarsi alle manipolazioni (dei piccoli “deboli” assassini – lo vediamo nella cronaca tragica e grottesca di questi giorni – come di una società brutta e fintamente forte di veri uomini frustrati e depressi che costituisce solo l’altro lato della stessa medaglia predatoria) e di coltivare fuor d’ogni buonismo una capacità d’amare. Purché effettiva, sana e vitale.

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Sport e dintorni – Guardare al calcio e ai suoi stadi in altro modo è possibile https://www.carmillaonline.com/2023/11/30/sport-e-dintorni-guardare-al-calcio-e-ai-suoi-stadi-in-altro-modo-e-possibile/ Thu, 30 Nov 2023 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79895 di Gioacchino Toni

Da qualche tempo a questa parte sembra quasi che la bellezza di uno stadio di calcio sia riducibile alla modernità delle sue strutture. In realtà, scrive Vladimir Crescenzo, Il giro del mondo in 80 stadi. I campi da calcio più incredibili del pianeta (Meltemi 2023), la ricerca dell’ultra tecnologico si configura come uno nuovo strumento di entrate per i club che viene ad aggiungersi al business del marketing all’interno di un processo di ripensamento dell’“esperienza spettatore” in funzione consumista.

«La posta in gioco è in effetti alta per i club, impegnati a sedurre un nuovo pubblico e a [...]]]> di Gioacchino Toni

Da qualche tempo a questa parte sembra quasi che la bellezza di uno stadio di calcio sia riducibile alla modernità delle sue strutture. In realtà, scrive Vladimir Crescenzo, Il giro del mondo in 80 stadi. I campi da calcio più incredibili del pianeta (Meltemi 2023), la ricerca dell’ultra tecnologico si configura come uno nuovo strumento di entrate per i club che viene ad aggiungersi al business del marketing all’interno di un processo di ripensamento dell’“esperienza spettatore” in funzione consumista.

«La posta in gioco è in effetti alta per i club, impegnati a sedurre un nuovo pubblico e a spingere quelli che vedono a volte come “consumatori” a spendere sempre di più. A rischio di sostituire i tifosi con degli spettatori disposti a sborsare prezzi non di rado elevati per un posto, ma estasiati dalla possibilità di farsi recapitare un sandwich durante la partita senza doversi nemmeno alzare. Nonché di trasformare in un tempio del consumo quello che per certi versi potrebbe essere quasi definito un luogo di culto»1.

Il processo di trasformazione del tifoso in utente-consumatore tenuto a vivere l’esperienza dello stadio come si trovasse in un parco divertimenti a tema è ravvisabile già nella gentrificazione degli stadi inglesi che ha letteralmente espulso le classi popolari dagli spalti consegnandoli, come efficacemente descritto sin dai primi anni Settanta del secolo scorso da Ian Taylor2, alla classe media intenta a estende i propri modelli e il proprio immaginario all’intera società. All’interno di tale processo, scirve John Clarke, alla figura del tifoso “genuino”  riconducibile al proletario tradizionale che viveva nell’attesa della partita settimanale «con le sue fortune inestricabilmente legate alle sorti della squadra, partecipante attivo del gioco», si è sostituita quella del «consumatore razionale e selettivo dei servizi di intrattenimento, che commenta dal suo comodo posto in tribuna. Questa antinomia trova la sua ipotesi esplicativa nelle figure del “Fan” da un lato e dello “Spettatore” dall’altro»3.

Tale processo di sostituzione del tifoso con l’utente-consumatore è inoltre ravvisabile, secondo Vladimir Crescenzo, nella trasformazione degli impianti dei club più blasonati in attrazione per turisti e nell’ossessione degli impianti più moderni di “offrire” agli spettatori efficaci collegamenti Wi-Fi, quasi fosse più importante connettersi via smartphone all’interno di uno stadio che non godere della partita e dell’atmosfera che dovrebbe contraddistinguerlo. D’altra parte molti spettatori passano l’intera partita a riprendere col cellulare il campo mantenendo un occhio ai megascreen sperando di essere inquadrati. Un protagonismo allo stadio che tende sempre più a indirizzarsi sugli schermi in un processo di derealizzazione dell’evento e dei suoi protagonisti in una sorta di videogame.

Quanto tale tendenza finalizzata a trasformare i tifosi in utenti sia subita, digerita o condivisa dagli appassionati è difficile dirlo. Di certo si è preferito sorvolare sulle contrarietà all’indirizzo intrapreso dal calcio espresse dalle tifoserie organizzate costrette a loro volta a fare i conti con una crisi di identità derivata in buona parte proprio dalle trasformazioni in atto nel mondo pallonaro.

Nel voler dunque raccogliere in un volume ottanta stadi e campi da gioco fra i più belli e insoliti del pianeta, Crescenzo ha preferito guardare all’estetica degli impianti prendendo in considerazione gli ambienti in cui sono inseriti: che si tratti di montagne innevate, foreste, spazi deserti o città densamente popolate, a interessarlo è l’armonia tra un campo e lo scenario naturale e umano che lo circonda.

Tra gli impianti più suggestivi trattati nel volume si segnalano: lo Stadio di Leh, in India, nel cosi detto “deserto freddo” a 3.500 metri di altezza; i campi galleggianti The Float a Marina Bay (Singapore) e Koh Panyee (Thailandia); il Qeqertarsuaq Stadion e l’Uummannaq Stadion tra i ghiacci della Groenlandia; il suggestivo Estadio Saturnino Moure a Buenos Aires, letteralmente circondato dal fiume Riachuelo; i cileni Estadio San Carlos de Apoquindo si Las Condes e Estadio Sausalito di Viña del Mar; il campo tracciato sulla terra in una township del nord-ovest di Windhoek in Namibia; l’austriaca Saalfelden Arena dialogante con le montagne; lo Sportplatz Heligoland nell’omonimo arcipelago; l’irlandese Glentornan Park di Dunlewey; il Victoria Stadium con il monte Errigal sullo sfondo a Gibilterra; il campo Á Mølini di Eiði nelle isole Faroe; i norvegesi Alfheim Stadion a Tromsø e Henningsvær Stadion nelle Isole Lofoten; il portoghese Estádio Municipal de Braga integrato al paesaggio circostante; il moscovita Meshchersky Park, letteralmente affogato nella foresta; lo Stadio Hienghène incastonato tra la baia e le montagne in Nuova Caledonia.

Senza negare che al fascino di un impianto possa contribuire un’architettura avveniristica, l’autore, avvalendosi del contributo di numerosi fotografi, ha inteso «dimostrare che l’anima e la singolarità di uno stadio, tanto nel calcio professionale che amatoriale, sono commisurate a ciò che vi si racconta, alla storia che vi si inscrive. E di ciò che ci svela della cultura locale, non solo calcistica. Ecco perché le storie a margine delle pagine sono scritte minuziosamente, per onorare le foto che le illustrano. Un sapiente equilibrio fra immagini pittoresche e cultura calcistica, con lo scopo di ricondurre a ciò che costituisce l’essenza stessa di questo sport universale»4.

Quello proposto da Vladimir Crescenzo è insomma un viaggio tra i campi e gli stadi di calcio del pianeta osservati con uno sguardo diverso da quello che tendenzialmente viene imposto agli appassionati di calcio che si vogliono sempre più utenti-consumatori. Un viaggio corredato da fotografie di grande effetto e da testimonianze geopolitiche, sociali e culturali volte a mettere in luce la storia e la cultura di club non per forza di cose di primo piano. Se un altro calcio è possibile, di certo lo è anche il modo con cui si può guardare ai suoi impianti.


  1. Vladimir Crescenzo, Il giro del mondo in 80 stadi. I campi da calcio più incredibili del pianeta, Meltemi, Milano 2023, pp. 10-11. 

  2. Cfr. Ian Taylor, “Football Mad”. A Speculative Sociology of Soccer Hooliganism, in Eric Dunning (ed.), The Sociology of Sport, Cass, London 1971. 

  3. John Clarke, Football hooliganism. Calcio e violenza operaia, DeriveApprodi, Roma 2019, p. 48. [su Carmilla]

  4. Vladimir Crescenzo, Il giro del mondo in 80 stadi., op. cit., p. 11. 

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L’Unico e la sua proprietà https://www.carmillaonline.com/2023/11/29/lunico-e-la-sua-proprieta/ Wed, 29 Nov 2023 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80056 Raúl Zecca Castel, L’unico in rivolta. Vita e opera di Max Stirner, Red Star Press, Roma 2023, pp. 202, 19 euro

[Si pubblica qui di seguito un estratto dall’Introduzione al libro di Raúl Zecca Castel sulla vita e le opere di Max Stirner, edito da Red Star Press. Per esigenze grafiche e di lettura, gli estratti qui presentati sono riprodotti senza l’apparato di note corrispondente. S.M.]

«Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di “diritti dell’uomo” […], sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io […]. Proprietario del mio potere sono io stesso, [...]]]> Raúl Zecca Castel, L’unico in rivolta. Vita e opera di Max Stirner, Red Star Press, Roma 2023, pp. 202, 19 euro

[Si pubblica qui di seguito un estratto dall’Introduzione al libro di Raúl Zecca Castel sulla vita e le opere di Max Stirner, edito da Red Star Press. Per esigenze grafiche e di lettura, gli estratti qui presentati sono riprodotti senza l’apparato di note corrispondente. S.M.]

«Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di “diritti dell’uomo” […], sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io […]. Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico» (Max Stirner)

«L’unico e la sua proprietà» viene dato alle stampe dall’editore Otto Wigand di Lipsia nell’ottobre del 1844, ma a distanza di soli pochi giorni dalla pubblicazione cade sotto il pugno delle ferree leggi censorie del tempo e le autorità politiche del governo di Sassonia ne dispongono l’immediato sequestro, “poiché non solo in singoli passi di tale scritto Dio, Cristo, la Chiesa e la religione in generale vengono trattati con la più irriguardosa blasfemia, ma anche tutto l’assetto sociale, lo Stato e il governo vengono definiti come qualcosa che non dovrebbe più esistere, mentre la menzogna, lo spergiuro, l’assassinio e il suicidio vengono giustificati e il diritto di proprietà viene negato”. Nemmeno una settimana più tardi viene però emessa un’ordinanza di dissequestro e il testo, ora giudicato innocuo e insensato, torna in circolazione. Ancora pochi giorni e un nuovo opposto provvedimento ne decreta la rimozione dal territorio sassone; poi, il 26 agosto 1845 viene definitivamente messo al bando in tutto il Regno di Prussia. Ma è ormai troppo tardi: la turbolenta vicenda di quest’opera “famigerata […], la più estrema che conosciamo in genere” ha già avuto inizio.

