Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 26 Jul 2024 20:09:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Non è ver che sia lo spettro https://www.carmillaonline.com/2024/07/26/non-e-ver-che-sia-lo-spettro/ Fri, 26 Jul 2024 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83581 di Franco Pezzini

Fabio Camilletti, Spettri familiari. Letteratura e metapsichica nel secondo Novecento italiano, Unicopli, Trezzano sul Naviglio MI 2024.

Un affresco sacro scrostato, poi un vicolo di notte: sul fondo, lenzuola appese ai fili tra gli opposti edifici e auto posteggiate, a suggerire che si parla di una realtà moderna. Una giovane donna corre nella nostra direzione, sbircia indietro – evidentemente per esser certa che qualcuno la segua, che non si perda – e trattiene il lungo scialle perché non scivoli via nella corsa: una donna, ci accorgiamo, bellissima, dall’ampia chioma riccia, con un abito che qualcuno dirà “un po’ [...]]]> di Franco Pezzini

Fabio Camilletti, Spettri familiari. Letteratura e metapsichica nel secondo Novecento italiano, Unicopli, Trezzano sul Naviglio MI 2024.

Un affresco sacro scrostato, poi un vicolo di notte: sul fondo, lenzuola appese ai fili tra gli opposti edifici e auto posteggiate, a suggerire che si parla di una realtà moderna. Una giovane donna corre nella nostra direzione, sbircia indietro – evidentemente per esser certa che qualcuno la segua, che non si perda – e trattiene il lungo scialle perché non scivoli via nella corsa: una donna, ci accorgiamo, bellissima, dall’ampia chioma riccia, con un abito che qualcuno dirà “un po’ da zingara”, ma solo perché non è consueto a chi non sia frequentatore abituale delle stampe di Bartolomeo Pinelli. Corre verso di noi, ma intanto è partita una musica che pure punta a noi. A noi che quella scena in bianco e nero l’abbiamo vista magari mille volte, che conosciamo la melodia perfettamente e mille volte inseguiamo Lucia – perché il fatto che corra nella nostra direzione non ci rende più capaci di trovarla di quanto sia in grado chi la sta inseguendo.

Infatti, il titolo è appena apparso in sovraimpressione – con i caratteri sobri di un altro tempo della storia del piccolo schermo – ed ecco che Lucia sparisce sulla sinistra del video. Subito dopo compare di corsa il giovane che la insegue, e i titoli di testa prendono a scorrere. Via via riusciremo a vedere meglio i volti dei due nel dedalo dei vicoli – l’ironia vagamente malinconica di lei, l’ansia di lui – finché Lucia non sbuca in una piazza, continuando a guardare indietro (alle nostre spalle, potremmo ora dire) e abbozza un gesto col viso, un “Seguimi” muto che vorremmo fosse diretto a noi. E forse stavolta lo è.

“[…] probabilmente il più importante sceneggiato della storia della Rai”: così il sito Rai Play definisce Il segno del comando, che nel 1971 per cinque settimane – dal 16 maggio al 13 giugno – inchioda gli spettatori davanti al video. Eppure non è solo per la magnetica presa della storia (una trama incalzante, il fascino del mistero, una sfida a capire) che in un’Italia tanto diversa da quella di oggi Il segno del comando si guadagna tale riconoscimento. I motivi sono parecchi, e il loro sapiente dosaggio permette un’alchimia dai risultati mai più raggiunti con tanta efficacia.

E partiamo da qui, da quest’opera su cui si chiudeva il pionieristico Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto di Fabio Camilletti (Lang, 2018) per presentare questo ideale sequel, o ampliamento per focus, persino migliore – anche se il precedente costituiva un’introduzione ricca e necessaria allo studio dell’occultura in Italia. Un paese che ha visto – come altri d’occidente, va detto, ma con connotazioni molto particolari – il rapporto tra modernità (boom economico, con scienza e tecnologia relativi) e spettri scandito in base al loro rapporto con le agenzie di certezza pubbliche, Chiesa cattolica e magistero Pci: e quanto negli anni Sessanta, per il loro controllo incrociato, era rimasto sotto il pelo di una pubblica attenzione se non ad opera di eccezionali eccentrici (si pensi a Buzzati, a Fellini) nei Settanta esploderà a fenomeno di massa come Grande Revival magico per conoscere una contrazione, come altre utopie, all’alba del decennio successivo.

Anche Spettri familiari parla a un certo punto del Segno del comando, e inevitabilmente: laddove affronta l’opera di un autore che deve ben aver ispirato gli sceneggiatori, Giorgio Vigolo, con le sue storie – in particolare Le notti romane, 1960 – su una “Roma fuor di sesto” (come s’intitola il cap. 3). Storie di time-slip, che dal capezzale di Ernesto de Martino intento a offrire alla giornalista ventiseienne Fausta Leoni un’ultima intervista, sconcertante, sul rapporto tra tempo e paranormale (1965), tra speculazioni parascientifiche e letterarie in tema di “compresenza dei tempi”, si dipana a constatare come in Roma le diverse epoche coabitino e si compenetrino rivelando pieghe paradossali. Ciò che nello sceneggiato emergeva non solo dalla vertigine temporale di un minuetto di reincarnazioni, ma dall’effetto straniante di chiavi diverse della trama, compenetrate a forza durante la lavorazione (a un’originaria soluzione razionalista se n’era sovrascritta una sovrannaturalistica, senza che l’una cancellasse in toto le tracce dell’altra, a perdere lo spettatore almeno quanto l’attonito protagonista Forster): ma insieme “un tempo finito improvvisamente ‘fuor di sesto’, soggetto a un ‘andamento a singhiozzo’: un fenomeno che investe la sfera intra-diegetica quanto quella extra-diegetica, finendo per riverberarsi sull’atmosfera stessa del set”. Con il teatro di una città dei morti come Purgatorio a-teologico, a richiamare quell’aldilà popolare che di cattolico presenta solo alcuni elementi ma assomiglia maggiormente a un Ade pagano.

Si è detto che il volume rappresenta una sorta di sequel a Italia lunare nel senso di riprenderne il filo di ricerca e alcune provocazioni tematiche (Il Segno del comando, appunto): ma non un sequel in senso cronologico, perché il discorso non parte dagli anni Sessanta, ma da molto prima. Dopo una bella introduzione sui fantasmi della nostalgia, Spettri di Nonna Speranza, tra Nilla Pizzi, Nunzio Filogamo e Gozzano, infatti, il capitolo 1, Dispacci dall’oltretomba, riguarda Gli scritti medianici di Pitigrilli, a partire dal 1940 e con molte informazioni retrospettive. Dove il rapporto tra messaggi del tavolino di fantasmi eccellenti – narratori, poeti… – e scritture imitative del losco informatore dell’Ovra (“scrittore-spia e spia-scrittore”, secondo Lussu), nonché superficialotto alla deriva di se stesso, dice parecchio del suo patetico tentativo di sfuggire alle colpe rifugiandosi in un cenacolo immaginoso e consolatorio.

Segue (cap. 2) Il gran teatro delle anime in pena, sui fantasmi di Eduardo, in particolare su Questi fantasmi! (1946), lo spiritismo napoletano dalla Belle Époque in avanti, Lombroso e gli Spiriti inquilini, il nesso tra munaciello/Poltergeist e charivari nello stigmatizzare unioni problematiche, la dimensione fantasmatica del teatro. Mentre alla parte su Vigolo segue Caramelle al cimitero (cap. 4) sulle scampagnate medianiche narrate da Dino Buzzati, in particolare sul dimesso medium trevisano Lava: ma ci sono anche il torinese Rol e il romano Fulvio Rendhell.

Può interessarci poco che Rol sia stato anzitutto un grande mentalista, forse convinto di dover combattere coi suoi prodigi – non parlava di spiriti – il materialismo in anni di crisi delle tradizionali istanze religiose, o forse rimasto prigioniero del proprio garbatissimo personaggio (che Piero Angela, si noti, non volle mai disturbare). Chi scrive, ragazzo negli anni Settanta ed entusiasta di storie strane, aveva cercato d’incontrarlo con il sistema poco medianico d’una telefonata: non avevo detto che tra i suoi frequentatori c’era un amico dei miei nonni, e mi ero sentito rispondere da un gentilissimo maggiordomo che Rol non era disponibile a un incontro. Sospetto in realtà che il presunto maggiordomo fosse Rol stesso, e ci penso spesso passando davanti alla targa affissa sulla facciata della casa di via Silvio Pellico dove abitava. Mentre di Rendhell leggevo con avidità le avventure parapsichiche pubblicate su un rotocalco comprato da mia madre (doveva essere la testata Grazia): ghost story bellissime – almeno così le ricordo, l’autenticità non importa –, che meriterebbero senz’altro una ripubblicazione in volume.

La conclusione, Una tavoletta ouija a Villa Finzi-Contini, sul filo di Bassani, le Storie di spettri di Mario Soldati e le voci dei parapsicologi (Talamonti, Dèttore…) evoca – verbo quanto mai proprio – i fasti del bicchierino (o della tazzina, come si usava allora tra ragazzi) a porre il problema di “Cosa sono gli ‘spiriti’ che intervengono alle sedute?”. La risposta, in questo bellissimo libro di storia della cultura e di letteratura italiana (con pagine altissime), non la offrono la parapsicologia né tantomeno lo spiritismo: quegli spiriti riguardano noi e la realtà del tempo in cui siamo immessi, le dimensioni della vita e della morte che ci interpellano in modo più pressante man mano che gli anni passano, le nostre nostalgie e malinconie e le stesse urgenze della scrittura. Un tema non certo derubricabile a vuota sciocchezza, per le infinite e graffianti consonanze a ciò che siamo, alla fictio della letteratura e all’autofiction (autoinganni compresi) suggeritaci da una società, al rondò di sentimenti, emozioni, paure, contraddizioni che viviamo ma a volte tenendoli sotto il tappeto. E accidentalmente su quel tappeto posa un tavolino a tre gambe. Qualche volta, danza nell’aria.

]]>
La nave come scrigno di sogni https://www.carmillaonline.com/2024/07/25/la-nave-come-scrigno-di-sogni/ Thu, 25 Jul 2024 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83588 di Paolo Lago

Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, Giunti, Milano, 2024, pp. 205, euro 14,00.

Nel nuovo romanzo di Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, incontriamo due spazi nettamente separati da tutti gli altri: l’isola e la nave. Si tratta di due vere e proprie eterotopie, per usare una definizione coniata da Michel Foucault. Non è un caso che il romanzo rechi come esergo proprio una frase dello studioso francese, tratta dal suo saggio sulle eterotopie: “Nelle civiltà senza battelli i sogni inaridiscono, lo spionaggio rimpiazza l’avventura e la polizia i corsari”. La storia si dipana su un’isola del Mediterraneo del Sud, [...]]]> di Paolo Lago

Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, Giunti, Milano, 2024, pp. 205, euro 14,00.

Nel nuovo romanzo di Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, incontriamo due spazi nettamente separati da tutti gli altri: l’isola e la nave. Si tratta di due vere e proprie eterotopie, per usare una definizione coniata da Michel Foucault. Non è un caso che il romanzo rechi come esergo proprio una frase dello studioso francese, tratta dal suo saggio sulle eterotopie: “Nelle civiltà senza battelli i sogni inaridiscono, lo spionaggio rimpiazza l’avventura e la polizia i corsari”. La storia si dipana su un’isola del Mediterraneo del Sud, ispirata a Linosa ma, come scrive l’autore in una nota finale, “non vi è stato alcun tentativo di raccontare un territorio specifico, bensì quello di costruire un’isola fantastica che prendesse spunto da una tra le isole minori italiane più piccole e lontane, in tutti i sensi”. Ci troviamo perciò di fronte a un’isola “fantastica”, che si trasforma in un vero e proprio contenitore di avventura perché il romanzo di Marmeggi si inserisce pienamente nel modo narrativo dell’avventura, oltre che in quello del cosiddetto ‘romanzo di formazione’, perché viene raccontata – appunto – la formazione di due ragazzi, Mimì e Flora, studenti dell’ultimo anno di scuola media. È un romanzo per ragazzi? Sicuramente sì, e dovrebbe figurare anche fra i libri consigliati nelle scuole, ma è anche un libro per tutti e che appassionerà tantissimo i grandi. Bisogna dire che è anche un romanzo antifascista, e oggi, vista la particolare temperie politica che si addensa su questo paese, ce n’è particolarmente bisogno. L’avventura e l’immaginazione, in L’isola di Medusa, diventano degli strumenti di resistenza all’odio e alla violenza che sempre di più circondano la nostra quotidianità.

