Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 30 Jun 2025 20:00:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Come insetti sui margini del mondo https://www.carmillaonline.com/2025/06/30/come-insetti-sui-margini-del-mondo/ Mon, 30 Jun 2025 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88530 di Sandro Moiso

Nic Pizzolatto, Galveston, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 287, 18 euro

«Sto morendo», le dissi «Tocca a tutti, prima o poi». (Nic Pizzolatto, Galveston)

Sicuramente è un cliché piuttosto diffuso, nel cinema e nella letteratura, quello del duro o del killer, più o meno ex, che si sorprende ad essere stanco del proprio lavoro e che per una ragazza incontrata per caso si illude di aver trovato finalmente una buona causa per cui combattere e un significato per la propria, fino quel momento, inutile esistenza. Come al solito, però, c’è modo e modo di raccontare la [...]]]> di Sandro Moiso

Nic Pizzolatto, Galveston, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 287, 18 euro

«Sto morendo», le dissi
«Tocca a tutti, prima o poi».
(Nic Pizzolatto, Galveston)

Sicuramente è un cliché piuttosto diffuso, nel cinema e nella letteratura, quello del duro o del killer, più o meno ex, che si sorprende ad essere stanco del proprio lavoro e che per una ragazza incontrata per caso si illude di aver trovato finalmente una buona causa per cui combattere e un significato per la propria, fino quel momento, inutile esistenza. Come al solito, però, c’è modo e modo di raccontare la stessa storia e Nic Pizzolatto, già autore e sceneggiatore delle prime tre stagioni di una serie di culto come “True Detective”, e produttore della quarta, sa benissimo come riaccendere l’attenzione del lettore intorno ad una trama che potrebbe, all’inizio, apparire come fin troppo scontata.

In realtà, però, sullo sfondo degli stabilimenti petroliferi della Louisiana e delle piattaforme per l’estrazione del petrolio nel golfo del Texas, si consuma un dramma che ha ben poco di eroico e in cui, come già succedeva nella scurissima serie televisiva, i riferimenti agli action movie e alle sparatorie di carta da cui i protagonisti escono, quasi sempre, ammaccati ma vincitori sono drasticamente esclusi.

E’ un mondo di piccoli insetti, parassiti e non, di scarafaggi senza scampo una volta che si accenda una luce su di loro e sulle loro misere esistenze, quello che Pizzolatto porta alla ribalta nelle pagine di un romanzo il cui riferimento più prossimo sembrerebbe essere Angeli di Denis Johnson (Feltrinelli, 1987 – prima edizione in lingua originale: Angels, 1977), anch’esso triste e privo di speranza alcuna. Una mancanza di prospettive o almeno di vie di fuga di cui il cancro ai polmoni che mina il respiro e l’esistenza del protagonista sembra essere la metafora più efficace.

Romanzi in cui il proletariato marginale, il “famigerato” lumpenproletariat di marxiana e mal compresa memoria, cerca inutilmente di sottrarsi ad un destino cui un dio ignoto e malvagio sembra averlo condannato fin dall’infanzia, senza alcuna speranza di riscatto. Un’infanzia, almeno quella di Roy, l’io narrante di Galveston, e del suo vicino di stanza di motel, il tossico Tray, fatta di affidi e di lavori “forzati” nei campi di cotone spacciati come “programmi di integrazione sociale”, ma destinati soltanto a rimpinguare le fila degli emarginati. A cui non sfugge neppure la co-protagonista ancora adolescente, ma già abituata alla vita di strada e alle violenze in famiglia, Rocky.

Nic Pizzolatto non ha qui bisogno, al contrario della prima serie di True Detective, di citare Il Re in giallo di Robert Chambers per evocare il male. Questo sgorga dalle lattine di birra schiacciate sull’asfalto, dai bicchieri e dai piatti di plastica abbandonati sulle spiagge grigie, dai distributori abbandonati, dai banconi di bar davanti ai quali, all’improvviso, un vecchio alcolista può crollare stecchito, senza una parola. Il male americano sembra nascondersi ovunque, soprattutto nelle desolation row dove prosperano soltanto l’ignoranza e le vite più miserabili e non soltanto là dove, secondo altri cliché più che usurati, sono acquartierati il potere e la ricchezza.

Non ci sono i paesaggi mitici dell’Ovest nel libro, anche se questo si svolge per la maggior parte in Texas e non c’è alcuna forma di romanticismo che possa funzionare per alleviare il dolore della vita o, almeno, della sua memoria mitica. Chi ce l’ha fatta non vuole più avere nulla a che fare, nessun contatto, neppure alcun ricordo, con chi è rimasto di là dal fiume. Fiume non di acque limpide, ma torbide di violenza, miseria, paura, sofferenza, viltà, dipendenza alcolica o tossica per il cui attraversamento non esistono ponti, se non quello da cui si è buttata la madre di Roy, già travolta dalla morte sul lavoro in uno stabilimento petrolchimico del marito, ma non padre di quello che sarà il loro disgraziatissimo figlio.

Ancora una volta la polizia è impotente nella salvaguardia degli ultimi e, forse non è neppure interessata a farlo, a meno che questi non abbiano informazioni da vendere, mentre i bambini più piccoli sono sballottati, attraverso un mare di menzogne, programmi televisivi, finzioni, affidi famigliari e sogni di successo che poi, troppo spesso, la società non sa e non può compensare con altro che la rivelazione di verità troppo scomode e drammatiche.

E’ un romanzo, quello di Pizzolatto, di cui non si può dire di più per non guastare la lettura di una vicenda che attanaglia il lettore con una trama che si snoda su due piani temporali diversi, distanziati di vent’anni, tra il 1987 e il 2008, costellata di rovine non solo umane ma anche naturali; con l’uragano Katrina che nel 2005 contribuì a sommergere le parti più povere e popolari di New Orleans1 e l’uragano Ike che percorse le coste atlantiche del Texas nel 2008. Un panorama di rovine che mostrano come anche nel cambiamento climatico siano gli ultimi a pagare i costi più elevaati. Anche soltanto per il fatto, come per i protagonisti delle vicende narrate, di non avere altri posto verso cui fuggire o a cui ritornare. Sradicati come gli alberi spezzati dal vento e dalle tempeste.

La giovane Rocky si prostituisce e ha ucciso il patrigno, i pensieri di Roy per lei non sempre sono “puri” e la visione delle donne di questo killer minore e abbruttito non può piacere al mondo “woke”. Anche i “negri” sono definiti come tali, perché non ci possono essere troppe raffinatezze o merletti nel linguaggio degli esclusi. La cultura del perbenismo o anche soltanto una larvata forma di coscienza sociale o di classe appare ben lontana da loro ed è proprio questo aspetto che occorre sottolineare nella recensione di un romanzo che vale assolutamente la pena di leggere. In fin dei conti, come arriva a pensare il protagonista: «Avevo sempre avuto una buona manualità, e sapevo saldare, montare tubi, smontare un motore, tirare pugni, sparare, ma cominciavo a capire che certe abilità non avevano fatto altro che limitarmi, mi avevano reso una funzione, un utensile»2. Una condizione proletaria che si barcamena tra delinquenza e lavori di saldatura su quelle piattaforme che costituiscono l’unico altro orizzonte della sua vita

Proprio per questi motivi la scelta elitaria di escludere vocaboli e comportamenti, per quanto odiosi, dalla trama e dai discorsi della realtà non serve ad altro che allontanare ancora di più chi appartiene alle schiere degli ultimi, e che mai saranno ammessi al regno dei cieli, dalle vicende di un mondo sempre meno “concreto” e sempre più classista e perbenista. Una storia che lascia l’amaro in bocca, ma che ha il merito di ricordarlo ai lettori, senza troppi giri di parole e senza inutili e ideologici sermoni.


  1. Sulle conseguenze sociali di quell’evento si veda: R. Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, ombre corte, Verone 2019.  

  2. N. Pizzolatto, Galveston, Edizioni minimum fax, Roma 2025, p. 266. 

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Un’anomala discronia https://www.carmillaonline.com/2025/06/29/unanomala-discronia/ Sun, 29 Jun 2025 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89383 di Paolo Lago

Domenico Conoscenti, Manomissione, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2025, pp. 221, euro 16,00.

Domenico Conoscenti, con il suo recente romanzo Manomissione, realizza un interessante esperimento: crea, cioè, una sorta di anomala discronia intessuta di un realismo immaginario che racchiude – come leggiamo nel risvolto di copertina – “in un unico arco temporale momenti diversi di un trentennio di democrazia, proponendosi al lettore come un paradossale romanzo storico”. Siamo in un’Italia governata da un “cancelliere” che ricorda molto da vicino il “Grande Fratello” di orwelliana memoria e si potrebbe pensare di trovarsi in una specie di futuro [...]]]> di Paolo Lago

Domenico Conoscenti, Manomissione, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2025, pp. 221, euro 16,00.

Domenico Conoscenti, con il suo recente romanzo Manomissione, realizza un interessante esperimento: crea, cioè, una sorta di anomala discronia intessuta di un realismo immaginario che racchiude – come leggiamo nel risvolto di copertina – “in un unico arco temporale momenti diversi di un trentennio di democrazia, proponendosi al lettore come un paradossale romanzo storico”. Siamo in un’Italia governata da un “cancelliere” che ricorda molto da vicino il “Grande Fratello” di orwelliana memoria e si potrebbe pensare di trovarsi in una specie di futuro distopico alla “1984”. Ma così non è perché Conoscenti, con maestria, crea un interessante pastiche in cui vari piani temporali si confondono e si contraggono. Non sveleremo nulla della trama, la quale assume le intricate spirali tipiche di un giallo noir, che si può abbozzare a grandi linee come segue: è passato non molto tempo da una “manifestazione” in cui è emersa una brutale violenza delle forze dell’ordine e l’ex insegnante omosessuale Leonardo Lascari si trova coinvolto in uno strano caso di omicidio. Leonardo viene ripetutamente interrogato da Rosaria Petrotta e da Demetrio Lojacono, rispettivamente commissario e sovrintendente di polizia, in interrogatori che possiamo leggere nei capitoli dispari, introdotti dal titolo “Trascrizione filmato QF 0…” seguito da un numero crescente.

Fermo restando che Manomissione è poco restio a essere incluso nella gabbia di un genere (né giallo, né noir, né distopia o discronia, e neppure romanzo storico), i capitoli relativi agli interrogatori possono far venire in mente un universo del futuro già obsoleto, una fantascienza venata di senescenti macchinari legati al passato: si può pensare, allora, agli interrogatori dei potenziali androidi in Blade Runner (1982) di Ridley Scott e, sempre nello stesso film, all’ufficio del capitano Bryant, inserito in un futuro che è anche contemporaneamente putrescente passato. Si tratta di uno spazio saturo di vecchi e desueti schedari, video dagli schermi rétro e lampade stile anni Cinquanta. È un passato emerso dal futuro, come vediamo anche negli uffici del National Organ Registry di Crimes of the future (2022) di David Cronenberg, in cui si muovono due oscuri e ambigui burocrati. E se l’anomala discronia messa in scena da Conoscenti può, per certi aspetti, far pensare anche ad un futuro in cui vige una onnipervasiva dittatura orwelliana, come quella allestita da Liliana Cavani ne I cannibali (1970), in cui le strade di Milano sono piene di cadaveri insepolti per volontà del regime, quello stesso futuro è pieno di passato, come nei film sopra citati. È un non tempo in cui convergono non solo eventi tragici ed oscuri degli ultimi trent’anni, come leggiamo nel risvolto di copertina, ma in cui ritroviamo anche idee, mentalità, atteggiamenti tipici dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, legati strettamente al ventennio fascista. Sembra che l’Italia non possa mai liberarsi di un pensiero violento derivante da quei terribili anni, né nel futuro, né tantomeno nel presente, e neppure in un’epoca discronica immaginaria.

Il potere e i suoi accoliti, nel mondo messo in scena da Manomissione, sono intrisi di patriarcato e di omofobia, di paura del diverso e del sovversivo: quest’ultimo è oggetto di costruzioni stereotipe e incasellate nate appunto in quegli oscuri anni Cinquanta e Sessanta che puzzavano ancora di clericofascismo. Basta dare uno sguardo all’illuminante inchiesta realizzata da Pasolini con Comizi d’amore (1964), in cui emerge un’Italia moralistica e impaurita dalla diversità sessuale. Questa sacca oscura di vetusta ideologia, e anche di razzismo, in Italia non è mai morta, e oggi è più viva che mai. Azzeccata è quindi l’ambientazione italiana presente in Manomissione; tanto più che la “manifestazione” a cui nel libro più volte si fa riferimento e in cui Gaetano, compagno di Leonardo, ha trovato la morte per mano di un poliziotto, è una chiara allusione a Genova 2001, un altro momento in cui quell’oscura ideologia mai morta ha cantato i suoi funerei fasti.

A fare da pendant con i capitoli dispari (significativamente riportati in numeri romani, con un’allusione ulteriore al Ventennio), in cui leggiamo degli interrogatori riportati con linguaggio tecnico e burocratico (introdotti da versi di canzoni contestatarie degli anni Sessanta e Settanta), ci sono quelli pari, in cui il personaggio di Leonardo Lascari parla in prima persona esprimendo i suoi dubbi e le sue angosce, quasi rivolgendosi direttamente al lettore in un’allusione continua alla composizione proemiale dei Fiori del Male di Baudelaire (“ipocrita lettore, mio simile, fratello!”). E allora lo stile cambia: a quello burocratico e spezzato, dialogico e meccanico, laddove molte frasi dette nei dialoghi si interrompevano senza un perché e, nonostante queste interruzioni, i personaggi (come inceppate intelligenze artificiali) sapevano già cosa si sarebbe detto, subentra uno stile narrativo e poetico, lento e cadenzato, in cui trovano spazio le confessioni più intime e private. E in cui emerge, anche, il desiderio di essere lontano da quell’anomala discronia, da quell’Italia del futuro-passato, in cui ormai anche agli inizi di Novembre è sempre estate e ci sono trenta gradi. Un caldo che non lascia tregua e che sembra quasi un’appendice incorporea, da “iperoggetto” impalpabile (per utilizzare un’espressione coniata dal filosofo Timothy Morton), dell’ideologia gretta e meschina del potere.

E gli altri? Cioè, il resto della popolazione che non compare nel romanzo? Come stanno, cosa fanno, sono assuefatti totalmente all’ideologia imposta dal “cancelliere” (si legge forse “cavaliere” nella realtà?), esclusi i pochi consapevoli resistenti? C’è l’atroce sospetto che la risposta a questa domanda sia positiva. Sono tutti assuefatti, silenti e magari anche contenti. Dei trenta gradi, del caldo anomalo e di tutto quell’apparato d’ordine, sicurezza e controllo sociale imposto dall’alto. E se c’è un riferimento all’oggi e a questa realtà (che ha da tempo archiviato in peggio qualsiasi cancelliere o cavaliere), come sottilmente sottolinea più volte lo stesso autore, è puramente casuale.

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Dove il mysterium si fa tremendum https://www.carmillaonline.com/2025/06/28/dove-il-mysterium-si-fa-tremendum/ Sat, 28 Jun 2025 20:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89226 di Chiara de Stefano

Rachel Ingalls, Benedetto è il frutto, trad. di Giovanna Granato, pp. 274, € 20, Adelphi, Milano 2025.

Nel panorama della letteratura americana contemporanea, che in autori come Wallace e Franzen s’incornicia nell’iperazionalismo scientifico, Rachel Ingalls con Benedetto è il frutto pare provenire da un Altrove mutabile, in cui l’ordinario pulsa di irrequietudine e il reale viene scosso da un’irruzione del perturbante e del metafisico. Composta da cinque racconti, la raccolta si offre come una parabola infetta, breve e impietosa, talora asettica nella sua tessitura, ma gravida di presagi e di simbolismi oscuri. Come nei racconti di Robert [...]]]> di Chiara de Stefano

Rachel Ingalls, Benedetto è il frutto, trad. di Giovanna Granato, pp. 274, € 20, Adelphi, Milano 2025.