Nel corso degli anni si succederanno innumerevoli e controversi giudizi, appassionate dispute interpretative, feroci critiche ed entusiastici elogi, strumentali richiami e grossolane ideologizzazioni, lunghi intervalli di misterioso oblio e improvvise riscoperte alle quali nemmeno l’autore riuscirà a sottrarsi. Friedrich Engels sarà il primo a riconoscere in Stirner “il profeta dell’odierna anarchia”, tanto che l’“ingenua” teoria proudhoniana, “non avrebbe mai portato alle dottrine anarchiche attuali, se Bakunin non vi avesse iniettato una buona dose di rivolta stirneriana; in seguito alla quale gli anarchici sono diventati dei puri ‘unici’, talmente unici” – concludeva con sarcasmo – “che due di loro non possono sopportarsi”. Il giudizio appare acquisito e si protrae – non senza obiezioni, anzi – fino ai giorni nostri: “il più rappresentativo filosofo e ideologo dell’anarchia […], una coscienza visceralmente anarchica”, scrive di lui Antimo Negri. “Stirner può essere annoverato tra i rappresentanti di uno dei poli dell’anarchismo, forse il più importante”, assicura Carlo Roehrssen riferendosi all’individualismo anarchico, e aggiunge poi che “Stirner è certamente un antesignano, un padre fondatore dell’anarchismo”. Massimo La Torre affianca Stirner a William Godwin e a Pierre-Joseph Proudhon in quella che considera la triade dei “pensatori che danno origine alla filosofia politica anarchica”, sostenendo come Der Einzige und sein Eigentum [sia] dunque, molto più di An Inquiry on Political Justice di Godwin e di Qu’est-ce que la propriété? di Proudhon, un libro anarchico” e che si tratti dell’“l’opera in cui per la prima volta, e in maniera articolata e coerente, viene esposta una filosofia morale e politica anarchica”. Una filosofia molto pericolosa a parere di Albert Camus, che legge nelle pagine di Stirner la legittimazione e l’istigazione a una violenza che si sarebbe poi realmente espressa nelle varie “forme terroristiche dell’anarchia”. Ma questa interpretazione, che riconduce a Stirner le responsabilità morali del terrorismo anarchico, viene condivisa e suffragata anche da altri osservatori che, come evidenzia William J. Brazill, “hanno suggerito un legame diretto tra Stirner e i terroristi russi del XIX secolo, in particolare con Sergei Nechaev”.

Sempre a questo filone interpretativo di matrice anarchica appartiene poi la singolare visione di uno Stirner anarco-sindacalista e operaista, considerato il “maggiore teorico e ispiratore della lotta sindacale”. Visione quanto meno paradossale se si tiene conto del fatto che i concetti filosofici cui ruota attorno la filosofia di Stirner sono quelli dell’egoismo e dell’interesse proprio; concetti, cioè, a prima vista antitetici rispetto a quelli dell’organizzazione sindacale, che evidentemente implicano un valore solidaristico condiviso da una collettività. Non è un caso perciò se Enrico Ferri, studioso del pensiero stirneriano, esprime il parere perfettamente opposto per cui “appare difficile, se non impossibile, annoverare Stirner tra i teorici dell’anarchismo” dal momento che ha elaborato “la più radicale concezione individualistica della filosofia moderna”. E non è il solo a pensarlo. Molto prima di lui, in un saggio del 1904 di Victor Basch, se da un lato veniva riconosciuta l’appartenenza di Stirner alla corrente dell’individualismo anarchico – come eloquentemente annunciato dal titolo stesso dell’opera –, dall’altro si arrivava alla conclusione secondo cui tale anarchismo troverebbe espressione compiuta in un elitismo eroico di tipo aristocratico, sia pure con esiti paradossalmente democratici. Ed è a questa figura mitica dell’Unico, declinata in una dimensione epica e quasi millenaristica, che dovette fare riferimento il Benito Mussolini socialista quando rammentava le sue “escursioni sulle più alte vette del mondo” – “dolomiti del pensiero” s’intende, dal momento che scriveva dal carcere –, tra le quali vi si trovava, primo della lista, il nome di Stirner, seguito da quelli di Nietzsche, Goethe, Schiller, Montaigne e Cervantes.

Ancora nel dicembre del 1919, un Mussolini già meno socialista e molto più fascista, si sgolava energicamente sciorinando bassa retorica e incutendo cattivi presagi: “basta, teologi rossi e neri di tutte le chiese, con la promessa astratta e falsa di un paradiso che non verrà mai! Lasciate sgombro il cammino alle forze elementari degli individui, perché altra realtà umana, all’infuori dell’individuo, non esiste! Perché Stirner non tornerebbe d’attualità?”. A conti ormai fatti, ci avrebbe pensato Hans Helms nel 1966 a iscrivere Stirner al partito fascista, affermando lapidariamente che “la storia dello stirnerianismo è una storia del fascismo”. Eppure, il fascistissimo Paolo Orano non avrebbe mai sottoscritto, poiché a suo dire, l’Unico stirneriano “nulla ha a che vedere con il crudo breve risoluto realismo delle Camicie Nere”.

Tuttavia, ciò non ha impedito a Luca Leonello Rimbotti di accreditare a Stirner gravi responsabilità storiche. Facendo riferimento al presunto influsso che Stirner, mediato da Eckart, avrebbe avuto su Hitler, Rimbotti sostiene infatti che è “possibile leggere un’intera epoca del Novecento come qualcosa di molto simile ad una rivelazione violenta delle profezie stirneriane”. Ecco allora che un fedele sostenitore del regime nazista come Carl Schmitt, dal carcere per crimini di guerra di Norimberga dove era rinchiuso, affidava ad un piccolo scritto alcuni significativi pensieri su Stirner. Confessava dunque come “Max” – la confidenza è tutta sua – fosse l’unico a fargli visita nella cella e gli riconosceva il merito di aver “trovato il titolo più bello e comunque più tedesco di tutta la letteratura tedesca”.

[…]

È un misto di fascino e ripugnanza, attrazione e sgomento a contraddistinguere la prima ricezione dell’opera di Stirner, un’opera estrema che chiude i conti con tutta la filosofia precedente compromettendone irrimediabilmente la salute. Per queste ragioni si dovette pensare di escluderla e Kuno Fischer poté scrivere che essa “nulla ha in comune col nome della filosofia e della critica”.

Prima di relegare L’Unico all’ideologia anarchica, Engels aveva (s)qualificato l’opera di Stirner come “la punta acuminata di ogni teoria che si muova all’interno della stupidità corrente” e, ancora, come “perfetta espressione della pazzia corrente”. Eppure si era subito preso la briga, assieme a Karl Marx, di redigere una “critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti” – questa la didascalia che accompagnava il titolo dell’opera, L’ideologia tedesca –, dedicando, piuttosto significativamente, quasi quattro quinti del libro a Stirner, lì ribattezzato con il nome di San Max e associato a San Bruno (Bauer) in un lungo capitolo intitolato Il concilio di Lipsia.

Marx ed Engels non mancano certo d’ironia e nel ricondurre al vecchio carro astratto dell’idealismo, oltre che Feuerbach e Bauer, anche un nemico giurato di tale impostazione filosofica come Stirner, si dilettano nell’attribuirgli divertenti titoli ecclesiastici e spiritosi soprannomi. Ecco dunque il santo scrittore, il buon padre della chiesa tedesca, il beato Max e Jacques le bonhomme, Sancio Panza o il caballero dalla tristissima figura alle prese con la condanna marxiana lungo una dettagliata analisi critica de L’Unico tesa a demolirne ogni singolo paragrafo, ogni singola frase, e in diversi casi ogni singola parola.

Stupisce il fatto di tanto accanimento e resta la sensazione che all’ombra del sarcasmo con cui Stirner viene bistrattato si nasconda in realtà una forte preoccupazione nei confronti della sua filosofia. Sorge dunque spontaneo il dubbio che il filosofo Giorgio Penzo ha espresso in diverse occasioni per cui “si può forse pensare che nel leggere L’Unico e la sua proprietà Marx ed Engels abbiano avuto subito coscienza delle doti geniali di Stirner e che abbiano intuito che si trattava di un avversario pericoloso per quanto riguardava la problematica sociale. Forse per questo – conclude Penzo – Marx ed Engels cercarono in San Max di relegare il più possibile il pensiero di Stirner nell’ambito di un filosofare idealistico vuoto e fumoso che doveva ormai essere del tutto superato”.

Alle stesse conclusioni era giunto molti anni prima lo storico delle idee Henri Arvon, il quale faceva notare come nel periodo precedente il 1848 era con gli argomenti forniti da L’Unico che si lottava contro il socialismo ed è per questo molto probabile che Marx avesse visto nel suo autore un nemico da eliminare. In nessun altro modo sarebbero comprensibili toni così violenti e ridicolizzanti come quelli impiegati nell’Ideologia tedesca se non con il disperato tentativo di mettere a tacere idee piuttosto scomode. L’opera di Marx ed Engels rimarrà però ostaggio della critica roditrice dei topi per quasi un secolo e solo nel 1932 vedrà la luce. Per la legge della nemesi storica gli auspici che avevano animato l’impegno di Marx ed Engels non saranno esauditi e, anzi, si riveleranno controproducenti. Come rileva sempre Henri Arvon, “L’ideologia tedesca, che nelle intenzioni di Marx avrebbe dovuto mostrare l’inconsistenza della filosofia stirneriana, costituisce, al contrario, la testimonianza irrecusabile del suo valore storico”.

A prescindere dalla polemica marxiana, resta il fatto che se di ricezione filosofica de L’Unico si può parlare, questa avvenne esclusivamente nel ristretto circolo della sinistra hegeliana al quale Stirner apparteneva e nel quale si era formato, e avvenne solo per un breve periodo, dal momento che già a partire dal 1848 l’opera pare dimenticata. La sua rinascita porta la data del 1898 e corrisponde all’anno in cui lo scrittore e attivista John Henry Mackay, sulle tracce di Stirner da diverso tempo, ne pubblica una bio-agiografia all’insegna dell’anarchismo, facendone il primo teorico dell’individualismo anarchico e dando così avvio alla lettura fortemente politicizzata dell’opera cui si faceva più sopra riferimento.

Lettura che “ne ipoteca fortemente l’avvenire”, per dirla ancora con Arvon, il quale non dubita invece nel porre Stirner alle origini di una delle correnti più significative della filosofia contemporanea, quella dell’esistenzialismo, accennando, in conclusione al suo testo, un accostamento con Kierkegaard già intrapreso da Martin Buber ne La domanda rivolta al singolo del 1936 e invitando ad approfondire tale dimensione esistenziale del pensiero stirneriano. L’invito sarà appunto raccolto da Penzo in un testo del 1971 fin dal titolo programmatico: Max Stirner. La rivolta esistenziale, nel quale l’autore non nega la natura anarchica del pensare stirneriano, ma sostiene che “si è di fronte a un anarchismo tutto particolare, definibile come un anarchismo della ragione”. Secondo Penzo, infatti, Stirner tematizza una nuova concezione esistenziale dell’essere che si precisa nella forma dell’egoismo, qui inteso come condizione umana dell’Io in relazione alla morte di ogni pensare idealistico-universale. Si tratterebbe in fondo della problematica della morte di Dio – sia pure celato sotto le mentite spoglie dell’Uomo feuerbachiano – e del conseguente confronto con il Nulla. Tematiche che, a partire da sensibilità squisitamente esistenziali, aprirebbero il varco alla terribile verità del nichilismo. Ed è su questo terreno ermeneutico, difatti, che Camus riconosce in Stirner il precursore del nichilismo nietzscheano. Come già accennato, d’altronde, la figura dell’Übermensch è stata spesso accostata a quella dell’Unico, e sono diversi, effettivamente, i punti di contatto tra il pensiero stirneriano e quello di Nietzsche, tanto che, stando alla testimonianza dell’amica Ida Overback, lo stesso Nietzsche se ne sarebbe preoccupato temendo l’accusa di plagio. Vano, dunque, il tentativo della sorella Elisabeth teso a negare qualsivoglia debito filosofico di Friedrich nei confronti di Stirner se si prende in considerazione anche la testimonianza dello storico tedesco Adolf Baumgartner, che afferma di aver letto L’Unico su indicazione del suo maestro Nietzsche, il quale avrebbe poi accompagnato il consiglio al giudizio per cui l’opera di Stirner “è quanto di più audace e consequenziale sia stato pensato dopo Hobbes”.