Mimì e Flora, fin da quando erano bambini, percorrono in lungo e in largo la loro isola a caccia di tesori nascosti, realizzando una mappatura fantastica del territorio, come Jim dell’Isola del tesoro di Stevenson. L’isola è uno spazio eterotopico e fantastico, aperto all’avventura e all’immaginazione, uno spazio che, nella letteratura di tutti i tempi, ha sempre assunto connotazioni utopistiche (basti solo pensare ai Viaggi di Gulliver di Swift o al Robinson Crusoe di Defoe). Però, come già nel precedente romanzo di Marmeggi, Il respiro del dinosauro (qui la recensione su “Carmilla”), lo spazio insulare appare in netta opposizione a quello della nave. Se l’isola si configura come il luogo del controllo, dell’odio nei confronti dello ‘straniero’ portato avanti da alcuni personaggi (nel Respiro del dinosauro, ambientato nel 1929, i portatori d’odio erano proprio dei piccoli fascisti), della fuga continua per sfuggirgli, le navi e le imbarcazioni sono un vero scrigno di sogni, come leggiamo nella frase di Foucault citata in esergo: nelle civiltà senza battello, la mappatura del controllo poliziesco prende il sopravvento, e sostituisce l’immaginario avventuroso di pirati e corsari.

L’isola di Medusa è un romanzo antifascista anche perché mostra due giovani che, con tutte le loro forze, si oppongono all’odio strisciante nei confronti degli stranieri, dei migranti e degli immigrati, un odio che sembra attraversare in lungo e in largo l’Italia contemporanea, a cominciare da un tragico e recente fatto di cronaca – la morte del lavoratore indiano, sfruttato, sottopagato e abbandonato morente come un oggetto dal suo datore di lavoro – per arrivare alle frasi razziste contro ebrei e immigrati ad opera dei giovani ‘meloniani’, come è emerso da un’inchiesta nei giorni scorsi. Durante una delle loro scorribande sull’isola, dopo che il territorio è stato spazzato dalla furia del ciclone Medusa (che viene personificato e tratteggiato come il personaggio mitico da cui trae il nome), Mimì e Flora si imbattono in un giovane migrante africano, Seydou, arrivato clandestinamente a bordo di un peschereccio, e rischieranno anche la vita per aiutarlo a proseguire il suo viaggio. Figure dell’odio sono invece Santuzzo e la sua banda, che girano per l’isola a bordo di un’ape verde militare divertendosi a sparare agli uccelli. Sarà proprio la banda di Santuzzo, xenofoba e violenta, a dare la caccia a Mimì, Flora e Seydou con un feroce pitbull.

Non vorrei rivelare di più sulla trama di questo romanzo: è giusto che il lettore vi si immerga lentamente e scopra volta per volta i risvolti narrativi, anche sorprendenti, che si celano nelle sue pagine. Basti dire che, in maniera nettamente opposta rispetto al territorio dell’isola setacciato dalla banda dei violenti (non meno violenti dei rastrellamenti fascisti di Il respiro del dinosauro), si configura lo spazio navigante, sia esso peschereccio, barca da diporto, nave merci o traghetto. È grazie a un peschereccio che Seydou è arrivato sull’isola, fuggendo agli inferni libici, ed è grazie a esso che riesce a progettare una fuga (come nel film Terraferma di Emanuele Crialese): come quest’ultima si evolverà dovranno scoprirlo i lettori. Il traghetto, poi, per i ragazzini dell’isola, assume i tratti di un universo fantastico in movimento, che li conduce verso le nuove esperienze che la vita spalancherà loro nel continente, dove dovranno recarsi a studiare, lontano dall’isola. Il traghetto è la nave che li fa volare lontano, attraverso i sogni, come il mitico aviatore inglese George Birinchein, figura ispirata al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Vi sarà poi una nave merci, che dovrà portare gli aiuti dopo le devastazioni del ciclone Medusa, che appare veramente come un grande scrigno di salvezza per gli isolani.

La nave – dice Foucault – è “l’eterotopia per eccellenza” che, a partire del XVI secolo, non rappresenta “soltanto il più grande strumento di sviluppo economico […], ma anche la più grande riserva di immaginazione”1. Un’immaginazione che apre percorsi sempre più inesplorati anche alla letteratura ed all’arte, perché senza navi i sogni si inaridiscono e l’odio strisciante di nuovi, territoriali e sovranisti microfascismi rischia di imprigionare le nostre esistenze, nell’immaginario e nella realtà.


  1. M. Foucault, Eterotopie, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, trad. it. S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 316. 

]]>
L’accusa dei boschi e dei sogni infranti: il Manifesto di Unabomber https://www.carmillaonline.com/2024/07/25/laccusa-dei-boschi-e-dei-sogni-infranti-il-manifesto-di-unabomber/ Wed, 24 Jul 2024 22:22:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83662 Di Jack Orlando

Theodore Kaczinsky, La società industriale e il suo futuro, D Editore, Roma 2024, 240 pp. 17,90€

C’è la foto di un piccolo capanno in legno che gira nelle bolle di internet, alle volte è collocato in mezzo a un bosco, altre è al centro di un hangar dall’illuminazione fredda e asettica. Un’altra foto, che si collega alla prima, ritrae il volto di un uomo con barba e capelli arruffati, rughe sul viso dismesso e occhi stretti che guardano in camera con un’espressione a metà tra la sfida e la diffidenza.

Piccole icone oscure della fine del XX [...]]]> Di Jack Orlando

Theodore Kaczinsky, La società industriale e il suo futuro, D Editore, Roma 2024, 240 pp. 17,90€

C’è la foto di un piccolo capanno in legno che gira nelle bolle di internet, alle volte è collocato in mezzo a un bosco, altre è al centro di un hangar dall’illuminazione fredda e asettica. Un’altra foto, che si collega alla prima, ritrae il volto di un uomo con barba e capelli arruffati, rughe sul viso dismesso e occhi stretti che guardano in camera con un’espressione a metà tra la sfida e la diffidenza.

Piccole icone oscure della fine del XX secolo, di risibili incidenti che hanno turbato la Pax neoliberista ai suoi irresistibili albori, che riemergono oggi, a distanza di un ventennio, come immagini di culto a metà tra il pop, la politica e il meme.

L’uomo con i capelli arruffati è Theodore Kaczinsky, meglio noto come Unabomber, e il capanno in legno è la sua piccola abitazione/laboratorio, autocostruita secondo meticolosi calcoli matematici e sperduta in mezzo ai boschi del Montana, da cui partivano i suoi pacchi esplosivi.
Tra gli anni Ottanta e Novanta i suoi attentati furono un caso clamoroso che riuscì a trascinare stampa, istituzioni e polizia in una profonda crisi di panico.
Maggio 1978: il primo ordigno deflagra nella Northwester University, Illinois, ferendo un agente di sicurezza. Continuano a esplodere sporadici nei due anni successivi, prima di espandersi e coprire il resto del paese. Fino al 1985, in cui gli attacchi aumentano vertiginosamente e si conta il primo morto.
Seguono otto anni di silenzio (ad eccezione di un attacco a Salt Lake City nel ’87), cui seguirono gli ultimi tre anni di attività prima del suo arresto (un caso di studio unico per la criminologia moderna, date le modalità in cui avvenne).

Kaczinsky, sotto la minaccia dei suoi attacchi, riuscì nel 1995 a far pubblicare il suo manifesto dai principali quotidiani nazionali: il coronamento della sua carriera e causa del suo arresto (fu il fratello ad indicarlo al FBI come potenziale responsabile degli attentati dopo aver riconosciuto lo stile di scrittura).
“La civiltà industriale e il suo futuro” sarebbe stato letto da milioni di persone, in America e non solo. Al momento del processo Unabomber era una popstar che poteva vedere centinaia di persone fuori dai tribunali acclamarlo durante le udienze.
Negli anni di irregimentazione del neoliberismo la violenza sociale negli USA ha uno dei suoi apici: la strage di Waco, l’attentato di Oklahoma City, l’ossessivo allarme per sette e serial killer.
Quella spinta che solo dieci anni prima poteva essere incanalata e interpretata come violenza politica, ora, in una società a senso unico esplode in mille rivoli dove si confondono psicosi, millenarismi, velleità politiche. Oggi li chiameremmo complottisti, ma nei ’90 siamo solo all’alba dei mille Joker che invaderanno il XXI secolo.
Per quanto possibile, si usa il loro caos intrinseco per bollarle come prodotti della malattia mentale di individui instabili. Primi passi di una medicalizzazione del dissenso che sarebbe presto diventata moneta corrente.

Kaczinsky, che pure benissimo non stava, di certo non era un serial killer: l’intento alla base delle sue azioni non fu mai quello di uccidere per sadismo o per una patologia, quanto portare avanti un proprio (improbabile) programma politico.
E nel Corso degli anni il suo manifesto è stato tradotto e ripubblicato più e più volte; a reclutarlo nel proprio Pantheon ideologico ci hanno pensato soprattutto anarchici primitivisti e accelerazionisti di estrema destra.
La repulsione verso i legacci sociali della civiltà industriale e le sue forme di vita, il rifiuto del liberalismo, la ricerca di una primigenia purezza umana (non etnica, attenzione), creano un humus di pensiero contraddittorio e malleabile, buono per essere tirato dalla giacchetta.
Ma sarebbe ingiusto, oltre che stupidamente riduttivo, vedere in Kaczinsky semplicemente un anarchico (in parte certamente lo era) piuttosto che un neonazista (il suo esplicito rifiuto del razzismo e delle formazioni fasciste basterebbe a sventare l’accusa).
Kaczinsky, nelle sue mille contraddizioni, è a ben vedere il primo prodotto compiuto dell’impazzimento della cultura americana: è soprattutto ad essa che si rifà nello stendere il manifesto. Novello Thoureau in ritiro tra i boschi di Walden, ma in salsa insurrezionalista.

Rifiuta i tempi dettati dalla macchina industriale, ne aborra i bisogni indotti perchè mortificano lo sviluppo libero degli individui, veri depositari del “sacro”, costretti a una socializzazione che ne perverte lo spirito, dirottandolo verso la ricerca di appagamento di desideri artificiali che lo allontanano da sé stesso.
Non si scaglia (al contrario di un anarchico) contro chi comanda la macchina e tiene le redini dello sfruttamento. Si concentra su una condanna tout court del mondo di produzione in sé.
Aspira a un’idea di società che è quella delle comunità rurali, della democrazia diretta dei villaggi. Disseppellisce così non tanto un ideale confederale ma lo spettro dei primi insediamenti di disperati e sognatori europei sul suolo americano, fuggiaschi e usurpatori allo stesso tempo.
Un umanesimo americano della frontiera trasuda dalle pagine del Manifesto.
Non a caso rifiuta il lavoro integrato nella macchina industriale ma vede coincidere il lavoro “originario”, quello dei primi coltivatori o dei cacciatori/raccoglitori come stanziale forma della libertà. È il lavoro come messa in forma delle proprie capacità soggettive a intagliare il valore dell’individuo, molto protestante, abbastanza socialista…
Questi miti trasfigurati ma completamente americani, che pervadono l’opera di Kaczinsky, si inseriscono nell’epoca della loro definitiva degenerazione tardo-capitalista; e lui ne incarna una rievocazione vendicativa. Mette in atto l’accusa dei boschi e dei sogni infranti degli ultimi d’America. Quelli per cui la promessa di futuro si è sempre rivelata una lunga scia di dolore.