Nel panorama della letteratura americana contemporanea, che in autori come Wallace e Franzen s’incornicia nell’iperazionalismo scientifico, Rachel Ingalls con Benedetto è il frutto pare provenire da un Altrove mutabile, in cui l’ordinario pulsa di irrequietudine e il reale viene scosso da un’irruzione del perturbante e del metafisico.
Composta da cinque racconti, la raccolta si offre come una parabola infetta, breve e impietosa, talora asettica nella sua tessitura, ma gravida di presagi e di simbolismi oscuri. Come nei racconti di Robert Aickman o di Henry James, l’inspiegabile si deposita tra le pieghe del gesto quotidiano, dell’oggetto ordinario: un forno, una tazza, una telefonata. C’è però in Ingalls una sapienza del non detto che si avvicina a quella di Katherine Mansfield, ma la tinge delle tinte vermiglie del maleficio. L’ordinario è, dunque, un esorcismo vano.
Il titolo stesso, Benedetto il frutto, è estratto dalla liturgia mariana, ma suona qui come un versus inversus, un’eco sacrilega: il frutto del grembo, anziché salvifico, è presagio, fardello, segnale di un mondo irredimibile e fatale. Come accade nella pittura di Grünewald, la carne diviene teologica, ma decomposta, staccata dalla gloria e restituita al silenzio primordiale. L’elemento soprannaturale non irrompe mai in forma spettacolare, ma si insinua attraverso sguardi sfalsati gesti meccanici, dettagli stonati.
Nel racconto eponimo che inaugura la raccolta, Benedetto è il frutto, un giovane monaco, in seguito a un incontro carnale con l’arcangelo Gabriele, rimane incinto: il processo di femminilizzazione biologica che lo trasforma, giorno dopo giorno, in una donna, è calato in un’atmosfera che sembra mutuare l’allucinazione cristologica di Flannery O’Connor. La blasfemia è però solo apparente: ciò che conta, in realtà, è la restituzione di un corpo che si fa mistero e del mistero che si fa carne.
In Amici in campagna, invece, la tensione si articola in una struttura da incubo lynchiano: una coppia borghese accetta un invito a cena in una villa sperduta, dove ogni dettaglio si fa ambivalente e ogni gesto è ambiguo, ma carico di minaccia. Al ritorno, nella nebbia che sembra uscita da un sogno di Friedrich, i due vengono assaliti da una moltitudine di rospi carnivori. Un finale che ricorda quello del film Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson per l’impressione che il reale stesso, stanco della propria coerenza, ceda alla febbre dell’arbitrario e divori finalmente l’umanità intera.
Ma è con In flagrante che Ingalls raggiunge una delle sue vette più perturbanti: una casalinga scopre che il marito, scienziato, ha creato una bambola perfettamente umana per appagare i suoi ardori lombari. Lei, lungi dal provare indignazione, reclama un analogo giocattolo sessuale maschile. Ma una volta ottenuto, giunge all’amarissima constatazione che quel “bambolo” è, al massimo, «interessante quanto un vibratore». L’ironia è feroce, quasi swiftiana e affonda il bisturi nel cuore delle relazioni post-umane, là dove il desiderio si smarrisce nella meccanica della replica, ma la le logiche del tradimento e della vendetta rimangono immutate.
Lo stile di Ingalss è al contempo piano e straniante, domestico e spettrale: il reale, nelle sue mani, è sempre sull’orlo del disfacimento, minacciato da epifanie aberranti o da incrinature che si spalancano improvvise nell’ordito del quotidiano. Nei racconti emerge un’attenzione chirurgica alla logica dell’assurdo che si manifesta con impassibilità e lambisce sempre il sacro. C’è qualcosa di conradiano in questa discesa nella zona cieca della mente umana, ma è sempre filtrata da uno sguardo squisitamente femminile, che fa della claustrofobia domestica il teatro del soprannaturale.
Le tematiche quasi visionarie precorrono molte delle ossessioni del nostro tempo: l’ambiguità del corpo, la fluidità dell’identità, il perturbante che nasce non tanto dall’eccezionale, quanto dal familiare che si sfalda e lascia spazio all’assurdo come forma superiore della verità. Ingalls armeggia con un realismo spoglio, quasi beato nella sua povertà verbale, per slittare – senza enfasi alcuna – nell’incubo, nella zona del sacro contaminato di Rudolf Otto, dove il mysterium si fa tremendum.
Siamo dinanzi dunque a una narrativa liminale con richiami al manierismo morale latente, gnostico, attraversata altresì da un senso di separazione ontologica dal bene in cui – come nelle migliori narrazioni di genere – ciò che inquieta non è tanto l’evento in sé o la sua irruzione, quanto il modo in cui esso si deposita, silenzioso e definitivo, nella psiche del lettore.

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Il reale delle/nelle immagini. Trump e il ruolo politico delle nuove immagini https://www.carmillaonline.com/2025/06/27/il-reale-delle-nelle-immagini-trump-e-il-ruolo-politico-delle-nuove-immagini/ Fri, 27 Jun 2025 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88928 di Gioacchino Toni

Andrea Rabbito, Pictorial Trump. Il ruolo politico delle nuove immagini, Introduzione di Ruggero Eugeni, Postfazione di Roberto Revello, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 180, € 14.00

«Il pubblico […] si abbandona alla prima virtù dello spettacolo, che è quella di abolire ogni movente e conseguenza: non gli importa ciò che vede ma ciò che crede». Così scriveva negli anni Cinquanta del secolo scorso Roland Barthes (Miti d’oggi, 1957) a proposito del wrestling, uno «spettacolo eccessivo» costruito su di una successione di attrazioni immediate non necessariamente connesse tra loro e in cui «non c’è problema di verità».

Come scrive Ruggero [...]]]> di Gioacchino Toni

Andrea Rabbito, Pictorial Trump. Il ruolo politico delle nuove immagini, Introduzione di Ruggero Eugeni, Postfazione di Roberto Revello, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 180, € 14.00

«Il pubblico […] si abbandona alla prima virtù dello spettacolo, che è quella di abolire ogni movente e conseguenza: non gli importa ciò che vede ma ciò che crede». Così scriveva negli anni Cinquanta del secolo scorso Roland Barthes (Miti d’oggi, 1957) a proposito del wrestling, uno «spettacolo eccessivo» costruito su di una successione di attrazioni immediate non necessariamente connesse tra loro e in cui «non c’è problema di verità».

Come scrive Ruggero Eugeni nell’Introduzione al volume di Andrea Rabbito, non è difficile vedere nel wrestling il modello comunicazionale di Trump: «Spettacolarità, eccesso, immediatezza, presenza scenica, montaggio velocissimo di gesti enunciazionali, sostituzione della verità con l’efficacia» (p. 13).

Incurante della verità, Trump adatta gli eccessi spettacolari al contesto delle immagini algoritmiche contemporanee che in lui, scrive Eugeni,

funzionano in quanto modelli efficaci del mondo e quindi strumenti di orientamento delle scelte collettive perché trasformano il mondo non solo in immagine, ma nel suo proprio spettacolo. Le immagini algoritmiche vengono cioè messe al servizio di una spettacolarizzazione quotidianamente ripetuta del mondo; una spettacolarizzazione sguaiata che rilancia ossessivamente il ruolo di potere del Presidente; e il cui livello di probabilità scompare a fronte del lancio eclatante, di quella “verità enfatica del gesto nelle grandi circostanze della vita” di cui parla Baudelaire nella citazione che apre l’articolo di Barthes (p. 13) .

Rabbito guarda alla costruzione e alle strategie di utilizzo dell’immagine come simbolo del Potere da parte di Trump rapportandola all’ascesa dei nuovi media e delle nuove immagini contraddistinte da specifiche modalità di produzione, circolazione e fruizione. Per quanto possano apparire bizzarre, le modalità con cui l’attuale Presidente degli Stati Uniti si presenta ai media, dunque al proprio Paese e al resto del mondo, derivano da una strategia di immagine che, sin qua, sul fronte interno, ha saputo intercettare aspirazioni e frustrazioni presenti in una fetta consistente della popolazione con l’ambizione di plasmare, un poco alla volta, l’immaginario statunitense ben oltre il suo elettorato.

Rispetto al primo mandato, Trump non si è limitato ad adottare modalità e slogan sopra le righe in campagna elettorale per poi “normalizzarsi” una volta ottenuto il successo; pur tra mille contraddizioni, tra bluff, menzogne, repentini cambi di rotta, negazione dell’evidenza, ripensamenti e azzardi, il secondo mandato si è aperto all’insegna del mantenimento della radicalità espressa durante la ricerca del consenso per assicurarsi la vittoria.

L’immagine con cui Trump si presenta ai media è all’insegna della rottura rispetto alle consuetudini. Basti pensare alle messe in scena inusuali con cui è solito mostrarsi in conferenza stampa insieme a qualche collaboratore, nei colloqui con personalità politiche straniere o, persino, nel recente e surreale ricevimento della squadra di calcio di Elkann mentre, con i calciatori in piedi alle sue spalle, come nulla fosse, seduto, discute di scenari di guerra con i giornalisti. Si tratta di modalità utili a rafforzare l’immagine di Potere di Trump e, al tempo stesso, capaci di mettere a disagio gli interlocutori riducendoli a ruoli di manifesta subalternità. C’è del metodo in questa follia, certo, ma c’è pure tanta follia in questo metodo.

A differenza di William John Thomas Mitchell che distingue tra picture (immagini materiali) e image (immagini immateriali) – distinzione poi ripresa da Hans Belting secondo cui i diversi media trasformano l’image (mentale) in picture (fattuale) mentre quest’ultima, nel momento in cui viene fruita, diventa image nel corpo di chi la osserva –, Rabbito, nell’indagare il caso Trump, ricorre al lemma picture riferendosi sia all’immagine materiale che immateriale, «come pars pro toto, come termine che accoglie e racchiude la complessità del mondo delle immagini» (p. 17).

Sin dagli albori della sua ascesa imprenditoriale, Trump presta molta attenzione all’immagine di sé che diffonde, tanto da far coincidere i palazzi che realizza con sé stesso, con la sua picture. Oltre a marchiare gli edifici con il suo nome, come se si trattasse di bestiame, trasformandoli in strumento promozionale di sé, l’imprenditore statunitense, sottolinea Rabbito, tende a presentarsi come l’unico protagonista delle sue opere proponendosi non tanto come costruttore ma come creatore e realizzatore di sogni.

L’intento di Trump è sempre stato quello di «lasciare il segno», di «sfruttare le immagini per divenire esso stesso immagine, e divenire figura costante nel dialogo pubblico, incidendo sull’immaginario collettivo, fino a giungere a plasmarlo» (p. 25). L’immagine imprenditoriale con cui si presenta Trump in apertura degli anni Ottanta del secolo scorso coincide con quella decantata e sostenuta dall’America reaganiana, di cui, a distanza di decenni, riprenderà il celebre slogan “Let’s Make America Great Again”.

«L’edificio è il suo strumento, mentre il messaggio è la propria picture. Fuso allo strumento “edificio” è il “lusso”. Edifici di lusso e vita di lusso; sono le sue chiavi di accesso nella dimensione mediatica» (p. 43). Fedeli al principio del larger than life, le costruzioni e l’insistita presenza mediatica sono all’insegna dell’eccesso e della trasgressione, elementi utili a catturare l’attenzione soprattutto di chi si sente in balia delle limitazioni che la società impone.

Se Trump risulta affascinante perché mostra di saper realizzare i suoi sogni, non di meno a renderlo attraente è la sua condotta arrogante, insolente, spavalda, kitsch, fuori misura e incurante del politically correct. Consapevole di quanto una tale condotta e certe prese di posizione risultino fortemente divisive, Trump ha sempre giocato d’azzardo accettando il rischio e nel momento in cui la sua immagine di successo si affievolisce rilancia, anziché cambiare  strategia.

La scelta dell’espressione accigliata di sfida voluta per il ritratto ufficiale in veste di nuovo Presidente degli USA rappresenta tutto questo; il punto di arrivo di un percorso. La volontà di offrirsi con un volto torvo e minaccioso esprime perfettamente la sua vittoria nel suo gioco d’azzardo, l’affermazione nell’esserci riuscito a farcela mantenendo intatta la sua picture, non scendendo a compromessi, a forme di levigatura, di ammorbidimento. Anzi, spingendo sempre più il limite (p. 47).

Dopo l’intermezzo di “Sleepy Joe” Biden, “Trump is back”, è tornato al posto che gli compete, alla Casa Bianca, insistendo e rilanciando con ogni mezzo necessario, a suon di eccessi e affermazioni sguaiate. Facendo un passo indietro rispetto al reinsediamento al comando degli Stati Uniti, è dal cinico avvocato Roy Cohn, a cui si è rivolto nel momento del bisogno, che Trump impara ad agire sempre all’attacco, a negare tutto, persino l’evidenza, e a rivendicare la vittoria senza mai ammettere la sconfitta.

A tal proposito Rabbito parla di principio del versus del pictorial Trump, «perfettamente espresso e rappresentato dal trittico dell’attacco (e dell’odio) del neopresidente. Un trittico composto dal ritratto ufficiale realizzato per il suo ingresso alla Casa Bianca, dall’immagine-profilo dell’account Truth, dalla celebre mugshot, la foto segnaletica, scattata ad agosto del 2023» (p. 60). «Attaccare sempre e comunque, dunque. E la weapon picture diviene perfetto strumento d’espressione di questo principio» (p. 62).

Rabbito invita a cogliere come, in maniera inedita, nell’ultima campagna elettorale, l’attacco sia portato avanti in maniera sinergica anche da altri appartenenti alla sua cerchia, come Kristi Noem e J.D. Vance, con modalità a volte persino più marcate rispetto a quelle del leader. Da un certo punto di vista questi collaboratori svolgono un ruolo non dissimile da quello svolto in precedenza da Roy Cohn.

Quella di Trump è una politica feroce permeata sul principio dell’attacco dove chiunque appartenga alla sfera dell’Altro è un nemico. È una politica che intende scardinare lo stato di equilibrio finora raggiunto, per dettare nuove regole, per imporre un nuovo ordine, senza aver alcuna forma di esitazione nel recuperare, abbracciare e far primeggiare posizioni estremiste, razziste, complottiste, negazioniste che sino a oggi erano rimaste contenute e messe ai margini. E, a supporto di questa visione che si vuole promuovere, l’immagine continua a dimostrarsi la perfetta arma su cui puntare (p. 68).

A palesare l’allargamento del versus del pictorial Trump ad altre figure del suo entourage sono anche le celebri immagini dei saluti romani di Elon Musk, azione con cui quest’ultimo «ha dato vita alla perfetta picture che racchiude e mette in pratica, in maniera esemplare, la strategia del versus che Trump ha congegnato» (p. 68).

Il contesto è quello del secondo insediamento di Trump. Se la prima volta il vincitore delle elezioni aveva tenuto un discorso molto cupo volto a mettere in luce il lascito disastroso di chi lo aveva preceduto, nel secondo caso a prevalere decisamente sono il rancore e la sete di vendetta contro i traditori, la green economy, i clandestini, l’ideologia woke e i diritti LGBTQ+, la politica sanitaria, l’economia estera, il Dipartimento di Giustizia, gli stati esteri in generale ecc. Quest’ultimo discorso di insediamento esprime in maniera evidente il principio del versus appreso dall’avvocato Cohn.

Quella weapon picture di Trump, e il pensiero che essa racchiude, ha sollecitato Musk a dare vita a un’espressione violenta e provocatoria che diventasse iconica, che segnasse lo spirito di quell’ascesa al potere, che venisse racchiusa in un’immagine che fosse in sintonia con quella proposta dal Presidente, e che diventasse anch’essa un’arma. Un’arma che minaccia gli avversari e che, nello stesso tempo, sprona gli animi dei sostenitori (p. 71).

Una manifestazione di potere, quella espressa attraverso il saluto romano di Musk che, attraverso la duplicazione del gesto, rivolto in successione a due settori differenti dei presenti, ha voluto ribadire l’intenzionalità dell’autore. Secondo modalità tipicamente trumpiane, l’immagine di Musk con il braccio teso ha espresso il suo messaggio negando poi l’evidenza nascondendosi dietro alla molteplicità di interpretazioni che si possono dare al gesto.

L’immagine a cui ha dato vita Musk non è soltanto in linea con la picture trumpiana ma ne è la piena manifestazione in quanto, sostiene Rabbito, «racchiude e mette in pratica la strategia elaborata dal tycoon lungo il suo percorso di ascesa al potere» (p. 77): attivazione della pictorial spiral (ottenere visibilità, esagerare, accumulare, sfoggiare, azzardare, rilanciare…), attaccare (minacciare, denigrare, appropriarsi, imporsi…), mentire e negare.

Attraverso il gesto Musk ha inteso provocare, divenire picture, ottenere visibilità per sé e per Trump. Un gesto che ha ottenuto attenzione mediatica internazionale e che «ha, secondo il principio della spirale, innalzato il potere del nuovo governo, in quanto ha esplicitato l’arroganza di chi lo compone, l’assenza di scrupoli, la pericolosa mancanza di limiti, per trasformarsi, tutto questo, in minaccia» (p. 78). Una minaccia che pretende reazioni di sottomissione da parte degli altri Stati, così da rafforzare il potere del governo statunitense, dunque incrementarne gli introiti economici per la cerchia del nuovo Presidente.