[…]

Bisognerà allora cominciare col domandarsi cosa realmente vi sia scritto in questo libro – vero e proprio corpus delicti – che ha suscitato così tante reazioni contrastanti; quale ne sia il messaggio contenuto, quali le intenzioni.

E bisognerà di conseguenza chiedersi chi si cela dietro il nome di Max Stirner, chi veramente sia stato. Forse un giovane hegeliano troppo audace? Un profeta dell’anarchismo? Un teorico del sindacalismo? Un borghese individualista? Un violento apologeta del terrorismo? Un cultore della forza e un precursore del fascismo? Un filosofo esistenzialista? Un nichilista? Un semplice provocatore? Un folle?

Ma soprattutto bisognerà domandarsi chi è questo suo Unico, questo Egoista, questo Proprietario di cui si parla. Una nuova categoria dell’umano? Una figura del futuro? Addirittura un “mostro inumano”?

Sono, queste, solo alcune delle domande cui si tenterà una risposta, pur con la consapevolezza dell’impossibilità di giungere a soluzioni certe né tanto meno definitive del pensare stirneriano, per sua natura refrattario e ostile a ogni sistematizzazione.

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In difesa di ciò che resta di un altro tempo e di un altro mondo https://www.carmillaonline.com/2023/11/28/in-difesa-di-cio-che-resta-di-un-altro-tempo-e-di-un-altro-mondo/ Tue, 28 Nov 2023 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80083 di Sandro Moiso

Carl Safina, Il viaggio della tartaruga, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 624, 32 euro

«Qui videro mandrie così mostruose di balene, che furono costretti a procedere con molta cautela, per evitare di investirle.» (Willem Cornelisz Schouten, The Relation of a Wonderfull Voiage made by Willem Cornelison Schouten of Horne. Shewing how South from the Straights of Magelan in Terra Delfuego: he found and discovered a newe passage through the great South Seaes, and that way sayled round about the world, London 1619, citato da Herman Melville in Moby Dick)

Inconsapevolmente sulle tracce di Moby Dick e del [...]]]> di Sandro Moiso

Carl Safina, Il viaggio della tartaruga, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 624, 32 euro

«Qui videro mandrie così mostruose di balene, che furono costretti a procedere con molta cautela, per evitare di investirle.» (Willem Cornelisz Schouten, The Relation of a Wonderfull Voiage made by Willem Cornelison Schouten of Horne. Shewing how South from the Straights of Magelan in Terra Delfuego: he found and discovered a newe passage through the great South Seaes, and that way sayled round about the world, London 1619, citato da Herman Melville in Moby Dick)

Inconsapevolmente sulle tracce di Moby Dick e del capitano Achab, ogni amante della Natura dedito ad inseguire il poco che è rimasto di un mondo selvaggio e quasi de tutto scomparso dovrebbe affrontare la lettura dell’ultima opera di Carl Safina edita da Adelphi nella collana «Animalia». Ma anche chi non coltivi vacanze e viaggi avventurosi ai confini del mondo, ma sia comunque preoccupato per la rapidità con cui il vigente modo di produzione sta procedendo alla distruzione dell’ambiente, del pianeta e delle specie che lo abitano dovrebbe leggere questo libro, a metà strada tra relazione scientifica e poema epico di stampo melvilliano.

Carl Safina (Brooklyn, 1955) è un biologo statunitense, autore di numerosi libri ed altri scritti sulla relazione tra gli esseri umani e il mondo naturale, tra i quali questo è il terzo ad essere pubblicato dalle edizioni Adelphi. Gli altri due sono: Al di là delle parole, pubblicato nel 2018 e con cui è stata inaugurata la medesima collana, e Animali non umani (2022). Tutte opere con cui ha vinto numerosi premi letterari e non, mentre il suo impegno scientifico è stato sempre accompagnato da un vivace impegno in difesa dell’ambiente e, soprattutto, dei mari e delle specie che li abitano; anche attraverso le ridefinizione delle leggi internazionali che regolamentano la pesca .

In generale, però, l’autore con i suoi studi ha cercato, a partire da Al di là delle parole, di sottolineare non soltanto i tratti evolutivi che ci legano agli altri animali (dai pesci ai primati) sul piano morfologico e genetico, come già hanno contribuito a ricostruire le scienze biologiche negli ultimi decenni, ma a verificare l’incidenza di quei tratti a livello cognitivo e affettivo-emotivo. Cercando di penetrare in un ventaglio di intelligenze, «coscienze» e «visioni del mondo» di altri animali – con cui condividiamo molti «correlati neurali», a partire dal cervello «antico» e dalla sua tastiera emotiva – insieme familiari e aliene, contigue e alternative. Al punto da mettere in dubbio, ancora una volta, la tesi secondo la quale l’uomo sarebbe la misura di tutte le cose.

Oltre tutto, mettendo in discussione il pregiudizio diffuso secondo cui la «cultura» sarebbe un tratto distintivo ed esclusivo di dell’Homo sapiens. Safina ha così contribuito a demitizzare l’«unicità» di tante nostre facoltà o comportamenti: il che vale per gli strumenti tecnologici, per le capacità linguistico-musicali o per le cure e gli insegnamenti parentali. In questa particolare e innovativa visione le varie specie prese in esame nei libri precedenti non sono più dunque semplici tessere del mosaico della vita, ma dimostrano la loro contiguità rispetto all’uomo.

Il testo appena pubblicato da Adelphi e pubblicato in origine nel 2007 con il titolo Voyage of the Turtle. In Pursuit of the Earth’s Last Dinosaur, come si comprende fin dal titolo, si occupa di una delle specie apparentemente più lontane dall’Uomo e, soprattutto, molto più antica dello stesso, oltre che di molte altre specie animali.

Esiste una presenza, nell’oceano, che raramente cogli nelle ore di veglia, e che visualizzi meglio nei sogni. Mentre scivoli nel sonno, le tartarughe cavalcano la curva degli abissi, cercando respiro in superficie e ispirazione dal cielo; dalle placide insenature tropicali, o dalla schiuma che sibila in vortici da incubo, affiorano non viste a condividere la nostra aria. Ogni brusca espirazione afferma: «La vita resiste, nonostante tutto ». Ogni inalazione profonda è un giuramento: «La vita continuerà». Ogni loro respiro è una dichiarazione alle stelle e al silenzio indomito. Di notte e con la luce, le tartarughe marine sempre si librano in quel loro universo parallelo stranamente alieno, eppure intrecciato con il nostro.
Cavalcando le maree mutevoli nell’oceano turbolento, e senza resistere ad alcun impulso, si spostano: non motivate dal desiderio, dall’amore o dalla ragione – ma regolate da una saggezza più antica del pensiero, e quindi forse più meritevole di fiducia. Attraverso torride lagune azzurre come gemme, in verdi acque impetuose e fredde, questi angeli dell’abisso avanzano remando – progenitori del nostro mondo, antichi e senza età.
Ultimo mostro rettiliano dal sangue caldo rimasto sulla Terra, tutta avvolta nella sua pelle, la Tartaruga Liuto, i cui antenati videro dominio e caduta dei dinosauri, è lei stessa quanto di più vicino ci sia a un dinosauro vivente. Immaginate una tartaruga di trecentosessanta chilogrammi e non avrete visualizzato che una Liuto femmina di media taglia: è un animale che può pesarne più di novecento1.

Con uno stile che mescola la poesia alla scienza, Safina ci introduce letteralmente in un altro mondo, più antico, primitivo, semplice e profondo. Quello di una specie abituata ad attraversare gli oceani, forse da milioni di anni. Esseri viventi che, più ancora di altri che l’avidità dell’attuale modo di produzione e riproduzione del mondo ha contribuito già in precedenza a distruggere e a far scomparire, appartengono a un passato in cui l’uomo non esisteva nemmeno nelle sue forme primordiali e precedenti il Sapiens. Ultimi testimoni di ere lontane, destinati ad essere sempre più spesso soffocati da una modernità fatta di materie plastiche che ingerite, in un mare sempre più invaso da rifiuti e PVC, costituiscono ormai il maggior pericolo per la loro sopravvivenza.

Le cosmogonie di molti angoli delle Americhe convergono sulla conclusione che a creare il mondo sia stata una tartaruga. […] Una delle cose che apprezzo di queste storie è che – invece di attribuire l’incantesimo della creazione a un dio remoto che opera a distanza e trattiene in cielo i suoi poteri, come fanno le religioni monoteiste occidentali (anche considerando il subdolo pantheon politeista del cristianesimo) – esse sembrano più saggiamente impregnare d’un senso del miracoloso il mondo a noi vicino e i suoi personaggi.
In alcune parti del Nord America si narra che prima della comparsa sulla Terra degli esseri umani un Signore del Cielo avesse sradicato un grande albero, creando una voragine. Sua moglie ci guardò dentro e vide le stelle brillare nell’oscurità. Curiosa, si sporse troppo – e cadde. Giù, giù, giù, cadde tra le stelle. Gli animali che nuotavano nelle grandi acque del mondo sottostante alzarono lo sguardo. Rapidamente tennero un consiglio e decisero che la Strolaga e l’Anatra dovessero interrompere la sua caduta con le loro soffici ali, e che la donna dovesse posarsi sull’ampio dorso della Tartaruga. Mentre la Signora del Cielo dormiva esausta, il Castoro, la Lontra e il Topo Muschiato s’immersero nel mare cosmico, riportandone del fango con cui coprire il dorso della Tartaruga. Il terreno posato sul guscio andò estendendosi sempre di più, e ben presto le dimensioni del mondo aumentarono: comparvero i corsi d’acqua – e germogliarono alberi, arbusti, erbe, grano e altre piante. Quando la donna si svegliò, si rallegrò e benedì ciò che aveva intorno. E dunque questo mondo, che viaggia a cavallo della Grande Tartaruga in un mare sconfinato, è l’Isola della Tartaruga2.