Kaczinsky fu per lungo tempo un latitante inafferrabile, grazie ad una strategia semplice ma geniale: spediva suoi pacchi bomba tramite le poste ordinarie, da diverse città, a indirizzi finti, di modo che tornassero al mittente segnalato, vero destinatario dell’ordigno.
Questo ribaltamento della logistica, disciplina centrale del modo di produzione contemporaneo, lontanissimo dagli schemi dei tradizionali primitivisti, lo rende (suo malgrado) una creatura iper moderna.
Il suo continuo intrecciarsi di volontà rivoluzionarie e istanze conservatrici, diserzione dalla modernità e suo controutilizzo, lo rendono un fenomeno irriducibile a schemi preimpostati; inquietante e prolifico, è questo tratto conturbante ad avergli dato un’aura mistica, facendolo tracimare nella cultura pop e nell’opera di intellettuali più fini.

È quindi assolutamente logico il suo riemergere alla fine degli anni dieci, nel pieno tramonto dell’occidente: la crisi di presenza di cui si faceva avanguardia vendicatrice è oggi la condizione psichica comune di questo pezzo di mondo alla deriva.
Il rifiuto di una forma di vita perennemente incompiuta, il rancore per i sogni infranti e la frustrazione di una fuga impossibile dalla gabbia d’acciaio della modernità, hanno inconsapevolmente rimodulato le mitologie sociali. Negli smottamenti di una società che ha perso il filo logico tornano a respirare nuova aria le epifanie dei pazzi.

In questa temperie il Manifesto, corredato da una rinnovata cornice analitica e arricchito da testi inediti, recentemente pubblicato da D Editore, inaugura ora La Freedom Club Collection: una collana integralmente dedicata alla raccolta degli scritti di Kaczinsky: una paziente opera di analisi, scavo e di corrispondenza che va a grattare via cumuli di incrostazioni ideologiche e banalizzazioni. Un’operazione editoriale coraggiosa (sicuramente mai tentata in Italia), che restituisce finalmente tutta la complessità irriducibile nonché l’opera omnia di una delle ombre che vorremmo rimuovere ma non possiamo fare a meno di contemplare.

]]>
Which side are you on? https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/which-side-are-you-on/ Tue, 23 Jul 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83563 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County Che lì non ci sono neutrali O sei iscritto al sindacato Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo? Oh, ditemi come fate Sarete pidocchiosi crumiri O vi comporterete da uomini? Da che parte state? Da che parte state? (“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County
Che lì non ci sono neutrali
O sei iscritto al sindacato
Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair
Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo?
Oh, ditemi come fate
Sarete pidocchiosi crumiri
O vi comporterete da uomini?
Da che parte state?
Da che parte state?

(“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura e della cultura nordamericana. Conoscenza che, fin dagli anni Settanta, si è sempre accompagnata ad un impegno militante fortemente intriso di marxismo e al tentativo, quasi sempre riuscito, di ricollegare la lettura marxiana della realtà alla capacità di penetrare a fondo in quella che, per i seguaci più ortodossi del filosofo di Treviri, è sempre stata relegata a semplice sovrastruttura dell’attuale modo di produzione.

A dimostrarlo fu proprio l’opera prima, se così si può definire un saggio articolato nella sua prima edizione in due volumi, La cultura underground, pubblicata per la prima volta nel 1972 da Laterza e poi ripresa e rivista ancora successivamente dalla stessa casa editrice (1973 e 1980) e, nel 2009, da Odoya. Opera che, in Italia, fu forse la prima a politicizzare seriamente i differenti aspetti delle culture alternative sorte nell’ambito dei movimenti giovanili e di protesta statunitensi, a partire dalla musica fino al teatro e alla letteratura.

D’altra parte proprio la letteratura nordamericana ha costituito per Mario Maffi il vero e proprio campo di indagine di una vita professionale che si è svolta all’Università statale di Milano dove ha insegnato Cultura e letteratura anglo-americana dal 1975 al 2011. Motivo per cui, tra il gran numero di articoli, prefazioni e libri pubblicati dallo stesso, spesso anche all’estero, vanno certamente ricordati la Storia della letteratura americana pubblicata, insieme a Guido Fink, Franco Minganti e Bianca Tarozzi, da Sansoni editore nel 1991; Mississippi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell’America (Rizzoli 2004 e il Saggiatore 2009); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, con Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari (il Saggiatore 2021) oltre alle le varie indagini condotte sulla città di New York e i suoi quartieri differentemente caratterizzati sia dal punto di vista etnico che sociale.

Il motivo di questo interesse per gli Stati Uniti e le loro “culture”, spesso sovrapposte e conflittuali tra di loro alla faccia del tanto declamato melting pot, è stato ben spiegato dall’autore medesimo nell’introduzione ad Americana:

Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente, rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di questa storia, società, cultura, è passata attraversole parole pronunciate – come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo dell’«America»1.

L’attuale saggio pubblicato dalle edizioni Shake in realtà costituisce la riedizione di una delle sue opere più importanti, La giungla e il grattacielo (Laterza 1981 e Odoya 2013), che, oltre a una revisione completa del testo con lo spostamento di un capitolo e l’aggiornamento della bibliografia, contiene due ampi capitoli aggiuntivi e uno breve finale che non comparivano né nell’edizione del 1981 né in quella del 2013. E un nuovo titolo tratto da una canzone di lotta che Florence Reece (1900-1986), attivista e moglie di un minatore e organizzatore sindacale, compose nella primavera del 1931, nel corso di un lungo e aspro sciopero nelle miniere di carbone della Harlan County (Kentucky) passato alla storia come “The Harlan County War”, durante il quale lo Stato (nella persona dello sceriffo J. H. Blair) e il padronato ricorsero a ogni mezzo, legale e illegale, per piegare la lotta dei lavoratori: Which Side Are You On? Da che parte state, appunto.

Uno degli autentici inni del proletariato americano ripreso non soltanto durante le lotte, ma anche da interpreti quali Pete Seeger, Billy Bragg, Nathalie Merchant e Ani Di Franco, solo per citarne alcuni. Come spiega lo stesso autore per motivarne l’impiego come nuovo titolo della ricerca:

mi e sembrato infatti che l’ormai celebre verso di Florence Reece fosse ancora più appropriato a un libro che tratta del modo in cui, a fronte di un acuto e incessante conflitto sociale dispiegatosi negli Stati Uniti nei decenni tra la fine della Guerra civile (1865) e il 1920, un congruo numero di scrittori e scrittrici presero posizione da una parte o dall’altra: chi a favore delle lotte proletarie e chi contro, chi con titubanza e chi con decisione, e chi in difesa del sempre risorgente “Sogno Americano”; e lo fecero con un corpus sorprendente di opere, di importanza non secondaria per la scena letteraria statunitense, oltre che per l’evoluzione dei singoli autori e delle singole autrici2.

Oggi, mentre Trump è tornato a sventolare dalla convention repubblicana di Milwaukee, il “sogno americano”, diventa indispensabile ripercorrere il cammino culturale, letterario e soprattutto di lotte, spesso sanguinose e irriducibili, che hanno portato il proletariato americano, soprattutto “bianco”, a diventare parte integrante ma non ancora del tutto integrata di quel sogno. Servito spesso più ad escludere che ad integrare, lungo le linee implacabili del “colore” e della separazione etnica e razziale. E il bel libro di Maffi, riprendendo il discorso fin dalle origini, è un validissimo strumento per comprendere l’evoluzione della presenza del proletariato nella letteratura e nell’immaginario americano.

Ecco allora passare sotto i nostri occhi le opere di scrittori come Stephen Crane, con le sue ragzze di strada e di officina; di Jack London, con i suoi proletari irriducibili e spesso, troppo, un po’ razzisti; di Theodore Dreiser e le sue ricostruzioni della Grande Mela della finanza e dello sfruttamento; di Upton Sinclair con le sue storie della “giungla” dei macelli e delle officine di Chicago; di Sherwood Andersone e dei suoi proletari bianchi del Sud; di John Reed e del suo apprendistato rivoluzionario, poi coronato dall’esperienza della rivoluzione messicana e dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di quella bolscevica. Senza dimenticare sia i muckracker, ovvero i giornalisti e gli scrittori che scavavano nel fango e nella melma degli scandali dell’arricchimento e dello sfruttamento, due facce della stessa medaglia venduta con il sogno, antesignani del giornalismo di inchiesta moderno; sia le dime novel, ovvero i romanzetti popolari a puntate, precursori dell’editoria e della letteratura di massa con tutti i loro miti ed eroi, destinati allo svago ma spesso riflettenti le opinioni di coloro che ne erano i principali lettori e consumatori.

Nelle pagine di Da che parte state è come se il lettore assistesse alla formazione della classe operaia americana all’interno della letteratura statunitense che, anche se inizialmente inesistente come avrebbero lamentato Eleanor Marx ed Edward Aveling nel 1891 in un loro studio sul movimento operaio nordamericano, avrebbe finito invece col costituire lo humus da cui, a partire dagli anni Trenta, si sarebbe poi sviluppata gran parte della migliore letteratura statunitense con autori come John Dos Passos, John Steinbeck, Erskine Caldwell e avrebbe allungato in qualche modo la sua ombra fino alle pagine sui poveri bianchi del Sud che avrebbero caratterizzato le opere di William Faulkner e altri. Magari fino a quella Hillbilly Elegy che è stata l’opera con cui molti americani hanno incontrato per la prima volta l’attuale candidato repubblicano alla vicepresidenza: J. D. Vance.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di«asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la pvertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentano la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture famigliari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate. […] E’ stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità3.

Pagine ben lontane, per il loro intrinseco populismo, da quelle delle lotte affrontate a cavallo tra i due secoli e riportate nei testi utilizzati da Maffi; così come queste ultime sono lontane da quelle di Harvey Swados (On the Line, 1957 in Italia Alla catena, Feltrinelli) oppure di Hubert Selby Jr. (Last Exit Brooklyn, 1964, in Italia Ultima fermata Brooklyn, ancora per Feltrinelli) in cui alla sconfitta di classe si accompagna la dolorosa e definitiva presa di coscienza dell’irrealizzabilità del sogno americano.

Ma per non inseguire un discorso che ci porterebbe troppo lontano nella riflessione, torniamo al testo di Maffi e, in particolare, a una delle due nuove parti aggiunte all’edizione attuale: quella intitolata Donne al lavoro e in lotta. Estremamente attuale e ricca di spunti di riflessione, sia sui problemi legati alla classe che a quelli di genere. Soprattutto in un Occidente che sembra, soprattutto con il fenomeno Me Too, averli radicalmente e definitivamente separati.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo

il conflitto sociale, gli scioperi, lo scontro di classe alimentato dalle ricorrenti crisi economiche di un capitalismo in travolgente e caotica ascesa, conoscono punte acutissime: addirittura di quasi guerra civile, come avviene a più riprese nelle regioni minerarie dell’Ovest. Queste lotte finiscono per coinvolgere intere comunità ruotanti intorno alle fabbriche, alle miniere, ai posti (e avamposti) di lavoro: toccano tutti e tutte, mobilitano interi gruppi familiari, uomini, donne, bambini, anziani, con l’immediata e istintiva solidarietà che si sprigiona da questi eventi. Gli esempi sono numerosissimi: dall’attività clandestina dei Molly Maguires nei pozzi di carbone della Pennsylvania allo sciopero generale e alla Comune di St. Louis del 1877, dalla mobilitazione per le otto ore di lavoro culminata nei “fatti di Haymarket” a Chicago nel 1886 alle autentiche battaglie che negli anni novanta videro protagonisti per l’appunto i minatori dell’Ovest, gli operai delle acciaierie di Homestead in Pennsylvania nel 1892 e quelli della fabbrica di carrozze ferroviarie Pullman di Chicago e poi dell’intera rete ferroviaria nel 1894, la mobilitazione delle camiciaie di New York nel 1909-1910, fino ai grandi scioperi nelle fabbriche tessili di Lawrence nel Massachusetts nel 1912 e nelle seterie di Paterson nel New Jersey nel 1913… gli episodi fra i più importanti, anche dal punto di vista del coinvolgimento in essi di intere comunità e di conseguenza del ruolo decisivo che vi svolsero le donne proletarie4.

Ma, nonostante tutto ciò:

L’ancora scarsa sindacalizzazione femminile, dovuta anche alle posizioni corporative e conservatrici assunte dal maggiore sindacato, l’American Federation of Labor, rese ben più drammatica la condizione proletaria in generale, e quella delle donne proletarie in primis: e sarà solo con la nascita degli Industrial Workers of the World nel 1905, con il loro programma di mobilitazione e organizzazione delle fasce più sfruttate e marginali della manodopera americana, che la situazione comincerà a mutare, aprendosi a una diffusa presenza femminile nella mobilitazione e negli organismi di lotta dei primi due decenni del nuovo secolo5.