Dalla vicenda del gesto di Musk emerge come il secondo mandato di Trump sia contraddistinto anche da un sempre più evidente demandare ad altre figure del suo staff il ruolo di “cattivo” addetto al dirty work. «Musk agisce, in questo modo, come un vero e proprio anarchico Joker contemporaneo, risultando una perfetta variante della nemesi di Batman, con pari livello di intelligenza e di ricchezza di Bruce Wayne, disponendo, inoltre, anch’egli, un imponente arsenale di alta tecnologia» (p. 85).

Trump si rivela abile nel ricorrere a Musk come al suo fool, il suo giullare irridente e sopra le righe tenuto a compiacere il Re godendo però della massima libertà d’azione ed espressione. Basti pensare alle scenette nello Studio Ovale in cui al giullare è consentito di starsene in piedi con un berrettino in testa, indossare t-shirt adolescenziali con tanto di figlioletto al seguito libero di comportarsi come a casa propria. Situazioni che sintetizzano perfettamente il nuovo corso della politica statunitense voluto da Trump nel segno del disinteresse per le regole, i valori e le formalità, secondo un canone che ha raggiunto il suo apice con lo sguaiato assalto a Capitol Hill da parte dei suoi sostenitori, molti dei quali, come ha scritto Matteo Bittanti (Reset. Politica e videogiochi, 2023), sembravano un’orda di gamer che, riposti joystick e controller, godevano dell’improvvisa possibilità di poter finalmente scatenare i loro istinti fuori dagli schermi in modalità first-preson.

Rabbito si sofferma anche sulle modalità con cui Trump ha gestito la restituzione mediatica di una questione concernente la sfera privata come la separazione da Ivana Marie Zelníčková. Il declino dei rapporti tra i due, coppia di successo incarnante l’estetica e i valori degli anni Ottanta, viene dato in pasto ai media dallo stesso Trump sia per riconquistare il centro della scena mediatica che per sviare l’attenzione dagli insuccessi economici.

«L’importante è essere al centro della scena; e tale centralità la si può più facilmente raggiungere attraverso un modo di essere controverso e scorretto perché capace di bucare lo schermo e attrarre con maggior forza l’attenzione altrui» (p. 93). Si tratta di un meccanismo applicato costantemente da Trump nella gestione della sfera privata come di quella pubblica, economica o politica. La vicenda della fine del rapporto con Zelníčková palesa anche il complesso rapporto di Trump con i media: da un lato ne cerca complicità nel veicolare ciò che gli torna utile a costo di ricorrere a menzogne, e, dall’altro, non appena si accorge di non riuscire ad ottenerla, li attacca violentemente accusandoli di diffondere falsità.

L’immagine dello Studio Ovale nel momento in cui viene inaugurato e promosso il White House Faith Office (Ufficio della Fede della Casa Bianca) conferisce a Trump un inedito ruolo di guida religiosa.

Trump appare, infatti, avvolto da un’aura divina; si offre come pilastro su cui gli uomini e le donne di fede trovano appoggio e sicurezza spirituali; su di lui, sulle sue spalle, sulle sue braccia, poggiano la propria mano i predicatori, nel mentre sono tutti raccolti in preghiera, con occhi chiusi e capo chino, come fossero ispirati da lui, trasportati altrove grazie a lui, e a lui si affidassero. Trump, in questo modo, non solo trasmette conforto e speranza, ma appare anche medium per una comunicazione con il trascendente (p. 98).

In linea con il primo principio del pictorial Trump, la sacred picture obbedisce all’intento di apparire e imporsi agli occhi dei credenti in Dio come in lui (“In God/Trump We Trust”). Per quanto tale immagine sembri trasmettere un messaggio di fede e di pace, in realtà, sostiene Rabbito, non è difficile scorgervi «una volontà guerrigliera di attacco, violenta e feroce, ma subdola, perché mascherata dalla percezione di un intento del tutto opposto» (p. 102).

Tra i principali obiettivi contro cui si dirige la sacred picture vi sono gli appartenenti a confessioni religiose diverse da quella giudaico-cristiana, la laicità dello Stato e tutto l’universo indigesto al radicalismo cattolico e protestante. Si tratta di un’immagine menzogna; dietro all’apparente natura di sacred picture, di sacralità, del messaggio di pace e di unione benedetto da Dio, si cela una weapon picture, una lie picture mascherante i reali propositi reazionari e di odio che si intendono perseguire in forma organizzata.

Altro elemento ricorrente nella strategia trumpiana è il vittimismo. Gli stessi attentati subiti da Trump a luglio e a settembre del 2024 sono stati utilizzati per confermare dell’odio di cui è oggetto. Un odio viscerale che, è stato sostenuto ad arte, sfocia in una sindrome da disturbo nei confronti di Trump (“Trump Derangement Syndrome”) tale da compromettere la capacità di giudizio delle persone. Il sapiente ricorso al vittimismo proietta Trump al ruolo di eroe temerario che non esita a mettere a rischio la propria vita per il Paese.

La rappresentazione vittimistica di Trump e della sua cerchia, oltre a conferire loro un’aura eroica, fornisce una sorta di lasciapassare per ogni eccesso stante il diritto a difendersi dall’odio altrui. «Nell’immagine menzognera che si intende proporre e diffondere, il violatore viene, dunque, descritto come vittima, e chi manifesta disappunto e richiede il rispetto delle regole, viene rappresentato come un violento carnefice, un oppressore che soffoca la libertà di espressione, lede i diritti, mina l’incolumità altrui» (p. 116). Si tratta, secondo Rabbito, di una distorsione menzognera del reale spinta sempre più in avanti azzardando il limite consentito facendosi scudo del vittimismo.

Il rischio di eccedere mette in moto una separazione netta di due mondi, che divengono inconciliabili tra loro. A uno schieramento a lui favorevole, se ne oppone uno avverso; per l’estremismo espresso dal tycoon, sia nei toni ma anche nei fatti, si genera un acceso malcontento da parte dei suoi oppositori; inimicandosi totalmente un’importante fetta della popolazione (pp. 117-118).

Oltre a produrre polarizzazione, l’estremismo di Trump contribuisce a creare una fascia di popolazione che, timorosa, tenta di ingraziarselo. Il ricorso alla menzogna consente a Trump non solo di attaccare gli avversari beffandosi della verità, ma anche di cambiare opinione, al bisogno, smarcandosi da accordi e dichiarazioni precedenti.

Tra i personaggi da cui Trump ha tratto ispirazione, inducendolo a entrare in politica, nel volume viene indicato anche il magnate del wrestling Vince McMahon, incline a porsi in forme aggressive e a ricorrere all’eccesso, alla menzogna e al politicamente scorretto al fine di catalizzare l’attenzione di un vasto pubblico. Caratteristiche che accomunano i due e che consentono loro di conquistare il centro dell’attenzione generale, dunque di attivare la pictorial spiral che, pur polarizzando le prese di posizione nei loro confronti, consente di imporre la propria picture.

Ad accomunare McMahon e Trump è certamente anche il ricorso alla menzogna più spudorata, che contraddice l’evidente realtà dei fatti, tanto da farne una studiata strategia di azione. Come nel wrestling si chiede al pubblico di sospendere l’incredulità e accettare come vero ciò che è finzione, altrettanto Trump chiede ai suoi sostenitori di reggergli il gioco e di accettare per vero tutto ciò che afferma, anche quando contraddice palesemente la realtà dei fatti. Occorre però sottolineare che diversi sostenitori di Trump non si limitano a far finta di credere a ciò che egli afferma, ma ne sono proprio convinti. Il tycoon si è rivelato particolarmente abile nell’individuare e piegare a proprio vantaggio credenze già presenti in alcuni settori della popolazione amplificandole e diffondendole.

L’individuazione del nemico, o la sua costruzione, per legittimare condotte prepotenti è una strategia diffusa tra i politici dell’estrema destra. «La sega elettrica proposta dal Presidente della Repubblica argentina Javier Milei è la perfetta rappresentazione simbolica di questo piano ed è funzionale a creare una weapon picture che esprima aggressività e opposizione contro tutto quello che – si dichiara – stia portando a picco la società. Attaccare il mondo politico che ha causato il declino e le ideologie che bloccano l’economia: questo è il motto che le destre di tutto il mondo, galvanizzate dalla vittoria di Trump, portano avanti» (p. 135).

Le modalità più rozze e roboanti si presentano come il mezzo più efficace per abbattere un ordine che si ritiene oppressivo ed ingiusto e più vengono amplificate tali percezioni, maggiore sarà la disponibilità dei sostenitori ad accettare linee di difesa estreme.

Trump ha […] lavorato sulla sua picture, l’ha imposta riuscendo non solo ad anestetizzare il giudizio critico della maggioranza nei confronti di quegli eccessi e di quelle scorrettezze che quell’immagine proponeva, ma rendendo perfino accettabile, con il passare del tempo, quel suo oltrepassare i limiti, quel suo essere irrispettoso, violento, bugiardo, per divenire espressioni di un modello da replicare; la picture trumpiana ha così inciso l’immaginario collettivo per attivare importanti modifiche, ha reso apprezzabile ciò che era condannabile; ha contribuito a dar vita a una trasformazione di forme di percezione e di pensiero che assecondassero il suo modello, per orientarle a divenire a sua immagine e somiglianza. Le sue espressioni, appartenenti a un modello di politica per lungo tempo messo ai margini, sono state tollerate, accettate e considerate vincenti, divenendo mainstream (p. 141).

Esiste, però, afferma Rabbito, anche una seconda anima che struttura l’espressione pictorial Trump, definibile Trump-turn, svolta a cui danno mirabilmente immagine i due ritratti ufficiali del Presidente. Dal volto di un sorridente affarista che si è buttato in politica scalando il successo fino ad insediarsi alla Casa Bianca, si è passati a un volto torvo, rancoroso e minaccioso di un politico che, tra le altre cose, ha sostenuto l’azzardo dell’assalto a Capitol Hill, una prova di «violenza vera che segna la fine dei giochi, la fine della simulazione» (p. 147), come del resto attesta la violenta caccia ai migranti irregolari in corso.

Rispetto al primo mandato, sottolinea Rabbito, è necessario per Trump alzare costantemente il tiro, così da sancire che davvero “The Storm Is Coming”, come hanno scritto con entusiasmo sull’immagine del Presidente gli attivisti di QAnon, prontamente rilanciata sui social dallo stesso. La weapon picture mentale veicolata da Trump rimanda sempre più a una weapon picture fattuale.

A differenza di precedenti pictorial turn, che pure non sono mancati nella storia, quello attuale, sostiene Rabbito, sta assumendo una forma del tutto inedita contraddistinta da una rivoluzione nel campo del visuale determinata dall’avvento della nuova immagine, una rivoluzione che stravolge l’intero assetto culturale e sociale, e perfino quello politico ed economico.

Questo è dovuto al fatto che la nuova immagine restituisce la realtà attraverso un processo che vede protagonista la macchina ed esclude la mano dell’uomo. Si attiva quella rivoluzione in cui l’immagine, per la prima volta, aderisce al reale, si offre sempre meglio come analogon perfetto – riprendendo l’espressione di Roland Barthes – del corrispettivo fattuale, proponendosi come oggettiva, attendibile, migliorando con estrema rapidità la propria qualità per suggerire, in termini sempre più soddisfacenti, l’illusione di immediatezza di ciò che propone (pp. 155-156).

Eccoci, dunque, alla vera novità che, secondo Rabbito, caratterizza la contemporaneità: la svolta del Trump turn viene a darsi insieme alla new pictorial turn, alla svolta portata dalla nuova immagine ed è in tale sovrapposizione e confluenza che si determina quello che lo studioso definisce pictorial Trump².

Trump contribuisce sia «alla trasformazione che attivano le nuove immagini nel sistema culturale-sociale-politico-economico» che «al mutamento che avviene in seno alle immagini in generale e, più in particolare, all’interno delle new pictures, in quanto si appropria delle inedite soluzioni offerte da queste ultime e realizza una messa in sistema di elementi che considerati inusuali, fuori dal consueto, stra-ordinari diventano parte di pratiche e fruizioni ordinarie» (p. 158).

Trump, insomma, «fa divenire ordinaria una straordinarietà della nuova immagine; dei caratteri di quest’ultima vengono estremizzati, vengono portati all’eccesso, vengono spinti fino ai loro limiti, per divenire la consuetudine» (pp. 157-158). In estrema sintesi, si potrebbe dire che Trump, nel suo secondo mandato, intende fare dell’anti-establishment il nuovo mainstream. Resta da vedere quando questo voglia/possa essere davvero nuovo dal punto di vista sostanziale.

Pictorial Trump di Rabbito guarda a una miriade di immagini di Trump costruite e veicolate sapientemente come simbolo del Potere cogliendovi le specificità proprie dei nuovi media e delle nuove immagini, specificità concernenti non solo le modalità di realizzazione e diffusione, ma anche di fruizione. Certo, la fortuna e la durata del trumpismo dipenderanno da svariati fattori; per quanto l’immagine non sia tutto, di certo non è poco e non può essere sottovalutato il suo ruolo nella costruzione di immaginario.

Per quanto, in Italia, l’ascesa di Trump non possa che rimandare a quella di Berlusconi, non fosse altro che per il ruolo di outsider incarnato da entrambi e per l’importanza data dai due all’immagine nelle rispettive fortune, come scrive Roberto Revello nella Postfazione al volume, si tratta però di momenti, contesti e personaggi comunque decisamente differenti e parte importante della differenza risiede nel rapido sviluppo che intercorre tra le due ascese di quella nuova immagine dotata di caratteristiche specifiche e che Rabbito ha avuto modo e merito di analizzare come pochi altri in sue opere precedenti1.

Se l’ascesa di Berlusconi è legata all’universo neo-televisivo-generalista, l’ascesa di Trump è piuttosto legata al mondo digitale e alla nuova immagine. Pur nella consapevolezza delle enormi differenze tra l’universo statunitense e quello italiano, qualche analogia la si potrebbe trovare anche nel confronto tra Trump e Grillo-politico. L’ex comico italiano ha costruito la sua ascesa politica sfruttando soprattutto i media digitali – con tanto di Casaleggio come guru tecnologico, nelle vesti di un Musk minore – e, come nel caso dello statunitense, ha fatto ricorso a retoriche e modalità provocatorie, spavalde, esagerate e incuranti del galateo istituzionale. In Italia, all’accoppiata composta da sguaiata retorica anti-establishment e comunicazione digitale non ha mancato di ricorrere lo stesso Salvini.

Sarebbe riduttivo affermare che, dopotutto, tali esperienze italiane hanno avuto fiato breve, perché, al di là dell’affievolirsi del successo in termini elettorali delle compagini politiche che hanno fatto ricorso a retoriche anti-establishment e comunicazione digitale, queste hanno comunque lasciato il segno non solo nel panorama politico nazionale ma anche nell’immaginario collettivo.

Per quanto le ragioni dell’ascesa dell’alt-right, di Trump e dei suoi epigoni disseminati per il mondo siano evidentemente molteplici e legate ai rispettivi contesti, di certo, come ha mostrato il volume di Rabbito, al loro successo hanno contribuito tanto un uso efficace della nuova immagine e dei nuovi media che il ricorso a retoriche e modalità arroganti, insolenti, spavalde, esagerate e incuranti del politically correct, capaci, nella loro estraneità alla politica istituzionale tradizionale, di sparigliare il campo.

L’efficacia che tali retoriche e modalità anti-establishment hanno avuto nel contribuire a generare consenso per Trump e altri politici di destra ha indotto persino esponenti che si dicono della sinistra antistemica a pensare di potervi fare ricorso per conquistare la pancia della gente. Come si è sostenuto nel tratteggiare l’ascesa dell’alt-right statunitense, occorrerebbe «evitare di farsi prendere dalla frenetica ricerca di facili quanto improbabili scorciatoie ottenute attraverso semplicistici “ribaltamenti” di quanto è mainstream, di guardare a indigeribili alleanze, di indirizzarsi verso logiche complottistiche e parole d’ordine improponibili pensando davvero di poter controllare il mostro anziché farsi dominare da questo»2.


Il reale delle/nelle immagini – serie completa

 

 


  1. Andrea Rabbito, La meno-quasi e più-realtà. Genealogia delle nuove immagini e indagini dalla prospettiva dei visual culture studies, Con opere pittoriche di Andrea Mangione, Mimesis, Milano-Udine 2023. Su “Carmilla online” [qua]; Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Su “Carmilla online” [1] e [2]. 

