Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 27 May 2023 20:00:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.23 Compagno Berija https://www.carmillaonline.com/2023/05/27/compagno-berija/ Sat, 27 May 2023 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77415 di Giorgio Bona

O dannazione! – Rimani – Tu:

la tua coppia d’ali puntata verso l’etere, –

perché il mondo è la tua culla

la tomba è il mondo

Sono i passi di una canzone che Alla Pugačëva, osannata popstar caduta in disgrazia per una presa di posizione contro la guerra in Ucraina, intonava sui versi di Marina Cvetaeva (Nemico Pubblico, trad. Claudia Sugliano, De Piante, Milano 2022).

Passi di una poesia dal titolo “Ti riconquisterò da tutte le terre, da tutti i cieli” che accompagnò allora la poetessa verso un triste epilogo [...]

Compagno Berija è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Giorgio Bona

O dannazione! – Rimani – Tu:

la tua coppia d’ali puntata verso l’etere, –

perché il mondo è la tua culla

la tomba è il mondo

Sono i passi di una canzone che Alla Pugačëva, osannata popstar caduta in disgrazia per una presa di posizione contro la guerra in Ucraina, intonava sui versi di Marina Cvetaeva (Nemico Pubblico, trad. Claudia Sugliano, De Piante, Milano 2022).

Passi di una poesia dal titolo “Ti riconquisterò da tutte le terre, da tutti i cieli” che accompagnò allora la poetessa verso un triste epilogo (1941), quel suicidio che si sarebbe forse evitato se non fosse tornata volontariamente in patria dall’esilio per aiutare il marito, marito Sergej Ėfron, malato e arrestato dalla polizia segreta di Berija con l’accusa di essere un traditore. Un marito che forse non amava più ma che non si sentiva di abbandonare al suo triste destino.

Ecco che il settimanale Literaturnaja Gazeta recupera negli archivi del KGB le lettere inedite tra cui quella indirizzata a Berija, che fanno pensare al rischio spaventoso di una caduta della stessa Cvetaeva nelle mani del boia. Questa lettera resta una delle grandissime testimonianze di un capitolo terribile della storia del paese, il rapporto del regime sovietico con i suoi scrittori.

Lavrentij Pavlovič Berija (1899–1953) fu il capo della polizia segreta dell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin e primo vicepresidente del Consiglio dei Ministri per un breve periodo nel 1953, anno della sua morte. La storia ce lo restituisce come l’anima nera delle repressioni staliniane con le purghe e le deportazioni di massa.

È con estrema nobiltà che Marina Cvetaeva si rivolge al capo della polizia segreta di Stalin. Vuole avere notizie in merito all’arresto del marito, rinchiuso per attività antisovietica e condannato a morte, e della figlia Ariadna, arrestata nel 1939 appena due mesi prima del rientro di Cvetaeva in Unione Sovietica con il figlio Mur.

Era all’estero dal 1922: sono trascorsi diciassette anni ma per lei non c’è possibilità di un reinserimento nella società dove le verrà negato anche un posto come lavapiatti. Il pensiero che una lettera, una forma scritta, legittimi il grande valore della parola forse può trovare riconoscimento soltanto in chi sa ascoltare. Non sono più i tempi in cui Marina Cvetaeva, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, possono cercarsi turbinosamente attraverso i propri scritti (cfr. Cvetaeva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere 1926, Editori Riuniti, Roma 1980). La poesia era la loro voce, un punto di incontro, la presenza per veder realizzato il grande sogno della letteratura. Marina condivise con Boris e Rainer l’idea di affidarsi al destino, l’idea che dentro una parola si dovesse riconoscere e amare il poeta, non l’uomo. Sarebbe stata l’unica testimonianza davanti al mondo.

A Marina interessava l’anima, non i colori della natura al mutare delle stagioni, gli effluvi dell’amore: l’anima, scalfita dalla parola intesa come creatura viva.

Serena Vitale in un suo scritto su Marina riconosceva due cariche esplosive che abbattevano tutte le pareti e scardinavano le porte: il sogno (riesco a vivere soltanto in sogno… è la mia vera vita… dove tutto si avvera) e il suo succedaneo diurno, la lettera (una forma del rapporto ultraterreno meno perfetta del sogno).

Rilke lo aveva intuito: con le sue lettere creava spazio (zaočnost’), la contrada che si stende al di là dello sguardo, la sconfinata distesa dell’assenza che riunisce e avvera, mentre qui, nella vita dei giorni, la presenza separa e distrugge.

La lettera al capo della polizia segreta contiene tutti questi ingredienti. Emerge grande dignità in quelle righe che si potrebbero intendere come una supplica.

No. Niente supplica. Vi si legge l’amore di una moglie e di una madre, un amore fiero portato nell’anima; e si vede l’anima immaginando Marina, china su uno scrittorio, che arma la penna con l’inchiostro dentro una notte azzurra con denti di cristallo, scandendo i suoi versi.

Compagno Berija…

Una lettera che testimonia un’epoca, l’epoca in cui la Russia ha dissipato i suoi poeti.

Share

Compagno Berija è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>
La natura che ci possiede https://www.carmillaonline.com/2023/05/26/la-natura-che-ci-possiede/ Fri, 26 May 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77407 di Francesca Fiorentin

Enrico Testa, L’erba di nessuno, Einaudi, Torino, 2023, pp. 142, euro 12,50

La terra e la sua vegetazione sono al centro della poetica di Enrico Testa, non come entità distanti, estranee, ma come realtà capaci di attraversarci dentro e di costruire un sesto senso che in noi si fa persona, la sesta persona, quel senso capace di esperire un altro ordine sensoriale rispetto alle sei persone della grammatica, le quali, con le loro declinazioni nelle tre coniugazioni verbali, indicano solo la relazione attiva e passiva con il mondo esterno. [...]

La natura che ci possiede è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Francesca Fiorentin

Enrico Testa, L’erba di nessuno, Einaudi, Torino, 2023, pp. 142, euro 12,50

La terra e la sua vegetazione sono al centro della poetica di Enrico Testa, non come entità distanti, estranee, ma come realtà capaci di attraversarci dentro e di costruire un sesto senso che in noi si fa persona, la sesta persona, quel senso capace di esperire un altro ordine sensoriale rispetto alle sei persone della grammatica, le quali, con le loro declinazioni nelle tre coniugazioni verbali, indicano solo la relazione attiva e passiva con il mondo esterno. Attraverso questo senso percepiamo voci misteriose e viviamo in stretta unione con la natura, in un legame vitale, fatto anche di sentimento. Si tratta certamente di una espansione delle facoltà di percezione, di un ampliamento della capacità di immaginazione. La creazione poetica di E. Testa rappresenta un modo di pensare rivoluzionario perché cambia radicalmente i soliti schemi dell’intelligenza e del sentimento circa la natura, proprio in un tempo in cui il disastro climatico fa prevedere l’estinzione della specie umana, senza che il mondo faccia nulla per evitarla. Al posto di una natura inerte, siamo di fronte a un cosmo e una vita che non lasciano fuori la dimensione dell’ignoto, perché un aspetto inconoscibile delle parole proviene dalla profondità della terra, dai suoi elementi vegetali e inorganici, e suscita una comunicazione “che si sente” e “non si può ripetere”; è proprio questa visione a interessare il poeta, che predilige le persone “vedove della vita”, lepri che scappano e non hanno niente da spartire con chi affronta la vita, con i suoi problemi ordinari, con grinta. Le poesie sono voci che vengono a noi in modo oscuro: “tante voci/notturne in pieno giorno”. Voci ebbre che devono legarsi alla catena materiale del conscio, con la sua grammatica e le sue regole. Vi è una visione della bellezza del linguaggio come mondo sonoro, di voci e di muto, ancora prima di essere vergato sul foglio: “A me piace sentire le cose cantare”.

Il linguaggio della memoria e la voce come suono si materializzano in segni, ma prima della lettera scritta vi fu il refuso, il sussurro, la parola orale involontaria e inconscia, appartenenti alle voci della terra e a ciò che vive al suo interno. Anche dalle cose emana una eco che filtra non il niente ma “un tiepido soffio”, il soffio di una dirompente dimensione ctonia. Un’energia primordiale che attraversa la persona è quella che gli elementi naturali trasmettono, il contatto con una pietra, ad esempio. Sono, queste, le uniche sensazioni positive della vita, tangibili ma non esprimibili.

Lo stato esistenziale desiderato del poeta è quello di “essere invisibile nel completo anonimato”, “fuori dalla vita”, “solo di fronte al mio io”, in uno “stato provvisorio di esilio”, “in una soglia notturna d’elisio”. Uno stato di abbandono se consideriamo l’abbandono come distacco dalla vita laboriosa del mondo. Quasi ogni poesia contiene figure del mondo vegetale e di animali, soprattutto di volatili. Vivere in sordina vuol dire vivere come cuciti dietro il risvolto di un arazzo, nascosti e poggiati a qualcosa di materiale. Ma legare la propria vita al futuro dei figli, all’umanità in generale, considerando la casa come vita che continua, può essere pericoloso: una poesia (La caduta del cielo) mostra, in una sorta di allucinazione, come il peso dei morti fa sprofondare nel più profondo della terra i loro corpi, inghiottendo anche la casa costruita sopra, in una specie di implosione. Possiamo morire in qualsiasi momento, e conosciamo la morte solo attraverso il volto dei morti, il loro accumulo nella terra.

Vivere “fuori dalla vita” vuol dire vivere come cuciti dentro la terra, come radici di alberi o come rocce, dove un mondo di solitudine e di silenzio vive in pace. Come un cupo e scuro pino da pece, albero molto resistente al fuoco e al vento, impermeabile alla pioggia, è il poeta: estraneo agli eventi esteriori. Della terra siamo prigionieri, come le sterne che salgono e scendono continuamente al mare. A volte succede che nella solitudine senza gente, i passi diventino la trama sotterranea delle radici, e la lingua madre, la lingua dei primi rudimenti diventa viva e ci parla. Il sole che rende viva la terra sorride per lei, per le gemme di aprile, e l’aria è abitata da suoi propri sogni che vengono a noi la notte.

Dobbiamo pensare la condizione di separazione dal mondo come una condizione di lavoro della fantasia, ben descritta da una poesia in cui il poeta immagina, al mattino, di essere come un merlo zoppo che vaga nell’orto e di cantare sotto la sua pianta preferita. Benedetto è l’abbandono che è capace di stordire in una estasi di bellezza, come il profumo dei fiori di narciso.

Oppressive sono le immagini della vita terrena: un grand Hotel dalle finestre che sono lastre di vetro non apribili; l’esumazione di cadaveri nel cimitero; i morti che appaiono nel sonno operosi e attivi come erano in vita.
La morte dovrebbe essere un salto verso un altro cielo, che non ci limiti a ritornare a terra per cercare il cibo, in una terra dove ogni pezzetto è accaparrato dalla proprietà privata ai fini della grande produzione, impoverito dallo sfruttamento intensivo delle coltivazioni o della pesca. Sarebbe bello un volo in una terra, verso un’erba di nessuno. Quando un uccello muore, sembra che voli in picchiata, come precipitando in un altro cielo: è così che la morte dovrebbe essere nel suo significato. Anche gli oggetti vivono una sorta di morte, quando non esiste più l’ambiente a cui appartenevano. Se vi siete fermati a osservare oggetti d’infanzia o di parenti non più viventi, noterete come una tristezza in essi, vi accorgerete che gli oggetti e le persone sembrano condividere lo stesso desiderio di oblio nel viaggio del tempo che corre, in un credo comune: “parole carezze cenere”, dopo la vita sia l’oblio di quello che un tempo fu.

Non si può trovare nella scrittura un luogo in cui trovare riparo per il proprio essere. Non siamo noi a decidere dove andare, prevalgono i rovi da evitare, nella vita come nella scrittura.
Il distacco del poeta dal mondo ha anche un aspetto teologico, vi è un vissuto di lontananza di Dio, una disperazione che ha una certa somiglianza con quella di Giobbe, una disperata empietà: da una parte vi sono accuse di essere da Lui abbandonato e nello stesso tempo vi sono invocazioni di carezze. Dio è un “superbo bugiardo”, “un brigante di strada”. Al “Dio ignoto” chiede però una carezza, perché forse è “il mio solo compagno”, e al “mio grande nemico” dice: “non sparire!”. Dio ha un volto così muto da essere accecante. Ci viene in mente G. Anders quando affermava che “la disperata empietà è meglio della virtù che non dispera mai”.

La vita, nel migliore dei casi, è “serena infelicità” che trova riparo nell’ombra, o guarda “l’esterno dall’interno”, come fanno le piante. Esiste una forma di gioia, ma è esuberanza che prende senza motivo. L’autore cerca un luogo dove nascondersi dal mondo, dove non vi sia il controllo sulla nostra mente. La comunicazione digitale ci ha addomesticato a non dire niente se non un “tritume di parole, albume della voce”. La voce come albume, viscida appiccicosa e incolore, insapore, è la voce filtrata dallo schermo, inautentica e spettrale.

La vita è schiacciata da una pena tremenda, la distruzione e la corruzione di tutte le cose. La vita umana è la stessa identica vita di un dente di leone, “una vita plebea”, che viene “calpestato sui crocevia”, strappato dalle persone per il gioco di soffiarci sopra, e “la fine indecifrabile, nel vento”. Variando dei brani originali di F. Nietzsche, l’autore scrive:

“Sono facile alle lacrime in questi giorni e talmente irritabile verso l’umanità da aver sempre bisogno di medicine. Mi servono per contrastare il veleno che mi hanno inoculato: la sdegnosa indifferenza altrui mi ha spinto al disprezzo di me stesso e io non ho la forza per sopportarlo. La gente si stupisce del mio volto: sembra quello di chi è appena arrivato da un paese dove non abita nessuno. […]. Nelle mie notti in bianco vado a fondo e getto dal bordo del letto lo scandaglio nelle acque nere della coscienza. Per scovare un’aurora, per afferrare le mie idee: uccelli – gufo aquila allodola picchio – in volo. Non ho però nessuno con cui parlare. Sono stanche le stelle. Nel mio cielo, sono solo. Totalmente solo. E così! Arrivederci!”

Procedere dal buio verso un buio più profondo, non verso la chiarità, vuol dire dimenticare la vita, e questo non è un male, perché “la vita è l’invenzione meglio riuscita del diavolo”; gli affetti una promessa di amore non mantenuta.
L’erba di nessuno è una risorsa improduttiva; un luogo non privatizzato e non soggetto a un valore di mercato della quale all’inizio dell’età moderna in Inghilterra l’economia si era appropria indebitamente, creando delle recinzioni, le enclosures.

Era, la terra di nessuno, la risorsa di sostentamento e di sicurezza per chi viveva prima che nascessero le enclosures, recinzioni che dividevano la classe dei proprietari terrieri da chi non aveva terra e quindi separavano il mondo in ricchi e poveri.
Senza nominare i processi economici dell’economia di mercato, il poeta scrive:

finita quella su cui si può vantare
qualche diritto
di consuetudine o di proprietà
s’incomincia a tagliare
l’erba di nessuno.
La falce passa veloce
sulle ripe scoscese,
nei fossati umidi di guazza
anche ad agosto,
sui muri delle lunari
piramidi azteche dei monti.
L’esile pianta di una terrazza
e la sua tenera malva
sono una riga lontana
tra cielo e mare.
Qui pietra su pietra
e poco prato:
i pruni graffiano le mani.
Ma nessun filo, stelo o stecco
Deve andare perduto.
Tutto serve
per sfamare bestie e cristiani
– per dare fiato
a questo dolore muto

Bisognerebbe invece dare tributi e nutrimenti alla terra: il poeta, tagliandosi un dito, è orgoglioso che il suo sangue sia finito in terra. L’erba di nessuno è anche la vita in uno stato di concentrazione e solitudine, destinata purtroppo a essere continuamente interrotta dalle sollecitazioni che vengono dal mondo: innanzi tutto quella di inserirsi nella sfera sociale e nelle relazioni del consorzio umano. Lo stato di solitudine e di silenzio significa trovarsi soli in quello che si fa senza distrazione alcuna; una elevata forma di concentrazione in cui la mente fa tabula rasa del mondo: vera e propria meditazione spirituale che rappresenta una pace interiore estatica.

 

Share

La natura che ci possiede è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>
Sull’inesorabile avvicinarsi della vecchiaia https://www.carmillaonline.com/2023/05/25/sullinesorabile-avvicinarsi-della-vecchiaia/ Thu, 25 May 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77251 di Sara Passannanti

Arkadij e Boris Strugackij, Destino zoppo, con una postfazione di Boris Strugackij, trad. Daniela Liberti, pp. 359, € 19,50, Carbonio, Milano 2023.

Quando, nei primissimi anni Ottanta, si dedicarono alla scrittura di Destino Zoppo, ad Arkadij e Boris Strugackij si pose il problema di quale testo inserire come contenuto della cartella azzurra, la cartella nella quale il protagonista Feliks Sorokin nasconde il proprio romanzo. Dopo aver vagliato una serie di opzioni, la scelta ricadde su Brutti cigni, un racconto scritto tra il ’66 e il ’67 [...]

Sull’inesorabile avvicinarsi della vecchiaia è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Sara Passannanti

Arkadij e Boris Strugackij, Destino zoppo, con una postfazione di Boris Strugackij, trad. Daniela Liberti, pp. 359, € 19,50, Carbonio, Milano 2023.

Quando, nei primissimi anni Ottanta, si dedicarono alla scrittura di Destino Zoppo, ad Arkadij e Boris Strugackij si pose il problema di quale testo inserire come contenuto della cartella azzurra, la cartella nella quale il protagonista Feliks Sorokin nasconde il proprio romanzo. Dopo aver vagliato una serie di opzioni, la scelta ricadde su Brutti cigni, un racconto scritto tra il ’66 e il ’67 e mai pubblicato ufficialmente, ma circolato in migliaia di copie come samizdat. Il racconto, che era stato respinto dalla censura perché “decadente” (l’alcol e l’ubriachezza sono caratterizzanti dell’intero testo, e in più i contenuti hanno forti richiami al diluvio universale biblico) e inserito nella lista nera, venne pubblicato integralmente su rivista solo nel 1987, cavalcando i venti di cambiamento che di lì a poco avrebbero ribaltato le sorti dell’Unione Sovietica. Oggi Destino zoppo, rimasto finora inedito nel nostro paese, viene proposto da Carbonio, che negli ultimi anni prosegue nell’opera di recupero dei lavori dei due grandi autori nella bella traduzione di Daniela Liberti.

La pubblicazione dell’ultimo romanzo scritto a quattro mani dai fratelli Strugackij aggiunge un tassello alle discussioni che animano gli ultimi mesi sull’uso dell’intelligenza artificiale come nuovo strumento nella produzione artistica e sul livellamento delle opere letterarie, sicché Destino zoppo non è solo espressione e specchio della Russia sovietica degli anni Ottanta, ma risuona con affascinanti riverberi anche sui nostri giorni. Feliks Sorokin viene richiamato in via Bannaja, sede dell’Istituto delle ricerche linguistiche dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, per inserire il suo manoscritto all’interno della macchina MisTaLet, sigla che sta per Misuratore del Talento Letterario. All’inizio, il progetto viene presentato come uno studio linguistico per rilevare l’entropia del linguaggio degli scrittori. Il clima di censura rende però sospettoso Sorokin, che così si lascia trascinare dal proprio destino che infila una serie di impedimenti e ostacoli nel percorso verso l’istituto di ricerca. In verità, non sorprende l’attualità di un testo di fantascienza, più ancora se gli autori sono Arkadij e Boris Strugackij, sempre attenti alla realtà contemporanea e con uno sguardo pronto a intercettare i mostri del presente e del futuro: l’analisi dell’entropia linguistica serve in realtà stabilire il gradimento dell’opera da parte del pubblico, ovvero il suo valore commerciale – l’NTPL calcolato dalla macchina non è altro che il numero più probabile di lettori del testo –, ed è la prefigurazione del sistema in gran parte opaco con cui algoritmi e intelligenza artificiale pervadono i diversi aspetti del quotidiano.

E però, Destino Zoppo è anche molto altro. Boris Strugackij, nella postfazione al romanzo, lo definisce “prima di tutto, un romanzo sull’inesorabile avvicinarsi della vecchiaia”, ed è proprio questo il tema annunciato in apertura dall’haiku di Raizan in esergo: sia nel romanzo in cornice, sia in Brutti cigni, i protagonisti sono scrittori che fanno i conti con la propria coscienza e con un’idea di futuro che forse non li comprende. Anzi, la scelta di Brutti cigni come testo contenuto nella cartella azzurra si rivela felice perché tra Banev e Sorokin si genera un continuo contrappunto tale che ognuno dei due romanzi getti una luce sull’altro. Banev deve scegliere se stare dalla parte degli studenti e fidarsi dell’idea di mondo dei mokrecy (i portatori del diluvio dall’aspetto ambiguo e malato) o essere strumento della propaganda che li vuole emarginati e annientati; Sorokin teme che, nonostante i successi passati, la macchina dia una bassa votazione alla sua cartella azzurra. Questa paura, che si somma a quella verso l’irricevibilità del testo in termini di contenuti politici, costituisce il nodo dell’opera e rende conto della complessità del romanzo.

Sia il romanzo cornice che quello incorniciato sono ricchi di citazioni e dichiarano apertamente le proprie ispirazioni, amplificando in modo telescopico il gioco metaletterario. In particolare, spicca il riferimento a Menzura Zoili, racconto di Akutagawa Ryunosuke (purtroppo introvabile in lingua italiana) che prefigura una macchina come il MisTaLet, e l’omaggio al grande Maestro Michail Bulgakov.

Il tributo a Bulgakov permea l’intero romanzo, dagli echi delle vicende che coinvolgono Feliks Sorokin, personaggio ispirato al protagonista di Memorie di un defunto – anche conosciuto come Romanzo teatrale, romanzo incompiuto che ha per protagonista Maksudov, alter ego dello stesso autore – alla scelta di presentare un personaggio che si chiama Michail Aleksandrovic e che non perde occasione di citare il Maestro (lo storione di seconda freschezza, i manoscritti che bruciano o no), fino ancora a imbibire la trama linguistica e lessicale del testo, con invocazioni al diavolo e sporadici cambi della voce narrante, a sottolineare anche in questo modo la molteplicità di livelli di lettura di Destino zoppo. Feliks Sorokin stesso, sebbene abbia moltissimi tratti in comune con Arkadij Strugakij (non ultima la conoscenza della lingua giapponese), è un Maksudov degli anni Ottanta, degli anni della stagnazione. Ma, per usare nuovamente le parole di Boris Strugackij, “a differenza del Maksudov bulgakoviano sa e capisce perfettamente che oggi, qui e adesso, è permesso, e ciò che non è permesso non lo sarà mai…”.

Share

Sull’inesorabile avvicinarsi della vecchiaia è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>
Videogame e conflitto sull’immaginario https://www.carmillaonline.com/2023/05/24/videogame-e-conflitto-sullimmaginario/ Wed, 24 May 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76920 di Gioacchino Toni

Scrive Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation (Tlon, 2023), che l’universo dei videogame dovrebbe interessare quanti «hanno a cuore il destino politico del nostro tempo» e in particolare «coloro che si dichiarano marxisti» in quanto anche attorno a tale ambito «si raccolgono le grandi contraddizioni del presente» e perché anche «attraverso il gaming può essere portata avanti la lotta politica e la resistenza all’ideologia dominante». All’universo del videogame, insomma, occorre guardare come a un territorio di conflitto sull’immaginario in cui si confrontano un dispositivo di gestione del potere da un lato e un’azione di resistenza [...]

Videogame e conflitto sull’immaginario è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Gioacchino Toni

Scrive Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation (Tlon, 2023), che l’universo dei videogame dovrebbe interessare quanti «hanno a cuore il destino politico del nostro tempo» e in particolare «coloro che si dichiarano marxisti» in quanto anche attorno a tale ambito «si raccolgono le grandi contraddizioni del presente» e perché anche «attraverso il gaming può essere portata avanti la lotta politica e la resistenza all’ideologia dominante». All’universo del videogame, insomma, occorre guardare come a un territorio di conflitto sull’immaginario in cui si confrontano un dispositivo di gestione del potere da un lato e un’azione di resistenza e antagonismo dall’altro.

Ariemma invita a guardare ai videogame più maturi – nel loro essere puro divertimento, narrazione complessa, esperienza estetica, laboratorio per dilemmi morali, o tutto ciò al contempo – non solo come a un oggetto di analisi filosofica, ma anche come a uno strumento attraverso e con cui ragionare a proposito di quei temi di cui la filosofia ha sempre discusso: vita e morte, realtà e illusione, umano e non umano, scelta e libertà, giustizia e società ideale ecc.

Nel videogioco Assassin’s Creed: Syndacate (2015)1, che  consente di immergersi nella Londra vittoriana del 1868 attraversata da una rivolta popolare contro i ricchi industriali e da una serie di omicidi efferati, con salti temporali nel 1916, ci si imbatte in Marx. In quel Marx, sottolinea Ariemma, capace di individuare il lavoro anche ove non lo si vede distintamente, ossia nelle merci che qualcuno produce faticando magari alle prese con qualche macchinario. Ad attivarsi per nascondere il lavoro necessario alla produzione delle merci è proprio quell’immaginario dispensato ed aggiornato costantemente dal potere al fine di presentare l’esistente come naturale, immutabile e, persino, giusto. Per svelare la presenza del lavoro celato dall’economia capitalista, ricorda Ariemma, Marx ricorre frequentemente nelle sue opere alla metafora del vampiro/capitale, metafora che, come argomentato da Luca Cangianti, si rivela costitutiva della teoria del plusvalore e dello sfruttamento2.

Occorre ricordare che se l’industria militare statunitense si è interessata ai videogame sin dalla loro origine3, dal momento in cui questi sono stati in grado di simulare la possibilità di sparare sono divenuti terreno fertile per l’ideologia più reazionaria strutturandosi attorno al modello maschio, bianco ed eterosessuale, con tutto ciò che ne consegue nei confronti di chi è estraneo a tale modello4.

Il videogame, sottolinea inoltre Ariemma, «è sempre stato una merce. Una merce particolarmente efficace dal punto di vista ideologico, proprio secondo la definizione che Marx ha dato implicitamente dell’ideologia nella sua opera Il capitale: “Non sanno di far ciò, ma lo fanno”. Il gamer si diverte, ma non sta vedendo un film o leggendo un libro: percepisce come propri, perché li attua attraverso un controller, desideri e azioni progettati da altri»5.

Il rischio che il diffondersi dei videogame potesse impattare sulla produttività distraendo e sottraendo tempo e attenzione durante l’attività lavorativa è stato per certi versi arginato grazie alla trasformazione che ha toccato molti ambiti lavorativi negli ultimi decenni del vecchio millennio, quando si è assistito a quel processo di gamification6 attraverso cui l’economia capitalista ha saputo appropriarsi anche del gioco rendendolo non solo compatibile all’attività lavorativa ma ristrutturando quest’ultima facendo leva sull’ambito motivazionale attraverso le logiche del gioco7.

«Nel mascherare a noi stessi e agli altri i meccanismi di sfruttamento del lavoro che esso alimenta, “fai ciò che ami” rappresenta il più efficace strumento ideologico del capitalismo. Elide il lavoro degli altri e cela il nostro lavoro a noi stessi», scrive Miya Tokumitsu8. In effetti, come ha puntualizzato Ulysses Pascal, il neoliberismo ha saputo sfruttare il potenziale emotivo e motivazionale del gioco per agire a livello comportamentale anche in ambiti extraludici trasformando le meccaniche del gioco (punteggi, premi, classifiche…) in strumenti finalizzati a «rendere quantificabile (dunque misurabile, commensurabile ed esportabile) il comportamento di un utente all’interno di un videogioco»9.

Il videogioco, sostiene Ariemma, sembra dunque essersi «allontanato dalla sua esperienza gioiosa, diventando simile al gambling, al gioco d’azzardo, con i suoi meccanismi d rinforzo variabile: una continua scommessa, capace di creare una pericolosa dipendenza»10 in maniera non dissimile a ciò che avviene frequentemente con il ricorso ai social media.

Soprattutto nel gaming più maturo, scrive Ariemma, «si è attratti dalla possibilità di potenziare delle abilità, di fare esperienze etiche profonde, assumendo punti di vista insoliti, di esplorare nuovi spazi di condivisione, di sentirsi parte di una narrazione epica, di riflettere criticamente sulle condizioni materiali della nostra società»11.

Esiste però un «lato oscuro del gaming più maturo», mette in guardia lo studioso, «proprio nel momento in cui favorisce la nostra più libera espressione, nella misura in cui concorre ad alimentare ciò che Shoshana Zuboff ha chiamato “capitalismo della sorveglianza”: attraverso il gaming i dispositivi permettono sempre più a terze parti di collezione informazioni personali […] fornendo un “surplus comportamentale”, attraverso il quale molte aziende potenziano i propri profitti, facendo la fortuna dei cosiddetti “mercati dell’attenzione”»12.