Non è un caso che in tante ricostruzioni della creazione del mondo diffuse tra le popolazioni del Nuovo Mondo, ben da prima della comparsa invasiva dell’”Uomo bianco” e della sua brama di conquista e appropriazione di ogni risorsa animata e inanimata, avessero al loro centro una delle creature più antiche ancora esistenti sulla faccia della Terra. Rivelando, in fin dei conti l’intimo legame esistente tra le culture e le società che producevano tali ricostruzioni delle origini e la natura in cui erano ancora per gran parte immerse.

L’autore, biologo e direttore di centri di ricerca scientifica, sceglie di usare un linguaggio e uno stile espositivo ben più ricco e vario di quello “freddamente” scientifico cercando, probabilmente, di superare quella separazione tra scienza e natura, nata con la scienza moderna per meglio osservare l’universo circostante con obiettività e distacco, ma che ha finito con l’allontanare sempre più la specie umana dal mondo circostante e dalla sua intrinseca poesia. Finendo così col portare la prima a sottovalutare il secondo, fino a giungere inesorabilmente al precipitare degli eventi climatici e ambientali di cui siamo attualmente testimoni.

Testimoni di un cambiamento e di una distruzione che non è semplicemente di carattere antropico, come qualcuno vorrebbe frettolosamente liquidare generalizzando responsabilità che sono specifiche di un modo di produzione e non della specie nel suo complesso, ma che si è accelerata nel corso degli ultimi secoli e, ancor più, degli ultimi decenni. Distruttività e devastazione accelerate che gli eventi riguardanti le tartarughe Liuto di cui si occupa in particolare il libro di Safina ci aiutano a comprendere ancora meglio nei loro effettivi tempi di avanzamento e diffusione.

Quando le navi europee, con le vele spiegate al vento, puntarono a ovest e a sud, i mari caldi e temperati del pianeta erano ancora pieni di tartarughe marine, ii cui numero era forse nell’ordine dei miliardi. Con ogni probabilità, per ogni tartaruga marina oggi vivente, in passato ve n’erano cento. Solo nell’ultimo secolo molte popolazioni sono declinate del 90 per cento.
Per noi è difficile concepire l’abbondanza di forme di vita presenti negli oceani all’inizio dei tempi moderni. Il secondo viaggio di Cristoforo Colombo, iniziato nel 1493, ci offre, per esempio, quest’istantanea: «In quelle venti leghe … il mare era denso di tartarughe …così numerose da sembrare che le navi dovessero arenarvisi, ed erano come immerse in esse ». […] Spettacoli simili trasmettevano chiaramente l’impressione – sempre sbagliata – di una fauna selvatica inesauribile. I nativi avevano già decimato alcune piccole popolazioni nidificanti: niente in confronto al massacro che di lì a poco sarebbe stato perpetrato dagli europei. Soprattutto nei Caraibi, in epoca coloniale, le tartarughe patirono un colpo durissimo. Subito dopo l’insediamento degli europei, le Tartarughe Verdi – specie preferita e alimento base tanto degli equipaggi delle navi quanto dei coloni in arrivo – divennero oggetto d’un commercio così intenso ed esteso da innescare un’ondata di estinzioni locali in siti importanti per la nidificazione.
Nel 1610, a Bermuda, un colono osservava che « lungo le coste … Tartarughe, Pesci e Uccelli selvatici abbondano come la polvere della terra ». Nel 1620, solo undici anni dopo la colonizzazione, Bermuda era stata già a tal punto sfruttata che per proteggere le tartarughe più giovani il parlamento locale promulgò una legge, forse la prima varata nel Nuovo Mondo all’insegna della conservazione3.

Ecco allora che ricordi di navigazione e testimonianze dei primi esploratori, e dei loro successivi seguaci, confermano quel chiodo d’oro, individuato dagli scienziati del clima, che segna la fase di inizio della devastazione ambientale legata alla azione umana successiva all’avvento delle prime forme del capitalismo commerciale e poi, in seguito, industriale: il Cinquecento, con le sue esplorazioni, conquiste (coloniali e scientifiche) e distruzioni di popoli ritenuti “non umani” in quanto non cristiani e specie animali (destinate a un consumo vorace oppure alle prime forme di trasformazione artigianal-industriali)4.

Ma fermare l’analisi del libro di Safina, una volta giunti a questo punto, sarebbe ancora troppo riduttivo, visto la quantità di dati scientifici, storici, antropologici e biologici su cui lo stesso si basa. Dalla descrizione delle popolazioni che in varie parti del mondo, spesso lontane tra loro, e su differenti oceani si misurano, spesso limitandola, con l’esistenza delle tartarughe marine ai lunghissimi viaggi di queste ultime oppure alla complessità delle forme di vita presenti negli oceani e nei loro abissi.

[…] i Pesci Spada sono predatori visivi. Hanno bisogno di un’ottima vista e della capacità di reagire velocemente, eppure spesso cacciano di notte o in profondità, dove tutto – anche durante il giorno – è in penombra come fosse illuminato solo dalle stelle. (Nel 1967 un Pesce Spada colpì il sommergibile di ricerca Alvin a una profondità di oltre seicento metri; il rostro gli s’incastrò in un giunto, così venne trascinato in superficie, dove poi ricercatori ed equipaggio lo mangiarono). A quelle profondità il freddo rallenta anche i tempi di reazione e compromette la vista. Oltre alla sua letale baionetta, però, il Pesce Spada possiede un’arma segreta nascosta nel cranio: un muscolo unico nel suo genere, che brucia energia senza generare alcun movimento, giacché la sua sola funzione è di produrre calore per riscaldare il cervello e gli occhi durante la caccia nei gelidi abissi, conferendo al suo possessore una vista superiore e dandogli un vantaggio rispetto alle sue prede dal cervello freddo. Nelle cellule di questo strano muscolo mancano le proteine che di solito si contraggono per produrre il movimento; tutta l’energia è invece convertita in calore […] Riscaldando il sangue che scorre nel cervello e dietro agli occhi, il Pesce Spada può mantenere quegli organi fondamentali a temperature di circa 15 °C superiori rispetto all’acqua circostante. Le cellule della retina di un occhio raccolgono la luce; i nervi inviano poi segnali al cervello, a intervalli periodici, come l’otturatore in una telecamera. Le basse temperature aumentano il « tempo di esposizione » nella retina, così che il cervello deve aspettare più a lungo per ogni segnale. A 22 °C gli occhi di un Pesce Spada possono discriminare più di quaranta flash luminosi al secondo, mentre a una temperatura di 10 °C ne distinguono soltanto cinque […] A una profondità di cento metri, gli occhi mantenuti caldi offrono a un Pesce Spada una vista dieci volte più acuta di quella che avrebbe se si trovassero alla stessa temperatura dell’acqua. Anche la penombra aumenta il tempo di esposizione nell’occhio. A circa 500 metri l’oscurità cancella il vantaggio offerto dal calore, e infatti i Pesci Spada ci si spingono solo di rado. […] Quello strano muscolo che riscalda la testa dà loro accesso a una maggiore estensione di oceano e a riserve di cibo che sono fuori dalla portata di altri cacciatori. In mare, le teste calde hanno la meglio.
Quando poi un Pesce Spada ha bisogno di riscaldare tutto il proprio corpo e di digerire, si sposta verso l’alto e viene a prendere il sole in superficie – a portata di arpione5.

Questa è soltanto una delle tante considerazioni e osservazioni scientifiche che, con uno stile sempre brillante, vengono offerte dalle pagine del libro alla riflessione del lettore. Così da ricordargli sempre che lo stupore, la meraviglia o la rabbia per la sua devastazione e/o scomparsa devono essere costituire motivi fondamentali per approcciare un mondo molto più complesso e interagente con la nostra specie in maniera molto più profonda di quanto si possa dedurre dalle esposizioni fiaccamente divulgative oppure marchiate tristemente dalle necessità di trarre profitto tipiche del capitale e dei suoi funzionari economici, politici, tecnico-scientifici o mediatici.

I quali non hanno mai saputo cogliere, per ignoranza o convenienza, la semplice verità espressa da Henry David Thoreau (1817-1862), posta in esergo al volume, che va ben al di là del significato più immediato e che, in fin dei conti, ci riguarda tutti. Tutti noi, esseri appartenenti ad una società tutt’altro che perfetta e, allo stesso tempo proprio per questo, incapace di riconoscere l’armonia, talvolta dai toni violenti, espressa dalla natura che ci circonda.

Sono colpito dal fatto che la terra si prenda cura delle uova delle tartarughe. Vengono piantate nel terreno, e la terra se ne occupa: è amorevole con loro, e non le uccide. Ciò suggerisce una certa vitalità ed intelligenza della terra, di cui non mi ero mai reso conto. Questa madre non è meramente inanimata e inorganica. Anche se mamma tartaruga abbandona la propria progenie, la terra e il sole sono gentili con le uova. Mentre la madre che le ha appena deposte se ne va arrancando, una più vecchia tartaruga, ormai scomparsa e sepolta sotto strati di terra, si prende cura di loro. La terra non è velenosa e mortale, ma ha delle virtù: quando in essa vengono posti dei semi, germogliano; quando si tratta di uova di tartaruga, si schiudono al momento giusto.


  1. C. Safina, Il viaggio della tartaruga, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 20-21.  

  2. C. Safina, op. cit., pp. 319-320. Per un’altra descrizione simile della creazione del mondo si veda Frank B. Linderman, Attorno al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza 2023.  

  3. C. Safina, op. cit., pp. 320-321.  

  4. Si veda in proposito: S.L. Lewis, M.A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019.  

  5. C. Safina, op.cit., pp. 249-250.  

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Sulle piste delle canaglie https://www.carmillaonline.com/2023/11/27/sulle-piste-delle-canaglie/ Mon, 27 Nov 2023 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80155 di Jack Orlando

Atanasio Bugliari Goggia; La Santa Canaglia. Etnografia di militanti politici di banlieue; Ombre Corte, Verona 2023, 345 pp. 25€

Approcciare il tema della militanza politica nelle banlieue del XXI secolo significa entrare a contatto con uno dei fronti caldi delle fratture sociali che agitano l’Europa in crisi, ed è fondamentale che a guidare l’operazione sia una volontà politica più che un’intenzione accademica. Già nel 2022 Bugliari Goggia aveva aperto la questione con il volume Rosso Banlieue1, il cui sottotitolo era quanto mai esplicito: Etnografia della nuova composizione di classe [...]]]> di Jack Orlando

Atanasio Bugliari Goggia; La Santa Canaglia. Etnografia di militanti politici di banlieue; Ombre Corte, Verona 2023, 345 pp. 25€

Approcciare il tema della militanza politica nelle banlieue del XXI secolo significa entrare a contatto con uno dei fronti caldi delle fratture sociali che agitano l’Europa in crisi, ed è fondamentale che a guidare l’operazione sia una volontà politica più che un’intenzione accademica.
Già nel 2022 Bugliari Goggia aveva aperto la questione con il volume Rosso Banlieue1, il cui sottotitolo era quanto mai esplicito: Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi.