  2. Gioacchino Toni, La pillola rossa dell’alt-right – 1, “Carmilla online”, 10 Luglio 2023. 

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La pittura, il biliardo e l’inferno https://www.carmillaonline.com/2025/06/27/la-pittura-il-biliardo-e-linferno/ Fri, 27 Jun 2025 05:06:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88217 di Neil Novello

Victor Claass, Giochi di posizione. Breve storia dei biliardi dipinti, Bibliotheka, 2024, euro 15,00

Un privilegiato luogo di incontro tra la storia dell’arte e il cosiddetto «serio ludere» del gioco del biliardo, il pittore e il giocatore lo ritrovano espresso nel concetto di «ginnastica della visione». Essa riguarda, come nel caso di Edgar Degas, anzitutto la passione dell’artista per il gesto compiuto dall’arteficie del tavolo verde. Nel virtuoso del biliardo, e anzi nella lingua del gioco biliardistico, si è dinanzi a un luogo in cui l’atto di vedere equivale quasi a una profezia, all’immaginazione visionaria [...]]]> di Neil Novello

Victor Claass, Giochi di posizione. Breve storia dei biliardi dipinti, Bibliotheka, 2024, euro 15,00

Un privilegiato luogo di incontro tra la storia dell’arte e il cosiddetto «serio ludere» del gioco del biliardo, il pittore e il giocatore lo ritrovano espresso nel concetto di «ginnastica della visione». Essa riguarda, come nel caso di Edgar Degas, anzitutto la passione dell’artista per il gesto compiuto dall’arteficie del tavolo verde. Nel virtuoso del biliardo, e anzi nella lingua del gioco biliardistico, si è dinanzi a un luogo in cui l’atto di vedere equivale quasi a una profezia, all’immaginazione visionaria con cui le bilie, dapprima immobili, colpite per via diretta o animate indirettamente dalle sponde, iniziano a muoversi percorrendo un tracciato geometrico, un cammino predestinato.

Il libro di Victor Claass, dal titolo rubato ad un’opera di Degas e tramite la mediazione della «carambola» francese, compone un ritratto dell’iconografia pittorica del biliardo. Da Degas, appunto, decorre un discorso. Perché il crinale di confine tra la storia dell’arte e il tema del biliardo, tra pittori che hanno dipinto il biliardo e pittori che hanno giocato, necessariamente passa da una serie di più e meno celebri artisti: Chardin, Caillebotte, Courbet, Duchamp, van Gogh, Man Ray, Braque, per citare solamente la prima sequenza elencata da Claass.

Il gioco del biliardo, dunque. E la storia dell’arte, cioè il punto di vista, sul gioco e i giocatori, i tipi umani e le scene di genere, le posture, le dinamiche sociali, gli atti e i motivi, insomma lo sguardo da parte dell’artista sulla realtà del biliardo. A riguardo, si inizia con un’opera di James Ensor, Scheletri che giocano a biliardo del 1904. Su un fondo giallo oro, circa al centro geometrico del quadro, Ensor traccia la silhouette di un biliardo, mentre una dozzina di scheletri, tra spettatori e giocatori, sopra, intorno e persino sotto il biliardo, gravita nei paraggi del tavolo di gioco. È evidente che nell’intenzione di Ensor l’atto è dissacrante e coincide con una lettura, un’interpretazione del gioco sospesa tra l’ironia e la vis sarcastica. D’altra parte, il «caricaturista» Georges Meunier, nel suo Partita di biliardo del 1899, identificando le tre bilie del gioco con i relativi sederi di tre donne comodamente accovacciate in un prato verde, favorisce una lettura, e non solo in apparenza, di tipo sessista. Il gioco del biliardo, dunque, informa l’immaginario sociale di un luogo comune, o meglio di uno stereotipo di genere, per cui il biliardo è un gioco maschile, non è un gioco femminile, ed essendo un gioco cosiddetto «cerebrale» è per gli uomini e non è per le donne.

Per contraddire il nesso sessista, tra l’indistinta folla di circa trenta persone e alcuni animali nella Partita di biliardo di Louis-Léopold Boilly del 1807, l’artista francese sceglie di porre in primo piano una giocatrice. Essa è colta nel supremo atto di imprimere, con la stecca, il colpo alla bilia. Tale centro drammatico, nella sua evidenza simbolica, esprime il luogo in cui convergono gli sguardi e gli ammiccamenti degli osservatori, come se occultamente la figura femminile sia il centro di un ordito allegorico e psicanalitico, richiamando così un’implicita lettura che va al di là dello stesso gioco. Attraverso la delicata, esile colpitrice di Boilly, infatti, si spiega anche L’emancipazione delle donne di Eugène Ladreyt del 1842. Qui è messo in scena il rovesciamento dello schema fallocentrico, poiché la giocatrice al biliardo è certamente una donna, ma il marito, incuriosito dall’esecuzione tecnica della moglie, è alle prese con il maldestro e goffo tentativo di allattare una bambina, la figlia. Lungo tale tracciato, la quadreria di Claass figura un breve viaggio sull’evoluzione del ruolo femminile in società attraverso la rappresentazione offerta dal gioco del biliardo. E ciò non senza l’analisi di passaggi discriminatori riguardanti i «meccanismi della seduzione», la «sfida erotica», i «piaceri lesbici» intrinseci alla relazione tra la figura femminile e il mondo del biliardo.

Non vi è un esempio, nella scelta dei dipinti di Claass, tutti o quasi legati al «biliardo francese», riguardante rappresentazioni pittoriche del biliardo in cui la disciplina giocata sia l’italiana o la goriziana. Tutti i tavoli da gioco presentano tre bilie, due bianche e una rossa, e al centro del tavolo il grande assente è il castello, sia nella forma a cinque birilli, appunto dell’italiana, sia in quella a nove, propria della goriziana. Anche il Caffè di notte di Vincent van Gogh del 1888 non sfugge alla scelta della carambola. Di nuovo vediamo due bilie bianche, una rossa, e l’assenza del castello centrale. Ma nel dipinto di van Gogh è rappresentata la fine del gioco. Le bilie sono adunate in un angolo, una sola stecca è adagiata sul biliardo, gli avventori traccheggiano seduti ai tavolini, una figura umana fissa lo spettatore in una misteriosa espressione interrogativa. Più di ogni altro artista, van Gogh ha ritratto il carattere di ambiguità e di profondo mistero del gioco. Solo coloro che giocano a biliardo, nella disciplina della carambola, dell’italiana o della goriziana, loro malgrado conoscono il profondo senso di indefinità del gioco, la sua legge transumana, così estranea al nostro mondo, la sua lingua fatta di enigmi ed epifanie, persino la sua impercettibile voce demoniaca, quando combina caso e sciagura, fortuna (come Man Ray titola il suo dipinto del 1938 a tema biliardistico) e bellezza, meraviglia e magia.

Nel biliardo di van Gogh, di per sé un tavolo pittoricamente ingiocabile, nessuna passione umana è veramente spenta. La sua mancata rappresentazione in termini di attività biliardistica e il riposo apparente del biliardo, in realtà evocano un ambiente placido fissato alla fine di una guerra, il teatro muto di un conflitto umano e sentimentale (come nei dipinti di Jacqueline de Jong), la scena di un feroce duello in punta di fioretto, l’agone silente e disperato tra anime che giocando hanno abitato, nel breve e sfuggente tempo della partita, l’inferno. Così l’idea di biliardo espressa da van Gogh (come il Café à Arles di Paul Gauguin del 1888), in realtà appare come il residuo ambientale e umano dopo una fine di mondo, quasi che un’apocalisse, avendo stregato e abbandonato l’umanità, abbia finalmente distrutto ogni volontà e accecato ogni visione. E ancora: come se il gioco, la sua potenza mortifera, finalmente abbia ricondotto ogni cosa alla sua dimensione defunta, trapassata. Con puntuale perizia Claass parla, in van Gogh e Gauguin, di allegoria. E d’altra parte, un passo già dentro la Grande guerra, Otto Dix, nel suo Giocatore di biliardo del 1914, restituisce tutto il pazzo accanimento, la passione bestiale, l’investimento erotico, e diciamo pure la tormentata, lugubre spiritualità del giocatore di biliardo. Nel dipinto di Dix, in cui il giocatore è il solo protagonista della scena al tavolo, si è dinanzi a una creatura idealmente risalita dall’inferno. I suoi occhi sbarrati e allucinati sul punto palla, il suo corpo proteso in una furia, nel giocatore è figurata così l’ombra di un’anima posseduta, un’anima spiata da anonimi voyeurs sparsi nell’oscurità della sala. Ed è in atto, nel folle e abbacinato piegato sul tavolo, qualcosa di più, un pubblico, anzi un plateale rapporto erotico con il mobile in legno, la stecca, la bilia.

Il biliardo abbandonato, vuoto, non giocato, è una scelta anche di Félix Vallotton nel suo dipinto su cartone del 1902. E i giocatori, raffigurati sullo sfondo, giocano un altro gioco, il bridge. La sua riduzione a oggetto di arredo, in realtà non racconta propriamente una storia meramente scenografica. Il biliardo continua a esservi spettatore di se stesso, forma creaturale alle prese con il proprio mistero (Mistero è il titolo di una tela del 1977 di Jacqueline de Jong dedicata al biliardo), oggetto vivente la cui parola è il silenzio e il cui silenzio è un enigma. Nel biliardo di Vallotton, quasi un objet étranger venuto da un altro mondo, è la sua stessa identità infernale a essere penetrata in uno spazio borghese per autorappresentare, nella sua solitudine di realtà già transumana, ciò che ammalia e perturba, ciò che seduce e spaventa, qualcosa che addirittura imperversa. Proprio come il «tavolo spezzato» di Braque (1944), una clamorosa esemplificazione della sua estraneità al nostro mondo, in cui il «rettangolo inamovibile», spezzato, muta in un «poligono a sei lati». Non è più un oggetto piano ma due superfici reclinate, e separate da una linea divisoria, quasi due ali verdi di un mitologico animale borgesiano, un uccello in atto di prendere il volo per ritornare, entro il quadro di un’inclinazione sempre matadiscorsiva, allusiva, nel proprio mondo, in quell’aldilà di fiamme e patimenti, da cui è venuto.

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«Banditi» per necessità ovvero la Resistenza così come fu https://www.carmillaonline.com/2025/06/25/banditi-per-necessita-ovvero-la-resistenza-cosi-come-fu/ Wed, 25 Jun 2025 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88871 di Sandro Moiso

Filippo Focardi – Santo Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, pp. 425, 39 euro

«Una nuova retorica patriottarda o pseudo-liberale non venga ad esaltare la formazione dei purissimi eroi: siamo quel che siamo: […] gli uomini sono uomini». (Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo)

In tempi in cui anche i rappresentanti della destra più conservatrice e reazionaria possono, e devono, fare professione di antifascismo con la benedizione di una sinistra istituzionale esangue, le parole di Emanuele Artom appaiono davvero profetiche. Una Resistenza spogliata, quasi fin da subito [...]]]> di Sandro Moiso

Filippo Focardi – Santo Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, pp. 425, 39 euro

«Una nuova retorica patriottarda o pseudo-liberale non venga ad esaltare la formazione dei purissimi eroi: siamo quel che siamo: […] gli uomini sono uomini». (Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo)

In tempi in cui anche i rappresentanti della destra più conservatrice e reazionaria possono, e devono, fare professione di antifascismo con la benedizione di una sinistra istituzionale esangue, le parole di Emanuele Artom appaiono davvero profetiche. Una Resistenza spogliata, quasi fin da subito e dai maggiori partiti rappresentati nell’agone parlamentare fin dalla caduta del regime fascista, della sua reale valenza di classe, rivolta e rifiuto dell’ordine costituito, allora degli ordinamenti mussoliniani e di quelli pericolosamente in essere nel passaggio alla repubblica borghese, è diventata così il cardine su cui articolare una narrazione immaginifica e interclassista della rifondazione patriottarda dello Stato nazionale dopo la fine dell’identitarismo nazionalistico che aveva ispirato sia il regime che le sue guerre e avventure coloniali. Una narrazione retorica che ne ha confuso l’immagine, offuscandola, e tradito le concrete motivazioni.

Ben vengano dunque ricerche come quelle accluse nel testo curato da Focardi e Peli che, nel solco degli studi iniziati da Claudio Pavone1 e della sua attenzione all’economia morale che aveva fondato l’insurrezione contro il governo non solo di Mussolini, del PNF e dei suoi gerarchi, ma anche contro l’ordine morale, economico e politico borghese che ne aveva costituito l’essenza e giustificato l’esistenza, riportano la storia e gli avvenimenti di quei tragici e convulsi anni sui binari delle concrete condizioni materiali sui quali effettivamente viaggiarono.

Una Storia che non solo deve liberarsi dalle incrostazioni con cui gli interpreti di destra hanno cercato di ridurre, in sintonia con quelli appartenenti ai partiti “nemici”, quel periodo ad una sorta di confronto tra fazioni politiche avverse, di cui i partiti sarebbero stata la forma naturale di espressione, ma anche delle interpretazioni mitopoietiche con cui tanta ricerca di parte avversa l’ha imbastardita riducendola a mera funzione del progresso degli organismi della democrazia parlamentare e dello Stato. Come sostengono da subito i due curatori, affermando come sia oggi necessario rivalutare, ricordare e ricostruire, le enormi fatiche della guerra partigiana che ne hanno segnato le «opere e giorni»:

Riportare al centro dell’attenzione la guerra partigiana nella sua concretezza, nella sua difficoltà e drammaticità, nel suo accidentato farsi, nel complicato intreccio tra spontaneità e organizzazione, di storia militare e storia politica, di localismi e di utopie, di durezze materiali e solidarismi trasversali: questo l’obiettivo che ci siamo prefissi progettando l’impegnativo lavoro collettivo da cui è nato questo volume. […] A stimolare l’”impresa” hanno concorso parecchi motivi.
Il principale, abbastanza evidente per chiunque segua con interesse il discorso pubblico sulla Resistenza, è costituito dal fatto che quasi esclusivamente, da almeno tre decenni, si è scritto e parlato di resistenza senz’armi, di resistenza civile o di resistenza dei militari (Cefalonia) […] Ma ciò non dovrebbe occultare il fatto che la più importante discontinuità della storia nazionale […] non si sarebbe realizzato senza la scelta di impugnare le armi compiuta da un’esigua minoranza, senza un esercito di volontari disposti ad assumere su di sé il compito arduo di combattere, di uccidere e farsi uccidere2.

Una considerazione che potrebbe apparire scontata se non fosse, come proseguono Focardi e Peli, che:

Nella narrazione mediaticamente vincente si tornano invece a privilegiare, a discapito dell’aspra, complicata e divisiva insurrezione antifascista, gli aspetti unitari, nazional-patriottici della Resistenza. La centralità della sanguinosa e divisiva guerra partigiana è stata via via edulcorata e di fatto sostituita da una Resistenza più rassicurante, che piace immaginare condivisa dalla maggioranza del popolo. Dunque, sconfortante eterogenesi dei fini, la Resistenza diviene paradossalmente anche veicolo di un’autoassoluzione collettiva, fondamento di un’illusoria identità nazionale miracolosamente votata alla libertà3.

E’ un messaggio forte quello dei due curatori che, per molti versi, si avvicina di più alla letteratura e alle memorie di Fenoglio, Calvino, Revelli, Bianco, Meneghello, Chiodi e tanti altri, che non alle ricostruzioni storiche troppo spesso ispirate alla necessità di superare le divisioni, un tempo tra PCI e DC (il cui risultato fu una costituzione spoglia del “diritto alla resistenza” proposto come articolo della stessa da Aldo Capitini e altri), e oggi, ancora più platealmente, tra”destra “ e “sinistra”, entrambe di governo grazie all’idea di “alternanza” che pervade il discorso politico moderno ispirato dal liberalismo, soprattutto, economico. In cui a contare non sono più le differenze tra i partiti e i loro programmi, ma la capacità di garantire continuità e la stabilità all’ordine esistente e alle sue “necessità” proprietarie, finanziarie e produttive.

Santo Peli si è laureato in Lettere nel 1973, ha insegnato Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, fino al 2013. I suoi campi di ricerca sono sempre stati costituiti dalla conflittualità operaia tra Prima e Seconda guerra mondiale e dalla Resistenza italiana. Per Franco Angeli ha dato alle stampe La Resistenza difficile nel 1999, poi ripubblicato dalle edizioni dalla Biblioteca Franco Serantini (BFS) di Pisa nel 2018. Con Einaudi ha invece pubblicato, La Resistenza in Italia (2004), Storia della Resistenza in Italia (2006 e 2015), Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza (2014) e La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni, ancora per BFS Edizioni (2022).