I dati raccolti permettono dunque di accumulare informazioni comportamentali. GameAnalytics, per fare un esempio, è in grado di raccoglie ed elaborare i dati di oltre 850 milioni di gamer attivi mensili su più di 70 mila videogiochi ottenendo informazioni precise sui valori e sulle abitudini dei giocatori e, visto che, come dimostrano diversi studi accademici, queste hanno relazioni significative con le abitudini degli utenti nel mondo “fuori dagli schermi”, i videogiochi si dimostrano ottimi strumenti per ottenere una precisa profilazione della personalità di chi ne fa uso.

Anche il meccanismo introdotto dai videogame negli anni Dieci del nuovo millennio, che prevede l’accesso gratuito alle modalità basilari del gioco salvo poi richiedere una serie di pagamenti per poter avere accesso a contenuti e funzionalità extra, si rivela, come spiega Daniel James Joseph13, estremamente redditizio per il business videoludico non solo dal punto di vista delle transizioni dirette in denaro ma anche per quelle indirette in termini di dati raccolti.

I giochi ludicizzati si rivelano importanti anche nell’ambito dello sviluppo dell’intelligenza artificiale applicata all’ambito militare14, come dimostrano, ad esempio, gli ingenti investimenti operati dall’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti nella sperimentazione di “agenti artificiali” operanti a fianco dei giocatori umani nel videogioco Minecraft15 al fine di sviluppare un’intelligenza artificiale in grado di monitorare e gestire i soldati sul campo di battaglia.

Contestualizzato nell’ambito di quello che Shoshana Zuboff16 ha definito surveillance capitalism (profilazione al servizio dell’indirizzo comportamentale), e facendo riferimento alle riflessioni di Tiziana Terranova17 sul lavoro culturale nell’economia digitale, Pascal sottolinea come

La valorizzazione delle opportunità rese possibili dal lavoro creativo digitale e dal videogioco nelle sfere dei media partecipativi spesso ignora, sottovaluta e trascura la complicità con le strutture di sfruttamento e di disuguaglianza tipicamente capitalistiche. Se l’aspirazione consiste nel guadagnarsi da vivere “facendo ciò che si ama” – in questo caso, videogiocando – un’attività che in origine aveva unicamente un valore d’uso (leggi, intrattenimento e socializzazione), ora possiede anche un valore di scambio. Da parte sua, la fruizione videoludica partecipa a entrambe le sfere del valore, dal momento che gli utenti sono letteralmente “pagati per giocare”. Così facendo, tuttavia, il gameplay digitale – pratica liminale in bilico tra due sfere di valore – è rimodellato in modo significativo poiché diversamente mobilitato, “giocato” e “riscattato” in tali sfere. Tale trasformazione, da un lato rende invisibile un lavoro aspirational estremamente precario e non adeguatamente ricompensato e, dall’altro, svaluta e impoverisce la nozione e la pratica ludica. I giocatori sono a loro volta giocati da modalità capitalistiche di produzione digitale che impoveriscono tanto il gioco quanto la giocosità, dato che il giocare è rimpiazzato da una performance pubblica e da una correlata ossessione per le metriche, il posizionamento, i guadagni. Detto altrimenti, la gratificazione intrinseca sottesa al giocare si riduce a un puro esercizio economico. Questo stravolgimento di valore condanna tanto il giocatore quanto lo spettatore, che finiscono entrambi per essere strumentalizzati dalla logica della transazione»18.

Sospesi tra l’essere strumenti di controllo e indirizzo comportamentale, oltre che culturale, e l’offrire inedite possibilità non soltanto ricreative ma anche di riflessione critica, i videogiochi, anche alla luce della loro enorme diffusione, non solo meritano di essere studiati con attenzione ma anche di essere utilizzati come strumento – tra gli altri – con cui portare avanti un’opposizione critica, consapevole e risoluta nei confronti di un sistema di dominio a cui occorre opporrsi dentro e fuori gli schermi. La battaglia sull’immaginario, insomma, deve essere condotta con ogni mezzo necessario, videogioco compreso.



  1. Assassin’s Creed: Syndacate (2015), nono capitolo della serie Assassin’s Creed, sviluppato da Ubisoft Quebec. 

  2. Cfr. Luca Cangianti, FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria, pp. 85-86, in: Luca Cangianti, Alessandra Daniele, Sandro Moiso, Franco Pezzini, Gioacchino Toni, Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2018 

  3. Cfr. Jamie Woodcock, Marx at the Arcade: Consoles, Controllers, and Class Struggle, Haymarket Books, Chicago, 2019. 

  4. Cfr. Alfie Bown, Il sogno videoludico. Come i videogiochi trasformano la nostra realtà, Luiss University Press, Roma, 2022 [su Carmilla]; Matteo Bittanti, a cura di, Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020 [su Carmilla]; Matteo Bittanti, a cura di, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023 [su Carmilla]

  5. Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming, cit. pp. 71-72. 

  6. Cfr. Gioacchino Toni, Gamification e controllo comportametnale, in “Pulp”, 22 febbraio 2023. 

  7. Cfr. Sarah Mason, Punteggio massimo, compenso minimo. Ludicizzazione: un gioco che i lavoratori non possono vincere, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over, cit. 

  8. Miya Tokumitsu, In the name of love, in “Jacobin”, 12 gennaio 2014. 

  9. Ulysses Pascal, La ludicizzazione dei videogiochi, in Matteo Bittanti (a cura di), Game over, cit, p. 463. 

  10. Tommaso Ariemma, Filosofia del gaming, cit., p. 72. 

  11. Ivi. 73. 

  12. Ivi. 74. 

  13. Cfr. Daniel James Joseph, Capitalismo Battle Pass, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset, cit. 

  14. Cfr. Ulysses Pascal, La ludicizzazione dei videogiochi, cit. 

  15. Minecraft è un videogioco sandbox open world sviluppato da Mojang Studios e pubblicato come gioco completo nel 2011. Per una disamina di tale videogioco si veda Daniel Dooghan, I conquistatori digitali: Minecraft e gli apologeti del neoliberismo, in Matteo Bittanti (a cura di), Game over, cit. 

  16. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019 [su Carmilla]

  17. Cfr. Tiziana Terranova, Free labour: Producing culture for the digital economy, in “Social Text”, vol. 18, n. 2, 2000, pp. 33-58. 

  18. Ulysses Pascal, La ludicizzazione dei videogiochi, in Matteo Bittanti (a cura di), Game over, cit., pp. 368-369. 

Share

Videogame e conflitto sull’immaginario è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>
Quanto resta da sapere https://www.carmillaonline.com/2023/05/23/quanto-resta-da-sapere/ Tue, 23 May 2023 21:55:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77399 di Cesare Battisti

«Gli dei quando ci erano propizi, erano fatti di argilla. Ecco, questa proprio non l’ho capita.» Federico richiude il libro e ci appoggia su la fronte. La psicologa sorride. La postura del ragazzo le fa immaginare Lucilium che invoca disperatamente lo spirito di Seneca affinché gli illumini la mente. «Cos’è che ti turba tanto in questa citazione?», fa lei dando alla voce la giusta intonazione.

Lo sguardo che si alza su di lei sembra provenire dagli esordi della civiltà latina. È scomparso dal volto del ragazzo il piglio intransigente contro [...]

Quanto resta da sapere è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Cesare Battisti

«Gli dei quando ci erano propizi, erano fatti di argilla. Ecco, questa proprio non l’ho capita.»
Federico richiude il libro e ci appoggia su la fronte.
La psicologa sorride. La postura del ragazzo le fa immaginare Lucilium che invoca disperatamente lo spirito di Seneca affinché gli illumini la mente. «Cos’è che ti turba tanto in questa citazione?», fa lei dando alla voce la giusta intonazione.

Lo sguardo che si alza su di lei sembra provenire dagli esordi della civiltà latina. È scomparso dal volto del ragazzo il piglio intransigente contro il quale lei si è fin qui scontrata. Al suo posto, si è aperta una domanda grande come una voragine e lei si sente risucchiata. Nonostante la solida esperienza professionale, la psicologa punta istintivamente i piedi.

Anni di analisi con giovani reclusi le hanno insegnato che non esistono due profili uguali, ed è proprio quando si crede di conoscere abbastanza il soggetto che ci si ritrova a vagare nel buio. Per marcare la distanza, la psicologa corregge la sua postura sulla sedia.

Federico ci sta pensando su. Non è una frase che lui ha colto aprendo il libro a caso. Ci è arrivato gradualmente, riga dopo riga, una pagina dietro l’altra facendo sforzi immani per dare un senso a ogni parola. Fino a immaginare sé stesso all’ombra di un salice piangente, proprio come sembra fosse solito farlo il discepolo del filosofo romano. Ci pensa su, il giovane Federico, e sorride amaro.

Chi l’avrebbe detto, doveva farsi pizzicare e poi sbattere in un carcere minorile per mettere per la prima volta piede in una biblioteca, e scoprire che scegliersi un libro da leggere è un’emozione. Non che non ne avesse mai avuto prima uno tra le mani, ma quelli della scuola non contano, non li ha voluti lui e poi non erano libri da leggere ma da studiare.

Seneca, lui l’aveva già sentito nominare. Probabilmente alla televisione, passando da un canale all’altro è inciampato su un programma culturale. Quando poi ha visto quel nome scritto sul dorso di un volume rilegato, lo ha tirato fuori dallo scaffale e, guardingo come se stesse commettendo un’infrazione, ha cominciato a sfogliarlo. Al sentirsi osservato, si è comportato come se fosse proprio quello il libro che era venuto a cercare. Ricompensato dallo stupore sulla faccia del bibliotecario, ha firmato il registro e se n’è andato trotterellando con il suoSeneca sotto il braccio. Non pensava che l’avrebbe davvero letto, tanto qui nessuno sarebbe venuto a chiedergli che diceva. Chissà poi cosa gli ha preso, dopo averlo scorso un po’ a caso, ha avuto l’impressione che quel tale della Roma antica stesse parlando proprio a lui. Allora è andato a sdraiarsi e ha ricominciato d’accapo.

Ma Seneca non si lasci leggere impunemente, dopo di lui perfino i colloqui con la psicologa non sono più gli stessi: lei non fa più domande inutili e lui non deve più cercare le risposte che lei vuole.

«Insomma, ci si sente n po’ confusi di fronte a una cosa simile», risponde infine Federico. «Voglio dire, di che materia sarebbero fatti allora i nostri dei? Perché a me non sembra che ci siano di grande aiuto.»

La psicologa inclina leggermente il busto per osservarlo meglio. Si sta chiedendo se i tratti sul volto del ragazzo, quell’espressione che fin qui lei aveva convenzionalmente associato a un temperamento bellicoso, non fossero invece segnali di una ponderata quanto sorprendente fermezza. Non è la prima volta che si deve ricredere su un giudizio frettoloso, e poi cambiare radicalmente tattica di approccio. Ma raramente questo accade dopo i primi colloqui e, comunque, mai a causa di una lettura miracolosa. La psicologa è combattuta tra la diffidenza e l’ammirazione; sono così rari i giovani pazienti che si interessano alle questioni culturali, figuriamoci in un classico dello stoicismo. Federico è intraprendente ma, come spesso è il caso tra i giovani reclusi, è anche tendenzialmente manipolatore.

«Di certo c’è che non ti sei scelto un libro d’intrattenimento. Credo che Seneca si riferisse al rapporto tra Spirito e libertà interiore, a sua volta dato dall’equilibrio che si stabilisce tra la spinta della natura e la vigilanza della ragione. Ma tu, come credi che potrebbero esserti di aiuto i tuoi “dei”?»

“Togliermi da questo inferno” è la prima risposta che gli viene in mente, l’istante prima di chiedere permesso alla ragione. Con il libro che gli scotta tra le mani, Federico cerca parole più sensate. Vuole il senso della formula, o almeno un aggettivo dotto per addolcire un desiderio di libertà troppo grezzo, vergognosamente naturale. Ma per quanto si sforzi di pensare ad altro, la parola libertà è scolpita a caratteri di fuoco sulla sua fronte.

Non era esattamente questo che voleva dire. È cola della psicologa che invece di spiegargli pare che ce la metta tutta a complicare ancor più le cose. E adesso si mette a guardarlo in quel modo, con quella punta di sospetto che gli punge l’anima e ogni volta lo fa balzare in piedi, pronto a sbattere la porta. Liberarsi delle passioni, se lo ripete mentalmente, dovrebbe anche voler dire vincere la paura. Federico questa volta non si scollerà dalla sedia. Vuole sapere se non ci ha mai capito niente, ed è questa la causa di suoi guai, o se non c’è proprio niente da capire, tanto è della stessa divina argilla che sono fatte tutte le prigioni. Al formulare questo pensiero, Federico entra in uno stato di esaltazione, è sicuro di essere sul punto di scoprire qualcosa che gli cambierà la vita ma, nel timore di confondersi, di fare la solita misera figura, si limita a sbuffare:

«Ma che c’entra, non l’ha detto lei che era solo un modo di dire? Comunque questo qui – fa puntando il dito sul volume – ha scritto queste cose quasi all’epoca di Cristo. Vuol dire che è già da un pezzo che ce la passiamo male».

La smani ardente negli occhi del ragazzo rischia di dare al colloquio una piega sconvenevole. La psicologa non si aspettava un’osservazione simile, ma non un tremito tradisce la sua sorpresa. Avrebbe dovuto intuirlo che stava intervenendo un fattore nuovo, l’elemento destabilizzante, e introdurre sin da subito un argomento che fungesse da filtro. Perfino in quel suo rimanere inerte si sente qualcosa in movimento, come se quanto da lui appena detto non fosse che l’apice di un pericolo sommerso.

Se male interpretato, Seneca parrebbe offrire agli incauti comodi argomenti assolutori, ed è perciò che lei ha creduto di sapere ciò che poteva attrarlo in quel libro. Ma ora non è più sicura. Pur percependo in lui il solito velo di asprezza, nei suoi occhi è però affiorato un mondo ombroso. Come se, stanco di rivolta, Federico stesse parlando per la prima volta alle sue paure vere. Ha fatto il balzo e adesso, in bilico sul bordo dell’abisso, sta scoprendo il fondo di sé stesso. La psicologa trattiene il fiato, non ha mai visto il ragazzo così esposto, tanto che basterebbe un soffio a farlo precipitare.

Federico oscilla ma non cade, si è aggrappato al ricordo di un bambino che corre libero su un prato. Nel cuore ha un giardino di speranza; più lontano nella mente, l’eco del richiamo di sua madre. È lui, l’anima sapiente che corre dietro a un fiore che sboccia solo un giorno prima di morire. Quanto basta per prendere coscienza di essere una creatura libera, e ragionevole. Ci voleva un gran libro su cui inciampare, per scoprire che la felicità è modellata anch’essa con la stessa argilla degli antichi dei.

Federico solleva lo sguardo dai suoi fondali per posarlo sulla dottoressa attonita. È la prima volta che ha per lei uno sguardo di gratitudine. Vorrebbe dirle con parole sue che questo sarà il colloquio che gli resterà in mente per sempre. Sarà anzi l’unico colloquio che avranno mai avuto. Un pensiero che lui riassume in un sorriso, lasciando alla sua voce appena le parole:

«Ho riflettuto un po’, come trattenendo qualcosa ma non so che dire. Un grand’uomo Seneca, mi dispiace per lui.»

La psicologa ha aperto la bocca per ribattere, la richiude subito.

«C’è da dire che neanche a lui è andata bene, si è suicidato. Ci sono persone che devono correre troppo davanti a tutti e, quando si voltano indietro, non c’è più nessuno che le segue, o almeno così lo credono. Ma grazie ai silenzi che lei mi ha concesso, io spero di fermarmi prima, per non perdere il ricordo di chi ero e né la speranza di chi posso diventare.»

La psicologa torna a respirare, trattenendo un sorriso triste che raccoglie in sé tutte le promesse che non potrà più mantenere.

 

(Illustrazione di Nico Maccentelli)

Share

Quanto resta da sapere è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>
Musica dalla parte del torto https://www.carmillaonline.com/2023/05/22/musica-dalla-parte-del-torto/ Mon, 22 May 2023 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77089 di Giovanni Iozzoli 

Torna in pista la Banda Popolare dell’Emilia Rossa, con un nuovo disco composto soprattutto da inediti. E questa è già una buona notizia. Perchè trovare la vena e gli stimoli per produrre musica di qualità, piantata dentro una storia, una radice, un linguaggio, e riuscire a ritagliarsi una platea di attenzione, oggi, nell’iperinflazione di “proposte dal basso” , rappresenta già un bel risultato. Perchè questa è un’epoca di apparente “accesso democratico” alla produzione e alla distribuzione di beni artistici; ma è anche una stagione di spietata massificazione dei gusti e [...]

Musica dalla parte del torto è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Giovanni Iozzoli 

Torna in pista la Banda Popolare dell’Emilia Rossa, con un nuovo disco composto soprattutto da inediti. E questa è già una buona notizia. Perchè trovare la vena e gli stimoli per produrre musica di qualità, piantata dentro una storia, una radice, un linguaggio, e riuscire a ritagliarsi una platea di attenzione, oggi, nell’iperinflazione di “proposte dal basso” , rappresenta già un bel risultato. Perchè questa è un’epoca di apparente “accesso democratico” alla produzione e alla distribuzione di beni artistici; ma è anche una stagione di spietata massificazione dei gusti e delle proposte: tutti possono dire la loro, ma pochissimi hanno davvero qualcosa da dire.

La BPER è sicuramente tra questi ultimi. È nata dalle mitologie e dalle memorie del movimento operaio ma ha sempre evitato i reducismi e le tiritere ideologiche facili facili. Il suo humus è il presente, la fabbrica e il lavoro sociale nella sua contemporaneità; la lotta di classe com’è e come potrebbe essere. Si produce buona musica ( e buona letteratura o buona poesia) quando le radici sono solide e il mercato non è la priorità. Stabilisci allora un rapporto di lealtà – anzi di complicità – con chi è destinato ad ascoltarti: e se sei nella condizione ideale, musicisti e pubblico si identificano negli stessi mondi, attraversano le medesime contraddizioni, parlano la stessa lingua, si comunicano reciprocamente le giuste sensazioni.

Parliamo di tutto ciò con il frontman Paolo Brini, anomala figura di sindacalista d’opposizione, ex operaio di una fabbrica modenese che non esiste più.

Che tipo di disco bisogna attendersi, dopo 13 anni di musica?

La nostra storia, semplicemente. SEMPRE DALLA PARTE DEL TORTO si intitolerà. Niente di più e niente di meno della continuità militante di un impegno musicale.
L’album è composto da 10 canzoni, 6 delle quali completamente inedite e 4 già pubblicate negli anni della pandemia come singoli, sulle piattaforme, ma mai su supporto fisico. Un lavoro ricco di collaborazioni con amici e compagni a cui siamo legati da una medesima visione dell’arte e del mondo. Ci saranno, tra gli altri, Zulù dei 99 Posse, i Modena City Ramblers, i Gang, Kento e Marcello Coleman.

Scegliete ancora testardamente l’autoproduzione. Perchè?

Ci piace che le persone scelgano di diventare co-produttori dell’opera, assumere il ruolo di intellettuale collettivo, indirizzarci, autorizzarci, in qualche modo, a raccontare le loro storie. E questo è il senso del crowfounding. L’album diventa un progetto vivo, non autoreferenziale. Nasce in dialettica coi nostri mondi, con quelli che da anni ci ascoltano o cominciano solo ora a darci la loro attenzione.
Questa per noi è la cosa più importante e merito di vanto. Come si suol dire “chi paga l’orchestra decide la musica” e quindi – da band autofinanziata ed autoprodotta – il modo migliore per permetterci di pubblicare liberamente la nostra arte senza scendere a compromessi è proprio avere il contributo di ognuno. Abbiamo messo come obiettivo almeno 5000 euro perché è la cifra minima necessaria per poter fare un lavoro serio e di qualità, ma in realtà il crowdfunding è il modo per chi come noi non è ben accolto (indovinate perché?) nel mondo del commercio e della distribuzione musicale, per imporre dal basso la nostra piena agibilità.

A che genere appartiene, secondo voi, la vostra musica? Come la definireste?

Definiamo la nostra musica con il termine “internazionalista”. perché l’unico vincolo che possiede è quello di porsi oltre ogni frontiera e barriera religiosa, etnica, musicale, culturale, per l’unità degli oppressi di ogni dove. Come cantava quella canzone “patria nostra è il mondo intero”

Quando siete partiti, un 25 aprile di 14 anni fa, eravate una band operaia e puramente amatoriale. Adesso, con nuovi ingressi e le collaborazioni, vi state decisamente professionalizzando. Rischiate di perdere genuinità?

Anche se, come cantiamo in una canzone del nuovo album – riprendendo una vecchia canzone dei Gang – “in fabbrica non ci voglio andare più”, purtroppo in fabbrica ci andiamo ancora tutti i giorni. Chi di noi fa il musicista di professione è come se lavorasse in catena di montaggio, dato che per guadagnare un salario decente deve dare lezioni di musica, tenere corsi, insegnare a ritmi decisamente cadenzati da TMC2. Quindi se la genuinità è determinata dalla condizione materiale, quella non è cambiata. Dal punto di vista artistico e musicale il giudizio invece è tutto di chi ascolta, fermo restando che, come insegnano gli Area, noi facciamo musica non per piacere ma per creare coscienza, per essere parte di quel “martello che deve modellare il mondo” di cui parla Majakovskij

Si può dire che esista una musica “working class”?

Il termine, almeno per quello che riguarda la scena italiana, è un po’ vago. Ci sono sicuramente band della scena punk, punk oi, per lo più storiche, che si rifanno al movimento internazionale Working Class nato tra fine anni 70 e inizio anni 80. Tuttavia oggi come oggi, se si intende un filone come quello che andava da Fausto Amodei a Paolo Pietrangeli, passando per Ivan Della Mea e il Canzoniere delle Lame, allora diciamo che noi siamo tra i pochissimi che continuano a cercare di proseguire su quella strada, anche se naturalmente con musicalità differenti.

***

Che dire di più? Basta dare un’occhiata alle tracce per capire di che musica si sta parlando.

La fabbrica di mattoni: riprende la storia reale del nonno di Paolo, partigiano, prigioniero nel campo di concentramento di Neuengamme .

AEmilia Paranoica: satira amara della ipocrisia del modello emiliano. Il riferimento del titolo, citando la canzone dei CCCP, richiama il processo Aemilia che “scopriì” la penetrazione ‘ndranghetista nella regione.

Sasà e il secondo secondino: dedicata alla strage di detenuti, consumata nel carcere di Modena l’8 marzo 2020, nei primi giorni di pandemia, per la quale lo Stato si è prontamente auto-assolto nei suoi tribunali.

Tanto per spiegare, a suon di (buona) musica che la regione progressista, civica e benpensante dei miti emiliani, ha lasciato il posto ad una realtà modernamente incattivita e socialmente mai così iniqua: gli “asili più belli del mondo” sono in via di privatizzazione, uno sciopero può portarti a rischiare la galera, il salario non basta più neanche alla sopravvivenza. Anche una band può servire a scuotere le coscienze anestetizzate e tenere vivo un prezioso deposito di memoria di classe.

Il link al crowdfunding è questo: https://buonacausa.org/cause/sempredallapartedeltorto

 

Share

Musica dalla parte del torto è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>
Esperienze estetiche fondamentali / 5: Kamumilla Cocco Bill https://www.carmillaonline.com/2023/05/21/esperienze-estetiche-fondamentali-5-kamumilla-cocco-bill/ Sun, 21 May 2023 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77034 di Diego Gabutti

Una volta intervistai Jacovitti. Roma, primi novanta. Una casa modesta, tanti libri, la scrivania, disegni sparsi dappertutto. Non ricordo cosa gli chiesi né cosa mi rispose. Non masticava il sigaro, come nelle foto che ancora lo tramandano. In compenso gli occhi, come nelle fotografie, erano a palla, il viso tondo, il sorriso lunare. Sembrava un po’ stanco. Portava occhiali à la Clark Kent. Non trovo più l’intervista, che apparve sul «Giorno», dove lavoravo all’epoca, ma immagino che parlammo soprattutto di Cocco Bill, il pistolero d’avant-garde, che «ha [...]

Esperienze estetiche fondamentali / 5: Kamumilla Cocco Bill è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Diego Gabutti

Una volta intervistai Jacovitti. Roma, primi novanta. Una casa modesta, tanti libri, la scrivania, disegni sparsi dappertutto. Non ricordo cosa gli chiesi né cosa mi rispose. Non masticava il sigaro, come nelle foto che ancora lo tramandano. In compenso gli occhi, come nelle fotografie, erano a palla, il viso tondo, il sorriso lunare. Sembrava un po’ stanco. Portava occhiali à la Clark Kent.
Non trovo più l’intervista, che apparve sul «Giorno», dove lavoravo all’epoca, ma immagino che parlammo soprattutto di Cocco Bill, il pistolero d’avant-garde, che «ha le rivoltelle chiacchierone e beve camomilla espresso», come veniva minchionato da un «avventato avventore» di saloon (subito ripagato con «una sciacquatina di piombo ai denti») già nella seconda tavola della sua prima avventura, apparsa sul «Giorno dei ragazzi», come si diceva, il 28 marzo del 1957.

Sei anni dopo, in Per un pugno di dollari, il primo western di Sergio Leone, Clint Eastwood avrebbe dato «una sciacquatina di piombo ai denti» dei bandidos che avevano offeso il suo mulo. Era un rimando non si sa quanto involontario ai dialoghi di Jacovitti. Ma anche il mulo di Joe, pistolero sbrindellato e con il poncho, suonava un po’ come una citazione di Trottalemme, il cavallo malmostoso di Cocco Bill. Come Cocco Bill, che aveva sempre una sigaretta spenta all’angolo della bocca, anche Clint Eastwood – nei primi tre western di Sergio Leone – aveva sempre tra le labbra, bitorzoluto e cincischiato, uno zampirone spento. Eastwood, in quei film, era un eroe ambiguo, double face, spietato e sentimentale insieme. Idem Cocco Bill, che agiva come il trickster delle mitologie – brutale e implacabile. Guardatelo bene: ha lo sguardo cattivo, da elfo crudele. Intorno vermi tabagisti, lische di pesce perplesse, matite sorridenti (alcune dotate d’attributi) e salami semiliquefatti, come gli orologi di Dalí.

Quanto all’«avventato avventore», se non ricordo male, è un’espressione che ho letto proprio in una storia di Cocco Bill (o di Gionni Galassia, o di Zorry Kid, o di Tom Ficcanaso, o di Mandrago, o di Jack Mandolino). Disegnatore eccezionale, Jacovitti fu anche – se non prima di tutto – un maestro di calembour linguistici e di balloons surreali, anzi surrealisti. Apro un albo a caso. Cocco Bill e sette pistoleros tutti eguali ma di colore diverso (baffoni compresi, chi li ha gialli, chi rossi, verdi o blu) sono in fila indiana in un saloon e ordinano ciascuno al suo turno da bere: «Una birra», «A me pure», «A me una birra al burro», «A me una in decoltè», «A me una birra al diapason», «A me birra Meloni», «A me una birra della Val Sugana». Ultimo Cocco Bill: «E a me una camomilla. Pagano loro». Altro albo: «Il capo degli indiani Ciuffettoni s’approssima a Cocco Bill e sbraita terribili minacce: “Naibò! Coccobille ciaccichine tantorollè paghironde pa ghighè!”» In altro albo ancora Cocco Bill spara a mitraglia dicendo: «Siamo al buio e io accendo gli abbaianti». Invece di «bang bang» le pistole fanno «bàu bàu».

Come di tutti i giornali in cui ho lavorato, del «Giorno» non ho buoni ricordi, se non dei primi due direttori che mi toccarono in sorte, il democristo Lino Rizzi (un grande giornalista e un’ottima persona, che perciò tutti detestavano, rosicando) e il mio amico Francesco Damato, in quota socialista, il miglior analista politico dell’epoca (tutti, sempre rosicando, detestavano anche lui). Ma prima di scrivere corsivi e recensioni per il Giorno fui un lettore bambino del «Giorno dei ragazzi».

Scoperte non so più in quale modo (o per dritta di chi) le storie di Cocco Bill, nei primi tempi era mia madre a comprare il Giorno dei ragazzi ogni giovedì, quando usciva come supplemento del quotidiano, ma presto fui io a procurarmelo tornando a casa da scuola. Oggi in edicola non c’è quasi più nulla da comprare, a parte la Settimana enigmistica, che tuttavia si può anche caricare sull’iPad, ma all’epoca le edicole erano miniere: Urania e Galassia, gialli Mondadori e Garzanti, KKK. I classici dell’orrore, Soldino e Nonna Abelarda, il Monello con Cuoricino e C. e Superbone, Nembo Kid, i primi Segretissimo, le enciclopedie a dispense, Cineromanzo (fotogrammi di blockbuster hollywoodiani, da Ulisse a Duello al sole, da Fronte del porto a Ben Hur, con didascalie e i dialoghi nelle nuvolette). Ma il clou era Cocco Bill (be’, Cocco Bill e la ristampa primi sessanta di Pecos Bill, gran fumetto di Guido Martina e Raffaele Paparella, ma questa è un’altra storia, e la racconteremo poi).