Nel primo volume si era indagata la forma che aveva preso nel tempo la composizione subalterna: dalla fine degli operai bianchi nelle cittadelle rosse con le loro rappresentazioni politiche ed estetiche, ad un ibrido sociale a prima vista più simile al lumpenproletariat, dove la rappresentanza non c’è e la linea del colore innerva la comunità.

Un’evoluzione che ha il suo perché nella linea liberista che, dopo aver sconfitto l’ultima insorgenza operaia (se proprio operaia vogliamo chiamarla), ha seguitato a far la sua guerra agli umani senza sosta, nell’obbiettivo di costruirsi un mondo a sua dimensione e disposizione.
Dismesse tutte le architetture di forza costruite dal basso, la banlieue si è avviata a diventare terreno della crisi dove la geografia urbana, il lavoro precario, lo stato sociale smantellato, il controllo poliziesco, tutto concorre a costruire le precondizioni per lo sviluppo di una forza lavoro che langue ai limiti della sopravvivenza ed è perennemente disposta ad entrare, in numeri esigui e a qualunque condizione nei meccanismi della produzione.

Ma se questo è il disegno liberista, altrettanto è vero che la banlieue ha anche un altro volto. Quello del territorio dove la solidarietà comunitaria e di classe tiene insieme le possibilità di una vita comune, dove le condizioni di subalternità sono stemperate e combattute grazie all’azione diffusa e poliforme di una costellazione di gruppi e associazioni che si muovono dal basso, dove ci si ritaglia un senso di appartenenza e di identità e, soprattutto, dove si è in grado di rivoltarsi in massa contro la violenza dello stato di cose presenti.
È qualità umana, d’altronde, saper abitare l’inabitabile.

Delineato lo scenario complessivo con il primo volume, La Santa Canaglia si propone come un approfondimento ulteriore che si incastra e dialoga alla perfezione con il lavoro precedente: identificato il soggetto osserviamo le forme e le istanze della sua resistenza; quali sono le forze in grado di dare una struttura al sentimento di parte e ai bisogni dal basso, quali i processi di attivazione e politicizzazione possibili nella cornice delle banlieue.

Il filo conduttore della ricerca, ciò che tiene insieme il tutto è il posizionamento del ricercatore: non uno scienziato che osserva dall’esterno ma un militante che agisce dall’interno, che opera un lavoro politico. Questo rende possibile l’intreccio di sapere “scientifico” e volontà politica: si mette in movimento una ricchissima mole di riferimenti teorici, analisi e griglie di interpretazione, ma li si piega alle necessità di una inchiesta militante, il cui obbiettivo è essenzialmente quello di porsi a disposizione della lotta, di mettere in condivisione un sapere di modo che sia strumento di emancipazione e battaglia. Nello specifico, identificando e restituendo i contorni del processo di resistenza che porta gli abitanti delle periferie francesi a rifiutare il ruolo imposto di carne da macello per il mercato e farsi soggetto collettivo autonomo.
Non è casuale né accidentale che gli stessi titoli richiamino il lavoro di Danilo Montaldi, Militanti politici di base.

Costituendosi come il campo dei “senza voce”, la gioventù banlieusard trova una propria lingua e si impone al mondo tramite le emeutes, i riot o le rivolte. Attraverso il fuoco e la battaglia di strada riescono ad attirare su di sé gli occhi della società, a (ri)vendicare la propria esistenza.
Ed è ovvio che una narrazione egemone che li vuole docili e muti spinga immediatamente per dipingerli come bande di criminali, di delinquenti da punire; che insinui il dubbio di una regia mafiosa o jihadista, che punti il dito contro le stesse famiglie dei giovani che si mobilitano.
D’altronde non è molto diverso nei momenti di quiete, solo i toni sono più subdoli e pacati, ma la sostanza è quella. Criminalizzare la protesta e mistificare le sue istanze è il processo base per togliere spazio e legittimità politica ai subalterni.
Il politico che firma decreti drastici, il commentatore televisivo che sparge veleno e lo sbirro che ammazza in strada non sono che miseri pezzetti di un ingranaggio vorace votato al dominio e al profitto.

Eppure le rivolte, che sembrano venire dal nulla e andare nel nulla, non sono fuochi fatui. Niente avviene per caso o si genera dal nulla. La possibilità stessa delle emeutes poggia sulla sostanziale solidarietà di classe che innerva tutto il tessuto sociale dei quartieri.
Una istintiva coscienza politica, che non necessita di seminari di formazione, permette di riconoscersi tra eguali, di serrare i ranghi e muoversi nella stessa direzione.
E difatti le banlieue partecipano delle rivolte. La complicità permette il suo replicarsi e perdurare: se i petits sono in strada a scontrarsi con la polizia, il resto del quartiere è lì per proteggerli e offrirgli riparo, le formazioni militanti sono lì per fornire il supporto logistico e politico.

Non vi è una regia occulta, non vi sono generali e fanti in questi balzi in avanti, un sogno che accomuna grottescamente politicanti dell’antagonismo d’accatto e questurini di carriera.
Vi è una dialettica costante che vive dentro i rapporti del quartiere in cui le rivolte non fungono che da acceleratore. È in quelle fasi che l’istinto, la coscienza politica, è propedeutica alla consapevolezza politica, ovvero la sua messa a sistema ed il suo incanalamento dentro una pratica organizzata. Classe in sé e classe per sé, per riprendere la terminologia marxiana evocata nel volume non procedono secondo una traiettoria lineare e teleologica, ma sono in costante relazione, soggette a frettolose ritirate e bruschi avanzamenti. L’una è base costante e minima, l’altra è il suo zenit contingente e messo in forma.

Ne consegue che la rivolta non è l’unica lingua che parla la banlieue. La solidarietà di classe è alimentata ed alimenta realtà collettive che tessono una fitta trama di relazioni e possibilità dentro il quartiere, che incanalano le energie cercando di dargli ossigeno e forza.
E quest’indagine nel darne conto non si limita a ripercorrere la storia delle formazioni e delle modalità della politica dal basso dei quartieri, perennemente strette tra ipotesi di rappresentanza e autonomia, tra repressione e cooptazione; ma la lascia che a parlare siano gli stessi militanti politici di banlieue.
Attraverso stralci di interventi ad assemblee pubbliche, o con lunghe interviste, è la voce diretta di chi organizza il conflitto che restituisce la ricchezza dell’impegno e della militanza, le differenti traiettorie, lo scontro e la convergenza delle ipotesi.

Ne emerge una galassia frastagliata e multiforme, contraddittoria, a volte in competizione, altre in collisione, altre ancora in convergenza, ma dove torna costantemente il tentativo di costruire una potenza comune. L’attività sociale e mutualistica convive con le battaglie vertenziali e l’azione diretta; associazioni di quartiere e collettivi autonomi si muovono indipendentemente sul locale ma si collocano strategicamente su di una dimensione di reti o piattaforme nazionali.
Ciò che tiene insieme il tutto, nella prassi, è l’aderenza al bisogno: ci si muove ed organizza sulle necessità materiali che emergono dalle strade, siano esse quelle della casa, della salute o della socialità. Su queste verte l’intervento principale delle formazioni, per portare i territori sul piano della lotta.

Ma, ed è un “ma” che pesa come il monte Tai, la prospettiva non si limita all’immediato. Perimetrare l’azione sul bisogno permette l’osmosi col proprio tessuto sociale ma diventa assistenzialismo fine a se stesso laddove non trovi corrispondenza con un piano di sviluppo della forza, che sappia trasformare le piccole mobilitazioni in processi di cambiamento radicale. Ed ecco perché vi è il continuo sforzo nel tessere una rete che sia sempre più ampia, più fitta e determinata, come ecco perché della presenza militante nelle emeutes.
Questo rapporto tra spontaneità ed organizzazione è ciò che permette il perdurare di un humus collettivo in grado di sfidare le curve della crisi, del restringimento degli spazi di legittimità ed il ritornare continuo delle rivolte, sempre più larghe e approfondite.
Ultima quella che questa estate ha infiammato l’intera Francia a seguito dell’omicidio di un diciassettenne per mano di un poliziotto e che ha segnato un picco di radicalità finora inedito, sia nelle pratiche di piazza che nella risposta militare dello stato.

Sono schegge di un presente avanzato, o di un futuro già superato, quelle che vengono ricomposte nella banlieue. Qui sta il compimento dell’intenzione politica alla base dell’inchiesta.
Quello che viene disegnato non è un quadro da osservare per il piacere di un orientalismo militante.
La banlieue è scandagliata nel profondo perché è uno dei laboratori avanzati su cui si sperimenta un modello di dominio sociale da applicare poi serialmente. Alla stessa maniera l’osservazione delle sue forme di lotta getta luce sulle resistenze a venire.
Non è un caso che la storica separazione francese tra movimenti delle città, tendenzialmente bianchi e di classe media, e movimenti di periferia si sia andata assottigliando negli ultimi anni. Più la ristrutturazione liberista procede a investire i punti più fragili della ville e trascinarne gli abitanti nel pantano, più condizioni materiali e forme di opposizione vanno accomunandosi.

La citè in fiamme, la citè che si organizza non è che un frammento della realtà. Ma è nei frammenti che si può osservare riflesso un intero universo.
Va da sé che la specificità delle periferie francesi non può essere fotocopiata bell’e buona in altre realtà. Il retaggio coloniale, la rigidità identitaria della république, la storia del declino operaio e delle comunità black e beur, le politiche sociali e quelle repressive, non sono elementi che si possono aggirare; sono anzi gli elementi che vanno analizzati per comprendere il fenomeno.
Parigi non è Milano, che non è Los Angeles né Berlino.
Eppure nessuno può negare come colonia, carcere, sfruttamento, dominio siano gli assi portanti di una architettura generalizzata che, questa si, non conosce confini.

Un’analisi che tenga conto degli elementi concreti e specifici della situazione è essenziale per orientare l’azione, ma ancor di più per cogliere il generale nel particolare, gettare ponti che superino il limite del locale. Se un pezzo di Parigi può essere pescato a Milano, allora possono incontrarsi anche le loro lotte. Dialogare, stringersi, accumulare potenza.

La Santa Canaglia è un’osservazione completa, che unisce metodo e intenzione, realtà quotidiana e profondità teorica, restituendo un lavoro che può essere punto di partenza per ulteriori ed affini tentativi di studio, ma che può anche essere letta come una guida al lavoro della sovversione dell’esistente.
D’altronde di canaglie son piene le strade, quel che occorre che si dotino di un linguaggio comune che ne “santifichi” la forza.


  1. ne avevamo scritto qui  

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L’orco e le ossa, ovvero ricordare il futuro https://www.carmillaonline.com/2023/11/27/80076/ Sun, 26 Nov 2023 23:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80076 di Luca Baiada

Adriano Prosperi, Ieri, oggi e domani. 15 lezioni per amare la storia, Piemme 2023, pp. 208, euro 14.