Filippo Focardi si è laureato nel 1993 e svolge la sua attività presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università degli Studi di Padova. Si occupa di storia moderna e contemporanea e la sua opera si è concentrata soprattutto sulla storia italiana durante la seconda guerra mondiale e sul recupero della memoria storica di quel periodo. Tra i suoi studi vanno ricordati: La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi (Laterza 2005), Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale (Laterza 2013) e Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoa, Foibe (Viella 2020).

I due storici, ancora nell’introduzione al testo, sottolineano infine come:

La messa in sordina degli aspetti divisivi fatalmente connessi alla guerra partigiana, e la forte sottolineatura di una coralità, di un afflato nazional-patriottico, ricorda in qualche modo, e con molte diverse sfumature sulle quali non è dato qui soffermarsi, la narrazione prevalente negli anni Cinquanta […]. In una narrazione di questo tipo, la concreta esperienza storica della guerra partigiana, per nulla esente da difficoltà e spinte contrastanti, rischia di evaporare, di disciogliersi in un astratto pantheon di eroi, a discapito di fare i conti con «il partigianato così com’era, non come vorremmo fosse stato4 » 5.

Considerazioni che ci devono far ricordare come Una guerra civile di Claudio Pavone, al suo apparire nel 1991, avesse fatto storcere il naso a molti rappresentanti dell’antifascismo istituzionale e sollevato numerose perplessità tra gli storici, quasi sempre di sinistra, che si occupavano della storia della Resistenza proprio per l’accento messo sullo scontro interno al paese che la guerra partigiana aveva suscitato, mettendo così in crisi e in discussione l’immagine edulcorata e priva di contraddizioni della stessa che sembrava aver ormai uniformato gli studi in materia.

Per raggiungere l’obiettivo dichiarato i due curatori del testo pubblicato da Carocci hanno messo insieme sedici saggi, suddivisi in tre parti: Combattere, Vivere, Narrare. Composte rispettivamente da sei la prima e da cinque saggi ciascuna per entrambe le altre parti. Chiamando a raccolta l’opera di storici, docenti e ricercatori di Eric Gobetti, Gabriele Pedullà, Maria Teresa Sega, Chiara Colombini e Nicola Labanca, solo per citarne alcuni, oltre ai due saggi scritti dagli stessi curatori.

Riuscendo a dare vita ad un complesso e intenso mosaico in cui vengono ricostruiti differenti aspetti della guerra partigiana e della sua memoria. Gli argomenti trattati vanno così dalla prima creazione delle bande partigiane ai loro nemici e alla presenza di stranieri nelle loro fila, oltre che il contributo, spesso sminuito, del Meridione alla storia della Resistenza oppure sul ruolo delle donne nell’esercito di liberazione. Oltre a questi, altri temi riguardano il vissuto e le passioni che alimentarono la Resistenza, la geografia degli studi storici sulla guerra partigiana, la violenza insita nella stessa, il “tradimento” dei manuali scolastici e il discorso pubblico sulla stessa, infarcito inevitabilmente di innagini di “martiri” e “patrioti”.

Tra questi, che non si possono certo riassumere tutti nel corso di una recensione, risaltano, almeno agli occhi di chi qui scrive il saggio di Santo Peli su Guerra partigiana e rifiuto della guerra ( pp. 139-161), quello di Francesco Fusi su La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute, territorio (pp. 179-195) e, ancora, quello di Chiara Colombini intitolato «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana (pp. 163-177). Non certo a discapito della validità degli altri tredici, ma soltanto perché riguardanti argomenti spesso disattesi dalla ricerca storica sul periodo 1943-1945 in Italia e, invece, molto importanti per aprire un confronto più approfondito sulle cause e conseguenze della “guerra civile”.

Nel primo dei tre qui indicati, Santo Peli torna su un argomento di cui si era già occupato in altri suoi testi e in particolare nella parte finale della sua Storia della Resistenza in Italia ovvero ristabilire una verità spesso rimossa, quella del peso del rifiuto della guerra nell’alimentare la scelta di molti giovani italiani di aderire alle fila o, almeno, alle motivazioni della Resistenza, che venne ancor prima di una scelta di carattere ideologica o politica, che troppo spesso viene ancora indicata come motivazione primaria, forse per un malinteso senso del dovere nei confronti della patria che alimenta ancora oggi, in tempi di nuove e imminenti guerre, un certo immaginario patriottardo non soltanto di “destra”.

Peli cita, come riassunto della sua tesi, le riflessioni e le memorie di una partigiana piemontese, Tersilla Oppedisano (nome di battaglia Trottolina), risalenti alla metà degli anni Settanta del ‘900.

Non so se la popolazione fosse tutta dalla nostra parte, non lo so. Certo, la gente era stanca del fascismo e quindi sentiva inconsciamente che eravamo i loro, anche perché la presenza dei partigiani aveva impedito che molti ragazzi del posto finissero in Germania. D’altronde, il grosso dei partigiani non era formato di volontari ma di ragazzi che erano stati costretti a scappare per non arruolarsi, perché la repubblica di Salò aveva fatto la coscrizione obbligatoria.
La Resistenza è proprio la guerra dei disertori, la guerra degli imboscati, cioè gente che va nei boschi perché non la piglino. «E se venite a pigliarmi afferro un mitra e vi sparo!». Imboscati proprio in questo senso. E’ il primo momento della storia in cui ci si ribella alla guerra e ai fautori della guerra. In questo senso è importantissima la Resistenza. Io non so se sia opportuno dire queste cose, ma penso che bisogna dirle, anche per demistificare la figura dell’eroe che si butta nella guerra, il nazionalismo, il milite ignoto e mille storie di questo genere. Io mi trovo un po’ isolata a dire queste cose, perché al partito non si dicono, nella scuola non si dicono, e si fa l’elogio del volontarismo della massa del popolo italiano che si arma e combatte, mentre, quando si va a vedere sotto sotto, appare quell’aspetto del rifiuto della guerra, che pure è importantissimo6.

Peli prosegue poi ancora affermando che:

La guerra partigiana, guerra di volontari che «si adunarono per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo», è un’immagine magnifica e tranquillizzante, che rischia di scambiare la parte con il tutto. Ci furono questi volontari, eccome, e senza di loro poco o nulla di politicamente ed eticamente significativo sarebbe accaduto. Ma forse sono più numerosi i protagonisti cui dà voce la partigiana Trottolina: una turba di sbandati in fuga dalla guerra, che in modi e in tempi diversi, e in buona parte all’inizio senza ideali motivazioni, si trasformano in partigiani, certo non tutti, e conservando caratteristiche e modi di intendere la lotta e i suoi obiettivi assai diversificati. Che la genealogia della guerra partigiana vada ricercata anche in una confusa ed eterogenea massa di italiani in fuga dalla guerra è immagine assai poco seducente, perché evoca uno stato di passività, una regressione o una permanenza nel particulare, e anche un’incerta, scarsa propensione all’amor di patria, al riscatto dell’onore militare tracollato nell’implosione dell’8 settembre […] Eppure una ricca memorialistica partigiana lascia pochi dubbi in proposito7.

Il saggio di Fusi, sottolineando le difficoltà di approvvigionamento delle formazioni partigiane e dei problemi che ciò causò talvolta con le popolazioni dei territori in cui operavano, non cerca sicuramente di mitizzare o edulcorare il fatto che i partigiani si comportassero talvolta come “banditi” anche solo per necessità logistiche.

Oltreché una guerra contro tedeschi e fascisti, quella partigiana è al contempo una lotta contro le avversità: fattori ambientali proibitivi, scarsità di alimentazione e di vestiario, rischi fisici e psicologici dovuti alla forzata mobilità e ai continui pericoli. E’ perciò una guerra per la sopravvivenza, individuale e di gruppo, la cui urgenza talvolta ogni altra considerazione: «in molti casi sono più importanti le scarpe che le conferenze politiche». […] In ogni caso, sopravvivere fu la prima preoccupazione di chi salì in montagna. Oltre all’incognita della morte inflitta dal nemico, stava quella legata alle disagevoli condizioni di vita: «I fascisti sono un di più, ci ammazza da solo il freddo», sentenzia Ettore nel Partigiano Johnny. E così Giambattista Lazagna, il partigiano Carlo: «la lotta più terribile deve essere condotta contro le difficoltà di nutrirsi, di vestirsi, di armarsi, di nascondersi. […] Ci voleva a quel tempo, oltre ad un certo coraggio, un fisico molto robusto, uno stomaco molto piccolo, una buona dose di fantasia per andare ai monti». […] La memorialistica partigiana e le pagine di scrittori partigiani quali Fenoglio, Calvino e Meneghello sono popolate di questa umanità partigiana spesso sofferente, incerta o inadeguata in cui i resistenti sono presentati come «uomini simili ad altri nei loro meriti e nei loro difetti». Raffigurazioni che le prime stagioni storiografiche sulla Resistenza avevano lasciato spesso in ombra, per dare spazio ad immagini più edificanti, se non eroiche. Parlando della “sporca” vita del partigiano giova perciò l’avvertimento di Nuto Revelli a guardare a loro come a «gente comune», non a «un esercito di santi», e a contrapporre alla vulgata che vuole i «partigiani in gamba, tutti robusti, tutti perfetti, politicamente ben inquadrati, che di mangiare non parlavano mai» un più aderente e disincantato sguardo sul vero partigiano, afflitto quotidianamente «da un’infinità di piccoli problemi – le scarpe, il sacco di farina, il chilo di sale, il partigiano lazzarone, il partigiano fifone, il comandante sfessato e mille altre diavolerie» e nel quale «sovente i problemi logistici erano più impegnativi di quelli militari»8.

Chiara Colombini, nel suo saggio, continua necessariamente sulla linea interpretativa tratteggiata fino ad ora:

Qualsiasi tentazione di monumentalizzare eventi e persone diventa impraticabile qualora ci si affidi alle «scartoffie di allora». Perchè, facendo ricorso ai documenti prodotti durante la guerra partigiana, ci si ritrova immersi in un presente forzatamente scandito da incertezze e contraddizioni, quelle che accompagnano un sentiero sconosciuto, senza sapere esattamente dove condurrà»9.

Una memorialistica, letteraria e non che non esclude affatto sentimenti e stati d’animo, in particolar modo presenti in quella delle donne e che serve a riscoprire, come fece Claudio Pavone nella sua monumentale e imprescindibile opera, la soggettività che operò nelle scelte partigiane e che, sempre, opera nella Storia.

Lo spazio di una recensione non può espandersi oltre, ma rimane inconfutabile il fatto che l’opera di Santo Peli, Filippo Focardi e di tutte le autrici e di tutti gli autori coinvolti è destinata a segnare un ulteriore passo in avanti nello studio e nella comprensione delle condizioni concrete e materiali che stanno alla base degli eventi sociali, in cui spesso ad intervenire per ultime sono proprio le motivazioni ideologiche o dichiaratamente politiche. Una lezione importante per l’oggi e per il domani.


  1. Si vedano: C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità delle Resistenza (1991 e 2006) e, ancora, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato (1995 e 2025).  

  2. F. Focardi – S. Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, p. 15.  

  3. Ivi, pp. 15-16.  

  4. Nuto Revelli, lettera ad Alessandro Galante Garrone del 1° luglio 1955.  

  5. Focardi – Peli, op. cit., p. 16.  

  6. T. Fenoglio Oppedisano (Trottolina), in A. Bruzzone, R. Farina (a cura di), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringieri, Torino 2003 (prima edizione 1976), pp. 162- 163, cit. in S. Peli, Guerra partigiana e rifiuto della guerra in F. Focardi, S. Peli, op.cit., p. 139.  

  7. S. Peli, op. cit., p. 141.  

  8. F. Fusi, La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute, territorio in Focardi – Peli, op. cit., pp. 181-184.  

  9. C. Colombini, «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana in Focardi – Peli, op. cit., p. 164.  

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Intervista a Emanuele TreviNel Labirinto di Philip K. Dick 2 https://www.carmillaonline.com/2025/06/24/intervista-a-emanuele-trevinel-labirinto-di-philip-k-dick-2/ Tue, 24 Jun 2025 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89013 di Domenico Gallo

Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00 stampa

Partiamo da lontano. Come è nato il tuo interesse per la fantascienza?

Se devo partire proprio…da lontanissimo, non posso che individuare il punto di partenza nel mondo della Marvel, e specialmente dei Fantastici 4 e dell’Uomo ragno. Da lì, la transizione verso la pagina scritta era abbastanza naturale per le persone della mia età (sono nato nel 1964) – gli Urania con le copertine di Karel [...]]]> di Domenico Gallo

Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00 stampa

Partiamo da lontano. Come è nato il tuo interesse per la fantascienza?

Se devo partire proprio…da lontanissimo, non posso che individuare il punto di partenza nel mondo della Marvel, e specialmente dei Fantastici 4 e dell’Uomo ragno. Da lì, la transizione verso la pagina scritta era abbastanza naturale per le persone della mia età (sono nato nel 1964) – gli Urania con le copertine di Karel Thole erano un oggetto di desiderio molto simile, in fin dei conti, agli albi della Marvel. Solo che contenevano un prodigio ulteriore, e decisivo: l’atto della lettura comportava il piacere e la fatica di immaginare la storia, e dunque di ricrearla, facendone qualcosa di completamente personale.

A partire dalla tua formazione, questa passione per la fantascienza come ha convissuto con il tuo percorso di studi classici?

Io sono totalmente immune dall’idea, puramente sociologica, che esistano “livelli” diversi della letteratura. Magari mentre andavo a caccia di tutti i libri di Robert Sheckley che riuscivo a trovare in giro, ero lo stesso adolescente che scopriva L’armata a cavallo di Isaac Babel’, o i romanzi di Jack Kerouac o i manifesti del Surrealismo di André Breton. L’unica distinzione che per me è sempre stata efficace è tra un libro che accende l’immaginazione, come accennavo prima, e uno che non ne è capace, o magari non va bene per me.

Come è nata l’idea del Meridiano su Philip K. Dick? Ci sono state delle difficoltà a inserire uno scrittore di fantascienza tra i santi della letteratura mondiale?

Durante uno dei primi giorni del lockdown, nel 2020, ho ricevuto una telefonata di Renata Colorni, che per molto tempo ha guidato i Meridiani con imprese memorabili in tutte le direzioni. Era quasi arrivato il momento della meritata pensione, per lei, e voleva avviare un progetto di cui aveva perfettamente intuito l’interesse culturale. Alessandro Piperno, arrivato alla direzione della collana dopo Renata, ha poi sostenuto il lavoro con grande complicità. Il bello è che né Renata né Alessandro sono persone interessate alla fantascienza. Della fantascienza si può parlare per anni senza arrivare a nessuna conclusione definitiva. Anche se posso dire di averla sempre amata, è una categoria troppo vasta ed astratta per me, che ho una mentalità, forse antiquata, più legata all’ammirazione dell’eccellenza, al culto del singolo artista, che scriva una poesia lirica o una saga horror non mi interessa molto preventivamente.

Come è stato organizzato il lavoro tra te e Paolo Parisi Presicce, tra l’altro autore di una bibliografia critica dalla precisione sbalorditiva?

Paolo ha la passione delle bibliografie, e conoscevo già bene un suo lavoro notevole su Herman Melville uscito da Mimesis (herman Melville. Racconto di un tipo strano, 2019). È stato un amico comune, Beppe Sebaste, uno scrittore molto appassionato a Dick, a suggerirci di lavorare insieme al Meridiano. Devo a Paolo molte conoscenze importanti riguardo a Dick: volumi e articoli in riviste difficilmente accessibili. Anche il suo lavoro di traduzione e commento alla Trilogia di Valis, se vogliamo impropriamente chiamarla così, è stato decisivo. Poi c’è stata l’esperienza bellissima delle schede critiche dedicate ai singoli romanzi che abbiamo scelto per il Meridiano. L’idea di partenza è stata quella di far parlare direttamente Dick dei suoi romanzi, attingendo sistematicamente alla sua mania di auto-interpretarsi. In primo luogo, quindi, abbiamo attinto all’Esegesi, curata e tradotta da un gigante nella storia italiana di Dick, Maurizio Nati (anche se a volte il ricorso all’originale ci è servito per uniformare meglio il lessico e le informazioni veicolate…); poi i saggi e le conferenze di Dick; poi ancora ovviamente le interviste, perché Dick ne ha concesse di memorabili che ormai fanno parte della sua opera, prima fra tutte quella del 1974 a Paul Williams. Perché metto le interviste all’ultimo posto di questa scala di attendibilità decrescente ? Solo perché c’è un lato istrionico di Dick, in tutti i suoi rapporti umani, che rende necessaria molta cautela nel citare questa o quella risposta! Gestire in modo sensato questa enorme massa di parole è stato un lavoro nello stesso tempo, scusate l’ossimoro, paziente e spericolato. Però, nonostante tutto il fascino del suo lavoro di auto-interpretazione, che diventa colossale dal 1974 al 1982, ovvero negli ultimi otto anni della sua vita, il critico deve resistergli, non dimenticare il proprio punto di vista. Poi c’erano altre questioni che abbiamo approfondito libro per libro: i modelli di riferimento, stratificati e complessi come si addice a uno scrittore coltissimo e onnivoro come Dick, la frequente trasformazione di un racconto breve in un romanzo, la storia editoriale…p.s. devo dire che l’Enciclopedia dickiana, ovvero il Caronia-Gallo (La macchina della paranoia, Agenzia X, 2006) come lo chiamavamo alla maniera dei dizionari del liceo, è stato un modello utilissimo, soprattutto per certe voci che attraversano l’opera da capo a fondo («droghe», «poteri psi» eccetera eccetera).