Trascuravo, per ragioni che oggi mi sono oscure, ogni altro fumetto presente sul Giorno dei ragazzi. So che erano opera di Pier Carpi, di Andrea Lavezzolo, di Stan Drake e persino di Bruno Bozzetto, pioniere del cinema d’animazione italiano d’eccellenza con West and Soda e Mio fratello superuomo, solo perché lo dice Wikipedia (dove scopro che, tra i fumetti del Giorno che trascuravo o che ho dimenticato, c’era anche «Dan Dare, pilota del futuro» di Frank Hampson, niente meno).

Logo del Giorno dei ragazzi era un ragazzino in pigiama a strisce verdi e gialle visto di schiena. Sa Iddio chi l’aveva inventato e perché l’Eni d’Enrico Mattei, khan politico del giornale, l’avesse adottato senza licenziare il grafico. Braccia aperte, i capelli ritti, come chi ha infilato le dita in una presa di corrente per vedere l’effetto che fa e l’effetto è che si è preso la scossa, il ragazzino reggeva il Giorno dei ragazzi. Formato tabloid, lo stesso del quotidiano, più immagini che colonne di stampa, il Giorno dei ragazzi era un lenzuolone a colori acidi.

Prim’attore, Cocco Bill.
Consumando «doppie camomille al limone», sparando revolverate «nelle gengive dei cattivoni», chiamando al soccorso le pistole dimenticate al saloon con «un fischio da pecoraro», sbattendo «vigliacconi matricolati» e «pezzentoni» dietro le sbarre «in nome e cognome della legge» per galoppare, infine, verso l’orizzonte in un far west psichedelico, Cocco Bill era diventato col tempo il personaggio più celebre e celebrato di Benito Franco Giuseppe Jacovitti, la cui opera è fitta di protagonisti e di comprimari quanto e più della Commedia umana di Balzac (e della Recherche proustiana, che della Comédie fu il sequel fluviale, come gli ultimi 22 film di James Bond degli eleganti e perfetti primi tre).

Alcuni di questi personaggi li ho già elencati. Ma ce ne sono infiniti altri, anch’essi diligentemente rubricati da Wikipedia: Alvaro il Corsaro, Cip l’arcipoliziotto, Battista l’ingenuo fascista, Gionni Peppe, Joe Balordo, Giorgio Giorgio detto Giorgio, Elviro il vampiro, Peppino il paladino, Oreste il guastafeste, Tippe Tappe, Zagar, Giacinto corsaro dipinto e, naturalmente, la signora Carlomagno e «i tre P», Pippo, Pertica e Palla – i personaggi con i quali aveva esordito nel 1939, a sedici anni, sul settimanale a fumetti dell’Azione cattolica il Vittorioso. Ma tra tutti Cocco Bill resta il suo personaggio più riuscito. Un classico.

Mentre il Giorno dei ragazzi, e prima ancora il Vittorioso, pubblicavano fumetti destinati a un pubblico di ragazzi e bambini, le tavole caotiche e indiavolate di Cocco Bill, dove al posto del sigaro qualcuno fuma un salame e i messicani portano sombreri con le corna, come elmi vichinghi, non erano e neppure sembravano roba per ragazzi. Cocco Bill era un fumetto senza un target preciso, ma certamente più per «grandi» che per «piccini». Era un fumetto letto con vantaggio anche o soprattutto dagli adulti senza essere per questo un «fumetto adulto», come si diceva pomposamente all’epoca («fumetto adulto» era un’espressione che faceva la sua figura nei repertori chic, ma che alle orecchie di Jacovitti avrebbe avuto il suono storto d’una barzelletta raccontata male). Cocco Bill, a differenza dei fumetti «adulti», eternamente organici ai magisteri e alle mode del momento, era piuttosto un fumetto «alto» e raffinato, come negli Stati Uniti dei sixties i fumetti di Al Capp: Li’l Abner, lo zoticone di Dogpatch, Appalachi, e Fearless Fosdick, il G-man stolido e mascelluto à la Dick Tracy protagonista delle strip preferite da Li’l Abner.

Come Jacovitti, che faceva di nome Benito, anche Al Capp era un vecchio reazionario. Una volta, incontrando Yoko Ono e John Lennon in un talk show, si presentò così: «Salve, ragazzi. Sono un terribile fascista di Neanderthal. Come state?» Jacovitti, più in piccolo, incontrò la redazione di Linus e Oreste Del Buono, che chiusero d’autorità una sua storia a puntate perché i lettori la giudicarono reazionaria levando alte e piagnucolose proteste. A Jacovitti, uno dei massimi artisti del Novecento italiano, non si perdonò d’aver preso per il naso il milieu goscista disegnando una manifestazione studentesca che un passante commentava così: «Raglia, raglia, giovane Itaglia». Da ragazzo, raccontava lui, «sono stato un tifoso d’Italo Balbo, che però disegnavo con due falci e martello al posto dei fasci nelle mostrine, e non so ancora perché». Dopo Linus, e nonostante Linus, pubblicò vignette, fumetti e «panoramiche» (paginoni a tema fisso zeppi di vignette concatenate) anche sul Male, su Cuore e su Tango: l’ideologia era l’ultimissima delle sue preoccupazioni.

Non soltanto inventò un suo originale e inimitabile linguaggio grafico e letterario, a metà tra le beffe filologiche di Carlo Emilio Gadda e gli «scandali» dei surrealisti, ma con la sua opera deformò e sbertucciò il costume del suo tempo, quando gli altri si limitavano a fotografarlo. Aggirandosi tra vilain che mangiano leoni vivi e saloon kafkiani, dove si consumano eterne merende del cappellaio matto, Cocco Bill aiutò Jacovitti in questa mirabile impresa.

Nato a Termoli, in provincia di Campobasso, nel marzo del 1923, Benito Jacovitti era figlio d’un ferroviere che tifava per il fascismo, da cui l’impegnativo nome di battesimo, e d’una donna d’origini albanesi. Nel 1939, quando diventò un fumettista di professione, viveva a Firenze, dove aveva seguito il padre ferroviere, e frequentava il liceo artistico. Franco Zeffirelli era uno dei suoi compagni di classe.

All’epoca i fumetti erano un’arte giovane.
Alcuni maestri del fumetto erano già al lavoro in Amer ica e in Europa. C’erano le storie di Flash Gordon e quelle di Tintin. Erano i tempi di Mandrake il Mago, di Topolino giornalista, di Cino e Franco. Ma c’è da dubitare che Jacovitti, uno che disegnava fumetti (o qualcosa di molto simile) da quando aveva sei anni, si sia ispirato a qualche modello, specialmente esotico. Lui fece tutto da solo. Era un talento naturale e gli obblighi del fumetto (la sceneggiatura lineare, la tavola sobria, il disegno disciplinato e pulitino, il dialogo igienizzato) gli andavano stretti. Nel 1945, subito dopo la guerra, fece uscire il primo DiarioVitt, prototipo di tutti i diari scolastici, che ancora «negli anni sessanta», raccontò in seguito, «era l’unico in circolazione e vendeva qualcosa come due milioni e mezzo di copie: i testi erano di Gervaso, Montanelli eccetera… io facevo i disegnini». Nel 1946 si stabilì a Roma, dove frequentava altri umoristi disallineati, da Marchesi a Metz, da Steno al giovane Fellini. Nel 1948 – di nuovo a proposito di politica – la Dc atlantista (ma bacchettona e clericale) gli commissionò un manifesto elettorale in vista delle elezioni che avrebbero deciso il destino del paese. Jacovitti pensò bene d’infilare in un angolino del manifesto, quasi invisibile, una legenda che diceva: «Abbasso il papa». Nel 1980-81, sulle pagine di Playmen, «rivista per soli uomini», Jacovitti pubblicò il suo Kamasutra, il più scapigliato, scombinante e imaginifico dei libelli pornografici. Ciò a dimostrazione che anche la pornografia, che già in sé è trasgressione e parodia, ha i suoi trasgressori e parodisti.

Jacovitti morì alla fine del 1997. Io l’avevo incontrato quattro o cinque anni prima. Prima o poi, frugando nei faldoni che conservo (senza una ragione al mondo) in soffitta, ritroverò l’intervista. Di quell’incontro mi restano, preziosissimi, due souvenir: due tavole di vignette del DiarioVitt cum dedica. Non gliele avevo chieste, sia chiaro. Non è che uno prende il caffè a casa di Picasso e prima d’andarsene chiede una tela in omaggio. Fu lui, molto, gentilmente, a farmene omaggio. «Per lei», disse. Adesso, trent’anni dopo, se ne stanno, incorniciate, bellissime, qui in casa. Sono appese accanto a una striscia, pagata carissima, di Lil’l Abner (ma ho anche un’intera bibliografia su John Lennon) e una tavola, pagata un po’ meno ma sempre cara assai, del Pecos Bill di Raffaele Paparella. Possiedo anche una tavola dei Teen Titans di George Peréz, un altro disegnatore straordinario. Ma il pezzo forte sono naturalmente le tavole di Jacovitti.

Arrivato in aereo il mattino, presi il volo di ritorno nel tardo pomeriggio. Non ebbi nemmeno il tempo di fare quel che facevo di solito a Roma: una passeggiata nel centro, Piazza Navona, Campo de’ Fiori, il Fontanone, Piazza di Pietra, il Pantheon, un cappuccino qui, un’aranciata là. Forse con Jacovitti parlai a lungo, o forse i tempi tra un volo e l’altro erano più stretti del solito. Sta di fatto che saltai il pranzo. Mi sarebbe piaciuto sedere in un’osteria di Via del Mortaro, alla quale m’ero affezionato anni prima, quando andavo e tornavo da Roma almeno due o tre volte al mese. Mi accontentai d’un panino o due e di troppi caffè nei bar della stazione e dell’aeroporto. Nel tascapane, dentro una busta di plastica comprata nella prima cartoleria in cui m’ero imbattuto dopo aver lasciato Jacovitti, avevo le tavole del DiarioVitt.

Avrei voluto anche passare, per dare un’occhiata, in una libreria antiquaria dov’ero capitato una volta, parecchio tempo prima e, per una di quelle «coincidenze oggettive» (come le chiamava Adorno) che si verificano di tanto in tanto, vidi in vetrina una copia d’un libro intitolato La doppia vita di Evno Azev, autore G. Pevsner, uscito nel 1936 nella collana Mondadori «Drammi e segreti della storia». Avevo parlato di Azef poco prima al ristorante (non l’osteria di Via del Mortaro, ma da «Fortunato al Pantheon») con Enrico Filippini, germanista di rango e grande firma di Repubblica.

Di Azev, mi disse, raccontava la storia Alberto Moravia nel suo ultimo romanzo, 1934, di cui non sapevo niente allora e poco so (e voglio sapere) anche adesso. Sapevo tutto, in compenso, di Azev, terrorista socialrivoluzionario e agente dell’Okhrana, la polizia segreta zarista, terrore delle cellule clandestine. Azev era un agente così doppio che non sapeva più lui stesso per chi lavorasse davvero e a chi fosse fedele, al trono o alla rivoluzione. Sapevo tutto di Evno Azev proprio perché possedevo una copia del libro di Pevsner.

Ed eccone lì un’altra copia, evocata per magia, quasi certamente magia nera, come il diavolo di cui, solo a nominarlo, spunta subito la coda. Comprai il libro e lo lasciai a un amico comune (il capo della redazione romana del Giornale) affinché lo girasse a Filippini. Trovai anche, nella stessa libreria antiquaria, una copia della prima edizione italiana del Falcone maltese (più precisamente Il falcone maltese e quattro novelle) di Dashiell Hammett, sempre del 1936, sempre Mondadori, collana «Il romanzo mensile».

Avrei dato volentieri un’occhiata, dicevo, alle vetrine di quella fatata libreria antiquaria. Chissà cosa avrei potuto trovarci. Ma non ne ricordavo il nome, sapevo solo vagamente dove si trovava, e comunque non c’era abbastanza tempo. Mi consolai pensando alle tavole cum dedica di Jacovitti. C’erano ossa, salami e piedi nudi che spuntavano dal terreno come piante grasse da incubo. C’erano clessidre sorridenti, nonché vermi con vari tipi di cappelli e altri con enormi nasi.

Share

Esperienze estetiche fondamentali / 5: Kamumilla Cocco Bill è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>
Contro il totalitarismo: perché leggere il pensiero di Luce Fabbri https://www.carmillaonline.com/2023/05/20/contro-il-totalitarismo-perche-leggere-il-pensiero-di-luce-fabbri/ Sat, 20 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77014 di Lorenzo Pezzica

[Con il consenso della casa editrice si riporta di seguito la prefazione scritta da Lorenzo Pezzica al volume Luce Fabbri, Critica dei totalitarismi (elèuthera, 2023). Attivista, docente, saggista e poetessa, Luce Fabbri (1908-2000) si è confrontata con il proprio tempo fedele alla radice socialista dell’anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi, non mancando di attingere dalle diverse correnti del pensiero critico a lei contemporanee. Nel volume sono raccolti scritti in cui Luce Fabbri si occupa di libertà e rivoluzione, della natura dello Stato contemporaneo e dell’ascesa della tecnoburocrazia. [...]

Contro il totalitarismo: perché leggere il pensiero di Luce Fabbri è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Lorenzo Pezzica

[Con il consenso della casa editrice si riporta di seguito la prefazione scritta da Lorenzo Pezzica al volume Luce Fabbri, Critica dei totalitarismi (elèuthera, 2023). Attivista, docente, saggista e poetessa, Luce Fabbri (1908-2000) si è confrontata con il proprio tempo fedele alla radice socialista dell’anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi, non mancando di attingere dalle diverse correnti del pensiero critico a lei contemporanee. Nel volume sono raccolti scritti in cui Luce Fabbri si occupa di libertà e rivoluzione, della natura dello Stato contemporaneo e dell’ascesa della tecnoburocrazia. – ght]

***

Ci sono almeno tre motivi per leggere questa breve antologia dedicata all’analisi e riflessione di Luce Fabbri sul potere totalitario. Il primo motivo è che «nasce» anarchica, favorita dallo speciale ambiente familiare in cui cresce, e dunque diventa una testimone particolarmente sensibile e consapevole degli eventi e delle tragedie che attraversano tutto il XX secolo. L’intero suo percorso esistenziale, intellettuale e politico si iscrive all’interno dell’ideale anarchico, cosa che non le impedisce comunque di saldare il suo pensiero a un forte principio di realtà e al contesto sociale e politico di appartenenza. Il secondo motivo è che questo suo essere anarchica «da sempre» è ciò che la rende un personaggio estremamente significativo per la pregnanza con cui ha vissuto e concretizzato la sua weltanschauung libertaria. L’anarchismo le ha fornito uno schema di lettura della realtà. Con un simile orientamento critico ha affrontato le questioni politico-sociali più scottanti a lei contemporanee senza cedere alle seduzioni della semplificazione. Il terzo motivo è che l’anarchismo le appare la migliore garanzia contro l’affermazione del totalitarismo, anzi le appare come l’unico movimento capace di rivendicare pienamente l’importanza dell’autonomia dell’individuo nei confronti dei grandi apparati e quindi di porre in primo piano il valore morale della libertà.

Luce Fabbri, nata nel 1908 a Bologna e scomparsa nel 2000 a Montevideo, è oggi considerata una tra le figure intellettuali più significative dell’anarchismo italiano e internazionale del Novecento1. Nonostante ciò, il suo pensiero, benché accolto su numerose riviste del movimento, per lungo tempo non è stato compreso e dibattuto quanto avrebbe meritato, anche se, per esempio, Pier Carlo Masini, seppur critico nei confronti di alcuni aspetti del suo pensiero2, ne aveva già riconosciuto l’originalità e la profondità tanto da ricordare, molti anni più tardi, la «boccata d’ossigeno» che avevano provocato le sue idee «per il modo problematico con cui erano proposte»3. Masini però resta uno dei pochi, e le idee della Fabbri passano sostanzialmente inosservate nel movimento anarchico italiano, tanto che chi riprende e sviluppa il tema della «tecnoburocrazia» negli anni Sessanta, riscoprendo pensatori anarchici come Louis Mercier Vega o autori come Bruno Rizzi, non si accorge delle lungimiranti pagine scritte dalla Fabbri sullo stesso tema. E poco dibattuta resterà anche la sua riflessione sul totalitarismo4, svolta tra gli anni Trenta e Sessanta, che comunque le permetterà di ripensare al contempo l’essenza stessa dell’anarchismo5.

Nei suoi scritti, infatti, Fabbri elabora una nozione dell’agire libertario visto come espressione diretta della volontà umana. Per descrivere la sua riflessione si può utilizzare il giudizio che il sociologo Alessandro Dal Lago ha espresso a proposito del pensiero di Hannah Arendt: «Una teoria libertaria dell’azione nell’epoca del conformismo sociale»6.

Ancorata alla radice socialista dell’anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi7, ma al contempo spinta a svilupparlo, arricchirlo e per alcuni aspetti superarlo, Fabbri affronta nel corso della sua esistenza alcuni dei nodi centrali delle vicende storiche che segnano la sua epoca. Ma parallelamente a questa cultura politica sviluppa anche una solida cultura storica e letteraria che le darà una grande apertura mentale verso i problemi del presente e del futuro, permettendole tra l’altro di accedere, nel 1949, all’insegnamento universitario a Montevideo.

Negli anni della Guerra Fredda e del mondo diviso in due blocchi, Luce Fabbri vuole trovare «il luogo attuale dell’anarchismo», ripensandone l’essenza, e ritiene di trovarlo nella naturale confluenza di due linee evolutive: il liberalismo e il socialismo.

Pur saldamente legata alla tradizione socialista dell’anarchismo, Fabbri intende infatti recuperare al pensiero anarchico ciò che chiama «una parentela più remota»: il liberalismo, inteso nel suo valore profondamente etico di difesa dell’uomo e di lotta per la libertà. Il liberalismo così inteso potrà dirsi compiuto, secondo lei, quando avrà eliminato i presupposti del dominio economico: la libera impresa e la proprietà privata. A quel punto, la tradizione liberale, toccando così il suo momento più alto, non potrà che confluire nel socialismo.

Nel proporre queste sue idee, Luce Fabbri non manca di richiamarsi tanto al liberalismo radicale di Piero Gobetti quanto al socialismo liberale di Carlo Rosselli. Ma è soprattutto al pensiero di Camillo Berneri che si richiama più direttamente8.

Un elemento centrale che caratterizza la sua esistenza e il suo pensiero è inoltre rappresentato dalla condizione dell’esilio, da lei vissuto con grande sofferenza, anche se non nella stessa misura di suo padre, come lei stessa ricorderà, molti anni più tardi, nella biografia a lui dedicata9. Nel 1932 pubblica infatti a Montevideo I canti dell’attesa, una raccolta di poesie da cui traspare non solo la nostalgia per il paese natale, ma anche lo sdegno per il fascismo e le sue imprese10.

La sua esistenza si svolge di fatto tra l’Italia, che lascia insieme alla famiglia a vent’anni a causa del fascismo, e l’Uruguay, il suo secondo paese. Dal 1929, anno di arrivo a Montevideo, questa condizione «binaria» diventa centrale nel suo modo di vivere e pensare. Nondimeno, il movimento anarchico italiano resta un punto di riferimento fondamentale per la sua azione di militante e intellettuale anarchica. Già a partire dagli anni Trenta, pur se tra moltissime difficoltà, cercherà di mantenere i contatti con il movimento anarchico italiano, per poi, con la fine del conflitto mondiale, riprenderli in modo più continuativo. E tuttavia nel dopoguerra Luce decide di non tornare nel suo paese natale, a differenza di altri esuli anti-fascisti. In Italia tornerà solo tre volte: nel 1954, nel 1981 e nel 1993.

Fin dal 1944 segue però con entusiasmo i tentativi di riorganizzazione del movimento nella parte liberata dell’Italia attuati da vari militanti, e in particolare da Pio Turroni, Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria; tentativi che si concretizzano nel settembre del 1945 con il primo Congresso nazionale di Carrara che dà vita alla Federazione Anarchica Italiana11 e alla fondazione della rivista «Volontà»12.

Luce Fabbri è in particolare entusiasta del nuovo progetto editoriale, al quale subito aderisce. Quanto reputi importante la nascita di «Volontà» emerge chiaramente dalle lettere che scrive a Giovanna Berneri nel 1945. In una lettera del dicembre di quello stesso anno, Luce afferma: «Se ‘Volontà’ si trasforma in una rivista con sufficiente diffusione all’estero, penserei seriamente a sopprimere ‘Studi Sociali’»13.

In effetti, la sua collaborazione con la nuova rivista italiana rappresenta uno dei momenti più importanti del suo percorso esistenziale e della sua riflessione teorica. Gli articoli che pubblica sulla rivista tra il 1946 e il 1960, oltre ad affrontare argomenti legati all’attualità politico-sociale italiana e uruguayana, nonché ai temi della pedagogia libertaria, sono infatti incentrati sul fenomeno del totalitarismo14. Una riflessione che, iniziata fin dagli anni Trenta, giunge nel periodo della sua collaborazione alla rivista a una sua completa formulazione15, che le permetterà di affrontare nei decenni successivi della sua vita l’analisi della realtà storica, sociale e politica dello Stato contemporaneo, sempre attenta a ogni evento o processo che possa costituire un segnale della tendenza totalitaria in atto. E di fatto il suo originale contributo al tema del totalitarismo la inserisce a pieno titolo all’interno di quel dibattito che ha profondamente segnato la cultura del XX secolo16.

Nella sua ricerca intellettuale, Luce Fabbri attinge alle più diverse e stimolanti correnti del pensiero «critico», dimostrando così la sua particolare apertura mentale e culturale. Al fianco del padre, Luce aveva acquisito una buona conoscenza delle problematiche scaturite dal dibattito sulla rivoluzione russa e l’avvento del regime fascista in Italia. Fa dunque proprio e rielabora il pensiero dei classici dell’anarchismo, ma si dimostra sensibile anche alle suggestioni emerse dal «laboratorio parigino» degli anni Trenta17, indipendentemente dall’estrazione politico-culturale di quei pensatori. Tra le sue letture di quegli anni vi è per esempio Emmanuel Mounier, filosofo cattolico del personalismo, ma attinge anche ad altre fonti come le opere di George Orwell, Ernst Cassirer18, James Burnham19 e Milovan Đilas20. Molte delle sue intuizioni sul fenomeno del totalitarismo sono vicine a quelle espresse da Simone Weil21 o anticipano per alcuni aspetti quelle di Hannah Arendt22, mentre le sue osservazioni sulla tecnoburocrazia si possono ritrovare in quelle formulate da Bruno Rizzi23.

Parlare di totalitarismo nell’Italia di quegli anni, comparando fascismo, nazismo e comunismo, significa «esporsi al bando della società intellettuale e, nella sinistra, all’isolamento sanitario»24. Ma Luce Fabbri, come ricorda Masini, «queste cose le disse fin da allora» e «questa discussione dell’immediato dopoguerra fu uno dei primi dialoghi di massimo livello fra l’anarchismo e il pensiero contemporaneo»25.

La sua riflessione appartiene infatti a quella che lo storico Enzo Traverso chiama la «caratteristica paradossale»26 all’interno del dibattito sul totalitarismo, cioè il ruolo del tutto marginale svolto nell’articolazione del dibattito dall’Italia, paese in cui la parola totalitarismo aveva trovato la propria origine27. Nell’Italia postbellica, ormai caduto il fascismo, il tema del totalitarismo resta infatti fuori dalla porta, anche se il termine «totalitarismo» circola comunemente, ma in un’accezione «autarchica»28.

Per avere un’idea del ritardo con il quale questo dibattito è giunto in Italia, basti pensare che il celebre libro di Arendt, Le origini del totalitarismo, viene tradotto in Italia solo nel 1967, sedici anni dopo l’edizione originale29, e lo stesso avviene per il saggio di Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, tradotto anch’esso nel 196730, mentre l’opera di Carl Joachim Friedrich e Zbigniew Brzezinski Totalitarian Dictatorship and Autocracy, del 1956, non è mai stata tradotta in italiano31. Non solo, ma occorre aspettare il 1997 per l’organizzazione, a livello universitario, del primo convegno italiano dedicato al tema del totalitarismo.

Ai dogmatismi e alle certezze manichee di quegli anni Luce Fabbri risponde con un’indagine critica e analitica, insoddisfatta della vulgata corrente e animata da una costante problematicità e da una prospettiva culturale aperta. A suo avviso, il fenomeno totalitario ha le proprie origini storiche nel contesto creato dalla Grande Guerra. Le esigenze connesse alla guerra del 1914 avevano infatti portato a una profonda trasformazione della struttura sociale dei paesi capitalisti. La necessità di rendere omogenei gli sforzi volti a pianificare l’economia in funzione della guerra aveva comportato una notevole espansione delle prerogative dello Stato e una conseguente espansione degli apparati burocratici. Un processo che sostanzialmente ricalcava le dinamiche di accentramento del potere che caratterizzavano i paesi totalitari.

Comparando nazismo e stalinismo, Luce Fabbri riassume in questi termini il «sistema totalitario»:

Esso è l’unificazione dell’oppressione politica e dello sfruttamento economico delle grandi masse umane asservite nelle mani di uno Stato assoluto e fortemente centralizzato, operante attraverso una casta di funzionari economicamente privilegiati e politicamente partecipi – secondo la loro scala gerarchica – delle funzioni cosiddette di direzione, cioè in verità del potere. Tale casta comprende tutta la burocrazia governativa nei suoi diversi settori, compresi i tecnici e gli organizzatori della produzione e della distribuzione, la polizia, l’esercito e con il tempo, senza dubbio, il clero»32.

È il fenomeno tecnoburocratico. Luce Fabbri e Louis Mercier Vega33 sono stati i primi a introdurre nel movimento anarchico di lingua italiana il concetto di tecnoburocrazia e fin dal 1933, quando, a partire dallo studio comparato dello Stato fascista e di quello sovietico, Fabbri individua già l’ascesa della classe tecnoburocratica come uno dei tratti unificanti delle società contemporanee34. Come scrive in quell’anno, il totalitarismo del XX secolo gestisce il passaggio in campo economico dal capitalismo al collettivismo burocratico, come avrebbe detto e scritto nel 1939 Bruno Rizzi35 e poi nel 1941, in altri termini, James Burnham36.

Dopo aver inquadrato il processo tecnoburocratico all’interno del fenomeno totalitario, Luce Fabbri pone però in secondo piano gli aspetti economici del processo totalitario, considerati una delle manifestazioni del rapporto fondamentale tra gli individui e i gruppi sociali, che è essenzialmente un rapporto politico, un rapporto di potere.

È quindi sull’aspetto più genuinamente «politico» e «ideologico» del totalitarismo che Luce decide di concentrare la sua analisi. Per lei, fascismo, nazismo e stalinismo puntano, oltre che a un’espansione ipertrofica della sfera pubblica in economia, al potenziamento esponenziale della violenza dello Stato attraverso la guerra, interna ed esterna, all’irreggimentazione sistematica delle coscienze e all’imbarbarimento dei rapporti sociali, che porta all’annichilimento dell’individuo in nome di ingannevoli e falsi ideali collettivi. In particolare sono tre gli elementi che definiscono il regime totalitario: la neolingua, la visione ufficiale della storia, la militarizzazione delle intelligenze.

Il primo elemento mantiene il potere attraverso la trasformazione profonda e unilaterale del vocabolario, sfigurando e a volte invertendo, senza dichiararlo, i termini dei vecchi e dei nuovi problemi. E a tal proposito Fabbri parla della «semantica artificiale del nazionalsocialismo tedesco» diretta a creare quella neolingua che minaccia «il nostro futuro» e che impedisce ogni pensiero eretico37. Lo Stato totalitario, in altri termini, una volta conquistato il potere lo consolida a «colpi di linguaggio»38 trasformandosi in una vera e propria «logocrazia di massa»39.

Per quanto concerne il secondo elemento, Fabbri evidenzia come i regimi totalitari impongano al loro interno una visione ufficiale della storia contemporanea «e, in casi estremi, anche della passata»40. Il totalitarismo utilizza il suo potere per manipolare le informazioni e distruggere la memoria storica. La realtà viene dunque vagliata, selezionata, costruita, prodotta: un tratto questo che a suo avviso accomuna il nazismo e lo stalinismo.