«Lo ha detto meglio di tutti il grande storico francese Marc Bloch nello scritto sul “mestiere di storico” frutto dei suoi ultimi anni, durante la lotta clandestina nella Resistenza, rimasto interrotto dall’arresto e dall’esecuzione capitale: lo storico è come l’orco della fiaba, va dove lo guida l’odore della carne umana». Il fascino che Adriano Prosperi sente in quello scritto ha percorso le generazioni; altri storici, per esempio Giovanni Contini, gli attribuiscono l’effetto di una calorosa vocazione. Chissà che ad accenderla non [...]]]> di Luca Baiada

Adriano Prosperi, Ieri, oggi e domani. 15 lezioni per amare la storia, Piemme 2023, pp. 208, euro 14.

«Lo ha detto meglio di tutti il grande storico francese Marc Bloch nello scritto sul “mestiere di storico” frutto dei suoi ultimi anni, durante la lotta clandestina nella Resistenza, rimasto interrotto dall’arresto e dall’esecuzione capitale: lo storico è come l’orco della fiaba, va dove lo guida l’odore della carne umana». Il fascino che Adriano Prosperi sente in quello scritto ha percorso le generazioni; altri storici, per esempio Giovanni Contini, gli attribuiscono l’effetto di una calorosa vocazione. Chissà che ad accenderla non possa essere anche questo libro dalla copertina coi colori pastello e con la grafica di certe vecchie scatole di biscotti o di sapone in polvere.

La freccia del tempo suggerita dal titolo sembra scontata, pare muoversi dal passato verso il futuro, ma l’arguzia dell’autore prende la questione per la coda e immagina in questo cammino un viaggiatore imprevedibile, citando Le ricordanze: «L’esperienza ci dice che è il futuro quello che si fa incontro a noi di continuo, fin dall’ingresso nella vita e poi sempre più: fino all’uscita. Solo allora – ha scritto Giacomo Leopardi – “dal mio sguardo fuggirà l’avvenire”».

La figura del gigante di Recanati è ben presente, a Prosperi. Chi lo conosce può vederlo seminare passi pensosi, nella Pisa del Palazzo della carovana e del primo orto botanico del mondo, magari mentre percorre quella viuzza che adesso porta il nome del poeta. Potrebbe essere proprio lei, la via descritta in una famosa lettera del 1828 alla sorella Paolina: «Ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti».

Basta calcare col piede quelle pietre, respirare le muffe decrepite di quei muri, per fare un poeta o uno storico? Lasciamolo credere a chi cerca scorciatoie. L’autore non le ha cercate; la strada che l’ha portato sino alla Scuola Normale di Pisa e all’Accademia dei Lincei l’ha segnata con studi e ricerche e riflessioni. Ora che distilla in una chicca pensata per i ragazzi un sunto delle sue fatiche, sembra quasi che si volga indietro, e forse per questo il rapporto fra i tempi si sbarazza dell’ordine consueto. Fa pensare alle osservazioni di Edward Carr sul rapporto degli storici e dei filosofi col domani, quando ricorda il paradosso di Lewis Namier secondo cui gli storici immaginano il passato e ricordano il futuro[1].

Leopardi, ma non solo lui. La letteratura è una chiave indispensabile perché schiude sensibilità altrimenti inaccessibili, scarta e vola sull’ostacolo come la mossa del cavallo: «La letteratura ha molto da dire a chi, attraverso lo studio della storia, cerca di conoscere la società umana. Quella vivente umanità raccontata nelle creazioni letterarie è la carne che copre le ossa accumulate nei depositi dei manuali di storia».

Naturalmente la letteratura, quella tramandata dai libri, risente di un’egemonia sociale, dei rapporti di forza; Prosperi lo sa, è l’autore di Un volgo disperso: contadini d’Italia nell’Ottocento. Anche di Un tempo senza storia: la distruzione del passato, dove non fa complimenti con un atto del Parlamento europeo, la grottesca risoluzione del 19 settembre 2019, Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, chiamandola «disegno sommario dei regimi, delle ideologie e dell’immane tragedia europea del secolo scorso che non reggerebbe alla prova di un esame di scuola media»[2]; non solo: Prosperi svela le assonanze fra quella risoluzione e il documento Agenda per il futuro di Ursula von der Leyen, all’epoca della sua candidatura alla presidenza della Commissione. Nello stesso libro è chiaro:

L’esperienza del recente passato ha fatto emergere la consapevolezza che la ricerca della verità ha come verifica la capacità del ricercatore di smascherare inganni e falsità del potere, fino al punto che la missione dello storico è stata definita come l’opposto della legittimazione dello Stato e di qualunque altro potere[3].

Perciò. Quando si parla di storia, chi parla di letteratura non è uno che cambia discorso. Semmai, il problema è che se scarseggia la buona letteratura anche la storia ne risente, e ciò costringe un buon orco, insomma uno storico, a cercare la carne fra ossa con poca polpa. Ma la questione delle fonti ha risvolti complessi, e questo libro lo segnala quando ricorda le osservazioni, ancora di Bloch, sulla leggibilità dell’appoderamento, del tessuto campestre e del paesaggio agrario. Non è vero che le classi subalterne, prima dell’alfabetizzazione, siano senza scrittura: i gesti, i modi e i perimetri della produzione, le loro fasi nel susseguirsi delle stagioni e generazioni, le forme che incidono nel mondo sono un modo di scrivere. La manomissione di quel patrimonio è l’incendio di una biblioteca, è un genocidio culturale. Viene in mente Pasolini: «C’era una volta un popolo / abitava in casali tagliati come chiese…»; in quei versi i colpevoli e le vittime del genocidio siamo noi.

Col suo timbro mite Ieri, oggi e domani procede inesorabile, senza sconti:

La caduta del Muro di Berlino convinse l’opinione pubblica che fosse cominciata un’era nuova, quella della libertà. Anzi, ci fu persino un intellettuale americano, Francis Fukuyama, che sostenne una tesi molto audace. Secondo lui quell’eliminazione di un confine, simbolo di un conflitto tra due grandi sistemi sociali, aveva inaugurato nientemeno che la fine della storia umana – non più conflitti né divisioni ideologiche come quella fra comunismo e capitalismo. […] Tesi subito smentita: da allora il mondo intero ha visto sorgere moltissimi conflitti, tra nuovi stati e nazioni, ma soprattutto tra paesi ricchi e paesi poveri. Ci sono confini invisibili in natura, tracciati con segni di penna sulle carte geopolitiche, e ci sono confini sbarrati da costruzioni ostili di ogni genere – reticolati, muraglie, posti di blocco – sorvegliati da corpi militari.

Parole scritte in tempi non sospetti, prima che, il 7 ottobre di quest’anno, un muro costruito da una potenza nucleare venisse bucato da persone tecnologicamente più arretrate, accompagnate da radicalismi che fanno a gara con quelli dei loro carcerieri. Il tutto, con molte conseguenze. Effetti del buco o colpa del muro?

Chi vagheggia la fine della storia accettando che sopravvivano disuguaglianze e che non si facciano i conti con l’ingiustizia, non fa altro che tracciare nuovi confini invisibili, ostacoli complici delle costruzioni ostili; cioè premesse di duri regolamenti di conti, quando emerge brutale la realtà. Per questo lo storico non è, non può essere neutrale. Quando va bene è compagno d’armi dalla parte della giustizia, altrimenti è il contabile dei carnefici, il magazziniere di una macelleria. Ma l’autore non rivendica una fragile innocenza. Come dice Albert Camus, nessun uomo è del tutto colpevole, non ha dato inizio alla storia; e neppure del tutto innocente, visto che la prosegue. E Camus – guarda un po’ le coincidenze – nel 1937 consegna al suo taccuino le passeggiate notturne pisane, sciogliendo una prosa in cui ci si può illudere di sentir l’eco di Dino Campana: «La mia voglia di lacrime finalmente si sfoga. […] Non esiste vita che non sia quella di cui lungo l’Arno i miei passi ritmavano la solitudine». Ci sono luoghi che raggiano incantesimi, e l’antica città morta, il porto sepolto che riposa su un limo di secoli, forse diffonde aure speciali, con cui la letteratura «ha molto da dire» a chi studia la storia. Magari, aure che tornano nel racconto perduto, velate in chiaroscuro da Antonio Tabucchi in Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa.

A chi legge il capitolo Periodizzare: che significa? Medioevo, Umanesimo, Rinascimento tocca la scoperta di un continente impalpabile, intrecciato alla questione della scansione del tempo, rivisitata attraverso la storia dei nomi attribuiti per convenzione alle epoche. Quei nomi d’uso sono pietre miliari che di solito si imparano a memoria, senza tener conto di chi le ha poste. E si nota qualcosa. Dal gomitolo della modernità sporge un filo:

Toccò a uno dei ricercatori, Poggio Bracciolini, scoprire nel 1417 mentre si trovava a Costanza, l’unica copia sopravvissuta del grande poema di Lucrezio, il De rerum natura. Fu un libro di cui si è detto (Stephen Greenblatt) che ha causato la svolta epocale (“the Swerve”) dell’apertura del mondo moderno. Dobbiamo riconoscere che quella scoperta non rivelò solo un capolavoro assoluto ma portò nella tradizione cristiana europea l’immissione di un diverso orizzonte mentale, quello del materialismo antico e dell’etica epicurea.

Si può aggiungere che, senza la riscoperta di Epicuro, quattro secoli dopo l’Umanesimo un giovane tedesco non avrebbe potuto scrivere la sua dissertazione sulla filosofia naturale in Democrito e in Epicuro. Senza quegli studi e quell’orizzonte, uniti al messianismo proprio della sua molteplice formazione religiosa e familiare, quell’intellettuale non avrebbe messo mano a studi storici ed economici diretti a cambiarlo, il mondo: si trattava di rivoluzionarlo, non solo di capirlo. Chissà se lui, il tedesco, Carlo Marx, quando si appartava nella biblioteca del British Museum meditando i fondamenti della sua opera, rivolse un piccolo grazie a Poggio Bracciolini. La storia è avara, di ringraziamenti sinceri, e forse è meglio così. Certi debiti non si possono mai pagare, restano come un angolo opaco, una periferia della vita che ci portiamo dietro come l’ombra.

Anche Ieri, oggi e domani, come Un tempo senza storia, sa vedere dritto nei rapporti di forza:

La svolta segnata dal crollo del sistema sovietico prese forma col crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca. E da allora la crescita economica della Germania ha di nuovo modificato l’assetto internazionale. È nata una unione europea che lega con vincoli economici e politici un assemblaggio di stati e staterelli dominati dalla Germania e, per il possesso dell’arma nucleare, dalla Francia.

Un «assemblaggio». Attraente, però; in buona parte perché si regge ancora su sistemi che fanno inospitali i luoghi e i contesti in cui è più duro lo sfruttamento della natura e delle braccia:

Resta il fatto che l’Europa esercita un’attrazione che porta a movimenti migratori di altri popoli. Ma intanto si è perduta la capacità politica di governare l’economia, ormai nelle mani di un’élite di ricchissimi imprenditori e speculatori finanziari. E l’idea di libertà della sua tradizione storica si è trasformata in senso individualistico, come privilegio personale.