Sandro Veronesi sul Corriere della sera lamenta che lo strano non è che sia uscito un Meridiano su Dick, ma che non fosse uscito già da tempo. Ed elenca una compatta schiera di scrittori che, secondo lui, devono molto alla scrittura di Dick. Tu cosa ne pensi? Davvero ha avuto quell’influsso sulla letteratura statunitense? E se sì è accaduto dopo Blade Runner?

Io sono molto vecchia maniera in queste cose, nel senso che non mi piace generalizzare. Che Thomas Pynchon, al momento di scrivere L’arcobaleno della gravità, sia montato sulle spalle di Time Out of Joint (c’è un bellissimo saggio di Umberto Rossi al proposito) mi sembra un esempio indiscutibile e molto interessante di trasformazione geniale di un’eredità. Lo stesso direi dell’Incal di Moebius e Jodorowsky. È da notare che in questi due esempi non sono solo la trama o la logica narrativa, ma un’attenzione al personaggio e alla sua psicologia che mi sembrano il contributo maggiore di Dick alla fantascienza. Detto questo, Veronesi ha ragione. La lista degli scrittori che qualcosa hanno attinto da Dick è impressionante.

Parliamo un po’ del rapporto tra PKD e la fantascienza. Mi viene in mente un autore poco studiato come Alfred E. Van Vogt. È Dick stesso che dichiara un legame tra la sua narrativa e quella del mostro sacro che verrà poi associato alla Dianetica e a saperi parascientifici. Certamente il tema dei mutanti, quello del potere e dei complotti, ancora un eccezionale dinamismo della trama sembrano accumunarli. Come ti sembra che fosse composta la cassetta degli attrezzi di Dick all’inizio della carriera?

Allora, Van Vogt era già un autore di culto quando ero un ragazzino, e Dick gli ha sempre tributato una giusta ammirazione. L’ho un po’ riletto durante il lavoro al Meridiano, trascinato dai suoi colpi di scena e dalla sua inquietante idea dell’umano. Senza essere ingiusto verso un grande maestro, riprendo l’accenno fatto nella risposta precedente: Van Vogt è un Dick senza psicologia, le sue trame scandite dai famosi colpi di scena (praticamente uno a pagina) sono perfetti fuochi di artificio ma sono quasi del tutto prive di spessore umano, e dunque di possibilità di identificazione. La mia convinzione è che lo scrittore al quale Dick abbia guardato con più ammirazione e invidia sia sempre stato Kurt Vonnegut.

Dick pur essendo nato come scrittore di fantascienza, tra i pulp più popolari, si rivela immediatamente affascinato dai capovolgimenti di punto di vista che, in seguito, diventeranno i capovolgimenti dell’intera realtà nell’ambito della dialettica che guida la tua analisi tra koinós kosmos e ídios kosmos, vale a dire tra realtà condivisa e realtà individuale. È attirato dal falso sin dai suoi primi scritti. Il suo primo romanzo, Solar Lottery, è basato su una truffa elettorale e su altri elementi legati alla falsificazione e alla bugia. Dick mi ha spesso ricordato Orson Welles. Altri scrittori di fantascienza usavano queste tecniche, come il capovolgimento grottesco, il paradosso, la parodia, penso Fredric Brown, Robert Sheckley, Cyril Kornbluth e Fredrik Pohl, ma lui sembra più coerente verso la logica del complotto prima politico poi ontologico. È questo che lo rende una figura sostanzialmente anomala in quel mondo molto contraddittorio della fantascienza? Un cane sciolto?

Non ci avevo mai pensato ma sì, è vero, in Dick c’è una certa grandiosità della concezione che può ricordare Orson Welles. La differenza è che in Welles, per motivi intrinseci all’industria del cinema, l’inespresso finì per prevalere decisamente su quello che riuscì a fare (la lista dei suoi progetti è lunga venti volte più della sua filmografia !), mentre a noi scrittori, per quanto sfigati possiamo essere, nessuno impedisce di finire il nostro libro che non costa nulla. Riguardo al complotto, direi che in Dick qualsiasi manipolazione politica è anche, per necessità, una manipolazione ontologica, una manomissione del principio di realtà. Un aspetto della mia introduzione al Meridiano che avrei voluto approfondire è l’analogia tra le distopie di Dick e l’analisi del totalitarismo di Hannah Arendt. Non mi interessa tanto la conoscenza diretta, ma la convergenza del pensiero.

Nel tuo Profilo mi sembra che prediligi la lettura antropologica/filosofica a quella politica di scrittore che nasce letterariamente durante il maccartismo e poi si libera negli anni della contestazione e delle proteste contro la Guerra del Vietnam e la denuncia di un potere poliziesco e imperialista. Ritieni il riverbero della situazione politica del suo contemporaneo dentro la sua scrittura come un elemento non particolarmente caratterizzante e originale?

Vedi, forse non tutti i lettori di questa rivista (che seguo fedelmente da tantissimi anni) saranno d’accordo, ma a me nella letteratura interessa la reazione soggettiva alla pressione del mondo, reazione che è sempre deformante e inattendibile, dunque priva di attendibilità. Quello che privilegio nel mio lavoro di critico, se vuoi che lo riassuma in maniera brutale, è l’essere soli al mondo e non capirci nulla, si tratti di Flannery O’ Connor o di Philip K. Dick.

Alla fine mi sembra che interpreti gli ultimi cinque romanzi di Dick come una riconciliazione tra il suo mestiere di scrittore di fantascienza e l’aspirazione a essere un letterato realista. Possiamo dire Dick raggiunge inconsapevolmente (o consapevolmente?) una dimensione postmoderna come Kurt Vonnegut? Sembrerebbe il percorso inverso di letterati come Philip Roth, Cormac McCarthy, Don DeLillo e molti altri…

No, c’è qualcosa di intrinseco al suo misticismo e al suo gnosticismo che mi sembra tenerlo legato alle sue origini – l’idea della salvezza come informazione più che come redenzione. Non mi stupisce la sua terminale scoperta dei testi gnostici, che conosceva in maniera molto approfondita. Il Cristo degli gnostici è colui che dissolve le tenebre dell’ignoranza, è un maestro molto più che un pastore. Ora tu mi chiederai che cosa c’entra questo con la fantascienza…ebbene, c’entra moltissimo, perché l’informazione salvifica è un segnale, difficile ma non impossibile da decifrare.

Una lettura un po’ piccata del Meridiano PKD che circola soprattutto nelle arene dei social sostiene che Dick sia stato inserito nella collana perché erroneamente non è un autore di fantascienza ma un letterato. Mi sembra che il tuo lavoro, invece, dimostri esattamente il contrario, ovvero che la fantascienza fa parte della letteratura e alcuni suoi autori abbiano dignità di essere accostati ai grandi romanzieri del Novecento. Sbaglio io o…

Guarda, io non seguo i social, e non per snobismo, ma perché non ho tempo e sono poco tecnologico, però è un errore rinchiudersi in un ghetto! Allora Stephen King cos’è, horror o un grande scrittore ? E H.P. Lovecraft ? E l’immensa Agatha Christie di cui Antonio Moresco ha curato un Meridiano che considero gemello del nostro ? La verità è che tutto è un genere, anche i libri che scrivo io sono una specie di genere con i suoi fan e la sua stampa specializzata.

Pier Paolo Pasolini. La tua lettura che accomuna Dick e Pasolini è estremamente interessante. Io aggiungerei che entrambi hanno praticato una ricerca religiosa convulsa, sincera ed eretica, ognuno nel contesto della tradizione e cultura del proprio continente, ma anche la loro critica alla tecnologia rivela comunanze sorprendenti. La ricerca del valore essenziale dell’umano che viene soffocata dalla società dei consumi (che è convergenza di tecnologie produttive e della comunicazione), il divenire macchina e le macchine diventare umani (ma umani scadenti…). Dick, da scrittore di fantascienza, letteralizza e brutalizza le metafore rendendole vicenda avventurosa, Pasolini invece usa il giornalismo e il pensiero critico per denunciare questa sottile invasione che sostituisce umani con ultracorpi… Per Pasolini è una visione nostalgica della civiltà contadina rivisitata soprattutto nel suo cinema, per Dick è una ricerca tutta statunitense del cristianesimo originale in una nazione in cui l’invenzione religiosa contemporanea era, ed è diffusa. Oltre a Pasolini, quali intellettuali europei vedi inconsapevolmente legati all’uomo di Ubik?

Sono molto d’accordo, e aggiungo un dettaglio significativo – la passione di entrambi per le interviste, praticate come un vero e proprio genere letterario. Aggiungerei un terzo nome a creare una costellazione decisiva, ed è un artista molto legato (a modo suo) all’immaginario fanatscientifico: Andrej Tarkovskij. Non sono maestri nostalgici, perché sanno bene che il passato perduto è irrecuperabile. Li vedo come grandi custodi dell’umano, che è sempre minacciato da forze avverse. Il loro erede più significativo mi sembra Anselm Kiefer.

Per finire, immaginario dickiano. A un certo punto lettori e critici impongono termini come shakespeariano, kafkiano, orwelliano. È il segno vero di una partecipazione all’universo della cultura mondiale, ma quanto è un tradimento?

Beh, ci sono uomini politici e militari che hanno dato il nome a un cappotto o a un panino, la nostra gloria è passare dal nome all’aggettivo. L’importante è ricordare che c’è sempre poco di Kafka nel “kafkiano” e di Dick nel “dickiano”. Ma con una differenza: basta aprire l’Esegesi per toccare con mano quanto il concetto di “dickiano” provenga dal diretto interessato, che ne parla con inquietudine e vero e proprio disagio…

 

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Abbasso le buone maniere https://www.carmillaonline.com/2025/06/23/abbasso-le-buone-maniere/ Mon, 23 Jun 2025 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88655 di Marco Sommariva

Non so voi, ma a me è capitato spesso di vivere situazioni in cui mi si voleva diverso da quello che in realtà ero; anche adesso mi succede, ma molto più raramente: si sono arresi un po’ tutti a questo mio stato. Quale stato? Niente di rivoluzionario, solo il pormi per quello che sono, difetti, pregi e limiti compresi, in qualsiasi situazione. Faccio un esempio, se – come successe nel 1999 – il governo italiano autorizza l’uso del proprio spazio aereo per una guerra, dico che non sono d’accordo anche se sono in presenza di persone che hanno [...]]]> di Marco Sommariva

Non so voi, ma a me è capitato spesso di vivere situazioni in cui mi si voleva diverso da quello che in realtà ero; anche adesso mi succede, ma molto più raramente: si sono arresi un po’ tutti a questo mio stato. Quale stato? Niente di rivoluzionario, solo il pormi per quello che sono, difetti, pregi e limiti compresi, in qualsiasi situazione. Faccio un esempio, se – come successe nel 1999 – il governo italiano autorizza l’uso del proprio spazio aereo per una guerra, dico che non sono d’accordo anche se sono in presenza di persone che hanno votato per Massimo D’Alema, ossia colui che presiede il governo in questione. In quell’occasione, coloro che avevano votato per i DS spalancarono gli occhi verso il sottoscritto scandalizzati dalla bestemmia appena pronunciata, mi dissero con le “buone maniere” che era un intervento obbligato e si sentirono in diritto di garantirmi che non s’andava di certo lì per bombardare qualcuno, e mai più li rividi quando il generale Mario Arpino, capo di stato maggiore della Difesa, ammise in un’intervista a la Repubblica che anche l’Italia sganciò le sue bombe: “Lei chiede: i Tornado hanno bombardato? Io dico che oltre a tutto il resto, oltre a migliaia di uomini che lavorano in queste ore per l’Italia e la Nato, alcuni velivoli italiani hanno anche colpito radar e batterie di missili che ci minacciavano. Ma è questo il problema?”

Fu mia mamma a chiedermi per piacere se, ogni tanto, potevo restare con la bocca chiusa, e lo chiese a un quasi quarantenne, non a un ragazzino; ora che mia madre non c’è più, son persino contento d’essere riuscito, ogni tanto, a far tacere il mio essere regalandole, così, qualche ora in più di serenità.

Il fatto che sia sceso a compromessi non significa che è bene farlo: resto dell’idea che ricoprire ruoli che non ci appartengono, non porta alcun beneficio, specie a lungo andare; benché, anche questo va detto, la volontà che altri recitino una commedia è sempre esistita e, molto probabilmente, sempre esisterà. Scrive Georges Simenon in Memorie intime (Adelphi, 2009): “stiamo per vederli, quegli indiani che fanno sognare milioni di bambini in tutto il mondo. […] Poverissimi, lo sguardo spento, fanno la commedia a uso dei turisti, e un totem scolpito e colorato segna l’ingresso al “villaggio”. Lì indossano il tipico costume reso popolare dal cinema e dai fumetti e, accovacciati davanti alle loro tende, offrono ai visitatori piccoli oggetti fatti con le loro mani. […] di lì a poco, quando i turisti se ne saranno andati, quegli indiani si toglieranno i vestiti con le frange, si metteranno dei blue-jeans e una camicia a quadri e si ritireranno nelle loro casette”.

Probabilmente, si chiede agli altri di recitare anche perché non si vuole essere i soli a farlo, ma questo è un terribile corto circuito: spegne la dignità. E a proposito di dignità, nel libro Conversazioni con Simenon di Francis Lacassin, è ancora lo scrittore belga di lingua francese a dire qualcosa d’interessante: “sostengo che il più grande crimine che si possa commettere contro un uomo non è portargli via la vita, ma la sua dignità. Ogni uomo ha bisogno della propria dignità. Che sia un operaio specializzato alla Renault, o un negro del profondo dell’Africa che mangia farina di miglio, ha bisogno della propria dignità, come gli indiani di una volta avevano bisogno delle loro piume”.

Per tornare alla guerra in casa d’altri… facile esser d’accordo con interventi militari quando sono diretti altrove. Sempre Simenon in Memorie intime: “ci si abitua presto alla guerra quando viene combattuta altrove. Anche adesso, mentre scrivo, si combattono guerre, sanguinose e spietate come lo sono tutte, e sono in atto rivoluzioni, e uomini vengono rinchiusi in campi di concentramento a causa delle loro idee o della loro razza, o del colore della pelle, o perché malauguratamente si trovavano in un certo posto al momento di un attentato dopo il quale le cosiddette “forze dell’ordine” hanno fermato a caso tutti quelli su cui sono riusciti a mettere le mani. Per non parlare poi delle torture, che fin dai tempi più remoti sono state inflitte, e ancora si infliggono, sempre in nome dell’“ordine”, in tutti i paesi del mondo”.

E che importanza ha se poi scopriamo cose tipo “siamo venuti a sapere che gli inglesi avevano bombardato il porto di Nantes e, mancato il bersaglio, avevano distrutto il più grande emporio della città causando più di centocinquanta vittime”.

I morti altrui si dimenticano più facilmente: il dolore degli altri è un dolore a metà, cantava il mio concittadino Fabrizio De André. Specie se si decide di credere alle veline del potere, di chi governa: “A ogni scontro aereo, entrambe le parti dichiaravano di aver abbattuto cento o duecento apparecchi nemici, limitandosi ad ammettere che cinque o sei aerei delle proprie squadriglie «non avevano fatto ritorno alla base»”.

Anche i due estratti precedenti sono tratti da Memorie intime. Con questo tomo pubblicato nel 1981 – l’edizione che ho in mano conta più di milleduecento pagine – Simenon uscì da un silenzio che durava dal 1972; il libro è una sorta di lunga confessione dedicata alla figlia Marie-Jo, suicidatasi tre anni prima.