Infine, il terzo elemento, ovvero la militarizzazione delle intelligenze individuali (e la loro successiva fusione in una massa omogenea), appare a Fabbri come una modalità negativa che costringe le persone a un lavoro di investigazione solitario, privo del beneficio dell’interscambio spirituale e della discussione. Da una parte, quindi, il potere onnipervasivo dell’ideologia totalitaria rende «omogenea» la massa degli individui e, dall’altra, «isola» il pensiero dal rapporto fecondo tra idea e realtà. Nel formulare queste sue idee Luce Fabbri fa esplicito riferimento a Orwell, ponendo direttamente al centro delle sue argomentazioni le tesi di 1984.41 Dalla lettura di questa opera ricava infatti importanti suggestioni a conferma del suo pensiero, quali per esempio la relazione tra linguaggio e capacità critica, la relazione tra potere e strumenti di comunicazione e la relazione tra potere e storia. E tuttavia non si limita, nella sua riflessione, ad analizzare il fenomeno totalitario nel solo significato di nuovo regime, bensì si apre verso una prospettiva ermeneutica che cerca di leggere in ciò che accomuna fascismo, nazismo e stalinismo qualcosa che non riguarda solo l’intensità e la struttura dell’oppressione politica ma anche la sua essenza.

Interrogando le responsabilità del passato, Fabbri fa inoltre emergere la continuità tra totalitarismo e tradizione occidentale, tra logica del potere tout court e logica totalitaria. Rispetto ad Arendt è interessante sottolineare il diverso accento posto sulla continuità o discontinuità del totalitarismo, che non a caso avvicina il giudizio di Luce Fabbri a quello di Simone Weil. Se è possibile individuare elementi comuni nella riflessione sul totalitarismo di Fabbri e Arendt, le due pensatrici si differenziano però nel giudizio sull’originalità e l’unicità del fenomeno. Per Arendt il totalitarismo è sì implicato nella mentalità politica e filosofica moderna, ma non è assolutamente necessitato né iscritto come destino nei suoi geni. Per Fabbri invece il fenomeno totalitario è un esito estremo di quella logica del potere che ha segnato la nostra storia. Insomma, dove per Arendt si tratta di novità, per Fabbri si deve parlare dell’ennesima ripetizione, portata alla sua estrema efferatezza, di una violenza che da sempre abita il potere.

Riconoscere l’onnipotenza del potere totalitario non significa dichiarare impossibile l’azione, soprattutto quando si è anarchici. Scrive Luce Fabbri: «Bisogna sottrarsi all’ossessione dell’inevitabilità della riduzione dell’uomo a robot scientificamente determinato e della società a immensa macchina in cui ognuno di noi sarebbe un ingranaggio minimo, sempre più sprovvisto di volontà»42. Contro le strutture di comando e le pratiche violente del potere è possibile gettare in aria le carte, con il coraggio e la forza di una volontà ritrovata, «una ‘tensione’ adeguata»43. Per lei, quindi, l’anarchismo è l’unica vera antitesi al totalitarismo.

In questo senso la rivoluzione spagnola del 1936 è per Luce Fabbri una preziosa lezione di lotta contro il totalitarismo che dimostra, nella concreta realtà storica, la possibilità dell’alternativa anarchica, la possibilità di una società libera, sperimentale, federativa, capace di rivalorizzare – in seno a un’economia socializzata – la più ampia autonomia degli individui e degli organismi locali.

La macchina del potere sempre più sofisticata e oppressiva che rafforza le gerarchie e i poteri burocratici, anche se vissuta come una ferita dolorosa che «stringe il cuore di angoscia»44, non deve quindi mai tradursi in senso di impotenza. Da un lato lo impedisce la prospettiva anarchica (per lei quella del socialismo anarchico malatestiano), dall’altro l’impegno ad agire in favore della liberazione e dell’emancipazione di donne e uomini. Come scriverà più tardi, «questa è la strada, o non c’è nessuna strada»45.

 

 


  1. Sulla figura di Luce Fabbri vedi almeno Margareth Rago, Tra la storia e la libertà. Luce Fabbri e l’anarchismo contemporaneo, Zero in condotta, Milano, 2008; Gianpiero Landi (a cura di), Luce Fabbri: l’anarchismo oltre la democrazia, Centro Studi Francesco Saverio Merlino, Castel Bolognese, 2020; Margareth Rago, «Luce Fabbri», in Dizionario biografico degli anarchici italiani, Tomo I, BFS, Pisa, 2003, pp. 555-556; Margareth Rago, La libertà secondo Luce Fabbri, «A rivista anarchica», a. 30, n. 267, pp. 34-37; Pietro Adamo, Luce Fabbri, storia di una donna libera, «Libertaria», a. 3, n. 1, pp. 68-72; AA.VV., Una grande lezione di pensiero e volontà, «A rivista anarchica», a. 30, n. 266, p. 28; Emanuela Minuto, «La famiglia Fabbri e gli anni dell’esilio (1927-1935)», in Eloisa Betti, Carlo De Maria (a cura di), Biografie, percorsi e networks nell’Età contemporanea, BraDypUS, Roma, 2018, pp. 95-103; Lorenzo Pezzica, «Luce Fabbri», in Anarchiche. Donne ribelli del Novecento, ShaKe, Milano, 2013, pp. 159-171. 

  2. Luce Fabbri, Obiezioni a una recensione, «Volontà», a. VI, n. 9, 1952, pp. 524-527. 

  3. Pier Carlo Masini, «Introduzione» a Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, BFS, Pisa, 1996, p. 9. 

  4. Sulla riflessione di Luce Fabbri sul tema del totalitarismo vedi Lorenzo Pezzica, «La collaborazione di Luce Fabbri alla rivista ‘Volontà’ (1946-1960)», in Maurizio Antonioli, Roberto Giulianelli (a cura di), Da Fabriano a Montevideo. Luigi Fabbri: vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista, BFS, Pisa, 2006, pp. 223-234. 

  5. Ripensare l’essenza dell’anarchismo, che è la difesa della libertà, non significa comunque per Fabbri rinunciare ai principi propri del socialismo: «Io sento il mio socialismo come una derivazione della mia avversione al potere e non solo come un’esigenza di giustizia e uguaglianza ‘conciliabili’ con tale avversione» ((Luce Fabbri, Socializzazione e libertà, «A rivista anarchica», a. 29, n. 255, 1999, pp. 34-35). 

  6. Alessandro Dal Lago, La città perduta, «Introduzione» a Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 2004, p. X. 

  7. Luigi Fabbri (1877-1935) è considerato uno dei pensatori più originali dell’anarchismo italiano. Nel 1903 fonda con Pietro Gori la rivista «Il Pensiero» alla quale collaborano i nomi di maggior rilievo dell’anarchismo internazionale. Nel 1921 pubblica Dittatura e rivoluzione, prima opera critica sul bolscevismo, e nel 1922 La controrivoluzione preventiva, una delle analisi più complete sulla nascita del fascismo. Duramente perseguitato dal regime fascista, espatria clandestinamente in Francia nel 1926 e si sposta poi, nel 1929, in Uruguay, dove muore esule a Montevideo nel 1935. Luigi Fabbri, Dittatura e rivoluzione, L’Antistato, Cesena, 1971; Id., La controrivoluzione preventiva: riflessioni sul fascismo, Vallera, Pistoia, 1975. Sulla figura di Luigi Fabbri vedi almeno: Ugo Fedeli, Luigi Fabbri, Gruppo Editoriale Anarchico, Torino, 1948; Nora Lipparoni, Le origini del fascismo nel pensiero di Luigi Fabbri, EPC, Fabriano, 1979; Gaetano Manfredonia, La lutte humaine. Luigi Fabbri, le mouvement anarchiste italien et la lutte contre le fascisme, Editions du Monde libertaire, Paris, 1994; Maurizio Antonioli, Gli anarchici italiani e la Prima Guerra mondiale. Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Nella Giacomelli (1914-1915), «Rivista storica dell’anarchismo», a. 1, n. 1, 1994; Lorenzo Pezzica, Luigi Fabbri e l’analisi del fascismo, «Rivista storica dell’anarchismo», a. 2, n. 2, 1995; Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, BFS, Pisa, 1996; Maurizio Antonioli, Gli anarchici italiani e la Prima guerra mondiale. Il Diario di Luigi Fabbri (maggio-settembre 1915), «Rivista storica dell’anarchismo», a. 4, n. 1, 1999; Antonioli, Giulianelli (a cura di), Da Fabriano a Montevideo, cit.; Santi Fedele, Luigi Fabbri. Un libertario tra bolscevismo e fascismo, BFS, Pisa, 2006. 

  8. Cfr. Luce Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, democrazia, liberalismo, socialismo, anarchismo, RL, Napoli, 1955, vedi infra pp. 151-206. 

  9. Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, cit. 

  10. Luce Fabbri, I canti dell’attesa, Bertani, Montevideo, 1932. 

  11. Cfr. Ugo Fedeli, Congressi e convegni, Edizioni Libreria della FAI, Genova, 1963, pp. 43-68. In verità è proprio dal secondo dopoguerra che l’anarchismo, e in particolare quello italiano, attraversa una crisi profonda che lo porterà per molti anni all’isolamento e a un sostanziale immobilismo politico. Immobilismo certamente dovuto, oltre che al riproporsi dei tradizionali dissidi interni tra organizzatori e anti-organizzatori, alla nuova realtà politico-sociale dominata dalla Guerra Fredda, in cui si assiste a un generale irrigidimento politico nei due schieramenti contrapposti, cioè quello della Democrazia cristiana e quello del Partito comunista, che porta i movimenti non disposti ad accettare la logica dei blocchi, come quello anarchico, a una progressiva riduzione dello spazio vitale, fino alla totale perdita di influenza. Cfr. Giampietro Berti, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Lacaita, Manfredonia-Bari, 1998, pp. 47-48; Adriana Dadà, L’anarchismo in Italia: fra movimento e partito, Teti, Milano, 1984; Armando Borghi, Conferma anarchica, L’Aurora, Forlì, 1949. 

  12. Cfr. Giovanna Berneri, Cesare Zaccaria, Programma di lavoro, supplemento a «Volontà», II, n. 3, 1946. «Volontà» è titolo malatestiano: era infatti il titolo dato da Errico Malatesta al suo giornale pubblicato ad Ancona tra il 1911 e il 1914, ma anche il titolo del giornale pubblicato da Luigi Fabbri tra il 1919 e il 1920; nel 1924 infine Malatesta, con Fabbri, dava vita alla testata «Pensiero e Volontà», che uscirà fino al 1926. In effetti, la rivista nata nel 1946 era stata preceduta da tre brevi esperienze giornalistiche: «La Rivoluzione libertaria», «Risveglio libertario» e «Volontà» (in formato giornale). Oltre a Malatesta, la rivista si richiamava fortemente anche al pensiero di Luigi Fabbri e a quello di Camillo Berneri. Molti erano i collaboratori italiani e stranieri, tra cui Armando Borghi, Ugo Fedeli, Lamberto Borghi, Pier Carlo Masini, Louis Mercier Vega, Gaston Leval, Carlo Doglio, Albert Camus, George Woodcock. A partire dal 1946 «Volontà» uscirà quasi ininterrottamente fino al 1996. Sulla storia della rivista, Indice generale compreso, cfr. Cinquant’anni di Volontà. Mezzo secolo di pensiero libertario, contributi di Nico Berti, Francesco Codello, Pier Carlo Masini, Lorenzo Pezzica, Massimo A. Rossi, Milano, 1996 (https://centrostudilibertari.it/it/cinquantanni-di-volontà). 

  13. La lettera è pubblicata in «Volontà», n. 9, luglio 1955. L’ultimo numero di «Studi Sociali» esce infatti nel maggio del 1946, due mesi prima dell’uscita del primo numero di «Volontà». 

  14. Un’esauriente bibliografia degli scritti di Luce Fabbri è stata pubblicata in Margareth Rago, Per una bibliografia di Luce Fabbri, «Rivista storica dell’anarchismo», a. 7, n. 2, pp. 221-232. La bibliografia è preceduta dal saggio della stessa Rago, Luce Fabbri: una lezione di vita, pp. 5-20. 

  15. Luce Fabbri pubblicherà, a partire dal 1947 e fino al 1957, una serie di opuscoli a compendio della riflessione che aveva sviluppato già negli anni Trenta. Per la distribuzione degli opuscoli in Italia si appoggiava alla redazione di «Volontà» e la stretta collaborazione con la rivista sarà suggellata con la pubblicazione nel 1955, per le edizioni RL, nate al fine di integrare e approfondire le tematiche affrontate da «Volontà», del suo opuscolo più significativo: Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra pp. 151-206. Vedi anche Luce Fabbri, La libertà nelle crisi rivoluzionarie, Edizioni Studi Sociali, Montevideo, 1947; Id., L’anti-comunismo, l’anti-imperialismo e la pace, Edizioni Studi Sociali, Montevideo, 1949, vedi infra pp. 81-150; Id., La strada, Edizioni Studi Sociali, Montevideo, 1952; Id., L’anarchismo. Principi di sempre, problemi d’oggi, RL, Genova-Nervi, 1959. 

  16. Sull’argomento vedi Enzo Traverso, Il totalitarismo: storia di un dibattito, Bruno Mondadori, Milano, 2002; Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari, 2003. Una storia che malauguratamente non include Luce Fabbri. 

  17. Forti, Il totalitarismo, cit., pp. 15-27. 

  18. Ernst Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi, Milano, 1950. 

  19. James Burnham, La rivoluzione dei tecnici, Mondadori, Milano, 1946; nuova edizione italiana: La rivoluzione manageriale, Introduzione di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 1992; Id., I difensori della libertà, Mondadori, Milano, 1947. 

  20. Milovan Đilas, La nuova classe, il Mulino, Bologna, 1957. 

  21. Simone Weil, Incontri libertari, elèuthera, Milano, 2021. 

  22. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996. Sulla vita e il pensiero di Arendt, cfr. Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1990; Julia Kristeva, Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli, Roma, 2005. 

  23. Bruno Rizzi, La Bureaucratisation du Monde, Les Presses Modernes, Paris, 1939 [trad. it. La burocratizzazione del mondo, Colibrì, Paderno Dugnano, 2002]; Bruno Rizzi, Il collettivismo burocratico, Galeati, Imola, 1967. 

  24. Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, cit., p. 9. 

  25. Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, cit., p. 9. 

  26. Traverso, Il totalitarismo, cit., p. XII. 

  27. Dopo avere forgiato il concetto negli anni Venti, la cultura italiana si astenne dal discuterlo nel dopoguerra, fino a un’epoca recente. Percepito prima come un vocabolo irrimediabilmente contaminato dal fascismo, poi come una parola d’ordine anti-comunista durante la Guerra Fredda, il termine sarà a lungo messo al bando e coltivato da pochi spiriti anti-conformisti. 

  28. In quegli anni per esempio Lelio Basso dava alle stampe Due totalitarismi, che erano però – come chiariva il sottotitolo – il fascismo e la Democrazia cristiana. Cfr. Lelio Basso, Due totalitarismi: fascismo e Democrazia cristiana, Garzanti, Milano, 1951. 

  29. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. L’opera venne scritta negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Il manoscritto originale venne terminato nell’autunno del 1949 e la prima edizione apparve nel 1951. 

  30. Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna, 1967. 

  31. Carl Joachim Friedrich, Zbigniew Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, Praeger, New York, 1956. 

  32. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra pp. 191-192. 

  33. Il primo articolo pubblicato da Louis Mercier Vega sull’argomento risale al 1941: Charles Ridel [pseud.], Al di là del capitalismo, «L’Adunata dei refrattari», a. XX, nn. 23-26 [New York]. 

  34. Luce Fabbri, Camisas negras, estudio crítico histórico del origen y evolucion del fascismo, sus hechos y sus ideas, Nervio, Buenos Aires, 1934. Articoli sul tema della tecnoburocrazia sarebbero apparsi nel 1937 su «Studi Sociali», alcuni dei quali ripubblicati nel 1957 su «Volontà». Lucia Ferrari [pseud.], Bisogna dirlo, «Studi Sociali», II serie, n. 6, 20 settembre 1937; Luce Fabbri, Bisogna dirlo, «Volontà», n. IX, 1957, vedi infra pp. 29-42. 

  35. Rizzi, Il collettivismo burocratico, cit.; Id., La burocratizzazione del mondo, cit. Rizzi scriverà due soli articoli per «Volontà» nel 1948. La sua collaborazione più importante con la pubblicistica anarchica, tra il 1946 e il 1950, sarà con «Il Libertario», testata della Federazione Anarchica Lombarda. Nonostante ciò, l’ambiente anarchico italiano sarebbe rimasto all’epoca piuttosto impermeabile alle sollecitazioni avanzate da Rizzi: l’atteggiamento predominante rimaneva quello di un freddo distacco per tutto ciò che anche vagamente si definiva marxista. Diverso sarà invece il rapporto con i giovani anarchici milanesi che dall’inizio degli anni Sessanta cominciano a interessarsi del fenomeno tecnoburocratico, dapprima sulla testata «Materialismo e Libertà» (di cui escono solo tre numeri nel 1963) e poi, più ampiamente, sulla testata «A rivista anarchica», fondata dal medesimo gruppo nel 1971, e sulla rivista internazionale «Interrogations», nata nel 1974 a Parigi su iniziativa di Louis Mercier Vega. Il culmine della ricerca sarà raggiunto nel 1978 con l’organizzazione a Venezia del Convegno internazionale di studi su I Nuovi Padroni, cui seguirà la pubblicazione dei relativi Atti (https://centrostudilibertari.it/it/i-nuovi-padroni). 

  36. Burnham, La rivoluzione dei tecnici, cit. «Volontà» dedicherà molto spazio alla critica delle tesi esposte da Burnham, nell’intento non solo di precisare la propria posizione rispetto all’ineluttabilità del processo di burocratizzazione in atto, ma anche per marcare la distanza da alcuni punti delle tesi sostenute dallo studioso americano. 

  37. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 194. 

  38. Czesław Miłosz, La mente prigioniera, Adelphi, Milano, 1981. 

  39. Nel 1954 «Volontà» pubblicherà la recensione del libro di Dwight Macdonald La mente prigioniera, sicuramente letto da Luce Fabbri. Vedi Dwight Macdonald, La mente prigioniera, «Volontà», a. VIII, n. 1, maggio 1954, pp. 22-28. 

  40. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 194. 

  41. George Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 1952, nuova edizione Milano, 2004. 

  42. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 201. 

  43. Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria, vedi infra p. 201. 

  44. Fabbri, Bisogna dirlo, vedi infra p. 33. 

  45. Luce Fabbri, Socializzazione e libertà, «A rivista anarchica», a. 29, n. 255, 1999, pp. 34-35. 

Share

Contro il totalitarismo: perché leggere il pensiero di Luce Fabbri è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>
Epifanie del limite https://www.carmillaonline.com/2023/05/19/epifanie-del-limite/ Fri, 19 May 2023 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77247 di Emanuela Cocco

Luca Marinelli, Flessibile Elastica Plastica, a cura di Elena Giorgiana Mirabelli, pp. 124, € 10,90, Zona 42 (collana 42 Nodi), Modena 2023.

 

La sorella, con un dito, ha toccato il cubo bianco. Il cubo bianco era morbido come un cuscino, un po’ elastico. Lui ad alta voce ha detto tappeto rosso, e come pasta di porcellana il cubo bianco si è liquefatto fino a quando è diventato un tappeto rosso.

 

Qualcosa germoglia in Flessibile Elastica Plastica, il romanzo di esordio di Luca Marinelli, pubblicato da [...]

Epifanie del limite è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Emanuela Cocco

Luca Marinelli, Flessibile Elastica Plastica, a cura di Elena Giorgiana Mirabelli, pp. 124, € 10,90, Zona 42 (collana 42 Nodi), Modena 2023.

 

La sorella, con un dito, ha toccato il cubo bianco. Il cubo bianco era morbido come un cuscino, un po’ elastico. Lui ad alta voce ha detto tappeto rosso, e come pasta di porcellana il cubo bianco si è liquefatto fino a quando è diventato un tappeto rosso.

 

Qualcosa germoglia in Flessibile Elastica Plastica, il romanzo di esordio di Luca Marinelli, pubblicato da Zona 42 nella collana 42 Nodi a cura di Elena Giorgiana Mirabelli, un disagio che si avverte fin dalle prima righe del romanzo e che si fa via via sempre più intenso. È il malessere che si prova quando ci si trova a incontrare qualcuno con il quale non abbiamo nessuna confidenza ma che, per qualche strano motivo, sembra sapere tutto di noi, qualcuno capace di spaventarci perché mima i nostri gesti con l’aggiunta di una imperfezione sinistra nella loro esecuzione che rivela la loro illogicità. Il nostro mondo, visto da un estraneo, ci appare bizzarro, la nostra quotidianità manchevole, la normalità a tratti insensata. Cose che capitano quando in una storia incontriamo il fantastico.

Una famiglia, un padre, una madre, un figlio, una figlia, riceve un pacco da un’azienda misteriosa della quale non si sa nulla e dentro vi trova un curioso oggetto: un cubo bianco in materia plastica, morbida, flessibile, elastica, plastica, come è annunciato nel titolo, che può diventare qualsiasi cosa.

Accade così con il fantastico: ti viene recapitato a casa senza una ragione. Non lo hai ordinato, non te lo aspetti e il mittente è sconosciuto, è un messaggio aperto il cui destinatario potrebbe essere chiunque, una cosa inattesa, da decifrare, come negli Invii di Derrida.

Il fantastico non ha limiti perché indefinito, e quindi è bianco e la sua forma non è data una volta per tutte, è qualcosa nato per essere trascritto o anche solo attraversato dalla realtà, un oggetto che risponde solo alla mente di chi lo comanda con la sua immaginazione, che può diventare ogni cosa, che può assumere ogni forma e colore. Ma il fantastico è anche una maschera che agisce su meccanismi di deformazione, di copia dell’originale, ma che non può mai compiere una sostituzione perfetta dell’oggetto immaginato, il fantastico è quello che muove la tua idea, che la trasforma e che deformandola la snatura e la infetta, facendola passare da uno stato all’altro. È un tradimento dell’originale che però permane nella mente del lettore, qualcosa che sempre con l’originale deve confrontarsi, realizzando con lui una convivenza pacifica, oppure una lotta senza esclusione di colpi. Il fantastico, di fatto, è una sofisticata messa in scena, una questione di visione, e così il cubo, che sa mimare infinite forme della realtà, non diventa mai l’oggetto vero e proprio ma solo il suo simulacro.

La famiglia accoglie in casa l’oggetto. Prima i due ragazzi, poi anche il padre e la madre, decidono di tenerlo perché ne restano presto sedotti. Il fantastico, infatti, non ha altra motivazione se non il desiderio. Non ha una provenienza precisa, come abbiano detto al principio, e per questo non è tracciabile. Una volta arrivato nella nostra vita, e in questa storia, difficilmente potrà essere rispedito indietro senza la minima conseguenza. E così questo cubo, un dispositivo ludico al principio, viene usato con gioia dal fratello e dalla sorella, e poi dal padre e dalla madre, che perdono la loro diffidenza iniziale e iniziano a vedere lo strano oggetto come un dono, una macchina magica capace di rispondere in modo immediato ai loro desideri.

È normale, è la stessa insensatezza della vita che ci spinge e a tirare fuori dallo sgabuzzino in cui abbiamo l’abitudine di stiparle, le nostre aspirazioni, le cose che vogliamo, a discapito di tutto, quelle che immaginiamo di volere solo quando le vediamo apparire da qualche parte, come una promessa intermittente che qualcuno ci agita davanti agli occhi.

 

Se ci pensi siamo ipotesi del nulla, provvisorie epifanie del limite, siamo forme disegnate a matita delebile su un foglio del fascicolo del tempo, e ogni volta che la vita ci cancella, e ogni volta che la vita ci cancella essa adempie il più caro sacrificio alla realtà…

 

La vita è irrazionale, in larga parte la sensazione di connessione tra le parti, di causalità alla base degli eventi di cui è composta, è frutto di un’inguaribile tendenza alla mistificazione, parte di un racconto, per dirla con Ricoeur, che in qualche modo serve come banco di prova alla costruzione della nostra identità, della nostra persona.

Ma a volte questa irrazionalità, la natura fallata della nostra stessa immaginazione, si impone al nostro sguardo con la potenza catastrofica di un’epifania. Siamo esseri soggetti al dispotismo di un desiderio indefinito, come bene insegna Leopardi, ma destinati a non eludere mai, non del tutto, mai quanto vorremmo, il limite che circoscrive la nostra vita, la percezione che abbiamo del mondo e di noi stessi.

Così, invano, il ragazzo umano fantastica di baciare la ragazza bianca, per scoprire poi, con orrore, che l’unico modo per avere quel bacio, è quello di dominarla, di usare la forza. La soddisfazione del suo desiderio implica la violazione del desiderio altrui. E non c’è rassicurazione (e storia rassicurante) che tenga: la storia di ogni desiderio è violenta e imprevedibile. La storia messa in scena da Marinelli è anche la storia di un eccesso, la lotta tra due mondi che non si accetteranno mai per quello che sono. La storia di ogni inclusione, parola terribile, è sempre la storia di un abuso.

Il fantastico arriva quando in noi arriva la tentazione di non sottostare alla tirannia dell’immaginario propulsivo e falso di un ideale sistema di raccordi perfetti attorno al quale continua ad assemblarsi il film della nostra vita. Il fantastico è la tentazione del caos, quel desiderio di commistione totale tra le spaventose contraddizioni che fioriscono in seno a una realtà che è sì quotidiana ma mai davvero addomesticata, una dimensione comunque spaventosa perché imprevedibile, avviluppata nel mistero, non causalmente connessa. Qualcosa sulla quale, proprio come i protagonisti di questa storia, possiamo esercitare solo un controllo fittizio, attraversato da continui cedimenti.

Luca Marinelli, con uno stile asciutto eppure cosparso di brevi luminosi momenti in cui la scrittura di apre a epifanie liriche, racconta proprio il compiersi di questa tentazione nell’animo di persone che prima del giorno fatidico dell’arrivo del pacco non avevano idea di desiderare quell’oggetto che poi si troveranno a contendersi senza esclusione di colpi.

 

La ragazza bianca diventava cose belle e complesse, cose che alla famiglia non aveva quasi mai mostrato, come ad esempio una rosa del deserto, Laocoonte avvinghiato da Porcete e Caribea, Atena apparsa ai savi di Alessandria o il volto fanciullesco di un Arcangelo.

 

L’intera famiglia, quindi, inizia ad usare il cubo, il cubo mima, con un sufficiente grado di approssimazione che non ne compromette l’utilità, il reale ma un certo punto il meccanismo si inceppa, il cubo smette di funzionare. Anche qui la linea tracciata dall’autore sembra suggerire, in una trama segreta della storia, il rapporto tra la scrittura e la rappresentazione del mondo.

 

Prima il cubo bianco ha cominciato a manifestare certi sintomi.

Succedeva, ad esempio, che qualcuno dicesse giraffa rosa, ma il cubo bianco si trasformasse in qualcosa di diverso, che non era esattamente una giraffa rosa ma che a una giraffa rosa grossomodo si avvicinava, come un’antilope rossa.

 

È ancora utile, sembra dire Marinelli, cercare di figurare il mondo con un approccio mimetico? Possiamo davvero ritenerci soddisfatti di questa pretesa fotografia del reale? La storia suggerisce di no. Il meccanismo si inceppa perché qualsiasi ostinato tentativo di ripetere la realtà, di imitare la vita così com’è, mostra la sua evidente obsolescenza e inutilità. Ogni tentativo di esaurire la realtà copiandola è battuto in partenza dalla scelta opposta, quella della sua evocazione intensa e personale. Quando il dispositivo si inceppa siamo costretti, per continuare a usarlo, a farlo diventare qualcosa di nuovo.

 

Lui ha finito di incidere l’esterno del cubo e ha aiutato la sorella a tirare fuori la persona. La persona era una ragazza, molto giovane, esile, nuda e completamente bianca.

 

Ecco allora che dal cubo plastico, dalla sua forma inerme nelle mani altrui, nasce qualcosa di nuovo, qualcosa che sì, può interpretare la realtà, può contribuire alla sua messa in scena, ma senza per questo doverne assumere per intero le sembianze, a costo di perdere qualsiasi elemento di originalità.

La creatura che nasce dal cubo, una ragazza bianca, nuda e muta, così come la scrittura di questo romanzo, è al tempo stesso simile al reale ma anche nuova e gli esiti della sua entrata in scena non sono scontati o prevedibili.

Marinelli sa usare il meccanismo della progressione drammatica per portare il lettore in luoghi deliziosi o spaventosi senza mai perderlo di vista. La storia di una nascita, di questa ragazza bianca e nuda, incomprensibile e a tratti ingestibile, è assolutamente nuova e antica insieme.

 

La ragazza bianca ha preso una torre nera e l’ha ingoiata. È diventata una torre nera.