Questo non impedirà, però, il formarsi di una letteratura, sospesa tra saggistica e narrativa, che, pur non abbandonando talvolta le strutture della mentalità piccolo borghese di chi contribuiva a crearla, iniziava a porre le donne, soprattutto quelle giovani e immigrate, spesso di origine ebraica, al centro di vicende drammatiche che le vedevano protagoniste dei grandi scontri di classe allora in atto.

L’intento di denuncia compreso in molte delle opere elencate e riassunte da Maffi rivela anche come il realismo dell’epoca, molto vicino al naturalismo di cui Émile Zola era all’epoca maestro in Francia, contribuisse a dar vita a trame in cui elementi romantici e descrizioni ad effetto delle condizioni di vita delle classi meno abbienti finivano col sopravanzare la portata politica del messaggio contenuto in quegli stessi romanzi e novelle, troppo spesso ancora intrisi di una certa moralità borghese.

Ma tale presenza nelle lotte insieme all’attivismo politico e sindacale femminile costituiva una delle grandi novità per il movimento operaio del nascente XX secolo così come, all’altro capo del mondo, le giovani operaie di San Pietroburgo avrebbero dimostrato dando inizio, con il loro sciopero spontaneo del febbraio 1917, a quella che sarebbe poi diventata la Rivoluzione russa.

Una storia oggi rimossa, spesso dallo stesso movimento femminista borghese, timoroso di scoprire come liberazione della donna e della sessualità e lotta di classe siano inscindibilmente legate, come anche gli anni Sessanta e Settante, sia in America che in Europa e nel corso delle lotte di liberazione nazionale, avrebbero ancor dimostrato.

Così la sollevazione delle 30.000 operaie nel Lower East Side di New York avrebbe superato nella realtà le premesse contenute fino ad allora nella letteratura femminile di stampo proletario.

Nel rigido inverno del 1909-10, le operaie addette alla confezione di camicie (per lo più giovanissime immigrate di recente) bloccarono per quattordici settimane uno dei settori chiave nell’industria dell’abbigliamento che, in quegli anni, stava radicalmente trasformandosi per rispondere a un mercato di massa in espansione: il ready-made. Fu uno sciopero agguerrito, fatto di duri picchetti, di ripetuti scontri con la polizia, di raffiche di arresti (seicentocinquantatre) e di pesanti condanne da parte di una magistratura invariabilmente schierata dalla parte del padronato e dello Stato (nell’emettere una sentenza, il famigerato giudice Olmstead ebbe a dichiarare: “Siete scese in sciopero contro Dio e contro la Natura, la cui legge intoccabile è che l’essere umano si procaccia il cibo con il sudore della fronte. Siete scese in sciopero contro Dio”).
Le camiciaie di New York seppero dunque dare vita a un sindacato fino a quel momento osteggiato, e la loro lotta si accompagnò a una grande mobilitazione nel Lower East Side, da cui in massima parte provenivano – preludio ai conflitti degli anni seguenti che videro scendere in piazza piu di 100.000 lavoratori e lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento. E la trasformazione dello sciopero di settore in sciopero generale è espressa in maniera appassionata dall’intervento in yiddish della ventitreenne Clara Lemlich all’assemblea del 22 novembre 1909. Dopo avere assistito a due ore di inutili discorsi da parte dei rappresentanti sindacali, la ragazza prese la parola e proclamò: “Sono un’operaia. Una di quelle che sono scese in sciopero contro condizioni intollerabili. Sono stanca di stare a sentire interventi che parlano in termini generali. Noi siamo qui per decidere se scioperare o meno. Propongo una mozione perché venga dichiarato lo sciopero generale – adesso!”.
La sala esplose in un uragano di applausi, seguito a gran voce dal giuramento modellato sul tradizionale giuramento ebraico di fedeltà alla causa: “Se dovessi mai tradire ciò per cui mi batto, che la mia mano possa avvizzire sul braccio che ora levo”. La quasi totalità delle 30.000 operaie scese in lotta nei giorni immediatamente successivi, appoggiata da altri settori del mondo del lavoro newyorkese6.

La vicenda sarebbe stata narrata in poco meno di cento pagine, in The Diary of a Shirtwaist Striker. A Story of the Shirtwaist Makers’ Strike in New York (pubblicato nel 1910 dalla Co-operative Press di New York) sotto forma di un “diario” (dedicato alle “eroine senza nome” di quella lotta clamorosa), che si immagina scritto tra il 23 novembre 1909 e il 23 gennaio 1910 da Mary, un’operaia americana. La vera autrice del “diario” fu, invece, Theresa Serber (1874-1949), nata nei dintorni di Kiev in una famiglia russo-ebrea che giunse negli Stati Uniti nel 1891, andando a vivere e lavorare nel Lower East Side. Dopo aver trovato impiego come mantellaia, Theresa da subito iniziò a occuparsi delle condizioni di vita e lavoro nel settore e per tutta la vita si occupò della condizione femminile e dell’educazione delle donne immigrate, schierandosi contro l’orientamento del femminismo piccolo-borghese; mentre nel 1917, prese apertamente posizione contro l’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

Per sole ragioni di spazio occorre, purtroppo, chiudere qui la recensione di un testo che meriterebbe ancora ben altre riflessioni e annotazioni, con la speranza di essere comunque riuscito nell’intento di stimolare l’interesse delle lettrici e dei lettori nei suoi confronti e in quelli del suo autore e delle sue ricerche sulla lotta di classe e la cultura americana


  1. M. Maffi, Introduzione a M. Maffi, C. Scarpino, C. Schiavini e S.M. Zangari, Americana, il Saggiatore, Milano 2021, p. 14.  

  2. M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, p. 8.  

  3. J. D Vance, Elegia americana, Garzanti 2020  

  4. M. Maffi, op.cit., p. 230.  

  5. Ibidem, p. 231.  

  6. Ivi, pp. 243-244.  

]]>
Fallout: dallo schermo allo schermo. https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/fallout-dallo-schermo-allo-schermo/ Mon, 22 Jul 2024 22:01:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83291 di Walter Catalano

Impossibile non mettere a confronto Fallout con The Last of Us di HBO, di cui già abbiamo parlato a suo tempo. Entrambe le serie infatti si ispirano a franchise di videogiochi per consolle e dimostrano in questa scelta la piena crisi letteraria della fantascienza: in mancanza di libri interessanti le produzioni preferiscono attingere ad altre più vitali forme di narrazione. Con particolare fortuna, mi permetterei di aggiungere. Ai polpettoni fallimentari e noiosi derivati da classici, più o meno travisati, come Foundation (e, al cinema, non esiterei ad aggiungere anche il soporifero Dune), si contrappongono invece queste più [...]]]> di Walter Catalano

Impossibile non mettere a confronto Fallout con The Last of Us di HBO, di cui già abbiamo parlato a suo tempo. Entrambe le serie infatti si ispirano a franchise di videogiochi per consolle e dimostrano in questa scelta la piena crisi letteraria della fantascienza: in mancanza di libri interessanti le produzioni preferiscono attingere ad altre più vitali forme di narrazione. Con particolare fortuna, mi permetterei di aggiungere. Ai polpettoni fallimentari e noiosi derivati da classici, più o meno travisati, come Foundation (e, al cinema, non esiterei ad aggiungere anche il soporifero Dune), si contrappongono invece queste più originali e spigliate declinazioni di un immaginario SF ormai sedimentato nelle nostre menti e accettato come tale, humus visionario indifferenziato: una serie di ritagli pot-pourri, frammenti patchwork non riconducibili a nessun autore in particolare e a tutti contemporaneamente – un po’ Dick, un po’ Ballard, un po’ Asimov, o Bradbury, o Heinlein, per dire – fette di inconscio globalizzato, già messo in scena migliaia di volte sulle playstation delle universali moltitudini desideranti, da Abu Dabi a Los Angeles, da Singapore a Sidney. Una scommessa molto più sicura! E le moltitudini oggi desiderano l’Apocalisse: o forse, apotropaicamente, la evocano per esorcizzarla, come in un rituale medievale di fine millennio, perché sanno che è maledettamente vicina.

Così, se The Last of Us, la serie di Mazin e Druckmann, profilava la sua escatologia apocalittica lungo un copione già scritto e molto preciso, con personaggi e situazioni già dati, Fallout, show targato Prime Video e basato sul franchise creato da Black Isle e Tim Cain, realizzato da Interplay e in seguito passato nelle mani di Bethesda, può permettersi invece un margine di invenzione e innovazione, rispetto al videogioco, assai più vasto: scenario e atmosfera sono quelle del preciso universo videoludico – un’estetica retrofuturista che attinge tanto ai B-Movie postapocalittici degli anni ’60, quanto alla saga di Mad Max e allo Spaghetti Western – ma la storia è quasi inedita ed i personaggi diversi.

La serie TV di Prime Video è infatti ambientata nel 2296, esattamente a 9 anni di distanza dalle vicende raccontate in Fallout 4 che è l’episodio cronologicamente posteriore nel videogioco di Bethesda, i cui capitoli sono disposti in ordine temporale consequenziale, lasciando agli spin-off la possibilità di esplorare periodi antecedenti o alternativi: una consecutio temporum, che potrebbe rendere la versione TV del gioco il prototipo di una sorta di Fallout 5, possibile espansione del gioco, derivata questa volta, se venisse realizzata in futuro per consolle, dal prodotto filmato. Un effetto speculare che conferisce piena autonomia creativa a Jonathan Nolan e Graham Wagner, rispettivamente produttore e sceneggiatore del progetto, che pare siano entrambi videogiocatori affezionati alle varie generazioni di Fallout dal 1997 al 2015.

Jonathan Nolan, il fratello meno noto del Cristopher Nolan fresco di Oscar, già autore di una serie che non ho amato affatto e la cui visione ho interrotto piuttosto presto, Westworld, in compagnia della stessa sceneggiatrice Lisa Joy e della showrunner Geneva Robertson-Dworet (quella di Captain Marvel), sono gli autori di quest’inedita riscrittura di Fallout – Nolan è anche regista della puntata pilota –  cui conferiscono la struttura di un road movie corale ambientato nella California distopica del 2296 devastata dalla guerra nucleare. A differenza della troppo seriosa Westworld, Fallout si muove invece sul registro, molto più efficace, dell’umorismo nero, spaziando tra il comico, il cupo, e il grottesco, con abbondanza di sequenze estremamente splatter (un gusto che molto ricorda lo stile irriverente di The Boys) corredate, con evidente intento provocatorio, da una colonna sonora composta di classici musicali orecchiabili e briosi compresi tra gli anni ‘30 e i ’60, ad esempio, What a Difference A Day Made, It’s Just a Matter of Time, I’m Tickled Pink, I Don’t Want to See Tomorrow, We Three (My Echo, My Shadow and Me), titoli che acquistano, come nel videogioco, una risonanza del tutto particolare considerato il contesto. L’estetica anni ’50 dei flashback pre-bomba o quella vintage che caratterizza i Vault sotterranei nel presente diegetico, rendono memorabile la scenografia della serie, così come i set in esterno del panorama lunare e desertico di superficie, girati in location reali in Namibia e sulle montagne dello Utah.