Ieri, oggi e domani raccomanda attenzione per le storie sotto la storia. Già, perché gli storici, quando lavorano per il potere, non sono solo scopritori; spesso sono nasconditori. Civiltà complesse sono celate sotto la prepotenza di vincitori che si fingono eterni e che magari sono impegnati a far credere, anche tramite gli intellettuali, che le loro vittime fossero rozze e più crudeli di loro. Quegli storici seppellitori preparano il terreno al lavoro di altri che verranno a svelare, a decifrare, a ricostruire da dettagli, su dati apparentemente illeggibili o insignificanti, la presenza di mondi sommersi, sopraffatti, dimenticati. Altra carne intorno a ossa confuse. Questo non ci riguarda, s’intende. Si sta parlando di lontani paesi in condizione coloniale.

E invece no. L’intreccio fra dominatori e schiavizzati è sottile, il sangue sepolto è alla porta di casa: l’etrusca Veio, al pari della lontana Cartagine, è fra le vittime di Roma. Noi calpestiamo la nostra polvere. Ma se dovessimo districare il tessuto delle colpe e dei conti sospesi, troppe sorprese ci sconcerterebbero. Raab che favorì la conquista di Gerico da parte degli ebrei, e che Dante pone per prima, «raggio di sole in acqua mera», fra coloro che entrarono in paradiso riscattati dal Cristo, se sapesse cosa accade ora fra il Giordano, il Sinai e il mare, e poi si guardasse le mani, vedrebbe quelle di una santa, di una giusta fra i gentili, oppure quelle di una traditrice della sua città, di una locandiera malcontenta, di una prostituta? Gli storici di Canaan tacciono, e anzi Canaan stessa è diventata sinonimo di perversione, come Babilonia di peccato.

Ci stiamo abituando alle «guerre al male», alle rese dei conti. Le storie sotto la storia impongono di riflettere, di ascoltare inquietanti implicazioni e assonanze, anche quelle che nessun libro di storia o sulla storia può esprimere – neppure questo – perché l’oggetto sfugge sempre più in là, e chi studia la freccia del tempo non ha mai abbastanza tempo. Bella proposta, allora, suggerire di scavare il passato, anche quello immediato, quello sotto i nostri occhi tutti i giorni, che spesso contraddice le retoriche ufficiali: «Ma è possibile questo – si chiede Prosperi – nella scuola “del merito”? Chissà. Un fatto è certo. È tempo che si ridia valore al potenziale della conoscenza storica nella formazione dei giovani che debbono orientarsi nel mondo globale in cui si muovono».

Questo libro in formato quasi da tasca, anzi da zainetto, si congeda lasciando una consegna:

Questa testimonianza di un molto anziano studioso di storia si deve chiudere qui. Gli si impone di riconoscere che è tempo di lasciare ad altri la riflessione sul nodo ieri-oggi-domani. Chi riceve oggi dal futuro che gli viene incontro il dono del tempo presente potrà – dovrà – usarlo per creare un futuro vivibile, un mondo umano migliore di quello che gli lasciamo.

Neanche la storia è più quella di una volta. Lo sa chi, oggi, sta ricevendo il presente e prova a trarne le conseguenze: se si fanno chiamare Ultima generazione, è perché sentono che negli scricchiolii dell’Antropocene c’è un ultimatum. La garanzia di un domani, quella che permette al protagonista dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar, guardando la cifra 1491 incisa su una trave, di invertire mentalmente le cifre leggendo 1941 con la certezza che quell’anno verrà, ecco, quella garanzia non è più salda. Quindi muta anche il ruolo dello storico. A lui, di solito, si chiede di spiegare il passato, di mettere ordine in un sapere, senza intromettersi nel futuro. Gli si chiede, cioè, di non provare a fare. Adesso bisogna chiedergli una mano per potercelo permettere, un futuro.

Cos’altro chiedere, allo storico? Un’altra cosa ci sarebbe, e affiora tenendo presente di nuovo Carr: «Quando cominciamo a leggere un libro di storia, dobbiamo occuparci anzitutto dello storico che l’ha scritto, e solo in un secondo tempo dei fatti che esso prende in esame»[4]. Anni dopo, Claudio Pavone approva e chiosa: «Ovviamente, la prima cosa da contestualizzare è lo storico stesso»[5]. Del resto «la storia è il “conosci te stesso” dell’umanità, la sua coscienza», scrive Johann Droysen, che ha chiara la sostanza: «Il miglior vanto dello storico non è l’“oggettività”. La sua giustizia sta nel cercare di intendere»[6]. Si potrebbe dire, dunque, conosci lo storico. E soprattutto conoscilo se lo dice Droysen, che è stato studiato e tradotto da Delio Cantimori, maestro di Prosperi. Sto facendo citazioni, come quelli che si schiariscono la voce prima di dire qualcosa di imbarazzante. Allora.

All’inizio del cammino dell’autore, cosa c’è? Quale scintilla, quale miccia? Un sottile odore di carne umana, un ritrovamento fortuito che altri avrebbero trascurato, frainteso, deriso? Qualcosa – ancora Le ricordanze – nel «caro tempo giovanil; più caro che la fama e l’allor»? Ahimé, gli storici non sempre ce la raccontano tutta. Per me, ricordo un pomeriggio pisano, in un luogo di tracce culturali e risorgimentali, il Caffè dell’Ussero. L’ora la rischiarava un sole dal riflesso marino. Prosperi, per un caso favorevole, quasi un «farsi storico di quello che non ha storia» cui l’ombra di Camus sui lungarni avrebbe dato corpo, sciolse intensi ricordi personali. Lo sfondo potrebbe essere quello nei versi di Mario Luzi, Dal fondo delle campagne; il tempo, certi anni del Novecento; nel basso Valdarno, in un paese all’acquerello, un ragazzo coglie al volo la sua curiosità e il suo destino. Forse un giorno vorrà scriverne.

 

 

[1] Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1976, p. 131.

[2] Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino 2021, pp. 46-47.

[3] Prosperi, Un tempo senza storia, cit., p. 114.

[4] Carr, Sei lezioni sulla storia, cit., p. 27.

[5] Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 117.

[6] Johann Gustav Droysen, Sommario di istorica, Sansoni, Firenze 1967, tit. orig. Grundriss der Historik, trad. di Delio Cantimori, capitoli Sistematica, p. 66, e Topica, p. 76.

 

 

 

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Silenzi magnogreci https://www.carmillaonline.com/2023/11/25/silenzi-magnogreci/ Sat, 25 Nov 2023 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80070 di Franco Pezzini

Marilù Oliva, Atlante della Magna Grecia. Italia del Sud e Sicilia tra mito e archeologia, pp. 224, € 29, Rizzoli, Milano 2023.

La Magna Grecia fu un mondo particolarissimo, mutevole, mai scontato, variegato, nato dalla bellezza dell’integrazione. Sincretismi tra popoli che non si conoscevano e che non sempre si accolsero, relazioni pacifiche o burrascose che portarono comunque a un’assimilazione su diversi fronti. […] l’arte rimasta ci rivela quanto magma creativo ci fosse alla base di tali novelle comunità. Quanta voglia di realizzarsi, di affermarsi, quanti progetti: […] siamo di fronte a comunità reattive. Gente consapevole che si giocava [...]]]> di Franco Pezzini

Marilù Oliva, Atlante della Magna Grecia. Italia del Sud e Sicilia tra mito e archeologia, pp. 224, € 29, Rizzoli, Milano 2023.

La Magna Grecia fu un mondo particolarissimo, mutevole, mai scontato, variegato, nato dalla bellezza dell’integrazione. Sincretismi tra popoli che non si conoscevano e che non sempre si accolsero, relazioni pacifiche o burrascose che portarono comunque a un’assimilazione su diversi fronti. […] l’arte rimasta ci rivela quanto magma creativo ci fosse alla base di tali novelle comunità. Quanta voglia di realizzarsi, di affermarsi, quanti progetti: […] siamo di fronte a comunità reattive. Gente consapevole che si giocava il tutto per tutto sul nuovo territorio e voleva conservare i traguardi conquistati. […] Questo Atlante è una mappatura di luoghi che ora sembrano sopiti, perché gli archeologi li hanno restituiti alla luce dopo secoli in disuso, in cui sono stati sepolti o dimenticati.

E dunque apriamolo, questo Atlante che ridà voce a un triste silenzio e inizia con una citazione fulminante dai Fasti di Ovidio, “Ciò che chiamano Italia era Magna Grecia”. Non male ricordarlo, in un’epoca in cui sgomitano da poltrone e poltroncine i tronfi e ignoranti epigoni della pretesa “razza” italiana e del mascellone romano, “che assoggettò la Magna Grecia, trascinando il Sud Italia in un processo di decadenza devastante”.

Dopo aver rinarrato con la vivacità e i colori propri della sua penna le vicende di Odisseo e di Enea (2020 e 2022), Marilù Oliva ha proseguito la sua immersione nei miti classici attraverso formule di scrittura ulteriori e variegate. Cosciente che certe storie meritino di essere ri-offerte collettivamente – e sembra un esito importante e nobilissimo da parte di chi prima ha mostrato di saper costruire in proprio una ricca produzione di solidi romanzi, ponendosi poi al servizio di fonti antiche –, ha così pubblicato in rapida successione I divini dell’Olimpo. Quattro incontri con gli dèi (Solferino, 2022), Il viaggio mitico (con Matteo B., suo figlio, e illustr. Claudia Plescia – che pure presenta una parte narrativa autonoma: De Agostini, 2022), Miti straordinari. Storie di eroine, eroi, divinità e creature che non ti aspetti (illustr. Rosaria Battiloro: De Agostini, 2023), con ottimi risultati e un linguaggio consono a un pubblico molto ampio. E ora arriva questo nuovo splendido volume, nei fatti un dettagliato atlante archeologico, di elegante scrittura e dotato di un meraviglioso apparato di foto illustrative.

Dopo una bella Prefazione esploriamo così Campania (Cuma, Pithecusa/Ischia, Poseidonia/Paestum, Elea/Velia, Palinuro), Calabria (Reggio Calabria, Locri Epizefiri, Kaulonia/Monasterace, Scolacium/Squillace,  Kroton/Crontone, Petelia/Strongoli, Cirò Marina, Sibari), Basilicata e Puglia (Eraclea, Metaponto, Taranto, Gallipoli, Botromagno), Sicilia (Zancle/Messina, Naxos, Leontinoi/Lentini, Siracusa, Kamarina/Santa Croce Camerina, Gela, Akragas/Agrigento, Selinunte, Segesta/Calatafimi Segesta), con cenni a parecchie altre località.

Zone qui esplorate nelle vestigia archeologiche (colpi d’occhio panoramici sulle singole aree, templi e brandelli di muratura, vasi di straordinaria bellezza, sculture a rilievo, specchi e monete, statue di sirene e teratomachie, mostri marini e laminette orfiche, tavole inscritte, busti di donne, dee o antichi intellettuali barbuti…) come in quelle toponomastiche e mitiche: Cuma da “onda”, Pithecusa da “(Isola) delle scimmie”, Poseidonia da “(Città) di Poseidone”, Zancle da “falce”, Leontinoi da “leone” (forse la pelle di quello nemeo ammazzato da Eracle) e così via, legate alle forme degli insediamenti o ad antiche storie e devozioni dei luoghi.