 

Marinelli dota questa presenza, al tempo stesso attraente e mostruosa, di una caratterizzazione piena di fascino, costantemente in bilico tra quello che è riconoscibile della dimensione umana e quello che le è del tutto estraneo. La ragazza bianca nata dal cubo di plastica diviene da subito oggetto del desiderio del ragazzo ma mostra ben presto di possedere anche la capacità di farsi soggetto che desidera, che ama e che sa scegliere. La ragazza non è umana e forse il linguaggio e le convenzioni tipiche degli uomini non la riguardano ma sa odiare proprio come sanno fanno gli uomini e le donne con i quali si trova a vivere e può essere attraversata dall’ira, ha la capacità di affidarsi o di temere, e anche quella di provare un orgasmo o di mettere al mondo dei figli.

 

Sul suo corpo bianco si vedeva la musica. La ragazza bianca si è guardata la pancia palpitante delle forme viola e inquiete di un sax.

 

Le modalità nelle quale queste impronte di umanità, quanto quelle che la allontanano dalla nostra condizione, si manifestano nella creatura diventano protagoniste dei momenti più coinvolgenti e toccanti del romanzo.

La ragazza ha bisogno per nutrirsi di inglobare oggetti di ogni tipo per poi lasciar trasmigrare dentro di sé la loro essenza materica, assumendo di volta in volta le loro caratteristiche fisiche, ma al tempo stesso è una giovane donna come tante, si affida alla guida di quelli che le sembrano essere i suoi genitori, intreccia una storia d’amore, finisce incastrata in un matrimonio sbagliato nel quale esploderà la violenza.

 

Ha guardato le cose come se fossero un’apparizione mistica o i diorami sui ripiani dei mobili di un certo numero di catastrofi.

 

Il nuovo, in questa storia, e nelle nostre vite, è qualcosa in continuo movimento. La sua evoluzione è inevitabile e inconoscibile.  Può destare scandalo, può approdare a qualcosa che forse saremo tentati di tenere nascosto ma con il quale, lo vogliamo o no, saremo costretti a fare i conti.

Con una storia appassionante, che erige su più livelli il meccanismo di partecipazione del lettore, che sia un lettore che vuole semplicemente essere travolto dai fatti, o che ce ne sia uno più esigente e alla ricerca di un fondo di senso da esplorare analiticamente, entrambi non resteranno delusi, l’autore registra l’urto tra due mondi che potrebbero convivere oppure divorarsi, amarsi o distruggersi.

 

Ha chiuso gli occhi e si è sentito strappato, come se l’avessero aperto con un bisturi e solo la ragazza bianca potesse sigillare quella voragine dalla quale si infiltrava in lui il nulla.

 

Il nuovo preme alla nostra porta, parla un linguaggio che dovremo imparare a conoscere perché smetta di apparirci mostruoso e indecifrabile. Possiamo scegliere di accoglierlo oppure provare a dominarlo, violandolo, possiamo decidere di distruggerlo ributtando su di lui la responsabilità delle nostre azioni, ma per quanto ci farebbe comodo pensare che la ragazza sia in errore nella sua pretesa di essere semplicemente se stessa, tenuta seguire solo le leggi del suo cuore, per quanto possiamo stabilire che sia una provocazione la sua scelta di non assoggettarsi ai nostri rituali, di non sposare le nostre consuetudini, parlare la nostra lingua, agire secondo i nostri valori, incarnare il mondo quale crediamo che dovrebbe essere, per quanto possiamo ammettere come legittima la violenza come unica risposta a quello che non conosciamo dobbiamo anche sapere, e dirlo a parole dentro un romanzo, che questa scelta ha un prezzo terribile. Flessibile Elastica Plastica sembra chiederci: siamo pronti a pagarlo?

Share

Epifanie del limite è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>
Inferno a Rosarno https://www.carmillaonline.com/2023/05/18/inferno-a-rosarno/ Thu, 18 May 2023 21:55:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77320 di Marco Gabbas

In questa storia è quasi tutto vero…

1. L’Italia, il cosiddetto “Belpaese”, il paese del sole, del mandolino, del mare, di Napoli e della pizza. Così, almeno, lo vedono i turisti e molti stranieri che vengono in Italia in vacanza, o altri che non ci sono mai venuti, ma che la sognano a distanza. Quello che è peggio è che anche i migranti che vogliono raggiungere l’Italia, spesso, hanno la stessa illusione, che si spezza con la stessa rapidità della schiena e delle braccia non appena [...]

Inferno a Rosarno è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>

di Marco Gabbas

In questa storia è quasi tutto vero…

1.
L’Italia, il cosiddetto “Belpaese”, il paese del sole, del mandolino, del mare, di Napoli e della pizza. Così, almeno, lo vedono i turisti e molti stranieri che vengono in Italia in vacanza, o altri che non ci sono mai venuti, ma che la sognano a distanza. Quello che è peggio è che anche i migranti che vogliono raggiungere l’Italia, spesso, hanno la stessa illusione, che si spezza con la stessa rapidità della schiena e delle braccia non appena cominci a caricare cassette di pomodori e di frutta dieci-quindici ore al giorno. Anch’io ero convinto che in Italia avrei fatto fortuna. Avevo deciso di provare l’Italia per vari motivi. Pensavo che fosse un paese relativamente vicino alla mia Africa, ed ero anche influenzato dagli stereotipi positivi di cui ho detto sopra. Mi piaceva il calcio italiano, la musica, il cinema italiano.È già stato un miracolo che sono arrivato in Italia vivo. Non tutti sono sopravvissuti alla traversata del deserto. Ho dopo saputo che un politico italiano definisce “pacchia” la vita degli immigrati, ma quel parassita non sa che cosa dobbiamo passare per attraversare il deserto. Avevo accumulato tutti i risparmi miei e della mia famiglia e mi ero anche indebitato per poter pagare i trafficanti di uomini che mi avrebbero fatto attraversare il deserto. Purtroppo, non c’è mai abbastanza acqua a bordo dei pick-up che ti dovrebbero far fare la traversata. Dovresti portarla tu, ma non è mai abbastanza, e in ogni caso molti litri d’acqua appesantiscono il mezzo e ne rendono difficile la marcia sulla sabbia.
Quando uno dava i primi segni di disidratazione, i trafficanti lo buttavano giù dal pick-up, e buona notte. Talvolta, eravamo noi stessi a buttare giù i morti che puzzavano o i moribondi che sembravano non farcela più, pur di alleggerire il mezzo, stare più comodi e avere più acqua da distribuire. A volte non eravamo neanche sicuri che quel corpo striminzito fosse vivo o morto. Bum, un rumore sordo del corpo che sbatte per terra vicino al pick-up, attutito dal rumore del motore. Poi non si vede più nulla, il corpo diventa un puntino avvolto in un mare di sabbia. Quando andavo all’università del mio paese, un professore ci aveva fatto leggere il libro di uno scrittore italiano, Primo Levi, Se questo è un uomo. So che io vivo in un’altra epoca, in un altro paese, in un’altra situazione, ma mentre cerco di risparmiare il fiato per non disidratarmi troppo penso che la nullità, l’inferiorità, la nuda vita di quei corpi secchi ricordi un po’ quella che i nazisti europei davano ai prigionieri dei loro campi. Allo stesso tempo però, non ho troppo tempo per pensare a questo. I pensieri cupi non possono occupare troppo tempo e sono pericolosi, devo concentrare le forze per arrivare vivo sino alle rive del Mediterraneo. Dopo di che, si vedrà. Le poche soste dovrebbero essere di riposo, ma invece spesso e volentieri sono di botte. Dopo aver scartato i morti e i moribondi, i trafficanti spesso ci fanno sdraiare per terra e ci picchiano con lunghi bastoni. È per farci stare calmi: anche se sono alla guida del mezzo e hanno un po’ più d’acqua, in quelle condizioni hanno sempre paura che qualcuno si ribelli.

Dopo un tempo indefinito che non ricordo neanche, arriviamo finalmente in Libia. Una volta arrivato, un altro pensiero flash residuo dei miei studi. Ricordo di una biografia di Frantz Fanon dove si diceva che lo psichiatra martinicano-algerino aveva anche lui fatto una traversata del deserto in jeep, dal Ghana all’Algeria. All’epoca, lui e alcuni compagni dovevano verificare una possibile via di rifornimento di armi e munizioni dal Ghana all’Algeria. Quella via non fu in seguito utilizzata perché poco pratica, e Fanon avvertì durante quel viaggio i primi segni della leucemia che l’avrebbe divorato poco dopo. Penso alla differenza di questi due viaggi. Fanon stava comunque meglio di me. All’epoca era il portavoce del Fronte di liberazione algerino, era una persona con profonde convinzioni morali e politiche. Sapeva che rischiava la vita, ma sapeva che lo faceva per qualcosa e non aveva paura. Probabilmente, era anche meglio equipaggiato di me di vestiti, acqua e viveri.
Comunque, anche questo flash finisce, perché mi ritrovo rinchiuso in un campo di concentramento dei libici. Ho saputo poi che quei campi erano tenuti con soldi italiani, e questo è un ricordo che difficilmente se ne va. In quel campo ho visto cose indicibili. Personalmente sono stato fortunato: con tanta gente rinchiusa, anche quelle bestie sadiche delle guardie non possono prendersela con tutti, e mi sono scampato le cose peggiori, a parte qualche spintone e qualche botta. Ma ad altre ed altri non è andata così bene. Gli uomini si sono accontentati di botte continue e vere proprie torture. Il primo assaggio consisteva nel costringerci a stare appoggiati al muro con i palmi delle mani per ore senza bere né mangiare. Al primo segno di cedimento o di spostamento, giù botte. Le donne purtroppo venivano spesso violentate. Ti auguravi che lo facessero in cantina, sottoterra, lontano dalle tue orecchie di modo che non potessi sentire quelle urla strazianti. Non tutti sono stati così fortunati. Alcune guardie ci provavano gusto a violentare le donne davanti ad altri prigionieri. A volte questi venivano spogliati, e se avevano un accenno di erezione venivano massacrati di botte o uccisi. Ho dopo saputo che dei filmati rappresentanti queste torture sono poi finiti sulla televisione italiana in prima serata, ma dubito abbiano turbato più di tanto i sogni degli italiani. Uno scrittore francese – anche lui ricordo di quando facevo l’università – faceva questa domanda retorica: se tu sapessi che per ogni arancia che mangi muore un cinese, smetteresti di mangiare arance? La risposta era: ma sai, le arance sono così buone, e i cinesi sono così lontani…

Dopo un altro tempo indefinito che non riesco a quantificare chiaramente, riesco a fuggire con un piccolo gruppo, attraverso un buco che abbiamo fatto nel reticolato. Per miracolo riusciamo a nasconderci e a comprare una carretta del mare per tentare il rischioso viaggio in Italia. Fortunatamente, avevamo dei soldi nascosti che non sono stati perquisiti. Saranno anche gli ultimi che vedrò prima di imbarcarmi. Spero di guadagnarne altri quando arriverò in Italia. Come tutti i barconi, anche il mio è relativamente piccolo e sovraffollato rispetto alle dimensioni. Ho poi saputo che in Italia si fa sempre un gran chiacchierare dei cosiddetti “scafisti”, cioè delinquenti che si farebbero pagare per guidare i barconi di migranti dall’Africa all’Italia. In realtà, è una fesseria. Una persona con un livello decente di conoscenza del mare non farebbe mai una cosa simile, nemmeno per un milione di dollari, e del resto noi non possiamo pagare tanto. Il rischio è troppo alto, e non si tratta solo di essere arrestati, il rischio molto alto e concreto è quello di affondare e di morire affogati e/o assiderati. La maggior parte dei delinquenti preferiscono attività più sicure, piuttosto che mettere a repentaglio la loro vita per una manciata di dollari.
In realtà, la persona che regge il timone è solitamente un migrante povero e disperato come gli altri, al quale magari non si è fatto pagare il barcone. Magari è una persona con un minimo di cognizione in fatto di navigazione. Nel mio caso, era infatti un ragazzo che aveva lavorato su una nave merci. In ogni caso, è un miracolo che almeno alcuni di noi siano arrivati a destinazione vivi. C’è il rischio che la barca si rovesci in ogni momento, e quasi nessuno di noi sa nuotare. C’è freddo, non abbiamo i vestiti adatti, e quando un’ondata d’acqua ti arriva addosso ti gela. Durante la traversata le onde ci portano via alcuni dei nostri. Non possiamo soccorrerli, non abbiamo giubbetti di salvataggio. Comunque, siamo relativamente fortunati: le perdite sono poche e la maggior parte di noi riesce a raggiungere una spiaggia. Più che approdare, la nostra barca naufraga. È un miracolo che ce l’abbiamo fatta: iniziavano ad aprirsi delle fessure sempre più grosse fra le assi, e la barca rischiava di sfasciarsi da un momento all’altro.

Da lì, una nuova sfida: ho fame, ho sete, non so dove mi trovo né so cosa fare. Penso di essere in Sicilia. Con le ultime forze che restano, riesco a camminare finché non vedo un casolare di mattoni abbandonato. È diroccato, mezzo distrutto, ma una parte del tetto è rimasta, così come anche delle porte rudimentali. Vedo fumo che esce dal comignolo. Anche nei dintorni della casa vi sono segni di vita. Mucchi di rifiuti, un rudimentale forno all’aperto, fili tesi con abiti che asciugano, qualche sedia di plastica buttata alla rinfusa. Vedo anche una specie di casotto di cemento e legno: a giudicare dalle dimensioni e dall’odore, deve essere utilizzato come cesso.
Gli abitanti della casa mi hanno visto, escono e mi vengono incontro. Fortunatamente, sono neri come me. Scopro che in quella casa diroccata abitano diversi africani di paesi diversi. Alcuni sono del mio paese, con gli altri riesco a intendermi con un po’ di francese e di inglese, che fortunatamente parlo abbastanza bene. La casa non è certo tenuta bene, è sporca, ma potrebbe essere peggio. In un modo o nell’altro gli abitanti riescono comunque a cucinare, a dormire, a fare un minimo di pulizie e a lavarsi. Noto che fuori c’è un rubinetto e una pompa. Non è il massimo, ma quando uno è sporco da far schifo l’acqua fa piacere. D’inverno dev’essere meno piacevole, ma l’alternativa è restare sporchi.

Oltre a una rudimentale cucina, vedo che all’interno della casa c’è un vecchio caminetto acceso. Chissà quanti anni ha quella casa, chissà chi l’ha costruita e dove sono adesso. Probabilmente, dovevano essere agricoltori, contadini dei dintorni. In ogni caso, se la casa ha un proprietario non deve tenerci molto per lasciarla in quello stato. O forse sa che è stata occupata da un gruppo di negri e ha paura ad avvicinarsi? È anche possibile, del resto l’uomo nero fa paura. In realtà, mi diranno dopo che molte case abbandonate, ex stalle, depositi e fabbriche dismesse sono affittati agli immigrati per delle cifre esorbitanti rispetto a quanto fanno schifo. Inutile dire che nessun italiano, nessun bianco vi vivrebbe mai: noi siamo gli unici relitti umani che possono provare a sopravvivere in un ambiente del genere.
Sono stato davvero fortunato a trovare questo gruppo di africani, che mi danno da mangiare e da dormire almeno per i primi giorni. Sono anche stato fortunato perché nella zona in cui sono sbarcato, i campi agricoli non sono troppo lontani dalla costa, e questo spiega perché sono riuscito a raggiungere questo casolare in non troppo tempo. Sono distrutto per la fame, il freddo e la stanchezza, ma fortunatamente la gioventù è una grande cosa. Dopo qualche giorno riprendo le forze e un minimo di cognizione di me stesso, tanto dal poter chiedere informazioni più precise sul dove mi trovo, e sul cosa può fare un africano in Italia. Mi danno le prime spiegazioni geografiche. Mi dicono anche che nei campi di pomodori, agrumi e altre produzioni il bisogno di manodopera è continuo anche se altalenante. Cioè, dipende dalla stagione, da quale prodotto si deve raccogliere, coltivare, immagazzinare e confezionare. Se uno è fortunato può capitare in una zona agricola con produzioni diverse, così quando finisce il lavoro stagionale in un campo può andare in altro.

Ma non sempre si è così fortunati. Molte zone agricole sono specializzate solo in un certo tipo di prodotti: per esempio solo agrumi, solo pomodori, o altro. Allora, se uno vuole lavorare è costretto a girare l’Italia in continuazione là dove può sperare di trovar lavoro: dalla Sicilia alla Calabria, dalla Campania alla Puglia, ma anche sino al Lazio e ancora più al Nord, in Piemonte, ecc. ecc. Chi è più fortunato riesce a spostarsi in treni regionali o in pullman, altrimenti per le brevi distanze si cerca di andare a piedi o con delle biciclette scassate. I più fortunati hanno uno zaino o una borsa dove tengono i loro pochi averi: altri non hanno altro che i vestiti che indossano. Può capitare di stare anche settimane e mesi senza lavoro. Se si ha fortuna si riesce a racimolare abbastanza almeno per mangiare un po’. In realtà, anche il mangiare a volte è un problema. A volte non abbiamo da mangiare o non riusciamo a prepararci dei pasti da portare con noi nei campi. Ciò significa che possiamo lavorare anche tutto il giorno senza mangiare, aspettando se ci va bene la sera. Oppure, siamo costretti a rubare furtivamente un po’ della frutta e verdura che raccogliamo, stando bene attenti a non farci scoprire, altrimenti sono botte. Ciò significa giornate intere a mangiare solo arance o solo pomodori, ecc. ecc.
Con la paga misera che ci danno ci si può permettere poco o niente. In media ci pagano 20 euro a giornata, per 10-15 ore di lavoro, a volta per settimane e mesi senza nemmeno un giorno di riposo. Ciò significa che anche lavorando tutti i giorni di un mese uno può riuscire a fare 500-600 euro al mese, che bastano a mala pena per sopravvivere e per non morire di fame, anche se a volte si rimane comunque malnutriti. I soldi vengono dati in contanti (quando vengono dati) a giornata o a settimana, più raramente al mese. Purtroppo, scoprirò sulla mia pelle che anche farsi pagare a volte è un’impresa. I padroni cercano qualunque scusa per non pagare, e se protestiamo passano alle minacce verbali, per esempio di denunciarci alla polizia, accompagnate talvolta da mazze e armi da fuoco. È difficile o impossibile ottenere un contratto. I contratti praticamente non esistono.
Intanto, gli altri africani mi spiegano che io sono un “clandestino”, dato che non ho un permesso di soggiorno. Capisco più o meno di che documento si tratta, ma mi spiegano anche che per me sarà impossibile ottenerlo. Questi neri vivono in Italia da alcuni anni, conoscono la situazione e cercano di spiegarmela. Di fatto, il c.d. “permesso di soggiorno” è solo un documento formale, un imbroglio. Le leggi italiane sono fatte apposta per impedire che venga dato a molti lavoratori o per renderne l’ottenimento molto difficile. Per i padroni e per l’economia italiana è meglio così. Così, un immigrato è completamente invisibile, illegale, clandestino. O meglio, è di fatto illegalizzato e clandestinizzato da queste leggi, ed è una condizione dalla quale è praticamente impossibile uscire. Mi avvertono che periodicamente ci sono delle ronde di polizia che fanno retate solo di immigrati. Si può finire arrestati per niente, e finire in un centro di prigionia per un tempo indeterminato (le voci e i racconti di quelli che sono riusciti a scappare sono terrificanti), al termine del quale si può venire espulsi in un paese a caso, dato che spesso non riescono a identificare il paese di provenienza della persona che spesso non ha il passaporto, ecc.

Sì, i politici, i media italiani dicono sempre che gli immigrati sono pericolosi e sono troppi, pertanto i loro arrivi e la loro permanenza devono essere controllati e limitati attraverso questi cosiddetti “permessi di soggiorno”. Vanno chiesti agli sbirri, e da come viene pronunciata questa parola capisco subito che è gente dalla quale è meglio stare alla larga. In teoria, dovrebbero essere loro a gestire gli “uffici immigrazione” che dovrebbero dare questi permessi. In realtà, mi spiegano che sono dei bordelli gestiti da poliziotti ignoranti e semianalfabeti che non hanno altro scopo se non quello di dare qualche permesso in modo completamente arbitrario. Non si capisce e chi lo danno e a chi no, né per quale motivo. Non parlano nessuna lingua straniera, ma anche gli immigrati che stanno in Italia da anni e sanno bene la lingua dicono che quando parlano non si capisce un cazzo di quello che dicono. In pratica, pare che in Italia i poliziotti siano degli ignoranti scartati dalla mafia (ricordi di aver visto diversi film sulla mafia italiana…) perché troppo stupidi. Sono delle nullità, ma proprio per questo loro essere delle nullità provano un gusto particolare a lavorare con gli immigrati, dato che li possono vessare e insultare a piacimento. Finalmente, hanno trovato qualcuno a cui sentirsi superiori.

Con le donne va anche peggio, perché i commenti da maiali si sprecano: troia, puttana negra, è vero che a voi negre piace il cazzo bianco? Purtroppo, le donne devono sottostare a queste vessazioni, ma non basta. Spesso sono vittime di veri e propri ricatti sessuali, e devono concedersi a questi vermi in divisa blu per poter ottenere il permesso di soggiorno. Per quanto riguarda i fortunati che riescono a ottenere il permesso, mi spiegano che non è facile. Servono soldi da dare sottobanco allo sbirro di turno. In alternativa, bisogna conoscere qualche avvocato mafioso ammanicato con gli sbirri. Se gli dai 100-150 euro e hai fortuna, può anche saltar fuori un permesso di soggiorno per te valido e immacolato. Tu non hai mai visto la polizia e non sai come è stato ottenuto, ma tant’è. Le informazioni che mi danno sono tante, ma capisco che mi aspetta una vita dura, e che in un contesto nuovo, ostile e che non conosco le informazioni possono essere preziose come l’aria. Bene immagazzinarle il più possibile. Non basteranno, il resto bisognerà impararlo con l’esperienza.
Appena me la sento di reggermi in piedi e di camminare, mi faccio dire dove e come si può trovare lavoro. Uno dei miei compagni mi offre di accompagnarmi, tanto anche lui deve andare a cercare la giornata. Nella zona agricola in cui mi trovo ci sono diversi punti informali dove si cercano braccianti. Possono essere nelle piazzette dei paesi, alla loro periferia o in alcuni incroci specifici con delle strade sterrate. L’importante è conoscerli e presentarsi al momento giusto, cioè la mattina molto presto, o meglio a notte fonda. Se sei fortunato ti puoi presentare verso le 5 o le 6 del mattino. Ma se il campo in cui lavorare e lontano e ti ci devono portare in pullman, possono essere anche le 3 o le 4, quando fa ancora completamente buio. Comunque, si preferisce sempre essere lì per tempo piuttosto che non trovare lavoro.

Come sempre, ogni scelta può significare fortuna o sfortuna per qualcuno. Se c’è molta richiesta va bene e tutti sono presi, altrimenti c’è sempre qualcuno che resta scartato e che deve sperare nella prossima volta. Fortunatamente sono giovane e abbastanza prestante, quindi non faccio fatica a trovare lavoro. Il lavoro in sé non è difficile ma molto pesante. Le cassette piene di frutta o verdura pesano chili e chili e spaccano la schiena. È meglio non fermarsi troppo a riposare: se ti vede un caporale, ti dice che non sei pagato per riposare e che devi rimetterti al lavoro. Questo quando va bene: alcuni caporali sono armati di spranghe e bastoni e ti menano se accenni a tirare un po’ il fiato.
Alcuni ostentano anche fucili e pistole mentre ci sorvegliano. Alcuni sono dei ragazzi arroganti, e capisci che sono figli dei padroni. Dopo un po’, imparo anche a pronunciare approssimativamente questa parola e a capire cosa vuol dire: caporale. In sostanza, si tratta di capetti bianchi che trovano la manodopera per i grandi agricoltori. La paga che ti danno è già una miseria, ma devi a lui una percentuale perché ti ha aiutato a trovare lavoro. Non serve a niente ribellarsi, perché i grandi proprietari dicono sempre che non possono stare a perdere tempo contrattando con ogni singolo bracciante. Quindi, o te la vedi col caporale, o sono cazzi tuoi e non lavori.
I primi tempi mi vanno relativamente bene. Naturalmente, i caporali bianchi ti guardano e ti trattano sempre carichi di disprezzo, ma non è che l’inizio. Col tempo, scopro che in generale la popolazione bianca dei paesi disprezza gli africani. Non è ben chiaro quale sia il motivo. Dicono che noi rubiamo lavoro, ma molti giovani bianchi se ne stanno buttati al bar a bere dalla mattina alla sera e non lavorano. Mi chiedo come facciano a campare, ma mi spiegano che molti di loro prendono il “reddito di cittadinanza”, una specie di sussidio di disoccupazione solo per italiani che gli immigrati non possono chiedere. Chi lo prende non deve in alcun modo dimostrare che sta cercando lavoro, quindi se lo può godere tranquillamente senza fare un cazzo, al massimo integrando con dei lavori in nero.

Ma questa gente è comunque innocua rispetto a della gente diversa che imparo subito a temere. Sono arroganti più degli altri, vestono bene e hanno macchine costosissime. Di loro tutti hanno paura, anche i bianchi locali. Capisco che vengono chiamati mafiosi, oppure ‘ndranghetisti o camorristi a seconda della regione. Sono immensamente ricchi, dato che controllano una serie enorme di attività criminali: spaccio di droga, traffico di armi, rifiuti e sigarette, pizzo ai commercianti, edilizia abusiva, prostituzione. Una parte dei loro guadagni deriva anche dal fatto che controllano una parte dei caporali, i quali a loro volta devono dare loro il pizzo. Capisco presto che è gente dalla quale è meglio stare lontani, e mi auguro di non trovarmeli mai davanti. In generale, viviamo in una situazione di continuo pericolo e di terrore, di paura continua. Non possiamo mai essere sicuri, soprattutto quando siamo da soli per la via di un paese o in una strada sterrata. Se ci va bene, i bianchi ci fanno oggetto di sguardi sprezzanti e cercano di stare lontano da noi.

Poi, se ci sono gruppetti di persone, soprattutto ragazzi fannulloni, partono facilmente le provocazioni e gli insulti: negro, bestia, animale, scimmia, perché non te ne torni a casa a mangiare le banane sugli alberi? È molto pericoloso rispondere, perché alcuni di questi ragazzi possono essere armati di coltello o di pistole. A volte purtroppo, non si limitano a provocarti, ma cercano di praticare l’estorsione e di rapinarti. È incredibile se si pensa che le poche decine di euro che può avere in tasca un immigrato, quando va bene, sono nulla rispetto a quello che questi parassiti bianchi ottengono col reddito di cittadinanza, che possono scucire ai genitori con le “paghette”, o rispetto alle paghe e ai profitti che ottengono se fanno manovalanza per qualche clan mafioso.
Veniamo a sapere di tanti di noi che sono stati circondati e isolati di sera mentre tornavano dai campi, e sono stati costretti a dare come pedaggio/tributo razziale quelle poche decine di euro che avevano in tasca, o a cedere la propria bicicletta scassata. Purtroppo, è una cosa che capita anche a me una sera. Vengo circondato da un gruppo di giovani. Ho paura, sono terrorizzato, ma non voglio cedere i venti euro della giornata, che per me sono preziosi. Alla fine cedo, ma basta quel poco di esitazione per beccarmi una scarica di legnate da quei vermi. E mi va pure bene: anche se pieno di dolori, dopo un po’ riesco comunque a rialzarmi e a raggiungere lentamente e faticosamente il casolare dove abito. E non è l’unica cosa che può capitare. A volte, i mafiosi o anche semplicemente gli stronzetti locali si divertono letteralmente a fare il tiro a segno avendo noi neri come bersaglio. Molti di noi sono fortunati, le pallottole vengono sparate alte di proposito per spaventarci, ci fischiano sopra e noi ci buttiamo a terra terrorizzati. Dopo un po’, quando si spegne l’eco delle risate dei nostri aggressori, capiamo che la via è libera e cerchiamo di rialzarci. Ma non sempre va così: a volte mirano di proposito alle gambe, “gambizzandoci”. Il bello è che abbiamo paura di rivolgerci agli ospedali… il più delle volte ci fasciamo da noi con bende di fortuna, che però si infettano facilmente mandando la ferita in cancrena. Qualcuno è anche morto di queste ferite. Il corpo viene sepolto o fatto sparire in altro modo. Noi non ci meritiamo neanche il cimitero.