Su questo scenario già noto ai gamers si muovono i nuovi protagonisti: Lucy (Ella Purnell, già vista in Yellowjackets), giovane nata e cresciuta nel Vault 33, una delle strutture antiatomiche apparentemente concepite per salvare una parte dell’umanità, che dopo un lavaggio del cervello durato vent’anni nelle strutture falsamente idilliache e protette della Vault-Tec, è costretta ad avventurarsi in superficie nella Zona Contaminata, alla ricerca del padre rapito (Kyle MacLachlan, attore iconico di David Lynch, protagonista di Dune, Blue Velvet e agente speciale Dale Cooper in Twin Peaks); Maximus (Aaron Moten), aspirante scudiero membro della Confraternita d’Acciaio, la setta militare di cavalieri meccanizzati ben nota ai videogiocatori, il personaggio probabilmente più stucchevole e meno riuscito; e il Ghoul cacciatore di taglie (Walton Goggins, già noto per Justified, o The Righteous Gemstones), ex attore in Western scadenti ad Hollywood, precedentemente noto come Cooper Howard, assai ben caratterizzato nell’audio in lingua originale dall’interpretazione in dialetto texano da vero cowboy. I ghoul, si situano da qualche parte nel continuum tra umani e zombie, in base al tempo passato dalla loro contaminazione e di quante medicine sono riusciti a rimediare: a Cooper Howard non è andata troppo male, perché è ancora vivo dopo due secoli, anno più, anno meno. Infatti il Ghoul è sopravvissuto alla guerra e al bombardamento atomico del 2077 che ha generato il mondo post-apocalittico, e proprio intorno alla sua esistenza pre e post-atomica si focalizzano i momenti narrativi forse più significativi e provocatori della serie: il mondo del 2077 è ancora alle prese con una prolungata Guerra Fredda caratterizzata da due diverse sfere d’influenza, una rappresentata dagli U.S.A. e l’altra dal blocco comunista dell’ancora esistente Unione Sovietica e dalla Cina. L’America, dal canto suo, è ancora immersa nella cultura e nell’estetica degli anni ’50 del ‘900, con le star di Hollywood impegnate a sponsorizzare le varie iniziative di propaganda anticomunista del governo. Come sanno bene tutti gli appassionati del gioco, l’apocalisse nucleare che ha cambiato per sempre le sorti del mondo di Fallout ha avuto inizio con una guerra tra U.S.A. e Cina, i cui governi si sono reciprocamente accusati di aver lanciato per primi l’attacco atomico. Il finale di stagione della serie Tv propone però una nuova prospettiva sugli eventi che hanno portato il mondo al collasso. Dietro il disastro, potrebbero infatti esserci le macchinazioni della Vault-Tec, società che ha prosperato con la progettazione e la vendita dei rifugi antiatomici. Un’eventualità suggerita dalla sequenza che vede Howard Cooper ascoltare i discorsi dei dirigenti della Vault-Tec, che auspicano una guerra nucleare come la più grande opportunità commerciale della storia: accrescerebbe la domanda di rifugi antiatomici, dei quali hanno ottenuto dal governo il monopolio. Un barlume quindi anche di vaga polemica politica, in una trama votata soprattutto ad un puro, per quanto cinico e perfido, divertissement.

Negli otto episodi che compongono questa prima stagione di Fallout, della durata di un’ora l’uno circa, la trama si dipana soprattutto intorno a questi tre personaggi, le cui vicende si vanno a intrecciare fino a un epilogo che incarna appieno l’atmosfera della serie in equilibrio fra comicità dissacrante (irresistibilmente sboccata e volgare, alla The Boys, come dicevamo) e drammaticità cupa e aggrottata. Fallout non delude neppure dal punto di vista tecnico e registico, essendo in grado di riprendere esattamente sia la palette cromatica tipica del gioco per quanto riguarda le ambientazioni, che i costumi indossati dai protagonisti e dalle bizzarre creature umane o meno che abitano la Zona Contaminata. Solo una licenza degli sceneggiatori ha disturbato alcuni fanatici appassionati del gioco. La città di Shady Sands, capitale della New California Republic (NCR), è considerata un punto fermo di tutti i capitoli del videogioco. Nella serie invece apprendiamo che Shady Sands è stata bombardata nel 2277, proprio dallo stesso Hank MacLean, il padre di Lucy, quando questa era solo una bambina. Al luogo è inoltre legato il personaggio di Maximus, che ha perso la famiglia nel bombardamento. Questa decisione di fissare la distruzione di Shady Sands nel 2277 della timeline ha scatenato un vero e proprio dibattito sulla legittimità della scelta, dal momento che sarebbe in contraddizione con gli eventi descritti in Fallout: New Vegas, ambientato nel 2281. Insomma ermeneutica e filologia non disertano nemmeno il canone dei videogame.

 

 

]]>
Mutazioni e contrasti, contraddizioni e variazioni topico-ambientali nel cinema di Luis Buñuel https://www.carmillaonline.com/2024/07/21/mutazioni-e-contrasti-contraddizioni-e-variazioni-topico-ambientali-nel-cinema-di-luis-bunuel/ Sun, 21 Jul 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83476 di Paolo Lago Paolo Landi

Paolo Landi è autore della sezione A, e Paolo Lago della sezione B. Le due voci del testo convergono sugli stessi temi attraverso due metodi diversi, che vengono concepiti come elementi di un dialogo provvisto di una peculiare apertura.

A – I film di Buñuel lasciano emergere in modo ricorrente alcuni trapassi di ordine radicale; potremmo infatti dire che l’evento drastico della mutazione e il suo carattere di enigma mettano in gioco una cifra costante nelle opere del regista. E del resto, il surrealismo si basa proprio su questa risorsa, che mira alla congiunzione tra elementi in forte [...]]]> di Paolo Lago Paolo Landi

Paolo Landi è autore della sezione A, e Paolo Lago della sezione B. Le due voci del testo convergono sugli stessi temi attraverso due metodi diversi, che vengono concepiti come elementi di un dialogo provvisto di una peculiare apertura.

A – I film di Buñuel lasciano emergere in modo ricorrente alcuni trapassi di ordine radicale; potremmo infatti dire che l’evento drastico della mutazione e il suo carattere di enigma mettano in gioco una cifra costante nelle opere del regista. E del resto, il surrealismo si basa proprio su questa risorsa, che mira alla congiunzione tra elementi in forte contrasto, gettando la luce dell’astrazione sui versanti che vengono coinvolti. E accade allora che il gentiluomo severo e monumentale impersonato da A. Cuny ne La via lattea (La Voie lactée, 1969) figuri nei termini del Padreterno, mentre cammina lungo la strada che conduce a S. Jacopo di Compostella; e a tale proposito, egli non è il supporto di un discorso allegorico che giustifichi questa duplicità sulla base di un significato definito, ma vive della contraddizione dovuta all’arbitrio con il quale incarna se stesso come essere umano, e al contempo racchiude il mistero della prima persona della Trinità divina; e d’altra parte, questa persona è confortata dalla presenza delle altre persone del nucleo trinitario, amabilmente rappresentate con la stessa logica, la quale trova il proprio coronamento nel gioco di prestigio metafisico dovuto all’apparizione di una colomba, che circoscrive l’enigma alludendo allo Spirito Santo, al di là di ogni fondamento dovuto a un punto di vista esplicativo. E ancora, in un altro momento del film, un sacerdote è seduto accanto a una coppia che giace in una locanda, subito dopo lo vediamo dislocato con la stessa postura al di fuori della stanza, e dopo ancora appare nuovamente all’interno, con una replica della prima disposizione, in modo da sovrapporre due circostanze che vengono congiunte nella coscienza, al di là dell’idea di un transito che abbia giustificato questa alternanza, o del principio di una bilocazione miracolosa che oltrepassi i limiti della natura; al che, in analogia con il caso precedente, abbiamo un carattere di incongruenza, per cui qualcosa viene sradicato dalla propria condizione identica. Ciò posto, risulta chiaro come queste istanze contraddittorie, nonostante la mancanza di una forma allegorica, siano suscettibili di suggerire una serie di effetti di senso che sollecitano il pensiero riflettente; ma quest’ultimo deve lasciarsi guidare dall’ambiguità radicale delle circostanze illustrate, operando nei limiti di un rigore di fondo, che non è certo inferiore a quello di una torsione allegorica, e richiede di mantenersi entro le linee di direzione prescritte dal paradosso, afferrando la sua apertura di senso, senza fluttuare o vagare al di fuori di una visione del mondo ben definita.

Ma per illuminare tale visione, può essere utile tenere presente il fatto che nei film dell’autore una variante dei cambiamenti di status è fornita dalla mutazione attraversata da alcuni personaggi nel corso delle loro storie. E sotto tale profilo, possiamo considerare i casi di film come Viridiana (1961), Simon del deserto (Simón del desierto, 1964) ed Estasi di un delitto (Ensayo de un crimen, 1955). Nel primo di questi film la protagonista, a partire dalla sua condizione di benefattrice dei miserabili, finisce per consegnarsi all’imperio erotico di un partner che rappresenta la quintessenza del cinismo e in particolare dell’egoismo sociale; e così, alcuni momenti nei quali l’impresa della donna fallisce, e fanno risalire una turbolenza gravida di minaccia nel corso di un festino allestito dai miserabili, servono a preparare uno sbocco finale, che comunque racchiude un salto di qualità legato all’enigma della persona; e infatti, Buñuel esprime nel modo più radicale e dirompente il fondo contraddittorio del soggetto, in base al quale la sua disponibilità al Male a partire da una immersione nel Bene è forse dovuta alla mancanza di una natura stabile, che è suscettibile di procurare l’epifania sinistra di una specie di cambiamento d’identità; al che, in ultima analisi abbiamo un’identità di fondo più comprensiva e aperta di quella della superficie, che è suscettibile di queste parvenze contraddittorie, a loro volta in grado di esibire i risvolti drammatici più sorprendenti.

Per quanto riguarda poi Simon del deserto, abbiamo una parabola dello stesso genere, ma con la differenza che in questo caso la postazione del Bene è affidata alle risorse enigmatiche e ambigue del misticismo di uno stilita, il quale dopo una serie di tentazioni nel deserto che accompagnano la sua solitudine e lasciano affiorare le stigmate demoniche dell’Eros in agguato, si affida ad un epilogo vertiginosamente dislocato nel mondo contemporaneo, nel quale l’egoismo erotico che trionfa diventa emblema del sopravvento dovuto ad una spinta diabolica, nonché alla risoluzione blasfema dell’istanza mistica, e del suo orizzonte legato al principio della purificazione. E in questo caso, rispetto a Viridiana, possiamo dire che la mutazione presenta i seguenti caratteri: da un lato è predisposta in modo graduale, attraverso una serie di sintomi che attraversano la coscienza del personaggio in modo inquieto e con una cadenza che accumula i propri segnali; da un altro lato, la stessa posizione iniziale del soggetto risulta provvista di un fondamento ambiguo; e infine, gli accenni a tale ambiguità sono legati a una gradazione dei sintomi che conducono dal versante del Bene a quello del Male. Ma si deve osservare come la dominante mistica che investe il personaggio in questione venga esibita con uno spirito che contempla la sua direzione ambigua, da concepire come una sorta di Bene che forse è affetto sin dall’origine dalla istanza del Male, e non ha il carattere di trasparenza che avvolge l’impulso filantropico presente in Viridiana.

E infine, in Estasi di un delitto abbiamo l’itinerario di una conversione di segno opposto. E infatti, in questo caso si procede a partire dall’impulso maniacale rivolto a un crimine erotico che viene avvicinato a più riprese senza essere mai eseguito, e a seguito della confessione del protagonista – che guida peraltro la narrazione degli eventi -, abbiamo la prospettiva di una liberazione dal peso di questa ossessione, dovuta a un congedo con il quale il soggetto si consegna ad una esperienza amorosa che incarna l’unica azione riuscita di tutta la storia; e in questa circostanza, abbiamo l’unica azione nell’accezione compiuta della parola, che si dispone al di là del regime di interruzione e di sospensione fornito dai compimenti mancati. E possiamo dire che in questo film emerga una linea graduale, la quale non è provvista tanto dalla coscienza del personaggio – che si ribalta in modo manifesto ed esclusivo nella sorpresa finale -, quanto dalla fermentazione inconscia con cui i vari tentativi di omicidio che vengono messi in gioco conseguono un esito, il quale ogni volta si allontana in misura maggiore dall’obiettivo, dopo un inizio in cui il crimine viene avvicinato al punto da generare indirettamente la morte accidentale di una vittima. E d’altra parte, in questo film l’impronta vagamente ilare delle situazioni, l’accento paradossale con il quale viene presentato l’impulso omicida – che risulta alleggerito rispetto al peso di ogni rilievo realistico, ed è affidato a un’atmosfera improbabile -, e la nota estremamente leggera della risoluzione finale, introducono il fermento surreale dovuto a un senso di incongruenza, che comunica in termini onirici con le profondità dell’inconscio, senza consegnarsi alla norma di un realismo psicologico, e dei suoi risvolti esplicativi.