Poi lo sappiamo, il rapporto tra mito e γεωγραϕία (descrizione della terra) è complesso, elastico ed estremamente variegato – a partire dal fatto che sia il linguaggio del mito (inteso nel senso dell’antropologia religiosa, ma anche nelle accezioni meno tecniche) sia quello geografico si rifanno fondamentalmente all’immaginario, ai suoi sottotesti e implicazioni – compresi stereotipi, paradigmi ideologici, costellazioni valoriali, banali pregiudizi. E per contro il rapporto tra i luoghi e le storie resta sfuggente, affabulatorio. Vero, i miti greci vedono raccordi spesso solidi con i territori di tradizioni e pratiche liturgiche storicamente documentate (Grecia continentale, isole, colonie occidentali – particolarmente, ma non solo, la Magna Grecia – e orientali). Ma a volte si tratta del localizzarsi tardivo di eventi mitici dalla collocazione originaria più sfuggente, magari con uno slittamento a regioni via via più lontane (le Colonne d’Ercole a Gibilterra, per dire, o la destinazione italica di Enea). Ma troviamo anche miti locali per definizione, come quelli legati a eroi eponimi (a volte traghettati con la colonizzazione) e santuari, o a realtà del territorio e relativi fenomeni naturali – per esempio certe peculiarità geografiche o geologiche che sussumono paradigmi teratologici preesistenti, come nella collocazione di Scilla e Cariddi sullo stretto nostrano, o della Chimera in Licia – e insomma il discorso sarebbe molto ampio e costringerebbe a inabissarsi in una casistica capillare.

Resta il fatto che viaggiare con riferimento all’atlante del mito sia possibile, e permetta – come poi per i viaggi informati dalla letteratura o dal cinema – esperienze intellettualmente ed emotivamente forti, a dispetto delle modifiche intervenute nei luoghi a distanza di tempo: emblematico il memoriale vittoriano di George Gissing in una Magna Grecia remotissima da quella offerta dai classici. Anche senza pensare a un’aura speciale dei siti, è indubbio che per chi sia minimamente sensibile il trovarsi in luoghi assurti a veri e propri poli dell’immaginario offra un fascino vertiginoso di secoli (e spesso di bellezza). La studiosa Anna Ferrari, per esempio, ha proposto negli anni una serie di preziosissimi dizionari sul mito e le sue declinazioni anche geografiche, tra i quali un ricco Dizionario dei luoghi del mito (Rizzoli, 2011).

Oliva fa un’operazione diversa, partendo da luoghi reali e cogliendo gli echi. Talora flebili, e torniamo al silenzio citato all’inizio, perché, nonostante gli studi, tanto resta misterioso. Se a volte nomina nuda tenemus perché le antiche storie si sono perdute, per nostra fortuna le biblioteche erudite del mondo classico e postclassico hanno conservato una valanga di dati, versioni anche contraddittorie, minori o (appunto) locali dei miti implicati. Ma cosa racconta la coppa del naufragio del Museo di Pithecusa, con il corpo di un uomo immerso tra pesci e piccole svastiche, forse un cadavere che galleggia come troppi in questo Mediterraneo? A quali idee sulla vita e la morte rimanda la Tomba del Tuffatore di Paestum, con l’affresco oggetto di interpretazioni contraddittorie anche molto recenti?

Agli itinerari offerti seguono Conclusioni, un Dizionario essenziale, Indice e Bibliografia.

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Caffè Saigon https://www.carmillaonline.com/2023/11/24/caffe-saigon/ Fri, 24 Nov 2023 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80064 di Giorgio Bona

La vodka passa in secondo piano e ci si concede un caffè, la terapia giusta per il dopo sbronza.

Tutto questo al Saigon di Leningrado. Non era un ritrovo alla moda, ma uno spazio di confronto di letterati molto vivace in contrapposizione alle sedi della cultura ufficiale come l’Unione Scrittori, il Komsomol e l’università.

Aperto nel settembre del 1964 e frequentato assiduamente nei primi anni Settanta, si trovava tra il Nevskij e il Vladimirskiy Prospekt. Fu chiuso nel marzo 1989, in piena Perestrojka gorbacioviana, per far posto a un negozio di sanitari italiani.

Perché il nome Saigon? Restando [...]]]> di Giorgio Bona

La vodka passa in secondo piano e ci si concede un caffè, la terapia giusta per il dopo sbronza.

Tutto questo al Saigon di Leningrado. Non era un ritrovo alla moda, ma uno spazio di confronto di letterati molto vivace in contrapposizione alle sedi della cultura ufficiale come l’Unione Scrittori, il Komsomol e l’università.

Aperto nel settembre del 1964 e frequentato assiduamente nei primi anni Settanta, si trovava tra il Nevskij e il Vladimirskiy Prospekt. Fu chiuso nel marzo 1989, in piena Perestrojka gorbacioviana, per far posto a un negozio di sanitari italiani.

Perché il nome Saigon? Restando alle testimonianze del poeta Viktor Toporov, uno dei più assidui frequentatori, il nome è legato alla domanda intimidatoria che un agente rivolse a tre ragazze che stavano fumando all’interno del locale: “È un’indecenza. Che diavolo di Saigon avete creato qui dentro?”. A quei tempi la capitale vietnamita era ritratta dai mezzi di comunicazione occidentali come una novella Sodoma, patria del vizio e del peccato di soldati impegnati nella sanguinosa guerra del Vietnam.

Il Caffè Saigon si caratterizzò come un luogo aperto e democratico, abitato da protagonisti dell’underground come Viktor Krivulin e Tatiana Goriĉeva e da poeti conosciuti a livello ufficiale come Viktor Sosnora e Gleb Gorbovskij.

Il locale era un collante tra individui di diversa età e questo spiega la longevità della sua durata, con un fronte di resistenza che all’interno vedeva discussioni aperte su film, concerti, mostre, letture di poesie, fino allo scambio di manoscritti.

Dal 1964 al 1982 fu anche il periodo in cui Leonid Il’ič Brežnev ricoprì il ruolo di segretario generale del PCUS e capo di stato, ma l’attività letteraria all’interno del caffè proliferò nonostante le censure imposte dal regime.

Quel periodo anni dopo venne chiamato žastoj, ovvero stagnazione a causa dell’immobilismo della politica di quegli anni, un incancrenire delle istituzioni che creò un clima di inerzia e invecchiamento dei progetti in campo economico, sociale e culturale.

Gian Piero Piretto in Quando c’era l’URSS (Cortina, 2018) su Il caffè Saigon:

 

da quel mondo di Bohemien faceva parte anche una giovane donna fotografa, vittima della demotivazione, dell’ingerenza del potere, dell’invadenza del discorso nelle vite private, Maša Ivašinkova, compagna del poeta Viktor Krivulin, ma legata anche a un collega fotografo, Boris Smelov, dopo il divorzio dal primo marito, il linguista Melvar Melkumjan.

 

Maša faceva parte di quel numeroso pubblico underground che frequentava il Caffè. Compagna di vita del poeta Krivulin, legata anche a Smelov, un suo collega fotografo, scattò all’interno del locale un numero smisurato di foto senza mai mostrarle in pubblico. Si seppe che aveva anche componimenti poetici molto belli e nessuno poté mai accedervi perché li tenne sempre riservati: forse per un complesso di inferiorità nei confronti dei suoi amanti, grandi attivisti del caffè che leggevano in pubblico i loro componimenti. Visse facendo svariati mestieri: la guardarobiera, la bibliotecaria, la critica teatrale, ma soprattutto si sentiva una fotografa. Scattò foto per tutta la vita: scorci di quotidiano, angoli di città rubati e dolenti, ritratti espressivi di ribelli e dissidenti di quegli anni. Anche questi scatti non apparvero mai in pubblico.

Qualcuno la accostò a Vivian Maier, la bambinaia americana che fotografò il mondo che vedeva nel fine settimana e lasciò centinaia di rullini mai sviluppati che le avrebbero fruttato notorietà post mortem.

Maša fu vittima di una forte depressione e interruppe la sua attività lavorativa. Fu subito riconosciuta come un soggetto disturbato e definita una asociale. Si trovò a dover scegliere tra due possibilità, entrambe dentro un vicolo chiuso: il carcere o l’ospedale psichiatrico. Scelse il secondo dove morì di cancro nel 2000. Nei suoi anni di frequentazione del caffè sembra che abbia superato i 30.000 scatti trovati dalla figlia in diversi scatoloni in soffitta.

Ma il Saigon non fu soltanto luogo di incontri letterari e poetici.

Nei primi anni Ottanta diede segnali nuovi con altre forme artistiche, quando la musica faceva tremare i muri delle cantine di Leningrado, dove nascevano numerose band sfidando le censure di un governo vicino al collasso ma deciso a non mostrare segni di cedimento.

Leningrado era in Russia la città più occidentale del paese e considerata la più vicina all’Europa e al mercato nero.

Ecco dunque nascere gli eredi degli intellettuali anni Sessanta e Settanta, quelli appunto che frequentavano il Saigon, la fucina dei poeti, degli scrittori, degli studenti e degli informatori del KGB.

A proposito di tale tempesta generazionale di frequentatori, si è già raccontato di Viktor Coj, il frontman dei Kino. Viktor fu la stella più luminosa del rock sovietico, il Jim Morrison russo per via di quella sua aria da ribelle ma soprattutto per la sua morte prematura coperta di mistero.

Sulla scena le band si moltiplicarono: Zoopark, Alissa, Leningrad Center, DDT. Le autorità non vedevano di buon occhio quei personaggi alternativi, tutti schedati, che rappresentavano una minaccia al modello di cittadino sovietico.

La censura stava loro addosso e si racconta che all’interno del Saigon una parete a specchio dividesse il locale da una piccola stanza dove si nascondevano i funzionari del KGB arrestando ogni tanto qualche indesiderato.

Eppure, i testi delle canzoni non attaccavano direttamente il potere, non volevano sparare sul quartier generale, cantavano semplicemente la speranza di un mondo diverso, più aperto, dove i giovani potessero comunicare, parlare. Tutto questo era incompatibile con la massiccia e granitica realtà sovietica.

Il Saigon ora vive nei ricordi di chi lo ha vissuto, sostituto da grandi vetrine con WC, bidet e rubinetteria di una famosa marca italiana.

Resta un ricordo anche di quel processo di emancipazione nel campo della musica che coinvolse tanti ragazzi di allora, offrendo un modo di pensare diverso.

Ai giorni nostri la scena artistica russa si presenta con un’altra faccia. Gruppi identitari e nazionalisti che tessono le lodi di Putin e inneggiano alla potenza militare del paese.

Ma non tutto è così fedele alla linea. E allora nulla è cambiato nella politica sfrontatamente neoliberista del presidente Putin rispetto al passato, perché chi non si adegua viene colpito ancora duramente con la mannaia della censura.

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