 

2.
Nel 2008, siccome in Sicilia non trovavo più lavoro decido di cambiare regione e riesco a raggiungere la Campania, per l’esattezza la zona di Castel Volturno. Come al solito, una volta arrivato in un posto nuovo devo “prenderne le misure”, e lo posso fare soprattutto cercando persone del mio paese o comunque altri africani. Mi spiegano che è una zona dove la camorra locale è molto potente. Nei decenni precedenti, complice il fatto che la zona costiera è bellissima, sono state fatte enormi speculazioni: immensi e osceni grattacieli costruiti sulle spiagge, mega-alberghi che poi sono rimasti vuoti, ecc. ecc. Molte di queste strutture sono state in seguito occupate da noi migranti. Di alcuni locali non paghiamo l’affitto, di altri invece siamo costretti a farlo. Mano a mano che mi abituo alla zona, scopro che tra noi africani non ci sono solo braccianti. Alcuni fanno altri lavori, per esempio fanno gli imbianchini o lavorano comunque nell’edilizia. Qualcuno più fortunato è riuscito a mettere su una piccola attività, per esempio un negozietto, una sartoria, una bottega di barbiere-parrucchiere o un salone di bellezza. In un certo senso, questi esercizi diventano anche dei punti di ritrovo. Noi africani ci andiamo e sappiamo che ci troveremo sempre qualcuno mattina e sera.
Si possono fare quattro chiacchiere, chiedere notizie dei nostri paesi di origini, bere una bibita, o anche solo stare seduti e fumare una sigaretta insieme. In realtà, alcuni africani appena arrivati cercano proprio questi esercizi per avere le prime informazioni sul luogo, sul cosa fare, dove andare, ecc. ecc. I bianchi, gli europei vedono noi africani come uno stesso popolo, ma in realtà non è così. Non si tratta solo del fatto che in Africa ci sono decine di paesi diversi, ormai indipendenti da decenni. Il fatto è che anche i confini presenti in Africa sono stati tracciati arbitrariamente – a volte proprio con la squadra, basta guardare la cartina – dalle potenze coloniali. Quindi, non si tratta solo del fatto che per esempio in un paese la lingua ufficiale è il francese, mentre in un altro può essere l’inglese o il portoghese. In realtà in Africa esistono centinaia di lingue e di gruppi etnici molto diversi tra loro anche all’interno di uno stesso paese. Alcuni di noi hanno anche caratteristiche fisiche particolari, anche se solitamente sfuggono ai bianchi. Oltre alle differenze di religione, ci possono essere mille motivi perché questi vari gruppi etnici si stiano antipatici o addirittura si facciano la guerra tra loro. Questa guerra fratricida è quanto di più assurdo è terribile possa succedere. Come dire, scannarci tra noi mentre chi ci sfrutta e si opprime se la gode!
Purtroppo, queste antipatie e rancori vengono talvolta trasferiti anche fra gli immigrati in Italia, anche se vivono in una stessa località. Questo può dare vita a gruppi chiusi che tentano di con comunicare gli uni con gli altri, per esempio i nigeriani che stanno solo con i nigeriani, ecc. Fortunatamente, però, vedo che spesso prevalgono l’intelligenza, il buon senso e la presenza di una comune condizione di sfruttamento e di oppressione. Queste differenze tendono ad affievolirsi, si cerca di farlo anche parlando lingue comuni come il francese o l’inglese, o l’italiano quando lo si è imparato abbastanza. Gli africani un po’ più benestanti, che stanno in Italia da più tempo e che hanno qualche attività commerciale a volte fungono un po’ da portavoce o da leader della comunità. In realtà non sono dei veri e propri leader, nel senso che naturalmente non hanno alcun mandato formale né possono comandare gli altri. Cercano però di tenere i contatti con le istituzioni e le associazioni locali, a volte fanno gli interpreti e vengono intervistati dai media locali.

Io ho sempre avuto sentimenti ambivalenti verso queste persone. Da un lato gli invidio un po’ perché hanno fatto un po’ fortuna, di fatto si trovano qualche gradino sopra di me. Talvolta si danno delle arie, cercano di mostrarsi superiori come grandi “amici dei bianchi”, come se avessero chissà che di speciale. Io invece sono rimasto un morto di fame e non posso permettermi molte delle cose che hanno loro, come una casa decente, la macchina, vestiti dignitosi ecc., magari anche qualche vacanza ogni tanto. D’altro canto, però, riconosco che la loro è un’opera preziosa. Sono persone ascoltate e conosciute, e se non ci fossero forse noi saremmo ancora più invisibili, e sarebbe ancora più difficile comunicare con quegli organi italiani che non ci vogliono semplicemente schiacciare (gli sbirri sono un altro discorso, naturalmente). Un’attività abbastanza discutibile è per esempio quella di fare l’interprete per la polizia o per gli uffici immigrazione. È una cosa che mia ha sempre lasciato combattuto. Se da un lato un interprete può permettere a un immigrato di ricevere il permesso di soggiorno, la sua può essere un’opera preziosa. D’altro canto, si tratta comunque di collaborare con un’istituzione che ci opprime. Non so se io sarei in grado di farlo.

Nonostante le remore, stringo comunque un po’ di amicizia con Teddy, un nigeriano che sta qui da molti anni e che ha stabilito un’attività commerciale di vendita di abiti e cibi africani. Teddy è anche attivo in un’associazione che cerca di combattere la droga e la prostituzione fra i nigeriani e gli altri africani. Non è un compito facile. Le ragazze che si prostituiscono lo fanno per diversi motivi. Alcune vengono rapite nel paese d’origine, gli viene tolto il passaporto e vengono costrette a battere a suon di botte e stupri. A volte anche i loro parenti nel paese di origine vengono minacciati. Altre sono venute in Italia apposta per fare questo, sapendo che tanto non troveranno altro e che così almeno riescono a guadagnare qualcosa. Altre ancora sono venute qui per fare un altro mestiere, soprattutto sguattere e badanti, ma avendolo perso si sono ritrovate per strada. Pertanto, non è facile cercare di cambiare qualcosa in questo contesto. Si aggiunge il problema che i clienti in cerca di carne nera sono, naturalmente, bianchi e italianissimi. Per la semplice legge della domanda e dell’offerta, queste prostitute non ci sarebbero se non ci fossero tanti clienti che le cercano. La legge italiana in proposito è piuttosto ipocrita.

Mi spiegano che in Italia la prostituzione non è reato (è reato però sfruttarla), ma non è neanche regolamentata. Ciò crea una situazione paradossale dove le ragazze si trovano in un limbo e non sanno davvero a chi rivolgersi. Fa un po’ senso a volte sentire i commenti schifati di certi bianchi e certe bianche che si lamentano di questa prostituzione, come se non fossero loro stessi e i loro mariti a servirsene. Mi è anche capitato di vedere dei rispettati padri di famiglia fermarsi il sabato sera in una strada dove sapevano avrebbero trovato delle ragazze, per poi rivederli la mattina dopo andare a messa coll’abito buono assieme a moglie e figli. Questo mi ricorda un po’ qualcosa che avevo letto nell’autobiografia di Malcolm X… Il nero disgusta i bianchi ma allo stesso tempo attrae, soprattutto se è il nero di una donna, di un essere inferiore che si può sottomettere. Sa di Africa, di savana, di selvaggio, di pericoloso; allo stesso tempo si può avere la strana e paradossale sensazione di aiutare, di proteggere quella donna che si sta pagando.
Altro discorso è quello della droga. La droga esiste in tutto il mondo, quindi naturalmente esiste anche in Italia e anche a Castel Volturno. I consumatori sono tanti, soprattutto giovani ma non solo. Ci sono spacciatori di tutti i tipi e che vendono di tutto un po’ dovunque: nelle piazzette, agli incroci, in certi bar e discoteche. A volte possono essere contattati per telefono o si può andare a comprare a domicilio. Talvolta uno spacciatore è specializzato in una certa sostanza, basta saperlo e ci si rivolge a lui per ottenere quello che si vuole: erba, hashish, cocaina, eroina, speed, ecc. ecc., chi più ne ha più ne metta. Gli spacciatori sono diversi anche nel senso che sono sia bianchi locali che neri, soprattutto nigeriani. La sostanza di quello che fanno non cambia assolutamente, soltanto i neri danno più nell’occhio e vengono usati come capro espiatorio per il problema della droga, come se a spacciarla fossero solo loro. È anche molto più facile che vengano pizzicati in una retata e che si facciano qualche giorno di cella. Anche lì, il trattamento è arbitrario: a seconda dello sbirro che ti capita, se non hai permesso di soggiorno puoi finire in un campo di prigionia, restare lì chissà quanto o essere espulso.
Ma succede di tutto: talvolta gli sbirri sequestrano la droga per farsela loro o per rivenderla, oppure pretendono una mancia per chiudere un occhio e per lasciare che si spacci in un certo posto. Vedo che il sistema tutto sommato funziona: se si olia un po’ il meccanismo, si può tranquillamente continuare a lavorare nel solito posto e nessuno ti disturba. Ecco perché i tentativi di Teddy sono estremamente difficili. Anche tra le persone che si drogano ci sono delle differenze. Alcuni sono ragazzi che vogliono un po’ sballarsi il sabato sera, o solo ogni tanto. Riescono a mantenere la droga come un passatempo occasionale e la cosa non ha conseguenze evidentemente gravi sulla loro salute o sulle loro tasche (anche se certamente non gli fa bene…).
Alcuni ragazzi invece, soprattutto neri ma non solo, si buttano nella droga per disperazione, per stordirsi. Non capiscono più nulla e vivono in un mondo diverso, con capendo cosa succede all’esterno. Ciò spiega anche perché molte palazzine occupate da immigrati sono dei luoghi squallidi, pieni di larve umane che stanno buttate lì tutto il giorno eternamente ebeti. Alcuni si aggirano come dei fantasmi scheletrici in cerca dell’ennesima dose, altri stanno buttati in qualche angolo. Altri ancora stanno sdraiati su un giaciglio lurido praticamente tutto il giorno, senza quasi la forza di alzarsi e dimenticandosi di mangiare. Insomma, l’opera di convinzione e di educazione che fa Teddy non è facile, ma gli riconosco la buona volontà e tanta voglia di fare.
Il mondo della droga, però, non è solo una cosa all’esterno che si riduce nella vendita di qualche bustina all’angolo di una strada. Prendendo i soldi che vengono pagati per una dose, sembrano cifre piccole, ma bisogna moltiplicarle per cento, mille, e allora diventano migliaia e milioni di euro. I soldi fanno gola a tutti, fanno fare qualunque cosa, e non bastano mai. Hanno bisogno di moltiplicarsi in continuazione. In teoria, qualunque capitalista o qualunque businessman potrebbe essere in grado di fare una cosa del genere. Ma, trattandosi di un commercio illegale, a occuparsene in Campania è soprattutto la camorra, i cui membri si chiamano camorristi. Non necessariamente si occupano direttamente dello spaccio di droga. Talvolta loro non spacciano, ma si limitano a pretendere che chi lo fa paghi una percentuale o pizzo all’organizzazione. Per loro il controllo del territorio è molto importante. Qualunque attività lecita o illecita deve essere sotto il loro controllo. Persino una persona che vuole compiere un reato autonomamente, per esempio dei furti, lo può fare solo se ha il permesso dell’organizzazione, altrimenti lo fa a suo rischio e pericolo.
Abbiamo addirittura sentito che uno scugnizzo locale è entrato a far parte del clan proprio dopo aver commesso dei furti in delle villette in riva al mare. Questo ragazzo l’aveva fatto senza chiedere il permesso al clan. La punizione è stata spietata: l’hanno massacrato di botte con le mazze da baseball, fino a fargli uscire il sangue dalle orecchie. Questa storia veniva raccontata in giro come avvertimento: vedete cosa succede a chi fa le cose senza permesso? Allo stesso tempo, però, questo ragazzo era stata considerato sveglio e capace di fare furti con destrezza. Così, dopo che si era ripreso dalla scarica di botte, il boss gli aveva chiesto se voleva entrare nell’organizzazione. L’ha fatto, e da allora ha fatto carriera. Davvero uno strano modo di entrare nella mafia…
Fedelmente al modo che ho descritto sopra, il clan locale non poteva tollerare che qualcuno spacciasse senza permesso o senza dare la percentuale alla famiglia locale. Si tratta dei cosiddetti casalesi, un clan nato a Casal di Principe tempo fa e che si è rapidamente affermato come uno dei più potenti. Il boss locale era Giuseppe Setola. Di quello che è successo si sono poi sentite solo delle voci, che posso solo riportare.

 

3.
Interno notte. L’interno di una stanza di una casa diroccata. Muri di cemento e blocchi a vista, sporco. Pavimento anch’esso sporco, cosparso di rifiuti. In ogni caso, delle sedie sono state messe a semicerchio da due parti, come per permettere a due squadre di fronteggiarsi e di dialogare l’una davanti all’altra per un po’. Un contesto un po’ strano per una discussione del genere.
I primi ad arrivare sono i nigeriani. Sono arrivati in macchine costose, e vestono in modo molto strano per essere degli africani. Altro che i nostri stracci! Pelle lucida, catenoni d’oro, orecchini, bracciali e anelli. Camicie di seta e giubbetti di pelle lucida. Cinture con borchie d’argento, stivaletti di coccodrillo. Si vede che è gente che ha soldi. Alcuni prendono posto sulle sedie, altri si sistemano in piedi alle loro spalle. Si possono notare delle impercettibili protuberanze sotto l’ascella di alcuni di loro, o sulla schiena, all’altezza della cintura.
I bianchi arrivano dopo. Le loro macchine e i vestiti non hanno nulla da invidiare a quelli dei nigeriani. Naturalmente, prima di entrare dei gorilla hanno controllato bene che non ci fossero scherzi e che l’ingresso fosse pulito. Ingresso, strette di mano. Ci si siede. L’atmosfera è tesa, la tensione si taglia con il coltello. Sembrerebbe un incontro diplomatico internazionale, peccato che si deve discutere di ben altro. Anche alcuni dei casalesi hanno preso posto sulle seggiole, mentre altri stanno in piedi dietro di loro. Facce da galera. Stesse protuberanze sotto le ascelle e sulla schiena.
Quello seduto al centro dei casalesi, su una sedia sporta un po’ più in avanti rispetto agli altri, è il capo, Giuseppe Setola detto ‘o cecato, per dei suoi presunti problemi di vista. In realtà, si dice che guidi benissimo, dato che lo chiamano “Schumi”, come Michael Schumacher, il pilota di Formula 1. È anche nota la sua abilità nel maneggiare le armi da fuoco, specialmente mitragliette, pistole lunghe e Kalashnikov. Che strani problemi di vista, sembra che vadano e vengano (grazie alla Madonna di Pompei).
L’atmosfera è tesa. I due gruppi si guardano e si scrutano per un po’, sembra che nessuno voglia cominciare a parlare. Alla fine è Setola a rompere il ghiaccio.
– Beh? Come state, amici nigeriani?
– Non c’è male. Come vanno gli affari?
– Mah, non ci lamentiamo. E voi?
– Non ci lamentiamo neanche noi.
Pausa. Setola riprende:
– Però c’è qualcosa che non va. È per questo che vi ho chiamati qui.
– Ah sì?
– Sì.
– E che cosa sarebbe?
– Sappiamo che gli affari vi vanno bene. Va bene, noi non abbiamo niente in contrario che voi spacciate sul nostro litorale. I clienti sono tanti, ed è giusto che anche voi abbiate la vostra fetta di mercato. Ma non dovete dimenticarvi che siete in Italia. Qui siete in Italia. Vi consentiamo di lavorare, ma comandiamo noi. Noi non siamo razzisti, ma bisogna portarci rispetto.
– Noi vi abbiamo sempre rispettato, non vi abbiamo mai dato problemi.
– Il rispetto si mostra nei modi e nel portamento, certo. Lo sappiamo che voi siete dei bravi guaglioni. Voi siete dei dritti, non dei coglionazzi che si spaccano la schiena sui campi. Però per spacciare bisogna pagare la tassa. Gli affari vi vanno bene, l’avete detto voi. Basta pagare una piccola tassa mensile. Una piccola tassa mensile e potete stare tranquilli, farete anche più soldi di prima.
Il nigeriano è perplesso. Scruta, sta in silenzio, aggrotta la fronte e le sopracciglia rade.
– E quanto sarebbe questa tassa?
Cerca di mantenere un tono di voce neutro, forte, ma si percepisce un po’ di tensione.
– Mah, perché siete voi, io direi tra 30 mila e 50 mila euro al mese dovrebbero bastare. Sapete che voi guadagnate cifre diverse ogni mese. Lo sappiamo anche noi, abbiamo i modi per saperlo. Può cambiare a seconda del mese, ma minimo 30 mila.
– Stai scherzando, amico bianco. Così non si lavora più: come facciamo a lavorare se dobbiamo pagare così tanto?
– Io non scherzo mai. Ti sembra che scherzo? So che siete dei dritti, ma non potete fare tutto quello che volete. Ricordatevi che non siete a casa vostra e che ci dovete rispetto. Capito?
– Va bene, amico bianco, ma… ci devo pensare. Ne devo parlare anche con gli altri.
– Bene, pensateci bene. Mi raccomando. Poi fatemi sapere la risposta. Sono sicuro che ci intenderemo.
Lo sguardo del nigeriano è dubbioso. Alla fine non ci sono strette di mano. I due gruppi escono alla spicciolata dal locale, ognuno da un’uscita diversa. Si scrutano guardinghi sino alla fine. Quelli dei due gruppi che stavano con le spalle al muro sono gli ultimi ad uscire. Non perdono i loro colleghi di vista un istante, le mani impercettibilmente vicine alle protuberanze. Fortunatamente, quella sera non succede nulla. Con tutte quelle bocche di fuoco e gente abituata a usarle, sarebbe stata una strage…
Che cosa vogliono fare i nigeriani? Non è chiaro. È chiaro che ‘o cecato non scherza, ma come si fa a pagare così tanto? Bisogna pensarci, prendere tempo, escogitare qualche soluzione…

 

Un bel villino sulla statale domiziana. È estate, fa caldo. Il villino ha un ameno giardino, con delle belle piante. Palme. Intorno altri villini. Si direbbe una casetta occupata da una famiglia in vacanza al mare. In realtà, è il quartier generale di Setola e dei suoi. Nella cantina c’è un vero e proprio arsenale, e anche dei cunicoli sotterranei che portano lontano dalla villa, sotto degli spiazzi con delle macchine pronte per una eventuale fuga. ‘O cecato ha pensato a tutto.
‘O cecato è nervoso, non è tranquillo. Parla con uno dei suoi.
– Oreste, che ti sono sembrati quegli sporchi neri?
– Ma non so… loro lo sanno che siamo potenti, non sono mica coglioni. Stai tranquillo che pagano.
– Tu dici?
– Io dico di sì.
Pausa. Setola non è ancora tranquillo.
– Non lo so. Io comunque voglio essere sicuro. Non sono persuaso. Questi qui devono capire che non sono a casa loro. Possono anche spacciare, ma devono pagarci la tassa. Secondo me bisogna cercare di convincerli in qualche modo.
– E come?
Setola riflette un po’. Tende la pelle della faccia, stringe gli occhi. Fa lo sguardo un po’ cattivo.
– Senti, un’idea ci sarebbe. Hai presente quel negro famoso, Teddy?
– Teddy?
– Sì, esattamente. Quello che fa un po’ il rappresentante dei nigeriani. È un carbone come loro, ma si crede chissà chi perché ha un negozio, una casetta e non va in giro vestito di stracci. Ha anche una specie di associazione che dice di voler combattere la droga e la prostituzione. Non ha capito un cazzo, e naturalmente non combina granché, non ci ha mai dato problemi seri. Poi fa pure l’interprete dal negro all’italiano con la polizia. Questa non è una bella cosa, so che anche tra i neri non tutti lo vedono bene per questo, è una cosa che puzza un po’ di infame.
– Ma che c’entra Teddy con i nigeriani che spacciano?
– C’entra, c’entra. Intanto è nero pure lui, poi se gli diamo una lezione, magari capisce che il nostro lavoro e le nostre ragazze le deve lasciare stare. Inoltre, se gli diamo una lezione potrebbe essere un messaggio anche per i nostri amici neri: capiranno che non scherziamo. D’altro canto, metteremo in giro la voce che sono stati degli altri nigeriani a sparargli, magari perché rompeva le scatole con questa cosa che bisogna salvare le prostitute.
– Credi che funzionerà?
– E certo che funzionerà! Gli italiani sono coglioni, lo sappiamo bene, per non parlare degli sbirri, quelli si bevono tutto. È una cosa tra negri, ci crederanno tutti. A noi ci lasceranno in pace. Teddy recepirà il messaggio e capirà che è meglio che non rompa le scatole. Ma il messaggio le recepiranno anche gli altri, quelli che sappiamo noi.
Un piccolo sorrisino sulle labbra del boss. Sembra felice, ha proprio avuto una bella idea.
– Lo sai dove abita quel negro?
– Mi sembra di sì: non è in Via Cesare Battisti? Se ho ben capito lì c’è anche la sede della sua associazione, Associazione Nigeriana Campana.
– Bene. Penso proprio che andremo a fargli una visitina. Tanto sai dov’è, no?
– Sì, mi è capitato di passarci, a volte. Ha una casetta con giardino, una veranda, a volte si mettono fuori un gruppo di negri e fanno festa: bevono, mangiano, e chiacchierano…
– Bene, e vedi che bella festa che gli faremo! – dice Setola con un ghigno.
– Ma capo… le volte che ci sono passato lì c’erano sempre parecchie persone… c’erano anche donne, bambini… e che succede se ci son donne e creature anche quando andiamo noi?
– E che vuoi che ti dica… pazienza. Mi dispiace, ma non ci possiamo fare nulla. Il messaggio lo dobbiamo mandare. Alla fine sono bambini negri, quindi pazienza.

Agosto. Fa caldo. Le preparazioni sono sempre le solite. Preparare e oliare le armi, caricarle. Devono essere pulite, meglio che non si inceppino durante il lavoro. Prendiamo sempre cocaina, ma prima di un’azione ne si prende sempre una dose speciale. Ci tira su e ci dà l’adrenalina necessaria per fare quello che dobbiamo fare. Ho un po’ di paura. So sparare bene, non è la prima volta. Mi sono allenato tanto, mi dicono tutti che sono bravo. Ho già dimostrato altre volte che non sono un vigliacco, me lo dicono tutti. Ma questa volta c’è qualche remora. Questo Teddy alla fine non ci ha fatto niente. E le donne? E i bambini? Rimugini una preghiera veloce e distratta alla Madonna di Pompei, per perdonarti se dovesse succedere qualcosa di grave. Dopo una sigaretta, e si va.
I mezzi sono pronti nel cortile. Sono due moto e un furgone. Ce ne sono sempre tanti: a volte si cambiano le targhe agli stessi, ma bisogna ottenerne sempre di nuovi. Se ci va li compriamo, se no li rubiamo, o ce li facciamo dare da qualche concessionario dietro minacce o per una cifra irrisoria. Abbiamo pistole calibro 40 e 9×21, più un Kalashnikov. Chissà chi era questo Kalashnikov, ma deve essere stato uno dritto ad aver inventato un mitra così. È leggero, comodo, maneggevole, ha il grilletto leggerissimo e non si inceppa quasi mai. Guardando il nostro arsenale, mi chiedo se tutte queste armi siano necessarie per spaventare un gruppo di gente inerme che fa festa, fra cui donne e bambini. Pensi al capo. Che cosa direbbe se sapesse che stai pensando questo? Meglio non pensarci. Sali alla guida del furgone, e via a tutta velocità. Quelli sulle moto hanno caschi integrali.
Quanto ci mettiamo per arrivare sul posto? Non lo so ma sembra pochissimo, siamo velocissimi. È un flash. Avvicinandoci, sentiamo un po’ di musica. Un barbecue manda un po’ di fumo. Sentiamo voci di bambini, ma non li vediamo. Ferma. Stop. Il bersaglio è lì nella veranda. Non è difficile, basta mirare dove c’è scuro. Setola scende e spara con il Kalashnikov, noi con le pistole. Quanti colpi spariamo? Non lo saprei dire. Fumo che ti offusca lo sguardo e ti brucia gli occhi, l’odore acre della polvere da sparo che ti dà fastidio comunque anche dopo tanta gavetta. Dura tutto davvero una frazione di secondo, non capisci quasi nulla. Dalla veranda provengono urla strazianti, e grida di: «Aiuto, aiuto! Basta, non ammazzateci!». Si sentono anche urla di bambini, ma queste sono terrorizzate.
– Boss, direi che basta così, li abbiamo spaventati, andiamocene!
– Un cazzo, ti credi che sono venuto qui solo per spaventarli? Adesso andiamo dentro e li finiamo.
Preme di nuovo il grilletto, l’arma si inceppa. Anche le altre armi si inceppano. Cazzo! Perché si inceppano così spesso? Si inceppano molto più spesso di quanto la gente pensi, e proprio quando servono. Cazzo! Ma non c’è tempo per pensare. Su in moto, il piede schiaccia l’acceleratore. Si scappa, si torna alla base. Una volta arrivati, siamo tutti sudati, stremati, stressati, i nervi a fior di pelle. Peccato che non siamo riusciti a finirli, probabilmente non ne è morto neanche uno. Ma pazienza, qualche buco glie l’avremo fatto di certo, e il messaggio è certamente arrivato a destinazione. Ci sediamo a un tavolo davanti alla televisione. Beviamo un po’ di whisky per festeggiare la buona riuscita dell’azione. Dopo tutto, è andata bene. Poi, bisogna andare a letto presto. Magari domani c’è un’altra azione. Forse no, comunque domani è un altro giorno.

 

4.
La gente ha saputo della tentata strage di Via Battisti dai giornali, dalla televisione. Io invece so le cose anche troppo bene, perché c’ero. Il caso ha voluto che proprio quella sera Teddy mi avesse invitato a casa sua. Doveva essere una serata informale, tra amici. Alcuni avrebbero anche portato moglie e figli. Un po’ di musica, barbecue, qualche bibita. Faceva caldo. In questi ambienti conviviali con altri paesani, sembra quasi di essere al tuo paese e per un po’ ti dimentichi di tutte le schifezze, di tutta la merda che mangi ogni giorno. Noi uomini siamo fuori insieme alle donne. Alcuni controllano il barbecue. I bambini sono in casa che giocano. Sto facendo due chiacchiere con gli altri, quando avverto qualcosa di strano.
Due grosse moto, motocilisti col casco integrale, e un furgone. È tutto strano: sono arrivati velocissimi, e hanno frenato di scatto, sgommando. Per un momento non capisco che cosa sta succedendo, ma ho un flash: degli oggetti scuri nelle loro mani, puntati contro di noi. È un attimo, capisco. Urlo:
– State giù, cazzo! State giù! Giù!
Fortunatamente alcuni mi sentono, se ne accorgono. Capiscono, si buttano giù. Non tutti però. La cosa dura davvero pochi secondi. Un fracasso infernale, che spacca i timpani. Sono giù buttato per terra, la faccia contro il pavimento di legno della veranda, mi tengo la testa con le mani. Comunque, sento qualche voce concitata:
– Dai, basta così, andiamo!
– Un cazzo, adesso andiamo dentro e li finiamo quei negri de merda… No, cazzo, le armi si sono inceppate! Via, via!
Non mi sembra vero… il fatto delle armi inceppate sembra un miracolo. Ma ho solo un nanosecondo per rallegrarmi, visto che intorno a me ci sono grida e sangue ovunque. Diverse persone sono a terra e si tengono le ferite con le mani, sanguinano. I bambini sono terrorizzati, hanno sentito le esplosioni e ora vedono il sangue, piangono, urlano. Anche Teddy è ferito, anche la moglie, e altre quattro persone, sei in tutto. Non so come arriva un’ambulanza.
In seguito alcuni giornali diranno che si era trattato di un regolamento di conti tra spacciatori, o comunque di una cosa fra negri. Proprio Teddy, che la droga l’ha sempre combattuta! Noi gli aggressori li abbiamo visti, anche se non tutti in faccia. Erano bianchi, sicuramente del posto. Parlavano in napoletano o un italiano con espressioni dialettali, con un forte accento. Sono terrorizzato: davvero sono arrivato in Italia per vedere questo? E ho pure avuto fortuna, sono rimasto illeso. Per questa volta mi è andata bene. Fra i sei feriti, alcuni erano feriti in modo grave al capo e al torace, sembra evidente che hanno sparato per uccidere. Volevano fare una strage, siamo stati fortunati che le armi si sono inceppate. Non sembra vero. E poi? Che cosa succederà adesso? Non lo so. Ancora non sospetto cosa sta per accadere.