B – Alcuni significativi trapassi di ordine radicale sono altresì presenti anche in Bella di giorno (Belle de jour, 1967), le cui scene iniziali rappresentano il movimento di una elegante carrozza inserita in uno scorcio di campagna segnato da linee geometriche che si predispongono quasi ad offrire una fastosa scena teatrale. Il movimento della carrozza è solenne e scandito da uno spostamento lento ed austero che ricrea i fasti del passato nella contemporaneità degli anni Sessanta. Seguendo il suo solenne percorso – un sentiero che taglia l’inquadratura sulla quale scorrono i titoli di testa – la carrozza si avvicina lentamente e lo stesso lembo sonoro che si porta dietro (sonagliere e zoccoli dei cavalli) aumenta mentre il cocchio si avvicina. A cassetta si trovano due eleganti cocchieri e, seduti dietro, come due regnanti o comunque due nobili riecheggianti una Francia dei tempi di prima della Rivoluzione o del periodo della Restaurazione, vi sono Pierre (Jean Sorel) e Séverine (Catherine Deneuve). Successivamente, la carrozza si addentra in un bosco e, mentre essa si muove verso di noi, la stessa macchina da presa sembra correre incontro al veicolo per inquadrare dapprima i due cocchieri in un primo piano per poi focalizzarsi sulla coppia seduta dietro, i due innamorati che si giurano eterno amore. Questo scorcio iniziale, austero e maestoso, davvero non fa presagire quello che succederà fra pochi attimi: Séverine afferrata in modo violento dai cocchieri i quali, agli ordini di Pierre, legheranno la ragazza e, dopo averla fustigata, la violenteranno a turno. L’eleganza iconografica, allontanata in un passato che diviene quasi la reliquia di sé stesso, sfuma in una scena di violenza crudele e barbara: e se i cocchieri non sono quei servitori ineccepibili e fedeli che parevano all’inizio, e se Pierre non è il marito nobile e innamorato, così anche Séverine sta iniziando a volteggiare sul baratro delle proprie inclinazioni che la condurranno a frequentare come prostituta una casa di piacere. L’intera sequenza iniziale trascolora poi in una forma di pensiero di Séverine, che si trova nella sua elegante camera da letto insieme a Pierre. Non era realtà, ma era solo un pensiero ‘rumoroso’ della ragazza, tanto rumoroso che se ne accorgerà lo stesso Pierre il quale le domanda: “A che stai pensando Séverine?”. Viene in mente anche il pensiero rumoroso di Jean (Laurent Terzieff) ne La via lattea, quando il rumore degli spari della fucilazione di un papa, da lui immaginata, si sente anche nell’ambientazione perbenista e piccolo-borghese della recita delle allieve di una scuola cattolica. Se le sequenze relative all’elegante carrozza non rappresentano in realtà ciò che sembrano, concludendosi in una dimensione opposta, è anche vero che da una scena di violenza gratuita e di sadismo si passa ad una, invece, in cui Séverine si trova in una situazione di quiete domestica borghese e pacata. D’altra parte, la stessa conclusione de L’âge d’or (1930) racchiude in sé due opposti apparentemente inconciliabili: scopriamo infatti che Gesù Cristo e il duca de Blangis (il protagonista delle Centoventi giornate di Sodoma del Marchese de Sade) non sono altro che la stessa persona.

Un personaggio che, nel film, possiede un duplice aspetto è Henri Husson, interpretato da Michel Piccoli: elegante e ricco borghese, appare in realtà un erotomane spinto da istinti bassi e triviali. Memorabile è, a questo proposito, la scena in cui egli cerca di baciare Séverine in pubblico all’interno di un esclusivo circolo del tennis. Sarà Henri a scatenare in Séverine il desiderio di addentrarsi nei meandri di un universo estraneo alla sua classe sociale, un limbo oscuro per il quale ella prova contemporaneamente attrazione e repulsione. Nel momento in cui, per la prima volta, la ragazza si reca presso la casa di Madame Anaïs, ricompaiono le linee geometriche già incontrate all’inizio (la strada, i filari di alberi, il movimento della carrozza e la rigidità degli eleganti cocchieri) sotto la forma, adesso, di sfondi urbani, grigi palazzi del centro di Parigi nei cui interstizi si cela il baratro dell’eros. Séverine è completamente incapsulata all’interno dello sfondo di cemento come appare anche intrappolata nelle varie ambientazioni cui la costringono la sua condizione di alto-borghese: nelle strade del centro, nell’abitacolo di un elegante taxi, nelle stanze del suo appartamento lussuoso che si affaccia su un boulevard. Di esso, vediamo dapprima l’esterno, le finestre e la sua altera e antica ridondanza che, chissà, forse verrà violata e dissacrata da una pietra tirata dalla strada durante una rivoluzione ancora di là da venire al momento dell’ambientazione del film, una protesta che si allargherà per le strade della capitale francese nella primavera del 1968. Come ci mostra Bernardo Bertolucci in The Dreamers – I sognatori (The Dreamers, 2003) -, i vetri delle eleganti finestre dei palazzi borghesi, sottile membrana che separa l’interno dall’esterno, verranno facilmente rotti dai segni della protesta, che irrompe perfino negli angoli più intimi e privati.

In Bella di giorno, d’altra parte, lo scivolamento nel contrario è presente anche nelle figure dei frequentatori della casa di appuntamenti di Madame Anaïs: sono tutti eleganti personaggi borghesi, uomini d’affari, professionisti, professori, medici e, incontrandoli per strada, nessuno potrebbe immaginare le perversioni cui si lasciano andare nello spazio intimo e segreto della casa. Quest’ultima si configura come una sorta di “eterotopia”, uno spazio ‘altro’ totalmente separato dal normale contesto quotidiano, secondo una definizione di Michel Foucault. È lo spazio dove avvengono trapassi di ordine radicale che sarebbero altresì sconosciuti per le geometriche vie di Parigi segnate da rigide e fredde architetture. È lo spazio dell’alterità e del contrario che emerge allo scoperto, come nella dimora borghese di Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté, 1974), dove i ricchi proprietari defecano in sala da pranzo; del resto, l’emergenza del trapasso di ordine radicale, in questo film, è presente anche nella partita a poker tra frati o nelle sequenze relative alla scolaresca di gendarmi che si comportano come monelli. Il cinema di Buñuel, utilizzando sistemi di codificazione di matrice surrealista, offre quindi un sovvertimento radicale della norma e della percezione del mondo reale da parte dello spettatore.

Tornando a La via lattea si può pensare come una figura ambigua e portatrice di tale sovvertimento sia il personaggio del demone che compare dopo l’incidente automobilistico, cui assistono i due personaggi diretti a Santiago di Compostella. Nel momento in cui Jean augura la morte al guidatore della elegante Citroën che non si ferma per dargli un passaggio, e dopo che l’auto è sbandata e si è schiantata contro un albero, compare un personaggio demonico che si caratterizza apparentemente come un angelo, vestito di bianco, ma che in realtà si configura come un ambiguo demone infernale. Il personaggio è interpretato da Pierre Clementi, un attore che nel cinema di quegli anni interpreta sovente figure che rimandano ad un’idea di sovvertimento dell’ordine costituito: basti pensare al personaggio di Giacobbe, che possiede un suo inquietante doppio, in Partner (1968) di Bernardo Bertolucci, all’antropofago di Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini o al misterioso messia di I cannibali (1970) di Liliana Cavani. Il personaggio di La via lattea emerge da plumbei lembi infernali e compare nel sedile posteriore dell’auto che corre lungo una linea geometrica, incorniciata dagli alberi, come il percorso effettuato dalla carrozza all’inizio di Bella di giorno. Ma il percorso geometrico e rettilineo cela un sovvertimento inaudito: ciò che è angelico è anche infernale, ciò che appare un limbo d’amore – come la scena in carrozza, iconograficamente perfetta – è in realtà un limbo che prelude all’inferno. Fuori dalla linea geometrica si pongono i due personaggi protagonisti del film: veri sovvertitori, veri picari della modernità che con il loro vagabondaggio, con il loro spostamento nomadico aprono orizzonti di rovesciamenti, di regole rovesciate e di un ordine annientato. Il culmine del loro pellegrinaggio a Santiago non sarà un’adorazione divina ma l’unione con due prostitute, come se il sovvertimento eterotopico della casa di Madame Anaïs si fosse esteso a un intero vacuo orizzonte borghese pronto per essere scardinato e riscritto.

]]>
Tecnopotere totalitario https://www.carmillaonline.com/2024/07/20/tecnopotere-totalitario/ Sat, 20 Jul 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83157 di Gioacchino Toni

Cesare Alemanni, Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip, Luiss University Press, Roma, 2024, pp. 184, € 17,00 (ebook € 9,99).

Francesca Balestrieri, Luca Balestrieri, Tecnologie dell’impero. AI, quantum computing, 6G e la nuova geopolitica del potere, Luiss University Press, Roma, 2024, pp. 206, € 18,00 (ebook € 9,99).

Considerato la tecnologia più importante e strategica al mondo ed essendo il manufatto più complesso mai prodotto serialmente e quello riprodotto nel maggior numero di esemplari, il motore di ogni astrazione del mondo contemporaneo, il microchip è divenuto talmente indispensabile da poter essere considerato una materia [...]]]> di Gioacchino Toni

Cesare Alemanni, Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip, Luiss University Press, Roma, 2024, pp. 184, € 17,00 (ebook € 9,99).

Francesca Balestrieri, Luca Balestrieri, Tecnologie dell’impero. AI, quantum computing, 6G e la nuova geopolitica del potere, Luiss University Press, Roma, 2024, pp. 206, € 18,00 (ebook € 9,99).

Considerato la tecnologia più importante e strategica al mondo ed essendo il manufatto più complesso mai prodotto serialmente e quello riprodotto nel maggior numero di esemplari, il motore di ogni astrazione del mondo contemporaneo, il microchip è divenuto talmente indispensabile da poter essere considerato una materia prima attorno a cui gravitano le maggiori trame geopolitiche contemporanee.

A ricostruire il passato, il presente e il futuro del semiconduttore di cui non si può più fare a meno provvede il volume Il re invisibile di Cesare Alemanni che ne racconta i presupposti pre-informatici, dunque la nascita della microelettronica applicata al calcolo e di come l’industria dei semiconduttori sia divenuta una complessa filiera globale attorno a cui si sfidano Stati Uniti e Cina, non mancando di soffermarsi sull’importanza di un materiale come il silicio e di un isola come Taiwan, in cui ha sede la più importante fabbrica al mondo di chip.

Alla luce del fatto che la competizione geopolitica, soprattutto se si appresta ad evolvere in conflitto armato, richiede solidità interna in termini di coesione sociale e consenso cultuale, gli Stati capaci di esprimere progetto, consenso e potere, in lotta per l’egemonia, per conquistare leadership o per evitare di perderla, diventano i soggetti centrali delle organizzazioni politico-economiche imperiali attorno a cui si aggregano Stati di minor peso.

Nelle società di massa, la chiamata alla mobilitazione ha sempre necessitato di una certa drammaturgia, di una narrativa capace di incedere sul lato emotivo della popolazione, capace di spaventare, mostrando i pericoli portati dal nemico, ed esaltare la forza che si detiene e i valori di identità e appartenenza. Se, a tale scopo, in ambito cinese la narrazione fa leva soprattutto sull’orgoglio per una rinascita nazionale ottenuta tramite la padronanza delle tecnologie necessarie al dominio, sul versante statunitense si insiste con il raccontare lo scontro in atto come una lotta della democrazia contro la tecno-autocrazia. Su tali narrazioni di carattere più emotivo, si vanno poi inevitabilmente ad innestare retoriche concernenti questioni più materiali, di ordine economico ed occupazionale.

A come lo sviluppo esponenziale della tecnologia – dipendente dal semiconduttore di cui si occupa il volume di Alemanni – stia rapidamente modificando i nuovi assetti geopolitici, provvede il volume Tecnologie dell’impero di Francesca Balestrieri e Luca Balestrieri. Gli autori non si limitano a mappare lo status quo tecnologico e geopolitico ma ne delineano alcuni possibili sviluppi futuri soprattutto alla luce dell’evoluzione riguardante l’intelligenza artificiale e la rete di telecomunicazione.