Nel 1988 si suicidò un mio caro amico: lui ventiquattrenne, io un anno in più. Fu quello l’unico momento in cui ebbi la sensazione di sentirmi straniero, ma non straniero a un paese, straniero alla Vita. Per il resto, condivido in toto un altro passaggio di Memorie intime: “Per quanto mi riguarda, non mi sono sentito straniero da nessuna parte, nella Savana dell’Africa come nelle isole dei Mari del Sud, in Australia come nelle Indie. C’è un termine americano che definisce questo mio sentimento: to belong, “appartenere”. In qualunque paese americano, you have to belong, “devi appartenere”. Alla comunità. E io credo di appartenere non solo a un paese, a un continente, alla nostra piccola sfera terrestre, ma all’intero universo”.

La soddisfazione che provo leggendo Simenon – gialli di Maigret esclusi: non li conosco – pochi altri sanno darmela: Jack London, George  Orwell, Erich Maria Remarque, John Steinbeck, Aldous Huxley. Al momento, altri non mi vengono in mente. Cosa intendo per soddisfazione? Leggere pagine dove non son state utilizzate parole di troppo, trovare passaggi che riassumono, spesso riordinano, pensieri che già avevo in testa ma che non avevo ancora fatto totalmente miei; viene in un secondo tempo il godimento che può dare una trama o la descrizione di personaggi immortali spesso riconoscibili fra parenti, amici e conoscenti, per non dire dell’immedesimazione dell’autore nelle loro crisi. Insomma, la sincerità.

I personaggi dei romanzi. Da Conversazioni con Simenon: “domandavano a Balzac “Che cos’è il personaggio di un romanzo?”. E Balzac rispondeva: “È chiunque là fuori, ma che arriva fino al limite di se stesso”.

Tutti quanti noi non andiamo fino al limite di noi stessi, o perché abbiamo paura di finire in prigione, o perché temiamo di urtare i nostri simili, o per ipersensibilità, o per buona educazione, come si dice… Insomma, per un mucchio di ragioni, ci sono poche persone che arrivano fino al limite di se stesse. E ancora: “Creare personaggi e portarli avanti di peso richiede di mettersi nei panni degli altri, ed è talmente estenuante! […] Se i miei personaggi fossero falsi, non mi leggerebbero in uzbeco, in caucasico, in lituano, in tutti i paesi dell’America del Sud ecc.”

La trama, l’immedesimazione. Ancora da Conversazioni con Simenon: “Alla vigilia dell’ultimo capitolo, non sapevo come si sarebbe sciolto l’intreccio del romanzo, non sapevo assolutamente ciò che sarebbe necessariamente accaduto al mio personaggio. Questi seguiva una sua logica che non era affatto la mia logica. Io vivevo la sua crisi”.

Sul non utilizzare parole di troppo, ha scritto André Gide del romanzo Cargo di Simenon: “In questo romanzo non c’è assolutamente nulla che appaia inutile, nessun episodio, nessun dialogo, nessuna descrizione del paesaggio che non abbia una sua precisa funzione”.

Negli ultimi vent’anni, spesso mi sono ritrovato a sostenere che la differenza tra la fine che ha fatto il sottoscritto e quella che è toccata all’amico romano ex-brigatista rosso che partecipò al rapimento di Aldo Moro e che ha scontato più vent’anni di galera, non sta in nessun “merito” personale, ma solo nel quartiere dove siamo nati e, quindi, nelle amicizie che abbiamo stretto crescendo in strada: lui s’è ritrovato una Škorpion in mano, io no. Ma la rabbia, la voglia di rivalsa era la stessa. Sempre da Conversazioni con Simenon: “Attualmente si fa una campagna per gli animali in gabbia. E gli uomini in gabbia, allora? Poiché mettiamo ancora uomini in stanze non più grandi di una gabbia da leoni, a volte anche più piccole, e ci sono anche delle sbarre. L’idea che si possa fare questo a esseri umani mi indigna, mi fa ribollire il sangue. Che si voglia ostacolare più o meno ciò che si definisce crimine – credo che il crimine sia sempre esistito e che esisterà sempre –, d’accordo. Ma che si cerchi di bloccarlo cambiando la società, e non cambiando i giovani che seguono istintivamente la strada che la società indica loro in qualche modo. Non so che cosa sarei diventato se fossi nato in una casa popolare dei dintorni di Parigi. Ma sarei certamente diventato non l’anarchico… come direi… cerebrale, quale sono, non un anarchico d’istinto, ma un anarchico lanciatore di bombe, e forse un assassino”.

Questa condivisione di pensieri, conclusioni, autodenunce così personali, non può non legarti all’altro, a maggior ragione se l’altro è uno scrittore e ha prodotto centinaia e centinaia di opere – per anni, Simenon ha sfornato un romanzo ogni due mesi – che già ti hanno dato conforto e, presumibilmente, altro te ne daranno coi titoli che ancora non hai letto.

Lo scrittore belga riprende certe “sfumature” anarchiche anche nei suoi romanzi; scrive così in Cargo:
“- È vero che sei un anarchico?
Guardò con stupore l’uomo che aveva parlato con la bocca piena, un marinaio di coperta che calzava ancora gli stivali di gomma.
– Chi l’ha detto?
– Il giornale… Hai mai buttato bombe?
Non si sentiva in grado di fornire spiegazioni. E poi era troppo stanco.
– Mai.
Sbadigliò, appoggiandosi alla paratia.
– Ma allora…?
Eh già! Per loro, se uno non buttava bombe non valeva la pena di essere anarchico”.

Tra le tante cose, in Cargo si racconta anche del figlio di un anarchico condannato a morte per le sue idee politiche, il quale – chiuso nella fatalità del suo destino, nella sua povertà e timidezza – è costretto a fuggire con Charlotte, la sua amante, giovane anarchica che ha ucciso un ricco mercante per ottenere i quattrini necessari a finanziare un giornale anarchico: “Naturalmente lei non crede nell’Idea!… Lei non crede in niente, ed è un suo diritto. Ma noi, invece, ci crediamo e non siamo in pochi, nel mondo, a perseguire un ideale… Ma per farlo ci vogliono soldi… Gli opuscoli di propaganda costano cari… “Liberté”, il nostro giornale, viene a costare più di duemila franchi al mese. Be’, tre giorni fa, alla riunione del martedì, mentre tutti si domandavano come pagare la tipografia, io mi sono alzata e ho chiesto quanti soldi servivano… Trentamila? E se fossi stata capace, proprio io, di garantire un anno di vita al giornale?… […] Per due giorni mi sono appostata in boulevard Beaumarchais, aspettando che Martin fosse solo in casa… Ieri è successo… La domestica aveva il giorno libero… La signora Martin era dalla sorella. Gli ho dato l’aut aut: se mi avesse consegnato tutta in una volta una grossa somma, diciamo trentamila franchi, avrei tolto il disturbo per sempre… È un omicidio a scopo di rapina, questo? Avanti, me lo dica!… Ci guadagno forse qualcosa, io, da questa faccenda?… Portavo sempre una rivoltella in borsetta… Ho minacciato Martin, volevo fargli paura, perché non ci stava…”.

E così eccoci tornati all’utilizzo delle armi affinché un’Idea non muoia.

Le conclusioni e i pensieri di Simenon non sono mai banali, difficilmente rientrano nella norma anche riportandoli ai giorni nostri, o forse sarebbe meglio scrivere, soprattutto riportandoli ai giorni nostri. Altri due estratti da Conversazioni con Simenon: uno, su com’è cambiato il giudizio verso comportamenti ritenuti in passato “originali”; l’altro, sui turisti e i pacchetti vacanza che li portano in ogni angolo del mondo.

Il primo: “Le prigioni e gli ospedali sono il segno di un’organizzazione sociale sempre più restrittiva, più intollerante. Un comportamento che oggi si giudica anormale, un tempo era considerato semplicemente come “originale”. Attualmente gli ospedali sono pieni di persone che, una volta, vivevano libere nelle campagne. Facevano anche il loro “giro di Francia” ed erano ben accolte dai fattori, che permettevano loro di dormire sulla paglia nel fienile. Adesso tutte queste persone sono trattate come pericolosi vagabondi, come degli asociali. Sono esseri perseguitati per il minimo peccatuccio. Rubare una gallina, scavalcare una siepe e andare a mangiare qualche mela è diventato molto pericoloso. Un tempo tutto questo non contava. Allo stesso modo, una volta, non si incarcerava in un manicomio un tipo che era soltanto lo scemo del villaggio. Ogni villaggio aveva il suo matto. Mi ricordo ancora, quando ero giovane, di tizi dalle grandi mani: avevano delle zampe così, dei piedi così, uhuhuhuhuh: parlavano così; ma li si adorava e ci si prendeva cura di loro. E non erano pericolosi. Adesso, quelle persone le rinchiudono. Quando ti dicono che la criminalità è aumentata così tanto, ebbene non è vero. Glielo dico in base a statistiche che ricevo da New York. Il mondo è diventato così borghese che considera criminale colui che ha idee che non rientrano, o quasi, nella norma”.

Il secondo: “La gente mi dice: ma come, non viaggia più, non va più da nessuna parte, non è curioso? Ma di che cosa? Vedo in televisione che le città si assomigliano tutte. I palazzoni di cemento che sono qui a cento metri da casa li vedo dappertutto, che sia in Brasile, in Argentina, in Perù o in India. È lo stesso dappertutto. Il turista guarda tutto questo con aria imperiale! Perché ha pagato un pacchetto di dodici giorni o di otto giorni in cui gli promettono tutte le curiosità locali. Eh, si considera come una specie di re! Ma io considero il turista come il nemico del mondo intero. I turisti hanno sporcato il mondo, hanno snaturato tutto. […] ora i turisti vogliono vedere tutto, anche se non c’è niente che possa interessare loro. Ce ne sono dappertutto”.

A proposito di turisti… nella mia vita precedente scesi a un altro compromesso: dopo anni di stremanti discussioni, accettai d’andare in vacanza per una settimana a Sharm El-Sheikh, là dove la classe dirigente egiziana punta forte sul turismo di massa, in nome di guadagni a breve termine, nonostante questo stia mettendo a repentaglio due dei motivi principali del successo di quei luoghi: la barriera corallina e il patrimonio archeologico.

Nel dicembre del 2022, ho letto nell’articolo Egitto, la svolta green è una farsa che “I lavori a Sharm El-Sheikh sembrano non finire mai. La costante costruzione di nuovi resort di lusso per accogliere nuovi turisti ha completamente trasformato le coste, arrivando a impedire ai locali l’accesso libero alle spiagge”.

Non solo, sullo stesso sito si puntava il dito anche contro le fonti d’inquinamento storiche: “Sharm El-Sheikh è il secondo scalo aeroportuale egiziano. Il turismo di massa, fondamentale fonte di reddito, garantisce all’erario egiziano 6,5 miliardi di euro all’anno. I visitatori però sono da tempo troppi: il solo parco naturale di Ras Muhamad – l’estrema punta meridionale della penisola del Sinai, dove si trova Sharm – negli anni pre Covid-19 accoglieva circa 200 mila persone all’anno al netto di una soglia raccomandata di circa 7-15 mila”.

Quando mi feci convincere ad andare sul Mar Rosso, tutti questi numeri non esistevano ancora, ma visto che non mi occorre l’ufficialità di qualche studio per capire che sto andando a inquinare altrove soltanto perché mi accompagno a esseri che “devono” andare là per la soddisfazione di scattare qualche selfie e postarlo, provai a fare un ragionamento sul turismo di massa; anche stavolta usando le “buone maniere”, mi fu data una risposta di questo genere: “Mica andiamo lì per uccidere qualcuno, anzi, li aiutiamo portando loro i nostri soldi”.

Insomma, va bene tutto – guerra, inquinamento e chissà cos’altro –, ma l’importante è che sia in casa d’altri.

Ci tengo, però, ad avvisare tutti coloro che con le “buone maniere” pensano di sfangarla continuamente: qualcosa vi sta andando storto perché, come riportato in Memorie intime dal buon Simenon, “La «buona educazione» genera spesso dei ribelli, come è stato per me, che continuo a sentirmi a disagio in una società in cui le «buone maniere» non impediscono una condotta «vergognosa» che non si pensa a correggere, ma solo a nascondere”.

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Palazzo Cesi raccontato senza https://www.carmillaonline.com/2025/06/23/palazzo-cesi-raccontato-senza/ Sun, 22 Jun 2025 22:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=89120 di Luca Baiada

Simonetta Valtieri (a cura di), Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma. L’ampliamento e le trasformazioni operate dal XVI al XX secolo nel palazzo, già Gaddi, ora sede della giustizia militare, GB EditoriA, Roma 2022, pp. 198, euro 40.

Un oggetto che si presenta elegante, con una bella veste tipografica, questo libro dedicato al Palazzo Cesi di Roma. È un grande edificio fra piazza Navona e il Tevere, vicino a via dei Coronari. Malgrado la mole è poco conosciuto, anche perché vi si arriva solo se proprio si vuole: non ti cerca, non si impone, anzi [...]]]> di Luca Baiada

Simonetta Valtieri (a cura di), Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma. L’ampliamento e le trasformazioni operate dal XVI al XX secolo nel palazzo, già Gaddi, ora sede della giustizia militare, GB EditoriA, Roma 2022, pp. 198, euro 40.

Un oggetto che si presenta elegante, con una bella veste tipografica, questo libro dedicato al Palazzo Cesi di Roma. È un grande edificio fra piazza Navona e il Tevere, vicino a via dei Coronari. Malgrado la mole è poco conosciuto, anche perché vi si arriva solo se proprio si vuole: non ti cerca, non si impone, anzi si apparta. Prima d’ora, sul palazzo non esisteva una monografia aggiornata così precisa e fitta di note, perciò è bene che sia stato fatto un lavoro d’impegno come questo. Eppure manca qualcosa.

Su tre lati dell’edificio i corpi di fabbrica sembrano avere una storia singolare. Il più pregiato è su via della Maschera d’Oro (il nome viene da una maschera dipinta, poi scomparsa), troppo stretta per godersi la vista della splendida decorazione sulla facciata; comunque, adesso la decorazione non c’è più. Il lato su via degli Acquasparta, novecentesco, ha un prospetto di vecchia foggia. Il breve tratto su piazza Lancellotti è accostato a una chiesa sconsacrata e vuota. Del quarto lato, si vuole dire qualcosa sul fabbricato e sulla strada d’affaccio? Impossibile, perché l’uno non è stato costruito e l’altra era nel piano regolatore ma poi non l’hanno aperta. Sono tutti dati riportati in questo libro attentissimo, ricco di fotografie e di contributi[1]. Eppure sì, manca qualcosa.

Nelle biblioteche degli appassionati di antichi palazzi il volume ci vuole: è minuzioso sino ai dettagli. Sarebbe troppo, però, aspettarsi un’estetica non catalogale e non classista; del resto, forse che tutti gli appassionati di palazzi hanno queste esigenze? Per altri aspetti è una soddisfazione. Nel racconto dei passaggi di mano e delle vicende dei frequentatori ci sono matrimoni, eredità, alleanze e liti di nobili e alti chierici. Non importa, se non dice nulla sulla servitù, che preparava le feste e rosicchiava gli avanzi. Non importa, se tace sui contadini che mantenevano i signori: nella vasta sala del Linceo – il vano più prezioso – sono affrescate le località dei titoli nobiliari e quindi dei possedimenti; lontani da Roma, fuori della storia ufficiale, erano ad Acquasparta, a Carsoli, a Civitella Cesi, a San Polo, nell’Italia profonda, dove una plebe sfruttata e confinata nell’ignoranza faceva il padrone d’ozi beato e di vivande. Ma di certo, se si guarda alle famiglie nobili e borghesi, questo libro è uno scrigno di notizie. Però manca sempre qualcosa.

È bene che si parli di Galileo Galilei, anche se solo per cenni. Sulla facciata del palazzo c’è una scritta quasi illeggibile – tanti cantieri per il Giubileo, a Roma, ma non si spendono quattro soldi per restaurare una lapide – e il volume la riporta:

Il principe Federico Cesi romano

che stretto da persecuzioni maligne

mantenne l’ardore della scienza

investigatore illustre della natura

dell’Accademia de Lincei fondatore

in questo palazzo di sua famiglia

accolse le dotte adunanze

e l’amico suo Galilei.

S.P.Q.R. 1872[2].

Attenzione: 1872. Galileo fu qui, ma due secoli e mezzo prima. Questioni di potere temporale, quello che il papa nel 1872 aveva appena perso. Su questo diamo la parola al battagliero Alessandro Gavazzi, un patriota dell’Ottocento e un chierico (che divenne protestante). Scrive che i papi non hanno diritti su Roma e non vuole uno Stato del papa, neppure su un pezzetto della città; fa un esempio:

Qualora il papa dovesse signoreggiare principe indipendente ed assoluto, fosse ben anche nella sola cinta vaticana, ciò basterebbe per avergli riconosciuto il diritto al principato. Ma il diritto al principato essendo nel papa un’antifrasi, un assurdo, una bestemmia; così coloro si rendono complici di lesa ragione, e per noi di tradita patria, i quali vorrebbero pur lasciare al papa qualche bricciolo di temporalità[3].