Circa un mese dopo, a settembre. Sono relativamente tranquillo, se tranquilla si può definire una persona che ha visto la morte in faccia. Naturalmente sono stato terrorizzato, ma nelle settimane successive non è successo nulla, a parte le solite dicerie. Sono andato diverse volte in ospedale a trovare Teddy, la moglie e gli altri feriti. Anche quelli gravi sembrano fuori pericolo e stanno migliorando, meno male. Naturalmente, quell’episodio non mi ha fatto smettere di frequentare altri africani, quando non lavoro e non sono troppo stanco. Anzi, proprio la paura di quell’episodio mi spinge ancora di più a stare tra i miei, come se sentissi fra loro un po’ di protezione.
Uno dei posti che frequento è una sartoria sulla statale domiziana, a Ischitella, che si chiama Ob Ob Exotic Fashion. Il gestore, El Hadji, è un tipo tranquillo che viene dal Togo. Fa bene il sarto ma non ha niente in contrario che la sua sartoria sia anche un luogo di ritrovo. Fa entrare gente tranquillamente, anche se non hanno abiti da ritirare, anche solo per fare due chiacchiere e bere una bibita insieme. A volte fuori sulle scale si forma un piccolo gruppetto, soprattutto la sera durante la bella stagione. A volte, El Hadji mi ripara gratis o per pochi euro i vestiti lisi che ho, e questo mi permette di farli durare un po’ di più: i vestiti nuovi costano così tanto!
Quella sera, siamo circa 7-8 persone dentro la sartoria e subito fuori. L’atmosfera è tranquilla, rilassata. Nessuno sospetta minimamente cosa sta per succedere. Qualcuno è dentro a chiacchierare, uno si fuma fuori una sigaretta, un altro è al telefono, un terzo beve una bibita. A un tratto, ho come un presentimento. Sento una macchina e delle moto che si avvicinano a grande velocità. La cosa mi mette subito paura: sono ancora traumatizzato da quello che ho visto un mese prima. Per me un’auto che si avvicina a grande velocità porta pericolo: che bisogno c’è di correre, a quell’ora della sera, in una statale dove non c’è quasi nessuno? Il resto è un flash. Sembra una tragica ripetizione di quello che è successo il mese prima, con qualche differenza. L’auto e le moto si fermano sgommando. Gli uomini che scendono indossano delle pettorine della polizia. Uno di loro ha addirittura una paletta di quelle che usa la polizia stradale o i vigili per dirigere il traffico o per intimare l’alt a una macchina. Mi sembra che abbiano qualche somiglianza a quelli che ho intravisto il mese prima. Eppure, ci dovrebbe mettere in allarme il fatto che imbracciano delle armi strane per dei normali poliziotti in pattuglia: mitra e pistole lunghe.

Una frazione di secondo. Mi sembra di vedere i miei amici fermi, come nel fotogramma bloccato di un film. El Hadji e dei suoi amici che chiacchierano dentro, ridono pure. Fuori, Affun ha ancora la sigaretta in bocca. Christopher ha ancora il telefono in mano, ma l’ha un po’ abbassato rispetto all’orecchio, come in un momento di stupore, come se avesse momentaneamente perso interesse per la chiamata, distratto da qualcosa che sta per succedere. Kwame ha la lattina in mano mentre beve l’ultimo sorso, la sta per buttare. Mi sembra di riconoscere meglio l’energumeno che viene più avanti degli altri, con un grosso mitra imbracciato e puntato verso di noi, la paletta nell’altra mano. Sembra ‘o cecato, un boss locale del quale si parla abbastanza. Ma non c’era anche l’altra volta a sparare? Non ne sei sicuro, ma è un attimo. Con la paletta alzata, il tipo intima a voce alta «Fermi, controllo!», ma è solo un attimo. Non ha nemmeno finito di pronunciare la sua intimazione – le facce di tutti noi sono puntate verso di loro, cerchiamo di capire – che apre il fuoco. Quello è il segnale per tutti gli altri. Spianano le armi, mirano, e ci vomitano addosso una pioggia di fuoco. Non sono sicuro di quanti siano a sparare, di quante siano le armi. Mi sembra di averne intravisto circa sette tra mitra e pistole, ma non sono sicuro.
I miei amici purtroppo non hanno scampo, non si rendono nemmeno conto di quello che sta succedendo. I proiettili li trafiggono in più punti, un po’ in tutte le parti del corpo. Gambe, torace, testa. Intestino, stomaco, reni, polmoni, cuore, fegato: un po’ tutti gli organi vitali sono trafitti da queste pallottole di fuoco. Per i più fortunati è un attimo, non si rendono quasi conto. Uno svenimento, cadono, una piccola sensazione di caldo e di bruciore alle ferite. Poi il buio, il nulla. Una volta a terra, il sangue inizia a scorrere copiosamente dai fori delle ferite e a scorrere, formando un macabro disegno con fiumi, laghi, affluenti, estuari. È terribile: anche i vetri della vetrina sono stati crivellati con un fracasso infernale. Alcuni non muoiono subito, si lamentano un po’ di più prima di fermarsi. Un secondo prima che iniziassero a sparare, io mi sono buttato d’istinto dietro una cabina dell’elettricità o dei cavi telefonici che è lì vicino. Non so cosa è successo. Sento un fracasso orribile di una durata che non saprei quantificare. Sembra sia passato un tempo enorme, eppure forse sono passati solo pochi secondi.
Non so esattamente cosa sia successo: non so se semplicemente non si sono accorti di me mentre sparavano nel mucchio, o se hanno sparato anche contro la cabina ma questa ha attutito i colpi. Strano: devo avere avuto molta fortuna. Dopo trenta secondi, il rumore tace. Fumo sulle armi, l’odore acre della polvere e del sangue, dell’adrenalina che esce dal sudore di quei bastardi che ci hanno sparato. Abbassano le armi. Si vede che hanno fretta di andarsene. Uno di loro si avvicina un po’ verso i corpi a terra, ma non più di tanto, dà solo un’occhiata sommaria.
– Sono morti?
– Sì, sono tutti morti, andiamocene!
Risalgono di corsa sull’auto e sulle moto, sgommano velocissimo e spariscono, saranno andati a 260 all’ora: non sapevo fosse possibile andare così veloce con dei mezzi normali. Dopo, il silenzio. L’atmosfera è surreale. Silenzio: non c’è nessuno intorno, in aria c’è ancora un po’ di fumo degli spari, l’asfalto davanti alla sartoria è cosparso di un tappeto di proiettili, ma quanto hanno sparato? I corpi sembrano ormai completamente fermi per terra, ne conto sei, fra l’interno della sartoria e l’ingresso. Il sangue sgorga copioso, così copioso che ho paura di affogarci. Ho un groppo alla gola, nausea, me ne devo andare. Per un momento sono paralizzato, bloccato, non riesco a muovere un muscolo. All’improvviso, un gemito, un accenno di movimento. Sembra che uno dei corpi si muova ancora, forse non è ancora morto. Ce la farà? Cosa devo fare? Il cervello lavora velocissimamente. Alla fine decido di scappare e di nascondermi nelle vicinanze, senza andare troppo lontano. Mi rendo conto che è un po’ vigliacco, ma non penso di poter fare nulla per quel poveraccio. Probabilmente morirà tra pochi minuti, e io non saprei come prestagli soccorso.
Ho anche paura che ritornino i killer. Inizio a sospettare che non fossero poliziotti veri. E se arriva la polizia, quella vera? Meglio comunque stare nascosti: io non ho il permesso di soggiorno, se mi trovassero potrei passare dei guai. Le lacrime mi rigano il volto, le ingoio, sono amare, mi danno un groppo alla gola. Ma perché l’hanno fatto? Perché? Perché questo? Cercando di reprimere i singhiozzi, faccio forza e violenza su me stesso, riesco a trascinarmi dietro un gruppo di alberi non troppo lontano dalla sartoria, da dove riesco comunque a vedere quello che succede. Qualche bianco si affaccia timidamente da una finestra, da un balcone, da una porta di qualche esercizio, ma rientrano subito e chiudono. Però, non so come e non so da dove, qualche fratello nero che passa di lì vede la scena. Deve dare l’allarme e avvisare altri africani, perché nei minuti successivi una piccola folla si raduna attorno alla sartoria. Sono sia uomini che donne. Alcuni piangono, altri stanno zitti, sgomenti, non riescono ad aprire bocca né a dire una parola. Altri stringono i pugni, l’odio inizia a salire dalle viscere, il sangue arriva alla testa. Si guardano intorno circospetti, vorrebbero solo sapere chi ha fatto quello scempio per poterlo fare a pezzi.
Sia come sia, dopo un po’ arriva la polizia, quella vera, con le volanti a sirene spiegate. La differenza si vede: quelli non avevano auto della polizia, né indossavano delle vere e proprie divise. Nel frattempo, ho preso coraggio e sono sgusciato dal mio nascondiglio unendomi alla folla. Nessuno fa caso a me, sono solo un puntino fra centinaia, e la gente è in preda alla rabbia e all’odio. Non ho capito bene quello che è successo: forse qualcuno ha riferito che gli assassini indossavano pettorine della polizia? Sta di fatto che la massa nera fa quadrato intorno ai corpi. Li vuole proteggere troppo tardi, fuori tempo massimo, come se così potesse salvarli. I poliziotti vorrebbero avvicinarsi, ma si vede che sono spaventati. Alla fine, non so chi inizia a urlare:
– Polizia mafiosa! Italiani bastardi!
Alla fine, sempre più si uniscono al coro, diventa un ruggito, un boato. Tutti urlano, lo faccio anch’io, cercando di soffocare le lacrime e i singhiozzi. Può anche darsi che non tutti credano che la polizia abbia davvero fatto quello scempio: forse è solo uno sfogo più generale per tutte le angherie subite, anche dalla polizia. I poliziotti hanno paura, la folla riesce a tenerli a distanza almeno per qualche decina di minuti. Poi, un grido:
– È vivo, è vivo, questo si muove!
Qualcuno si deve essere avvicinato e deve aver notato che uno dei corpi si muoveva ancora ed emetteva dei lamenti. L’ambulanza arriva, fortunatamente abbastanza in fretta. Come una nuova coscienza di diffonde nella folla. Il buon senso sembra prevalere, e la folla si apre per far passare l’ambulanza e gli infermieri con la barella. Vi issano a fatica quel povero corpo sanguinante, poi la caricano a bordo, partono. Guardiamo l’ambulanza andarsene con tristezza e speranza: speriamo che se la cavi, almeno adesso è ancora vivo… Gradatamente, la stanchezza e la tristezza prendono il posto della rabbia, e piano piano la folla si disperde. Tutti tornano alle loro case. Qualcuno piange ancora, qualcuno si deve sorreggere agli altri per non cadere. Altri camminano davanti a sé in silenzio, come ebeti o automi. Anch’io, a malincuore, cerco di radunare le forze e mi dirigo verso il casolare in cui vivo. Non so cosa succederà domani, ma sento che una cosa è certa: non finisce qui. Non può finire così.

Una sera di settembre, solito villino. Sembra che l’azione del mese scorso non sia bastata al capo. Eppure abbiamo ferito diverse persone, ne hanno parlato i giornali: i nigeriani avranno capito il messaggio, no?
– Non hai capito un cazzo – dice il boss. – Dici che quelli hanno capito? Non penso proprio, c’è stato solo qualche ferito. Ci deve essere una cosa grossa, una cosa che faccia scalpore, una cosa di cui tutti si ricordino. Questi sporchi neri devono finalmente capire chi è che comanda qui. Prima lo capiscono, meglio sarà per loro.
– Ma che cosa facciamo? Andiamo a sparare agli spacciatori nigeriani? Ma è pericoloso: quelli possono essere armati quanto noi… Siamo sicuri di volerlo fare?
– Non sono mica così coglione. Non c’è bisogno di sparare a loro, quelli alla fine sono dei dritti come noi. Non ce n’è bisogno. L’importante è mandare un segnale, un segnale grosso. Tanto i neri sono tutti uguali, chi li distingue? L’importante è colpire la comunità, nel mucchio. Chi deve capire capirà sicuramente l’antifona. E poi può essere utile anche per fargli sloggiare dalla costa, dalle zone troppo turistiche.
– Perché?
– Ma non vedi che zona è questa? Già negli ultimi decenni hanno investito sul turismo: tanti casermoni, tanto cemento, ma non si è concluso nulla. Quei mostri di cemento sono diventati alveari per quelle larve di negri. Ma adesso sembra che qualche politico locale si sia svegliato, sembra che vogliano fare di questo litorale davvero una zona turistica. E ciò significa tanti soldi per noi con gli appalti, il pizzo sulle nuove attività, ecc…
– Ma cosa c’entrano i neri?
– Beh, c’entrano. Se non sloggiano da quegli alberghi abbandonati, come si fa a riqualificarli? E poi che zona turistica si può fare se è pieno di neri? Tu andresti in vacanza in un posto pieno di neri?
– Beh, no…
– Appunto, vedi che hai capito? Poi i miei contatti in politica me l’hanno fatto capire: se qualche negro si spaventa e se ne va, tanto di guadagnato. Rischiamo anche di prendere due piccioni con una fava, vedi che facile?
– Ma dove andiamo questa volta?
– Ci serve un posto tranquillo, un posto dove possiamo trovare diversi neri tutti insieme. Gente inerme, disarmata, buona per fare da bersaglio. L’importante è mandare un segnale, capito? Dove lo possiamo trovare un posto del genere?
– Mm fammi pensare… Forse ce l’ho: c’è una sartoria gestita da un nero a Ischitella, sulla Domiziana. La sera quella è sempre aperta, e c’è sempre un gruppetto di neri lì.
– Sicuro?
– Sicuro, sì. Ogni tanto tanto ci passo davanti e l’ho notata… c’è sempre qualcuno davanti, soprattutto nella bella stagione.
– Bene. Questa sera avranno una bella sorpresa.
‘O cecato accompagna l’ultima frase con un ghigno. Resto un po’ dubbioso a riflettere. In realtà non tutto mi è chiaro, ma che ci posso fare? Ormai sono in ballo e devo ballare. Una volta dentro, puoi ubbidire e basta.
Come al solito, tirata di cocaina per eccitarci e prepararci. Questa volta abbiamo pulito e oliato le armi proprio bene, di modo che non si inceppino come l’altra volta. Nei abbiamo sette od otto, dei gioiellini: due armi 7,62×39, il solito Kalashnikov, un Parabellum 9×19, e quattro semiautomatiche 9×19, 9×21 e 9×17. Penso ancora: ma serve tutto questo arsenale per andare a sparare a delle persone disarmate? Non ha importanza, se il capo lo dice bisogna fare così. Prendo le armi e mi avvio a uscire insieme agli altri. Prima di varcare la soglia, guardo l’immagine della Madonna di Pompei all’ingresso e mi faccio il segno della croce.
Il copione è più o meno simile a quello dell’altra volta. Arrivo a tutta velocità, sgommata, uscire dalle auto, fuoco. La cosa è velocissima, durerà circa 30 secondi. Dopo, un veloce controllo per vedere se sono tutti morti. Sembra di sì e si riparte. Andiamo così veloce che facciamo 30 chilometri in quattro minuti: dovrebbero metterci alla guida della Ferrari! Una volta arrivati mettiamo giù le armi e ci sediamo. Siamo tutti sudati, l’adrenalina ci esce dai pori. Un bicchiere di whisky per festeggiare l’azione riuscita.
– Bravi, ragazzi, abbiamo fatto un buon lavoro. Domani si parlerà di noi.

 

5.
Sapevo che la cosa non sarebbe finita lì. Non poteva finire quella sera, assolutamente. Non ho dormito quasi nulla, ho passato la notte in preda agli incubi. Le immagini della sera prima mi correvano davanti in continuazione: El Hadji, Kwame, Affun, Jeemes, Samuel, Christopher, Joseph. Un attimo prima che succedesse tutto poi, dopo, i visi buttati per terra. El Hadji e Samuel erano del Togo; Kwame, Affun, Christopher, Joseph erano ghanesi; Jeemes era liberiano. Paesi diversi, ma in questa occasione sono stati accomunati dall’avere la pelle nera e di essere stato comune bersaglio della mafia bianca. La mattina si è poi saputo che Joseph era quello ancora vivo: è grave in ospedale, ha perso molto sangue da delle ferite alle gambe, ma i medici dicono che se la caverà. È stato fortunato a essere colpito solo alle gambe e a finire subito per terra cadendo nella semi-incoscienza. Si è salvato perché gli aggressori l’hanno creduto morto.
I giornali del mattino, ma anche la tv e la radio che alcuni hanno sentito dicono che è stato un regolamento di conti fra clan di spacciatori. Le solite sciocchezze che vanno bene per tutto. Sappiamo benissimo che a Castel Volturno ci sono africani che spacciano, come in altri posti, ma questi ragazzi non c’entravano nulla: chi faceva il muratore, chi il carrozziere, chi il sarto, chi il bracciante. La maggior parte dei bianchi ci sono ostili o indifferenti, ma fortunatamente c’è una minoranza che ci sostiene, anche con comunicati ai media. Sono cattolici, comunisti, anarchici, qualche centro sociale. Mi sono sempre chiesto com’è possibile che persone così diverse ideologicamente avessero in comune la solidarietà con gli immigrati. Io non sono mai stato molto credente, ma certamente ho grande rispetto per questi cattolici italiani che ci sostengono.

La mattina in qualche modo mi alzo. Mi guardo intorno: mi sembra di essere in un altro mondo, come se quei muri sporchi, quei i poveri oggetti che vedo li stia vedendo adesso per la prima volta. In effetti tutto è cambiato nella mia vita, la mia vita non sarà più la stessa, dopo la strage che ho visto ieri e della quale sono stato testimone. Joseph poi testimonierà al processo, ma senza mai nominarmi. Non so se l’ha fatto perché onestamente non si ricordava di me (del resto, un trauma del genere può anche far perdere dei pezzi di memoria) o se l’abbia fatto intenzionalmente, capendo che se ero scappato e se non mi facevo vivo era perché evidentemente volevo restare nell’ombra. Gli sono sempre stato grato per questa sua discrezione, povero Joseph… l’ho avuto sempre nel cuore, peccato che è morto pochi anni dopo per cause naturali. Forse, per certi versi è stata una liberazione: le pallottole gli avevano distrutto le gambe ed era costretto a girare in stampelle. Un miracolo che non sia finito in sedia a rotelle, completamente paralizzato.
Non mangio niente, ma stranamente ho delle forze in me. Istintivamente e automaticamente mi incammino verso il luogo della strage. Pazienza per la giornata di oggi, non me ne importa nulla. Più mi avvicino e più vedo che intorno alla sartoria c’è un assembramento. Ci sono diverse centinaia di persone, tutte nere, sia uomini sia donne. Stanno intorno al luogo della strage, delimitato con delle strisce di plastica bianca e rossa. Per terra ancora le chiazze di sangue, intricati disegni tracciati col gesso intorno ai corpi e ai bossoli. I giornali hanno detto che hanno trovato oltre 125 bossoli: è un miracolo che Joseph se la sia scampata! La porta e la vetrina della sartoria è tutta bucata, a testimonianza della potenza che l’ha distrutta il giorno prima. La sartoria potrebbe essere benissimo infestata dai fantasmi: chissà che fine farà il locale… I sentimenti della folla sono un po’ quelli della sera prima: rabbia, tristezza, dolore, rassegnazione, odio. Qualcuno ha portato dei fiori, sono per terra vicino alle pozze di sangue.

Di questi sentimenti, comunque, nessuno è passivo. Ci siamo stancati di essere passivi. Dopo quello che è successo ieri, non lo possiamo più essere. Ora basta. Nessuno ha dato nessun ordine, nessuno ci guida. Ci muoviamo in modo completamente spontaneo, ma è come se fossimo un corpo solo, alimentato dalla stessa forza. Ci inseriamo compatti in mezzo alla statale e marciamo, occupando tutte le corsie. Se le macchine non possono andare, cazzi loro: noi dobbiamo dimostrare per i nostri fratelli morti. Le grida sono quelle della sera prima: «Polizia mafiosa! Italiani bastardi!». Grido anch’io, sinché le mie grida soffocano le lacrime e i singhiozzi. Il nostro corteo ha percorso ormai diversi chilometri, ma non ne abbiamo ancora abbastanza. Gli italiani devono capire che ne abbiamo abbastanza, che non vogliamo sopportare più. Ci vogliono azioni più decise, dimostrative. Di fatto il nostro serpentone umano ha bloccato il traffico, ed è già qualcosa. Ma non basta: vediamo dei cassonetti dell’immondizia, li rovesciamo con rabbia. Gli diamo fuoco con della benzina che abbiamo trovato a un distributore: sia i proprietari che gli autisti sono scappati per la paura.

Del resto, i napoletani spesso bruciano i cassonetti tanto per festeggiare: noi invece lo facciamo per un motivo serio. Ma non basta ancora. Vediamo due autobus. Li fermiamo, ci pariamo davanti. Gli circondiamo, facciamo capire all’autista che deve aprire le portiere e far scendere i passeggeri. Le portiere si aprono, i passeggeri scendono e scappano dove possono. Non facciamo loro alcun male: la nostra è una azione meramente dimostrativa, vogliamo solo spaventarli. In mano ad alcuni spuntano, bastoni, spranghe, tubi di ferro. Alcuni probabilmente provengono dalle baracche dove viviamo: molte sono dei cantieri interrotti e vi sono rimasti abbandonati materiali da costruzione. Altri sono i pali della segnaletica stradale che abbiamo divelto con la forza. La nostra rabbia si sfoga su alcune auto in sosta: prendo un bastone a due mani, lo porto sulla mia testa, all’indietro, poi lo scaglio in avanti con tutta la forza che ho. La carrozzeria si accartoccia, i vetri vanno in frantumi. Diverse macchine fanno la stessa fine. Non basta, le vogliamo rovesciare. Datemi un punto d’appoggio e con la leva capovolgerò il mondo, diceva Archimede. Appunto: diversi di noi usano le spranghe e i tubi di ferro come leve, rovesciando le automobili. Così, diverse finiscono capovolte in mezzo alla strada.
Ma non ne abbiamo ancora abbastanza, la nostra voglia di distruzione non è ancora placata. Capiamo che è uno sfogo pazzo, che nell’immediato questo non risolverà nulla, ma non possiamo fermarci. Vediamo le vetrine di diversi esercizi commerciali gestiti da italiani. Pensiamo alla vetrina crivellata di colpi della sartoria, pensiamo a quelle belle vetrine a cui non è successo nulla. Occhio per occhio: se significa qualcosa, deve essere dimostrato. Molte vetrine vanno in frantumi: i proprietari si barricano dentro o scappano terrorizzati. I poliziotti ci seguono e ci osservano a rispettosa distanza. Si vede che hanno paura di noi, hanno paura ad avvicinarsi: non sono abituati a vederci così uniti, arrabbiati, incazzati. Sembriamo delle bestie, ma siamo delle bestie che stanno urlando tutto il proprio dolore. Non ce la facciamo più. Dopo qualche ora, la nostra rabbia sembra scemare. Piano piano, abbandoniamo le nostri armi improvvisate e alla spicciolata ci avviamo verso i nostri tuguri.
Sappiamo che è finita la giornata, ma che non è finito tutto. Il giorno dopo i media diranno un po’ di tutto: alcuni si concentreranno sulla nostra violenza distruttrice, altri diranno che la causa è la camorra. È vero: dopo i primi dubbi, nella maggior parte di noi si fa strada l’idea che chi ha sparato non potevano essere poliziotti veri. Probabilmente erano camorristi travestiti da poliziotti. In questa zona nessuno a parte la camorra avrebbe potuto organizzare un’azione di fuoco del genere. Anche Roberto Saviano, uno scrittore anti-camorra che ho sentito nominare, commenta la cosa, insiste appunto sull’opposizione alla camorra. Lui ha parzialmente ragione, ma non completamente. Se noi immigrati soffrissimo solo a causa della camorra, staremmo freschi. Ma il nostro sfruttamento e la nostra oppressione vengono da tutto il sistema del razzismo di stato: dalla polizia, dalle questure, dal super-sfruttamento di noi braccianti, dai caporali.

Fortunatamente, nonostante le banalità di molti media, c’è qualche giornalista che almeno viene a sentire la nostra versione. A un intervistatore col microfono, uno di noi dice: «Quello che abbiamo fatto non è stato niente, è stato solo un avvertimento. Se dovesse riaccadere siamo pronti a tutto. Non è la prima volta che subiamo aggressioni, non è la seconda, la terza, non è la quarta. È una cosa continua. A me hanno sparato tre colpi in una gamba per derubarmi». Un secondo dice: «Quando io cammino per strada, mi chiamano bufalo. In un primo momento non capivo, ma ora sì…». È interessante cosa dice un migrante sudafricano. La sua presenza qui è particolare per diversi motivi: intanto, nonostante le incredibili ineguaglianze socio-razziali che ci sono in Sud Africa, che ne fanno uno dei paesi più ineguali nel mondo, il Sud Africa è comunque considerato il paese più ricco del continente, tant’è che riceve immigrazione da altri paesi africani, per esempio per lavorare nelle miniere.
Molti neri sudafricani preferiscono tentare di sbarcare il lunario nel proprio paese, poi l’Europa è davvero lontana. Rincara: «Molte volte anche se l’autobus è vuoto non si ferma, e dobbiamo aspettare anche una o due ore prima di salire… Me ne sono andato dal ghetto di Soweto per venire a Castel Volturno. Qui ho trovato la stessa situazione». Questo compagno che prima non conoscevo è di Soweto, il ghetto nero di Johannesburg, la capitale del Sud Africa. Questo ghetto è passato alla storia per la famosa rivolta di Soweto del 1976, quando degli scolari neri avevano protestato contro la polizia dell’apartheid armata di tutto punto: ci furono almeno 700 morti e un migliaio di feriti. È significativo che questo bracciante sudafricano abbia paragonato l’apartheid sudafricano all’apartheid che subisce in Italia: questo dovrebbe fare riflettere e smuovere la coscienza di qualche ascoltatore, ma non so se sarà così. Dopo, vengo a sapere che un altro bracciante sudafricano, Jerry Masslo, era stato assassinato in provincia di Caserta, non lontano da qui, nel 1989. All’epoca in Italia si parlava ancora poco di razzismo, e la sua morte fu un evento significativo. Dopo la strage di San Gennaro e la nostra rivolta di Castel Volturno, qualcuno di una tv locale aveva riscovato un’intervista fatta a Masslo prima che morisse:
– Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo c’è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo.
Vedendo quella vecchia immagine sbiadita sulla tv in un esercizio gestito da africani, non posso che pensare alla connessione fra Jerry Masslo e il sudafricano che ho conosciuto io a Castel Volturno, a come entrambi avessero avuto la stessa sensazione… Allora, in Italia hanno iniziato ad ammazzare neri prima del 2008…
Ma le lamentele degli immigrati non sono finite. Alcuni denunciano addirittura bagni separati per loro in alcuni bar: «In quel caffè, il bagno destinato a noi immigrati è un orinatoio addossato a un recinto, all’aperto, solo parzialmente coperto da un muretto di calce, con una enorme “W” dipinta in vernice nera». Il ghanese Michael dice ancora: «Voi italiani ci trattate come bestie, non ci lasciate usare i bagni dei vostri bar e poi vi scandalizzate quando pisciamo in strada; protestate se vedete le puttane nere sulla Domiziana ma poi pagate per andarci a letto». Un ultimo ribadisce: «Tutti sanno che su uccidi un nero non succede niente. Servono altre manifestazioni come l’altro giorno per capire i nostri problemi…».

Interessante poi che cosa fanno le cosiddette “istituzioni” dopo la nostra rivolta, che è passata alla storia come la rivolta di Castel Volturno. Il ministro dell’interno di allora, un parassita imbecille di un partito anti-immigrati, blatera come al solito che il problema sono i “clandestini” che vanno espulsi. Vanno espulsi, vanno espulsi, basta, e così si risolverà il problema. Naturalmente noi sappiamo quanto ci sia di falso in questa retorica. Noi clandestini serviamo, perché altrimenti nessuno fa le bestie da soma al posto nostro. Questo spiega perché, al di là della retorica, le espulsioni sono sempre meno di quelle annunciate (altrimenti, in Italia non ci sarebbero più immigrati…). In realtà, anche dopo la rivolta di Castel Volturno ci sono state ben poche espulsioni. Per correre ai ripari, il prefetto (una specie di rappresentante locale del ministero dell’interno) e altre autorità hanno organizzato un incontro con i nostri rappresentanti. Infatti, ci siamo organizzati in un movimento, per quanto informale, e abbiamo nominato dei nostri portavoce, anche se temporanei.