Le tecnologie digitali – e in misura particolarmente intensa e pervasiva l’intelligenza artificiale – hanno carattere totalitario, perché investono in modo organico e con effetti di moltiplicazione sinergica la sfera del sociale, quella economica, il simbolico-immaginario e la comunicazione. La potenza di trasformazione del mondo materiale e di riconfigurazione di quello mentale e sociale, già evidente nell’era digitale, abbatte progressivamente i limiti al proprio dispiegarsi. Tutto è digitalizzato e tutto in prospettiva potrà intelligentizzarsi1.

Nell’era dell’intelligenza artificiale, la tecnologia è potere esercitato sulla sfera materiale e su quella biologica, su quella comunicativa e, non da ultimo, sull’immaginario: «la competizione geopolitica – in quanto lotta per il controllo della tecnologia – è perciò conflitto totale per il governo del sociale e del biologico, del mentale e del materiale. Il progetto di potenza è costretto a non avere limiti, proiettato nel post-umano della human augmentation e nelle conoscenze della cognitive warfare. Geopolitica totalitaria nelle sue forme, nei sui strumenti, nei suoi fini»2.

Indubbiamente nel panorama geopolitico presente e futuro uno dei terreni di scontro riguarda le reti di telecomunicazione mobile. Preso atto a metà dello scorso decennio del ritardo accomunato nei confronti della Cina nello sviluppo del 5G – assolutamente strategico per il settore produttivo, così come per i servizi, i trasporti ecc. –, per tentare di recuperare terreno gli Stati Uniti hanno risposto tentando di contenere la diffusione internazionale del 5G cinese e tagliando le forniture di tecnologia statunitense, soprattutto microchip, verso la Cina.

Il contenzioso attorno al 5G ha tutta l’aria di essere una prima schermaglia del conflitto che si scatenerà per il controllo del futuro 6G che rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma. Le potenzialità offerte dal 6G, scrivono gli autori di Tecnologie dell’impero, potranno permettere a sensori e intelligenza artificiale di riorganizzere completamente il mondo fisico delle fabbriche e delle città (intelligence of everyhing). 6G mira a divenire una rete neuronale distribuita in grado di connettere intelligenza artificiale, sensori e capacità di calcolo fondendo i mondi fisico, biologico e cyber, a essere essa stessa un network cognitivo in grado di decentrare nei nodi della rete maggiore intelligenza e capacità di calcolo, integrando cloud computing ed edge computing (intelligence everywhre).

Se in passato si è guardato al cyberspazio globale come ad una superficie omogenea, la conflittualità che si sta dispiegando a livello planetario sta mettendo in luce come questa superficie si stia in realtà frammentando in placche tettoniche che potrebbero entrare in collisione. «Viviamo al contempo una guerra tecnologica e una rivoluzione tecnologica, sull’onda del sovvertimento sistemico annunciato dall’intelligenza artificiale: il sovrapporsi e l’alimentarsi a vicenda di guerra e rivoluzione rendono precaria ogni strategia e imprevedibile ogni sviluppo»3.


  1. Francesca Balestrieri, Luca Balestrieri, Tecnologie dell’impero. AI, quantum computing, 6G e la nuova geopolitica del potere, Luiss University Press, Roma, 2024, p. 11. 

  2. Ivi, p. 19 

  3. Ivi, p. 165. 

]]>
Il racconto di Suaad https://www.carmillaonline.com/2024/07/19/il-racconto-di-suaad/ Fri, 19 Jul 2024 21:55:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83331 di Edoardo Todaro

Suaad Genem; Edizioni Q, 2024, pp. 180; € 17

Scrivere qualcosa a proposito di “ Il racconto di Suaad “ vuol dire non solo ringraziare le Edizioni Q per aver dato alle stampe questa testimonianza, ma vuol dire prendere spunto da quanto la ex prigioniera palestinese descrive per dire qualcosa a proposito del genocidio in atto. Il genocidio portato avanti dall’entità sionista, con la complicità dell’occidente e dei paesi arabi, nei confronti del popolo palestinese. Suaad è stata incarcerata per ben tre volte: 1979; 1983; 1991. Suaad descrive quanto viene subìto da lei e dai tantissimi prigionieri politici palestinesi. [...]]]> di Edoardo Todaro

Suaad Genem; Edizioni Q, 2024, pp. 180; € 17

Scrivere qualcosa a proposito di “ Il racconto di Suaad “ vuol dire non solo ringraziare le Edizioni Q per aver dato alle stampe questa testimonianza, ma vuol dire prendere spunto da quanto la ex prigioniera palestinese descrive per dire qualcosa a proposito del genocidio in atto. Il genocidio portato avanti dall’entità sionista, con la complicità dell’occidente e dei paesi arabi, nei confronti del popolo palestinese. Suaad è stata incarcerata per ben tre volte: 1979; 1983; 1991. Suaad descrive quanto viene subìto da lei e dai tantissimi prigionieri politici palestinesi. Suaad ci mette di fronte a ciò che tantissimi rivoluzionari,da Ho Chi Min a Che Guevara, da George Jackson a Sante Notarnicola, in tutto il mondo, in tante esperienze di liberazione anticoloniale e di lotta per il potere, ci hanno insegnato: le carceri come scuola di formazione politica all’interno del percorso di liberazione nazionale.

Possiamo dire, senza smentita alcuna, che in Palestina non c’è famiglia che non abbia fatto i conti la repressione e con la prigionia e quindi, conseguenza logica, i prigionieri hanno avuto sempre, ed hanno anche ora, un ruolo centrale nella lotta di liberazione. Quanto sta accadendo è sotto gli occhi di tutti: da una parte ospedali bombardati, uomini torturati; deceduti mangiati da animali; la fame come strumento di guerra; dall’altra la resistenza di un popolo che soffre ma non è disperato, che si sostiene grazie allo spirito di resistenza , al senso di unità in difesa di una identità collettiva: politica, culturale, sociale. Un senso di unità che fa sì che non ci sia alcun tipo di vittimismo, ed il dolore verso ciò che sta succedendo diviene resistenza, una lotta di un popolo che ha assunto un carattere universale.

Resistenza che i palestinesi attuano, come, storicamente, hanno fatto tutti i popoli colonizzati. Ma quanto sta accadendo non è opera di un sicario psicopatico; c’è un’entità criminale che sta portando avanti un’opera di annientamento. La solidarietà che in tutto il mondo si esprime dalle facoltà occupate, al blocco dei porti, è un’arma fondamentale per i palestinesi ma anche per tutti coloro che si schierano apertamente contro l’entità sionista e per un vero e proprio boicottaggio dei rapporti diplomatici e commerciali tra questa ed i governi che la sostengono. Detto questo, appena inizi a leggere ti rendi conto di cosa hai tra le mani.” ….. a tutta la mia famiglia, ai combattenti, ai prigionieri ….. “. Suaad ci parla della seconda prigionia, il 1983. Oggi, nel 2024, assistiamo a quello che è già accaduto in passato, pulizia etnica,  città rase al suolo, date alle fiamme; incursioni dell’esercito nelle case. Ma di fronte a questo Suaad ci ricorda che la dignità non può essere comprata e che nella mente di tutti i palestinesi c’è un solo pensiero:  liberare la Palestina,  le sofferenze non potranno fermare il cammino verso la giustizia, non esistono alternative alla lotta, la liberazione della Palestina è solo una questione di tempo, il colonialismo, al di là di quanto potrà durare, è destinato a finire. Suaad ci racconta l’interrogatorio, le pressioni subìte, le molestie sessuali, i programmi sistematici di tortura psicologica; ci racconta la capacità di resistenza attraverso la consapevolezza che la propria resistenza appartiene alla resistenza di tutti, resistere al dolore e non cedere, non dargliela vinta, e che è meglio morire che essere umiliati, perché la morte è un qualcosa che i palestinesi mettono in conto.

Un imperativo categorico guida Suaad: “ tacere, pazientare, resistere “ perché i carcerieri li puoi sconfiggere con la calma e l’indifferenza ed evadere con l’immaginazione, perché “ la Palestina è nelle mie vene, più vicina dei battiti del cuore “. La resistenza di Suaad si concretizza nel non riconoscere i tribunali israeliani, perché la tragedia dei prigionieri politici è la tragedia di tutti i palestinesi; nell’evitare le contrapposizioni e divisioni, volute da israele con le detenute comuni. Vivere il carcere significa anche mantenersi in forma sia a livello fisico che mentale leggendo, discutendo, imparando; significa rapportarsi con la detenzione amministrativa, senza accuse, senza incontri con i familiari ecc …; significa costruire amicizie indimenticabili e lottare contro il lavoro svolto dalle detenute per aziende israelo/statunitensi o per cucire divise militari; le celle con letti di ferro che in realtà sono sbarre di ferro saldate tra loro;la privazione del sonno; il comitato di lotta con azioni che scaturiscono da un’analisi attenta e non da una emotività dovuta alle provocazioni, lo sciopero della fame. Suaad è l’esempio che sfata tanti pregiudizi a proposito del ruolo delle donne, con la loro, crescente, partecipazione alla lotta; donne che hanno assunto ruoli di responsabilità del movimento dei prigionieri; che hanno potuto strappare quanto rivendicato perché hanno lavorato tutte insieme, unite al di là dell’appartenere ad una fazione o ad un’altra. Una testimonianza , quella di Suaad, necessaria, oggi più di ieri, per far conoscere quanto sta avvenendo. In conclusione ritengo giusto citare proprio Suaad: “ Il sole del mio paese sorge all’alba di ogni giorno e la sua luce non verrà mai reclusa nelle celle dell’occupazione “ e consigliare a coloro che vogliono approfondire la questione della detenzione dei prigionieri politici palestinesi , di visitare il sito di ADDAMEER , realtà da sempre impegnata nel denunciare i soprusi dell’occupazione e per questo messa al bando dall’entità sionista.

]]>
Il futuro cosa ci riserva? https://www.carmillaonline.com/2024/07/19/il-futuro-cosa-ci-riserva/ Fri, 19 Jul 2024 05:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83254 di Marco Sommariva

Vent’anni fa lessi La volgarità in letteratura di Aldous Huxley, una raccolta di saggi dello scrittore inglese; fra questi, mi colpì La pubblicità dove, fra le altre cose, scriveva che “La storia dello sviluppo della pubblicità, dall’infanzia dei primi anni del XIX secolo fino alla rigogliosa maturità del XX secolo, costituisce un capitolo essenziale nella storia della democrazia. E sempre a proposito di democrazia, aggiungeva: con la democrazia l’arte pubblicitaria è entrata in pieno rigoglio. […] Già adesso la sezione dedicata alla pubblicità costituisce la parte più interessante e in qualche caso anche la più leggibile di quasi tutte le [...]]]> di Marco Sommariva

Vent’anni fa lessi La volgarità in letteratura di Aldous Huxley, una raccolta di saggi dello scrittore inglese; fra questi, mi colpì La pubblicità dove, fra le altre cose, scriveva che “La storia dello sviluppo della pubblicità, dall’infanzia dei primi anni del XIX secolo fino alla rigogliosa maturità del XX secolo, costituisce un capitolo essenziale nella storia della democrazia. E sempre a proposito di democrazia, aggiungeva: con la democrazia l’arte pubblicitaria è entrata in pieno rigoglio. […] Già adesso la sezione dedicata alla pubblicità costituisce la parte più interessante e in qualche caso anche la più leggibile di quasi tutte le riviste americane. E il futuro, che cosa ci riserva?” Vi assicuro che fu grande la mia soddisfazione nel leggere queste parole perché, fra sguardi esterrefatti di chi si rende conto di avere un marziano in casa e commenti poco generosi, erano anni che predicavo che era la pubblicità a raccontarci chi eravamo davvero, cosa ci stava intorno, forse meglio di tanti articoli sui giornali e servizi alla TV. Mi sembrò d’impazzire quando mi si guardò come una qualsiasi merdaccia che aveva visto San Pietro sulla traversa di una porta di calcio, quando puntai ripetutamente il dito verso spot che reclamizzavano prodotti utilizzando famiglie composte da figli, genitori e nonni che, però, nonni non erano: erano attori anagraficamente ben lontani dal poter essere nonni, ma diventati tali grazie a un trucco a tratti pure pacchiano, a tinte grigie applicate qua e là su capelli ben lontani dal pericolo di cadere. Per me era evidente: la Società voleva far fuori i vecchi, proprio come ci aveva raccontato Umberto Simonetta nel suo romanzo I viaggiatori della sera o Adolfo Bioy Casares nel suo Diario della Guerra al Maiale. Insomma, ero proprio contento di non sentirmi più solo ma, anzi, di essere in ottima compagnia, avendo al mio fianco Huxley, mica bruscolini!