Gavazzi non vide lo Stato pontificio rinascere nel 1929, col Concordato, per colpa dei fascisti. Già, i fascisti.

Nel libro si apprezza, insieme al ricordo di Galileo, quello appunto di Federico Cesi, fondatore dell’Accademia dei Lincei. Poteva vivere senza far nulla, e invece no: colto e intraprendente, studiava, sperimentava, organizzava. Certo, un conservatore; scrive che col sapere cresceranno le virtù, con vantaggi:

Haverà più soggetti osservanti del giusto et amici della pace, onde siano meno trasgredite le leggi e con più quiete si viva senza tumulti e sedizioni, senza desiderio di novità e di brighe[4].

Per pace intende quella sociale. La canzone Contessa di Paolo Pietrangeli non gli sarebbe piaciuta: «Voi gente perbene che pace cercate, la pace per far quello che voi volete…». Niente emancipazione di chi lavorava per mantenerlo, ma almeno si spendeva per il progresso scientifico.

Sui Lincei, però, il libro non coglie la sostanza: bisogna spiegare bene il senso dirompente della ricerca libera e della fondazione dell’Accademia, per quei tempi, e c’è da fare un accostamento meditato fra, allora, l’ostilità del clero e, nel Novecento, la manomissione fascista dell’istituto. Ancora i fascisti. E sempre manca qualcosa.

Un atto catastale del 1948, che spasso! Nel complesso abitano quattro dipendenti dell’amministrazione militare[5]. Non si sa se pagano un affitto, se lavorano lì, se ci sono di mezzo comodità passate attraverso il regno, il fascismo, l’occupazione tedesca, la Repubblica. Prendersela con loro? Dopo la Seconda guerra mondiale sfollati e disperati ricavavano case nei monumenti, nei ruderi, negli archi degli acquedotti (però non avevano un impiego statale). Si vede nel capolavoro neorealista di Castellani Sotto il sole di Roma, col ragazzo che abita nelle rovine; l’attore è lo stesso di Miracolo a Milano di De Sica.

A proposito: Era notte a Roma, di Rossellini, è ambientato a poca distanza da Palazzo Cesi, in un edificio a San Salvatore in Lauro con vicinanze sorprendenti fra lusso e stanzucce; durante l’occupazione, in un salotto, fra un nazista vero e un ufficiale inglese travestito da cameriere, un aristocratico si vanta: il palazzo è fatto con le pietre del Colosseo. Forse è sempre andata così: splendori, degradi e riusi dei luoghi e delle cose. Rutilio Namaziano, nel Quinto secolo, cioè in piena decadenza, viaggia da Roma alla Gallia passando per Civitavecchia, Porto Ercole, Pisa: persino in edifici prestigiosi trova gente accampata[6]. Il volume, ecco, stimola la riflessione. Però, davvero, manca sempre qualcosa. Insomma, di che si tratta? Cosa manca?

Dagli anni Quaranta del Novecento Palazzo Cesi è sede degli uffici centrali della giustizia militare; e questo nel libro non manca. Il punto è un altro. Finita la guerra, i documenti con le indagini sulle stragi nazifasciste dal 1943 al 1945 – decine di migliaia di morti – vanno a formare un archivio per processare i colpevoli. In concreto si fanno pochi dibattimenti clamorosi, poi basta, e dagli anni Cinquanta restano in carcere solo due nazisti: Kappler e Reder (molti anni dopo, liberati anche loro, con manovre luride). Tutto lì. I fascicoli sui massacri, che spesso contengono prove precise, persino mappe dei fatti e nomi dei colpevoli, compresi i collaborazionisti fascisti, sprofondano in uno spazio chiuso, fisico e mentale. Così le stragi rimangono impunite. Ecco cosa manca nel libro.

Quegli atti restano proprio a Palazzo Cesi e saranno rifrequentati solo nel 1994, cinquant’anni dopo la guerra. Il giornalista Franco Giustolisi nel 2004 chiamerà questa storia Armadio della vergogna[7]. Mezzo secolo di insabbiamento, di colpevole silenzio, di far finta di niente. Tutto sul sangue delle persone e sul lutto dei familiari. Anche sui corpi di oltre mezzo milione di militari, deportati e fatti lavorare come schiavi, trattati da bestie, lasciati morire di stenti; perché stragi e deportazioni sono inseparabili. In quelle storie ci sono le razzie, le devastazioni dei paesi incendiati, il dolore dei borghi saccheggiati, le donne stuprate, un numero incalcolabile di orfani, l’angoscia per i dispersi, le famiglie schiacciate nella miseria materiale dell’Italia devastata.

Verranno altre miserie: quella morale dell’Italia consumista, poi quella politica degli opportunismi, del riflusso e delle tangenti, e ancora quella della deindustrializzazione, della terziarizzazione, della finanziarizzazione. E l’archivio sempre lì, fino a una riemersione misteriosa, nell’Italia del primo berlusconismo. Non c’è coerenza, in questo? Con Berlusconi la società dello spettacolo celebra l’eclissi della vergogna, e un’Italia svergognata non ha più bisogno di un nascondiglio vergognoso.

Adesso a Palazzo Cesi gli uffici giudiziari militari ci sono ancora, ma nessuna scritta ricorda al pubblico l’osceno sequestro di giustizia. Per i Lincei e Galileo una lapide illeggibile, per le stragi impunite neanche quella, benché sia lo scandalo di potere più violento della storia postunitaria: l’indicibile grumo nero dell’Armadio della vergogna. Su questo mare di sangue sepolto, sul fatto che l’archivio fosse lì, proprio nel Palazzo Cesi, l’elegante volume non dice neanche una parola.

E pensare che c’è persino l’immagine di un’edicola religiosa, fuori, che è a pochi metri dal punto in cui era l’archivio, ma dentro[8]. Forse qualche familiare delle vittime ha pregato o ha messo un fiore proprio lì, senza sapere che la verità sui massacri era a un passo, là oltre il muro. All’epoca il centro di Roma era del popolo. Per esempio: Remo Perpetua, caduto alle Ardeatine, abitava a Tor di Nona; sono pochi passi. Nella famiglia di un rigattiere, del Palazzo Cesi non potevano conoscere che l’edicola per strada, cioè un angolo dove piangere.

Il volume tace, eppure: è realizzato con la collaborazione di un alto magistrato militare, e della giustizia militare ha lo stemma ufficiale sul risvolto di copertina. Dove è stato presentato, dopo la pubblicazione, Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma? Ma a Roma, in via della Maschera d’Oro, a Palazzo Cesi.

 

 

[1] Il libro contiene i contributi di Enzo Bentivoglio, Ferruccio Ferruzzi, Giorgio Ortolani, Simonetta Valtieri; le prefazioni sono di Daniela Porro, soprintendente speciale di Roma, e di Roberto Bellelli, magistrato militare, promotore e responsabile del progetto; è stato promosso anche dall’associazione culturale RinascimentiAmo: un Futuro per il Passato.

[2] Simonetta Valtieri (a cura di), Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma. L’ampliamento e le trasformazioni operate dal XVI al XX secolo nel palazzo, già Gaddi, ora sede della giustizia militare, GB EditoriA, Roma 2022, p. 76, nota 18.

[3] Alessandro Gavazzi, Roma tutta dell’Italia. Pensieri in risposta al cav. Massimo D’Azeglio, Tip. Gargiulo del Messaggiere Napolitano s.d. (ma degli anni Sessanta del XIX Secolo), pp. 23-24.

[4] Federico Cesi, Del natural desiderio di sapere et institutione de’ Lincei per adempimento di esso, in Maria Luisa Altieri Biagi, Bruno Basile (a cura di), Scienziati del Seicento, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1980, pp. 66-67.

[5] Valtieri (a cura di), Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma, cit., p. 167, nota 8.

[6] Rutilio Namaziano, De reditu suo, trad. Il ritorno, Einaudi, Torino 1992.

[7] Franco Giustolisi, L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004.

[8] Valtieri (a cura di), Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma, cit., pp. 47 e 49.

 

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Cozzilla il re dei mostri https://www.carmillaonline.com/2025/06/21/cozzilla-il-re-dei-mostri/ Sat, 21 Jun 2025 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88900 di Franco Pezzini

Cozzilla. Il mondo di Luigi Cozzi, a cura di Marco Chiani, pp. 482, € 35, Profondo Rosso, Roma 2024.

Che il fantastico – e soprattutto il gotico – popolare italiano degli anni Sessanta (quello di Barbara Steele, per intenderci) abbia rappresentato un’irripetibile stagione dell’immaginario, è arcinoto ormai anche per la diluviale serie di studi che lo riguardano. Nel decennio successivo il fantastico in Italia si rapporta e si mescida a un genere thriller molto forte e febbricitante; in seguito le opere visionarie non spariscono – per fortuna – ma in un mondo cambiato rappresentano più l’opera di singoli [...]]]> di Franco Pezzini

Cozzilla. Il mondo di Luigi Cozzi, a cura di Marco Chiani, pp. 482, € 35, Profondo Rosso, Roma 2024.

Che il fantastico – e soprattutto il gotico – popolare italiano degli anni Sessanta (quello di Barbara Steele, per intenderci) abbia rappresentato un’irripetibile stagione dell’immaginario, è arcinoto ormai anche per la diluviale serie di studi che lo riguardano. Nel decennio successivo il fantastico in Italia si rapporta e si mescida a un genere thriller molto forte e febbricitante; in seguito le opere visionarie non spariscono – per fortuna – ma in un mondo cambiato rappresentano più l’opera di singoli maestri o produzioni che non stagioni singulari come in precedenza.

Ecco, come una lama da film dei Settanta s’incunea in questo quadro un’esperienza pop di notevole interesse, certo minore rispetto a quelle oggetto di paludate retrospettive su grandi eclettici maestri (Mario Bava, Riccardo Freda, Camillo Mastrocinque…) ma di estrema suggestione per mostrare la vitalità variegata di un cinema popolare in un’Italia che – verrebbe purtroppo da dire – non sa sempre cosa farsene. La robusta monografia in oggetto è insieme il corrispettivo di un’enorme tavola rotonda, di un archivio di documenti da faldoni altrimenti irraggiungibili, nonché la prova d’amore per una produzione artigiana per tanti versi nel nostro paese penalizzata e tuttavia vitale, attraverso l’esperienza di una voce significativa.

Ho conosciuto Luigi Cozzi tra gli anni Novanta e il nuovo millennio, quando il suo negozio “Profondo Rosso” in via dei Gracchi, allestito con Dario Argento – poi anche casa editrice – era l’unica sede in cui mi riuscisse di trovare registrazioni in VHS di film horror al tempo rari, avventurosamente copiati all’apparire su qualche rete tv locale. Dunque film a volte censurati, a volte piuttosto malconci, con il nastro che tradiva una stanchezza perlacea, consunta: ma sempre meglio che niente, e attendevo i loro pacchi con ansia. In seguito le iniziative dell’attivissimo Cozzi si sono moltiplicate, hanno preso quota su più fronti (il catalogo dei loro titoli presenta per esempio un certo numero di volumi di grosso interesse, accanto ad altri più divulgativi, nei filoni di storia del cinema di genere, fantastico e fantarcheologia, e una panoramica preziosa di scelte in DVD); e al contempo il regista/scrittore (di fantastico e noir) rappresenta una vulcanica memoria storica – di miriadi di aneddoti – su un intero panorama di rapporti col cinema, italiano e non solo. Di suo, Cozzi non ama particolarmente il macabro, piuttosto la fantascienza, e tuttavia per motivi professionali ha una lunga storia di collaborazione con Dario Argento.

A tenere con attenzione e passione le fila dell’operazione Cozzilla (titolo amabilmente ironico) è Marco Chiani, giornalista specializzato in cinema, coordinatore della redazione di Cinemonitor alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’università La Sapienza. Che chiarisce nell’Introduzione (Luigi in the Sky with Diamonds):

 

In sintesi, l’attività di Cozzi è divisibile in tre aspetti facilmente individuabili – scrittura, cinema e editoria – che hanno continuato a coesistere, nutrendosi l’uno dell’altro da oltre cinquant’anni; con buona pace di chi crede che, da The Black Cat – De Profundis (1989) a Blood on Méliès Moon (2016), il nostro sia stato con le mani in mano in fatto di immagini in movimento, la filmografia alla fine del testo mette nero su bianco documentari realizzati e collaborazioni a progetti cinematografici e televisivi. Proprio le tre macro-aree identificate dividono orizzontalmente il nostro percorso, lasciando libero diritto d’asilo al pezzo eccentrico, fuori schema. Al netto di un diffuso approccio personale, anche gli articoli più analitici si distinguono per un taglio volutamente eterogeneo col fine di restituire una molteplicità di sguardi puntati su una notevole avventura culturale e umana.

 

La raccolta dunque, dopo un primo colloquio con Cozzi, avvia una sezione La pagina scritta: ventun contributi (spesso testimonianze) di una pletora di nomi noti sulla scrittura, l’editoria e la critica del fantastico in Italia, da Alfredo Castelli e Alda Teodorani, a Ugo Malaguti, Fabrizio Foni, Sebastiano Fusco e Fabio Giovannini, con bibliografia finale. Seguono altre sezioni su rassegne e distribuzione, film e televisione – dove troviamo le firme di Enrico Luceri, Rudy Salvagnini, Davide Pulici, Fabio Zanello, Antonio Tentori, Luca Castoldi, Manlio Gomarasca, Giuseppe Lippi (testo di una e-mail 2016)… – e sul regista – tredici contributi, di Marco Giusti, Lamberto Bava, Giuseppe Festino, Giulio Leoni, Mirella D’Angelo… Non può mancare un’intervista a Dario Argento sul “collaboratore di più lunga data” tra i suoi. Ogni tanto, il curatore interviene con un pezzo a integrare e ricalibrare.

Seguono filmografia, foto e qualche pagina memoriale a firma del regista, produttore, attore, scrittore. Che peraltro non sgomita (altro pregio) nell’autocelebrarsi: nel complesso, il volume è soprattutto una storia molto umana di amicizie e passioni comuni.

Nato nel 1947, figlio di un cineamatore, folgorato nel 1955 da Ventimila leghe sotto i mari della Walt Disney, aderente a quel fandom entusiasta che lo porterà a varare da regista pellicole “classiche” (almeno in certo modo ruspante) come L’assassino è costretto a uccidere ancora (1975), Godzilla il re dei mostri (insieme a Ishirō Honda e Terry O. Morse, 1977), Starcrash – Scontri stellari oltre la terza dimensione (1978), Hercules (1983), Paganini Horror (1988, il suo unico horror) e i secondi nove episodi della serie Turno di notte (1987-1988) e a cercare di arruolarvi le proprie icone (non si sta parlando di Tim Burton, e i capitali sono quelli che sono – comunque nomi noti come Caroline Munro, Christopher Plummer, Donald Pleasence), Cozzi arriva troppo tardi per partecipare da regista ai fasti gotici degli anni Sessanta. Ma al tempo conosce giovanissimo Forrest J. Ackerman, Roberta Rambelli e Silverio Pisu, anima delle Fiabe sonore della Fratelli Fabbri, e intervista Bava, Freda, Margheriti e Lenzi; riesce quindi a inserirsi nell’ondata thriller dei Settanta e collabora con Argento, per poi battere un percorso autonomo ed eclettico. Toccando un po’ tutti i generi, dal peplum ai kaijū eiga, dal film storico alla fiaba alla commedia.

La documentazione è ricchissima e comprensiva di programmi di manifestazioni, rassegne stampa, elenchi di distribuzioni, produzioni televisive, persino indicazioni di sceneggiature non realizzate (tra queste, un Frankenstein assieme a Dario Argento, ambientato nella Germania di Weimar al tempo del tentato putsch della birreria, il mostro avrebbe metaforizzato il nazismo – ma Argento poi non se la sentì, “Non lo so, era troppo forse”). Molte foto, manifesti, copertine di libri e riviste ci guidano comunque a contestualizzare anche il provocatorio epiteto al regista, “The Italian Ed Wood” – probabilmente ingeneroso ma evocativo di una fantasia sfrenata. Insomma la testimonianza di un bacino dell’immaginario meno noto e celebrato di altri, ma fondamentale per capire l’humus fertilissimo di tante piccole produzioni, bacino di storie e memorie che merita assolutamente conservare.

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