A questo incontro in prefettura assisto anch’io, ma resto sullo sfondo. Abbiamo scelto i nostri portavoce tra quelli che stanno in Italia da più tempo e che parlano meglio l’italiano. Il prefetto:
– Qui bisogna mantenere la calma, non può andare avanti così, bisogna riportare l’ordine.
– L’ordine e la calma non ci saranno mai se la situazione non cambia e se noi non otteniamo dei risultati concreti – risponde un nostro portavoce. – Chiediamo giustizia e diritti: non abbiamo alcuna intenzione di stare zitti e di lasciar perdere senza ottenere nessun risultato. Intanto, vogliamo che siano fatte delle indagini serie: quelli che hanno ucciso i nostri fratelli devono essere scoperti, devono pagare…
– Vi assicuro che faremo il possibile…
– Noi non ci fidiamo. Terremo alta la guardia e sorveglieremo l’andamento delle indagini. Giustizia deve essere fatta, altrimenti non finisce qui.
– Vi garantisco che…
– Ma abbiamo anche un’altra richiesta. Fra i membri del nostro movimento ce ne sono decine che non hanno il permesso di soggiorno. Non gli è stato rinnovato, o non l’hanno mai avuto, anche se ne hanno diritto. Noi vi forniremo una lista di queste persone: devono ricever il permesso di soggiorno.
– Vedrò che posso fare…
Sembra che tutto si sia svolto secondo i canoni descritti da Frantz Fanon nel suo libro I dannati della terra. A un certo punto, i colonizzati capiscono che possono ottenere qualcosa solo con la forza. Tutte le persone sulla nostra lista hanno ottenuto il permesso di soggiorno. È il primo passo, è l’inizio, ma ci mostra la direzione verso cui dobbiamo andare…
Novembre 2008, un paio di mesi dopo. Le autorità locali di Castel Volturno e Roberto Saviano hanno organizzato un concerto con la cantante sudafricana Miriam Makeba. È un nome che in Africa tutti conoscono: una cantante sudafricana che era stata esiliata per trent’anni dal regime dell’apartheid. Tutti i suoi dischi erano stati banditi in Sud Africa: le sue canzoni parlavano di libertà, di liberazione dei popoli coloniali… Le autorità hanno sicuramente organizzato il concerto anche per cercare di calmare le tensioni razziali che sono indubitabilmente esplose due mesi fa. La cosa mi lascia un po’ scettico, so bene che delle istituzioni non c’è da fidarsi. Ma vinco le mie remore e vado. Makeba ha 76 anni ma sa ancora il fatto suo. Possiede il palco e il pubblico, fatto in gran parte di neri: Pata pata, Malaika, Lumumba, Soweto Blues, A luta continua. Ricordo che i miei genitori cantavano queste canzoni quando pensavano alla liberazione dell’Africa, anch’io le ho cantate da piccolo. Quando me ne vado, ho una sensazione strana…
Il giorno dopo la notizia: Miriam Makeba è morta la notte del concerto, si era sentita male dopo l’esibizione. Penso a che cosa voglia dire questo simbolicamente. Non lo so, ma il Sud Africa e la lotta contro l’apartheid mi torneranno in mente in altre occasioni…

 

6.
2009. Dopo quello che è successo a Castel Volturno, ho deciso di nuovo di cambiare regione. Del resto noi tutti ci siamo abituati. Sono stato relativamente fortunato: in Calabria ho trovato lavoro a Rosarno, una zona piena di agrumeti. Le condizioni sono terribili e massacranti come nelle altre regioni in cui ho lavorato, ma se non altro nella stagione della raccolta degli agrumi il lavoro non manca. I paesaggi sono bellissimi e gli agrumi emanano un buon profumo, peccato che la schiena rotta non mi permette di apprezzarlo. La vita quotidiana va avanti con il solito trantran, come negli altri posti. Sveglia a notte fonda per cercare la giornata, viaggio in pullman sino ai campi, pasto serale (se va bene), poi un sonno pesante buttati su un giaciglio di fortuna. Questa volta ho trovato alloggio in una fabbrica dismessa chiamata la cartiera. Purtroppo, anche i soprusi e le violenze della popolazione locale e della sua mafia non sono diverse da quelle di altri posti. Soltanto, qui non la chiamano mafia ma ‘ndrangheta. Faccio anche fatica a pronunciare questa parola, non so come facciano gli italiani. Le rapine e i tentativi di estorsione sono frequenti, ma anche le sparatorie con armi da fuoco.
Solitamente sono colpi sparati per spaventarci, o a salve o con scacciacani, o comunque puntano alto. Da un lato abbiamo paura, dall’altro ci abbiamo un po’ fatto l’abitudine: ci buttiamo a terra, e quando i buontemponi se ne sono andati, ci rialziamo e continuiamo per la nostra strada. Solitamente, quelli che fanno questi giochetti sono o teppistelli qualunque, o giovani appartenenti alle ‘ndrine (cosche) locali. Anche qui, come anche a Castel Volturno e in altri posti, una delle lamentele più frequenti contro di noi è che le donne africane sono delle puttane. Naturalmente, anche qui ci sono ragazze africane che battono, ma sembra che nessuno nella comunità bianca si chieda se a loro piaccia fare quello che fanno, perché lo fanno, cosa devono subire, come sono trattate. Altrettanto assenti sono le riflessioni sul fatto che se anche qui non fosse pieno di uomini desiderosi di andare con loro, probabilmente non esisterebbero.
Un’altra lamentela che fanno contro di noi e che facciamo i nostri bisogni e ci laviamo davanti a tutti. Naturalmente a noi non piace fare i nostri bisogni come degli animali, ma non possiamo fare diversamente dato che viviamo solitamente in delle stamberghe senza bagno (per non parlare del fatto che spesso non ci è consentito usare i bagni pubblici). Lo stesso vale per la nostra igiene: a noi non fa per niente piacere lavarci nudi come vermi all’aperto quando qualunque persona che passa può vederci, abbiamo anche freddo, ma che possiamo fare? Ci farebbe piacere avere una vera doccia o una vasca da bagno, magari anche con l’idromassaggio, ma visto che non ce l’abbiamo dobbiamo arrangiarci. Però, c’è anche un’altra faccia della medaglia della quale si parla meno.
È vero che certi uomini italiani sono attratti dalle donne nere, ma raramente si dice che talvolta succede anche il contrario. Ad alcuni di noi è capitato incrociare delle donne sole al volante in delle strade sterrate. Uno sguardo ammiccante e un invito: vuoi venire a fare un giro? In realtà, molti di noi rifiutano, anche perché dopo 10-15 ore di lavoro si è talmente stanchi e abbruttiti al livello di animali che non rimane la forza né spirituale né fisica per fare certe cose. Poi c’è diffidenza e paura per quello che potrebbe succedere. Alcuni però accettano, e allora la donna bianca di turno sfoga le sue fantasie dentro l’auto, in mezzo ai cespugli, o se si ha ancora più fortuna in una villetta di sua proprietà. Chissà che vita “normale” fanno queste donne, che cosa penserebbero le persone che le conoscono se sapessero quello che fanno nella loro vita nascosta…
Nel gennaio 2010, però, a Rosarno si esagera con le persecuzioni contro di noi, ed è la goccia che fa traboccare il vaso. Degli stronzi sparano a dei nostri fratelli con armi ad aria compressa e li feriscono alle gambe. È il 7 gennaio. Per gli italiani, le Feste di Natale sarebbero finite il giorno prima con la Befana. Forse, questi stronzi hanno pensato di continuare anche il giorno dopo? Adesso, però, la nostra pazienza di esaurisce, qualcosa scatta. I primi scontri avvengono la sera dello stesso giorno. Ma è il giorno dopo che ci sono gli scontri più gravi con la polizia. Siamo circa duemila persone, parecchio incazzate (incazzati come negri, direbbero gli italiani). Lo si vede dalle nostre facce che non abbiamo più voglia di scherzare.

Io ho un passamontagna che indosso quando lavoro per proteggermi dal freddo. Anche adesso potrebbe essermi utile, e lo indosso. La maggior parte di noi vive in stamberghe e topaie fuori dal paese, quindi il nostro ingresso sembra una vera e propria invasione. Marciamo compatti, gridiamo: «No razzismo, no razzismo!». Uno di noi ha un cartello in inglese: Dogs Italy worth more than migrants: i cani italiani valgono più degli immigrati. Non posso non pensare quanto sia vero. Come a Castel Volturno, ci siamo armati di bastoni, spranghe, tubi di ferro. Nessuno di noi ha armi da fuoco, a differenza dei mafiosi locali e della polizia: non sapremmo nemmeno come usarle. Ancora una volta, mi vengono in mente le parole di Frantz Fanon nei Dannati della terra: quando c’è una condizione di violenza atmosferica, c’è sangue nell’aria. È proprio questa l’aria che si respira. Gli sguardi sono tesi, gli occhi iniettati di sangue. Le prime vetrine che incontriamo finiscono in frantumi. Dietro alcune di esse dei dolciumi zuccherosi e luccicanti, forse un retaggio delle feste. Se non possiamo averli, tanto vale distruggere. Lo stesso succede alle vetrine di alcuni negozi di giocattoli.
Molti di noi pensano ai propri figli in Africa che non vedono da anni e che a stento riescono a mangiare. Se non puoi avere, distruggi. Rovesciamo dei grossi vasi che troviamo per strada. Distruggiamo le macchine che troviamo per strada con sassi e sprangate. Ne bruciamo alcune con la benzina trovata in un distributore (anche lì, sono scappati tutti). Appicchiamo il fuoco anche ad alcuni cassonetti dell’immondizia (del resto, abbiamo capito che il alcune regioni del Sud Italia vi si appicca fuoco per divertimento). La cosa buona dei cassonetti è che hanno le ruote, coì li si possono spostare, rovesciare e fare delle barricate. Usiamo sia cassonetti che macchine per questo scopo, così riusciamo a fare alcune barriere o barricate. Sono utili soprattutto se in fiamme, così fanno più paura agli assedianti. Siamo invasi da una specie di gioia distruttiva. Pensiamo al fuoco purificatore, un elemento di distruzione e creazione allo stesso tempo. Eppure, sarebbero tanti i peccati da bruciare, non riusciamo neanche a farne il conto… Certamente, qui siamo di più e più incazzati che a Castel Volturno. La polizia non riesce a sopraffarci completamente, ma non può neanche starsene con le mani in mano. I poliziotti sono almeno qualche centinaio, coi loro caschi blu, scudi e manganelli. Fa impressione vederli schierati così, ma in realtà sappiamo che hanno paura di noi. Loro sono abituati a vederci con la testa china, come degli schiavi. Il fatto che ci ribelliamo li terrorizza, lo sappiamo. Lo sentiamo, lo vediamo nei loro occhi, anche quando sono schermati dalla visiera del casco.

Sparano lacrimogeni. Tolgono il fiato e prendono alla gola, bruciano gli occhi e danno una tosse bestiale. Cerchiamo di metterci un po’ d’acqua sulla faccia, resistiamo. Cercano di attaccarci con qualche carica, ma non è troppo convinta: noi rispondiamo con lanci di pietre, bottiglie e altri oggetti. Dopo un po’, abbiamo un’idea per resistere alle loro cariche. Quelli più determinati tra noi che hanno bastoni, spranghe e tubi di ferro si mettono in prima fila. Quando i poliziotti sembrano voler caricare, ciascuno tira fuori la propria arma e la tiene puntata verso il nemico, ben salda fra le mani e appoggiata al fianco, come se fosse una lancia. A prima vista, ciò spaventa i poliziotti, che non se lo aspettavano: la prima volta addirittura si fermano per la paura e tornano indietro. La lancia sembrerebbe un’arma da poco, ma non tutti sanno che ci fu un caso nella storia in cui una lancia abbatté un aeroplano: fu la lancia di un etiope che abbatté così un aeroplano italiano (che evidentemente doveva volare piuttosto basso e doveva essere alquanto sgangherato: ora capisco perché quello italiano veniva definito colonialismo degli straccioni…).
Chi ce la fa addirittura prende in mano e rilancia indietro i lacrimogeni: è davvero une bella sorpresa per loro! Il fumo che si diffonde fra le fila dei poliziotti li disorienta per un po’, e anche loro fanno una bella fatica a respirare, soprattutto con la testa chiusa dal casco. Altri di noi sono riusciti a fabbricare delle fionde rudimentali con le corde elastiche che usiamo per fissare le casse di frutta e verdura sui furgoni. Però funzionano bene: dopo un po’ di tempo per aggiustare la mira, alcuni frombolieri riescono a centrare con delle pietre la testa di alcuni poliziotti. Se beccati sul casco, si vede che accusano il colpo e barcollano, alcuni cadono anche. Un colpo particolarmente bene assestato colpisce una visiera e la frantuma. Sentiamo le urla dell’interessato: forse dei pezzi di vetro gli si devono essere conficcati nella carne della faccia, forse negli occhi. Un altro colpo prende un tipo distinto, non in uniforme ma in completo nero, cravatta e camicia bianca, che sta spesso al telefono: dev’essere un dirigente o qualcosa del genere. Il sasso lo prende in fronte e inizia a sanguinare copiosamente… è giusto che anche i dirigenti facciano un po’ di fatica!

Utilizziamo anche le famose bombe molotov, che riusciamo a fabbricare in modo rudimentale. Pieniamo una bottiglia di benzina, infiliamo uno straccio nel collo, gli diamo fuoco e buttiamo. Una volta una di queste bottiglie si spacca in pieno sulla schiena di un poliziotto. La divisa gli prende fuoco e lui si mette a urlare come un disperato prima di cadere per terra, mentre i colleghi cercano di spegnere il fuoco. Altre nostre bottiglie vanno a finire sulle camionette, che iniziano a bruciare. Per aiutarci nel lancio di oggetti, approfittiamo anche di alcuni terrapieni con ringhiera presenti nelle vie del paese. Praticamente, si tratta di strade sopraelevate sopra un muro, che guardano su un’altra strada più bassa. Gruppi di noi riescono ad appostarsi lassù mentre i poliziotti sono di sotto, e lì i lanci di pietre e bottiglie sono facilitati dalla forza di gravità. Durante una carica, un poliziotto scivola, si sbanda dagli altri. Finisce in mezzo a noi e i suoi compagni non se ne accorgono. Lo prendiamo a calci, pugni, colpi di bastone, gli urliamo: «Italiano sbirro di merda, così impari!». Non vogliamo ucciderlo, ma lo lasciamo per terra sanguinante. Direi che se l’è meritata, non possiamo sprecare con lui la nostra pietà.
Questi sconti mi fanno tornare in mente il bracciante sudafricano che avevo sentito intervistare a Castel Volturno. Al di là dei paragoni tra l’apartheid sudafricano e quello italiano, mi vengono in mente anche dei paragoni fra la resistenza dei neri sudafricani e la nostra. Quella resistenza era stata molto popolare nel continente ben oltre i confini del Sud Africa, se ne parlava molto anche nel mio paese. Questo fu perché l’apartheid continuò fino agli anni ’80 e ’90, quando il resto dell’Africa e del mondo si era decolonizzato. Pertanto, l’apartheid rappresentava una specie di anacronismo coloniale che ormai faceva specie anche a molti occidentali… Oggi Nelson Mandela è considerato una specie di figura pacifista, ma questa visione nonviolenta risulta comica per noi africani che conosciamo bene il suo curriculum politico (ho addirittura sentito che un calciatore italiano ha scritto la prefazione a un discorso di Nelson Mandela stampato dal quotidiano italiano Repubblica, dove appunto insiste molto su questo “pacifismo” di Mandela… se solo avesse letto il discorso, questo calciatore si sarebbe reso conto che le cose sono andate in modo un po’ diverso).
In realtà, nel 1960 il partito di Mandela African National Congress (ANC, Congresso nazionale africano), dopo decenni di lotta nonviolenta contro l’apartheid, si era rotto le scatole e aveva deciso di iniziare la lotta armata contro il regime di supremazia bianca. Quella lotta armata durò praticamente trent’anni e incluse non solo battaglie in campo aperto che pure vi furono (anche se spesso conclusesi tragicamente per il fronte anti-apartheid) ma anche attentati con l’esplosivo che non a caso venivano considerati terroristici. Ebbene sì, Nelson Mandela, il paladino della nonviolenza, fu in realtà a lungo considerato un terrorista, e per questo tenuto in prigione per 27 anni (insomma, era considerato un po’ come in Italia erano considerate le Brigate rosse). Finché all’inizio degli anni ’90 il regime di Pretoria aveva capito che stava per crollare e che era suo interesse trattare con una figura rappresentativa del fronte anti-apartheid, e liberarono perciò Mandela. Quella lotta armata fu molto popolare, narrata e forse anche mitizzata in altri paesi africani.

Prima di tentare il mio viaggio in Europa, ricordo che nel 2006 ero andato al cinema a vedere l’emozionante film Catch a Fire. La sceneggiatura di questo film fu scritta da Shawn Slovo, la figlia di Joe Slovo, attivista bianco figura di spicco dell’ANC e del suo alleato Partito comunista sudafricano. Il film parla di un nero sudafricano, operaio in una raffineria, che decide si sabotarla con un attentato dinamitardo. Avevo anche visto Kalushi, un altro film che parla di un sudafricano nero che si unisce alla lotta armata contro l’apartheid. Questi film emozionanti mi avevano ispirato, e avevo ammirato il coraggio, la dedizione e lo sprezzo del pericolo di quei combattenti. Non che quello che ho vissuto io in Italia sia identico, ma non posso fare a meno di pensare che un po’ di quel coraggio e di quella dedizione si sono trasferiti nelle rivolte di Castel Volturno e di Rosarno.
Gli scontri vanno avanti tira e molla per tutta la sera. Tra di noi ci sono diversi feriti, anche se non gravi. Tra noi ci sono laureati in Infermieristica, e anche persone che hanno fatto gli infermieri al proprio paese. Cercano di rappezzare come possono le ferite, con delle bende di fortuna. È pericoloso e si possono infettare, ma per ora non c’è niente da fare. Certamente a nessuno viene in mente di andare a farsi medicare all’ospedale. Alla fine quasi tutti noi riusciamo a sgusciare via alla spicciolata: le strade del paese che portano nei campi sono troppe e non possono essere controllate tutte, non ci sono abbastanza poliziotti.
Sappiamo che l’abbiamo fatta grossa. Agli inferiori non si perdona la ribellione, sappiamo che ci saranno delle conseguenze. Capita anche che alcuni gruppi di noi neri attacchino delle macchine all’uscita del paese, senza guardare neanche chi c’è dentro: la rabbia è cieca. Anche io assisto a una scena del genere. Un’auto si avvicina al paese. Diverse decine di noi la circondano, la prendono a colpi e a sassate. La carrozzeria si accartoccia, i vetri si incrinano. È buio e non si vede bene chi c’è dentro. Solo dopo un po’ mi rendo conto che al volante c’è una donna, con due bambini dietro che piangono e urlano. Cazzo! Mi rendo conto di cosa è successo. Mi metto a urlare:
– Fermi, fermi! Cosa state facendo? Non vedete che è una donna con dei bambini!?
Alcuni di noi si fermano con il braccio alzato. Mi guardano in cagnesco, gli occhi ancora iniettati di sangue. Io mi sono messo davanti alla macchina con le braccia spalancate, non posso permettere che succeda questo. Si vede che per una frazione di secondo sono combattuti sul da farsi. Fortunatamente, il buon senso ha la meglio: si rendono conto della cazzata che hanno fatto, lasciano cadere sassi e bastoni, fanno dietro front e si allontanano. Io urlo alla donna: «Vai, vai!». Lei all’inizio è troppo scossa, è terrorizzata. Poi capisce, preme il piede sull’acceleratore e fila via a tutta velocità. Mi sembra che sanguini dalla testa, forse deve aver sbattuto sul parabrezza quando ha frenato di scatto… Da un lato sono contento che non sia successo l’irreparabile. Da un lato penso quanto sia pericolosa la rabbia cieca, cosa possa succedere quando si perde il controllo. Dobbiamo stare attenti. Mi viene in mente un altro pezzo del libro di Fanon, in cui diceva: «Il colonizzato vuole prendere il posto del colono. Desidera dormire nel suo letto, preferibilmente con sua moglie». Ora capisco a cosa possono portare certi istinti e la rabbia cieca…

I principali scontri in campo aperto con la polizia si concludono nella giornata dell’8. Ora che parte della rabbia è sfogata, molti di noi pensano solo a nascondersi o a riprendere il lavoro come se niente fosse. Ma non è completamente possibile. Alcuni piccoli gruppi di noi hanno il dente troppo avvelenato, hanno preso coraggio e vogliono vendicarsi di piccoli mafiosetti e stronzetti che li hanno tanto angariati, insultati, rapinati e taglieggiati. Alcuni di questi gruppi si attrezzano con le solite armi contundenti e si appostano dove pensano di poter trovare i loro bersagli. Naturalmente, non hanno armi da fuoco, ma sanno che i loro avversari le possono avere. Pertanto, una volta avvistato il bersaglio, bisogna saltargli addosso prima che possa accennare a qualunque resistenza, ed eventualmente disarmarlo. Si cerca di coprirsi con cappucci, sciarpe, berretti, passamontagna, il collo rialzato dei cappotti frusti che indossiamo. Lasciamo i nostri bersagli per terra a lamentarsi. Sappiamo che la lezione è meritata, certamente si riprenderanno.
La cosa non finisce lì, naturalmente. Anche i bianchi di Rosarno sono arrabbiati, soprattutto mafiosetti e caporali, ma non solo: anche diversi rosarnesi che in linea di principio non ce l’hanno con noi ma che si sono spaventati della nostra resistenza, che hanno visto il paese mezzo distrutto, le macchine bruciate, le vetrine infrante, ecc. ecc. Ci sono poi i parenti delle persone ferite che non c’entravano nulla, come quella povera donna che sono riuscito a salvare. Sono comprensibilmente incazzati. Ho poi sentito da delle voci che in quei giorni polizia, carabinieri, persino i pompieri e il pronto soccorso erano praticamente non raggiungibili. Anche quando si riusciva a parlare con qualcuno, rispondevano: «Stia calmo, stiamo provvedendo». Mi immagino la paura, l’ansia, il terrore di una persona con un parente ferito e che non sa come curarlo. Pertanto, alcuni rosarnesi decidono di fare delle ronde di controllo. Anche loro si armano di corpi contundenti, ma qualcuno ha anche qualche pistola e qualche fucile. Si appostano a certi angoli di strada o fanno il giro di alcune strade del paese a certe ore.

Ormai la maggior parte di noi non ha più intenzioni bellicose, ma capita che ci vadano di mezzo persone che non c’entrano nulla. Capita che dei neri magari totalmente estranei agli scontri e che non vi hanno partecipato incontrino una ronda incazzata: allora sono botte, come al solito. A qualcuno va peggio e si becca qualche ferita da arma da fuoco, fortunatamente non grave. In tutto, ho saputo dai media che dopo gli scontri 53 persone sono rimaste ferite: 21 di noi, 14 rosarnesi e 18 poliziotti, otto dei quali ricoverati in ospedale. È anche capitato che alcuni rosarnesi che capiscono le nostre ragioni e che conoscono qualche nero che non ha fatto nulla lo abbiano nascosto, e gli abbiano dato rifugio in casa propria o in cantina. In un certo senso, quella che passerà alla storia come la rivolta di Rosarno è stata una grande lezione, ma non so quanto sarà capita, soprattutto dai bianchi. Certamente, almeno inizialmente la rivolta ha attirato su di sé l’attenzione dei media, che si sono precipitati qui.
Molti danno come al solito una versione distorta e semplificata degli eventi, ma c’è qualcuno che si prende la briga di intervistare anche qualcuno di noi, come a Castel Volturno. Un bracciante denuncia: «Siamo schiavi, i bianchi prendono 60-70 euro al giorno, ed io che faccio lo stesso lavoro prendo 30 euro perché sono nero». Uno che ha partecipato alla rivolta ne rivendica la legittimità: «Allora abbiamo deciso di risolvere noi la faccenda ribellandoci, in favore delle nostre vite. Se mi uccidono un fratello che faccio, resto a guardare? No, reagisco: se mi vieni a uccidere, io ti distruggo la proprietà. Noi dobbiamo proteggerci, in ogni modo… noi siamo pronti. E adesso trattiamo i giornalisti come i rosarnesi, perché non raccontate la verità agli italiani. Gli italiani pensano che siamo noi il motivo della rivolta, la causa sono i rosarnesi e voi giornalisti».

Un altro attacca anche lui i giornalisti: «O dite la verità o andatevene. Potete stare dalla nostra parte oppure andare». È interessante che alcuni rosarnesi hanno avuto una visione diametralmente opposta dei media, dicendo che si sono messi dalla parte degli immigrati. Ricordo di aver visto in tv un rosarnese che diceva: «Ve ne dovete andare, voi non siete cristiani con le palle assutta. Voi avete difeso i negri!». Pensandoci adesso a sangue freddo, devo dire che le rivolte sono state presentate in modo diverso. Sicuramente ci sono stati alcuni giornalisti più coraggiosi che hanno cercato di presentare le cause più complesse delle nostre rivolte, ma il discorso dominante e maggioritario è stato un altro, sempre il solito.

Alla fine, qual è stata la conclusione della rivolta di Rosarno? Dalle autorità di Roma e dal ministero dell’interno naturalmente è stata data la solita versione semplificata e talvolta stupida dei fatti. Le dichiarazioni ufficiali hanno dato la colpa sia alla mafia (certamente presente e colpevole, ma non colpevole unica della nostra situazione) sia all’eccessiva tolleranza verso l’”immigrazione clandestina”, continuando a far finta che sono le stesse leggi italiane che producono la c.d. “clandestinità”, che del resto è necessaria per fornire una colonia interna che bisogna sfruttare e spremere fino all’ultima goccia. Intanto, da Roma hanno mandato centinaia di poliziotti per arginare il rischio di ulteriori rivolte. A parte i continui posti di blocco, la tensione andava sciolta temporaneamente, in un modo mediaticamente eclatante ma che non toccasse nulla della situazione strutturale in cui la rivolta era maturata. Pertanto, il governo ha deciso di deportare centinaia se non migliaia di migranti in campi di concentramento o in altre strutture, comunque in altre località e regioni, lontano da Rosarno.
In fretta e furia hanno mandato decine di pullman a Rosarno (alcuni della polizia), dove i braccianti neri sono stati ammassati per essere portati via. Anch’io sono finito tra i deportati. Ricordo bene come sono stato caricato a spintoni su uno di quei pullman, con come bagaglio sono uno zainetto semi-vuoto. Da un lato c’è la soddisfazione per essersi ribellati, dall’altro la rabbia per essere deportati così, come per darla vinta al nemico, come se niente fosse accaduto: come se con un colpo di spugna si potesse cancellare quello che è successo. Sono in preda a sentimenti contrastanti. Esausto, stanco, arrabbiato ma anche soddisfatto mi accascio su un sedile. Vedo che una telecamera ci riprende, come se fossimo delle bestie in gabbia… Mi copro il volto con lo zaino e mostro il dito medio alla telecamera. È questo il mio saluto a Rosarno, al paese che mi deporta dopo avermi sfruttato come una bestia.
Quell’anno, dopo essere stato deportato in un’altra regione, mi sono dovuto arrangiare facendo altri lavori. Dopo un periodo come manovale nell’edilizia, ho fatto per molti mesi il facchino nella logistica. È un lavoro molto pesante, si tratta di caricare e scaricare merci in dei grandi magazzini che sembrano dei labirinti. Il lavoro è massacrante come al solito, si inizia la mattina presto, ma ho l’occasione di conoscere tanti migranti di tanti paesi. Naturalmente sono sempre senza permesso di soggiorno, pertanto il mio lavoro è completamente in nero e senza nessuna garanzia. In quel periodo, però, stavano iniziando le lotte dei sindacati di base, che si erano intestarditi a mobilitare e sindacalizzare i lavoratori migranti su basi di lotta. Io ho visto solo l’inizio di quel movimento, dato che ho fatto il facchino sino all’autunno-inverno del 2010. Che cosa è successo? Come al solito, tra noi migranti le voci corrono. Nonostante tutte le baggianate dette dai media, gira voce che a Rosarno e dintorni hanno un disperato bisogno di braccia per l’ormai incipiente stagione degli agrumi. Le deportazioni di noi neri andavano bene all’improvviso per scaricare momentaneamente la tensione, ma il problema è che l’agricoltura italiana non può fare a meno di noi, e noi lo sappiamo bene.
Il problema è sempre quello: gli italiani questi lavori non li fanno, e al di là di tutta la retorica sulla rivolta, non è stato certo quello a fargli cambiare idea. Pertanto, decido di tornare. Sempre col mio piccolo bagaglio, salgo su un pullman a basso costo che mi porterà giù. Quando arrivo, vedo che quasi niente è cambiato. Per fare un po’ di scena, hanno abbattuto la cartiera dove abitavano molti di noi, ma noi braccianti continuiamo comunque ad abitare in casolari abbandonati, vecchi depositi e altre sistemazioni di fortuna. Ho sentito che hanno speso centinaia di migliaia di euro per fare una tendopoli. Penso che con quei soldi avrebbero potuto garantirci una sistemazione molto più dignitosa nelle molte case sfitte del paese che è stato dissanguato dall’emigrazione della popolazione locale, ma evidentemente non era quella l’intenzione. Trovo alcuni degli amici di prima. Da un lato l’orgoglio per essersi finalmente battuti, per aver fatto vedere che esistiamo, ma anche il rammarico perché sembra che la cosa sia finita lì. Ma anche il piacere di trovare vecchi compagni. Il primo giorno di lavoro mi alzo a notte fonda, come al solito. Le cassette sono sempre pesanti, le ossa e i muscoli fanno sempre male. A un certo punto, vedo il sole che sorge da uno dei monti circostanti Rosarno. Mi chiedo che cosa voglia dire quest’alba… Alba su che cosa? Su un nuovo periodo della mia vita? Su una nuova epoca? Non so. Una storia è finita, ma la Storia continua.

 

Share

Inferno a Rosarno è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

]]>