Sono vent’anni che mi rimbomba nella testa la sua domanda: E il futuro, che cosa ci riserva?

Quando mi capitò di leggere Gli Antimercanti dello spazio di Frederik Pohl, libro pubblicato in Italia nel 1984, pensai che, forse, lì, c’era la risposta alla domanda di Huxley. In questo romanzo, il protagonista – convinto pubblicitario – si ritrova vittima di una zona a pubblicità “campbelliana”, ossia una delle numerose aree sparse per la città segnalate da cartelli poco riconoscibili, capaci di rendere la vittima totalmente dipendente da un prodotto grazie allo stimolo e alla manipolazione dei centri nervosi. Tutto questo in un mondo dove le aziende pubblicitarie detengono il potere reale e i politicanti sono ridotti a banali marionette che le stesse agenzie costruiscono e pubblicizzano durante le campagne elettorali.

Un mondo dove le persone sono circondate da pubblicità e offerte di ogni genere: “Slogan pubblicitari a cristalli luminosi scorrevano sui muri, i più recenti luminosi come il sole, i più vecchi sporchi e resi irriconoscibili dai graffiti. Sul marciapiede i chioschi fornivano campioni gratuiti di Fuma-Godi e Caffeissimo e tagliandi di sconto per mille prodotti. Nell’aria nebbiosa apparivano immagini olografiche di cucine miracolose e di viaggi fantastici ed esotici della durata di tre giorni; da ogni parte si sentivano canzoncine pubblicitarie…”

Un mondo dove i messaggi pubblicitari vengono impressi sulla retina: “Qui era il Potere. L’intero immenso edificio era consacrato ad una missione sublime: il miglioramento dell’umanità attraverso l’ispirazione a comprare. Vi lavoravano più di diciottomila persone. Redattori di slogan e apprendisti giocolieri di parole; specialisti in media, capaci di far risuonare un comunicato dall’aria che respirate, o di imprimere un messaggio sulla vostra retina; ricercatori che ogni giorno inventavano nuove e più vendibili bevande, nuovi cibi, aggeggi, vizi, manie di ogni genere; artisti; musicisti; attori; registi; compratori di spazio e compratori di tempo… la lista continuava all’infinito.”

Un mondo dove la noia dà vita al buon consumatore: “Ciò che faceva il buon consumatore era la noia. La lettura era scoraggiata, le case non erano una gioia a starci… cos’altro potevano fare delle proprie vite, se non consumare?”

Ma sì, dai, non c’era dubbio, la risposta alla domanda E il futuro, che cosa ci riserva? non poteva altro che essere lì, nel romanzo di Pohl: immagini olografiche, messaggi pubblicitari impressi sulla retina, scoraggiare la lettura e annoiare le persone. Occorreva stare all’erta, e su questo ci era già stato detto qualcosa nel romanzo Un mondo sinistro di Vladimir Nabokov: “In altre nazioni notiamo un numero enorme di organi di stampa in concorrenza fra loro. Ogni quotidiano vuole convincere il lettore del proprio punto di vista, e tale sconcertante diversità di tendenze produce la confusione totale nella mente dell’uomo della strada; nel nostro paese veramente democratico una stampa omogenea è responsabile, nei confronti della nazione, della corretta educazione politica che fornisce. Gli articoli che compaiono sui nostri giornali non sono frutto della fantasia individuale di questo o di quello, bensì un messaggio maturo preparato con cura per il lettore il quale, a sua volta, lo riceve con il medesimo atteggiamento mentale fatto di serietà e attenzione. Un’altra caratteristica importante della nostra stampa è la collaborazione volontaria dei corrispondenti locali – lettere, suggerimenti, dibattiti, critiche, eccetera. Pertanto, è evidente che i nostri cittadini hanno libero accesso ai giornali, uno stato di cose sconosciuto altrove. È vero che in altri paesi si parla molto di “libertà”, ma, nella realtà dei fatti, la mancanza di fondi non consente l’accesso all’uso della parola stampata. È palese che un milionario e un operaio non hanno le stesse opportunità. La nostra stampa è proprietà pubblica della nazione. Quindi non è gestita su base commerciale. In un quotidiano capitalista, finanche gli annunci pubblicitari possono influire sulle sue tendenze politiche”.

Eccolo lì il punto fondamentale: In un quotidiano capitalista, finanche gli annunci pubblicitari possono influire sulle sue tendenze politiche.

Negli anni mi sono domandato spesso, in attesa che ci venga impresso sulla retina un qualche messaggio pubblicitario, se non si fosse trovato un modo per impressionarci comunque, ma senza passare attraverso l’evidenza di uno spot, di un cartellone pubblicitario, di un’immagine. E me lo domandavo perché, se la risposta fosse stata affermativa, avremmo corso un bel pericolo; giorni fa ho scoperto che, sì, questo modo è stato trovato e, vista l’assoluta mancanza di alzata di scudi registrata, direi che l’obiettivo è stato raggiunto, e pure alla grande perché una pubblicità pubblicata in calce a un articolo dove si parla di un probabile stupro, facendola passare come una normale appendice della tragedia prima descritta è, a modo suo, un capolavoro. Uno schifosissimo capolavoro, questo lo ammetto. Sto parlando dell’articolo pubblicato on-line su Il Giornale d’Italia intitolato “Genova, studentessa 19enne in gita scolastica violentata su una nave da crociera, arrestati 3 coetanei francesi”.

Vi chiedo la cortesia di leggerlo per intero, anche soffermandovi a riflettere sull’uso del grassetto per evidenziare alcune parole. Incredibile, vero? In poche righe, si passa con spaventosa naturalezza da “Nell’ospedale genovese i medici hanno confermato la violenza” a “La nave sulla quale è avvenuta la violenza è una delle navi di punta della nota compagnia di navi da crociera: offre suite lussuose con vasche idromassaggio e cabine confortevoli per famiglie e gruppi.”

Ora vi dico le prime due cose che mi sono venute in mente terminata la lettura.

La prima è quello che mi disse, anni fa, il mio responsabile d’ufficio quando compilai un form negativo relativo a un periodo di prova di un ragazzo che aveva sempre lavorato come orafo, ma che qualcuno lo voleva far assumere a tutti i costi nel mio reparto di logistica, mi disse: “Visto che l’unica nota positiva di questo ragazzo è che si è sempre presentato puntuale al lavoro, riscriviamo il form mettendo prima tutte le cose negative e, alla fine, quella positiva: sono trucchi che ci sono stati insegnati durante l’ultimo corso tenuto per noi dirigenti.”

La seconda, forse perché si parlava di navi, è stato un passaggio del bellissimo romanzo del 1889 di De Amicis, Sull’oceano, in cui si cita la popolarità di un passeggero che la doveva “a un tesoro pornografico che aveva ereditato da un parente: un grosso quaderno tutto pieno di caricature oscene, di sciarade sporche o di aneddoti, i quali, letti a pagina piegata, eran brani di vite di santi, e a pagina aperta, troiate dell’altro mondo.”

Riguardo la prima, vedete un po’ voi quante analogie trovate con l’articolo in questione; riguardo la seconda, ho provato tanto rammarico nello scoprire che troiate dell’altro mondo le leggiamo anche a pagine piegate, che dilaga una pornografia di cui nessuno si scandalizza e che, forse, chissà, un giorno prenoterò una cabina su una nave da crociera o su un’astronave perché sulla mia retina è rimasto impresso l’ultimo passaggio di qualche articolo di cronaca o all’improvviso sarò preda di un irrefrenabile desiderio di una tazza fumante di Caffeissimo, tanto da sgomitare e calpestare la gente in coda, anche loro indemoniati da un improvviso e ingovernabile impulso.

Alla fine, riusciamo a far diventare spettacolo tutto quanto, anche uno stupro. E ora… pubblicità.

]]>
Kamo, Lenin e il “partito dell’insurrezione” https://www.carmillaonline.com/2024/07/17/kamo-lenin-e-il-partito-dellinsurrezione/ Wed, 17 Jul 2024 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83421 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 208, 18 euro

Oratori silenzio! A voi la parola compagno Mauser. (Vladimir Vladimirovic Majakovskij, Marcia di sinistra)

Sono numerosi i contributi e le ricerche di Emilio Quadrelli sullo sviluppo e la storia dei movimenti antagonisti e rivoluzionari, così come sulle problematiche che gli stessi, anche in situazioni di riflusso sociale come quella che accompagna i nostri giorni, devono costantemente prepararsi ad affrontare. Per questo motivo si è scelto di aggiungere in coda alla presente recensione una bibliografia, certamente ancora incompleta, dell’opera e degli articoli dello [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 208, 18 euro

Oratori silenzio!
A voi la parola
compagno Mauser.

(Vladimir Vladimirovic Majakovskij, Marcia di sinistra)

Sono numerosi i contributi e le ricerche di Emilio Quadrelli sullo sviluppo e la storia dei movimenti antagonisti e rivoluzionari, così come sulle problematiche che gli stessi, anche in situazioni di riflusso sociale come quella che accompagna i nostri giorni, devono costantemente prepararsi ad affrontare. Per questo motivo si è scelto di aggiungere in coda alla presente recensione una bibliografia, certamente ancora incompleta, dell’opera e degli articoli dello studioso e, soprattutto, militante genovese che nel corso degli ultimi anni ha fornito anche alla nostra testata.

Detto e sottolineato questo, però, va detto che a giudizio di chi scrive il testo da poco pubblicato da DeriveApprodi può costituire una specie di summa dell’interpretazione data dall’autore dell’azione di classe e del rapporto intercorrente tra questa e lo sviluppo di una coerente teoria rivoluzionaria, capace di fornire ai militanti dei movimenti e al processo destinato a superare lo stato di cose presenti una cassetta degli attrezzi non permeata dall’ideologia e dai suoi evidenti limiti, ma capace di resistere alle chimere di questo tempo infame per superarlo.

Non per nulla il volume si intitola L’altro bolscevismo e rovescia, nel sottotitolo ma non soltanto, quel Kamo, l’uomo di Lenin che era stato il titolo della più celebre opera pubblicata in Italia1 sulla figura del militante, bandito e combattente irriducibile che dal 1903 al 1922, anno della sua morte per una banale caduta dalla bicicletta, avrebbe dato prova di una fedeltà totale alla causa della Rivoluzione proletaria e comunista. Motivo per cui avrebbe trascorso, in fasi e periodi diversi, una buona parte della sua vita nelle carceri zariste.

Il rovesciamento del titolo non corrisponde soltanto alla necessità di superare la visione parzialmente romantica dell’eroe fornita dal testo di Baynac ma, soprattutto, da quella di spezzare letteralmente la vulgata che si è data a Sinistra del rapporto intercorrente tra prassi e azione in Lenin e nel suo partito. Una lettura mitopoietica, tutt’altro che dialettica, che sempre ha anteposto all’analisi concreta dello sviluppo dell’attività rivoluzionaria, anche sul piano militare e della “forza”, quello della capacità critica del singolo individuo, in questo caso Lenin, “solidamente” formatosi nella tradizione marxista.

Una lettura sviluppatasi sia in ambito staliniano che in quello dell’antistalinismo, che ha cercato di fare del rivoluzionario e dirigente russo una sorta di deus ex-machina della rivoluzione bolscevica che le varie fazioni in gara per contendersene l’eredità hanno potuto citare e, probabilmente, mutilare per poter rivendicare la propria “autentica” se non “unica” discendenza. Accantonando, nel fare ciò, la realtà della Storia e la concretezza dell’azione militante richiesta per giungere alla Rivoluzione di ottobre e alla sua successiva influenza sul movimento comunista internazionale.

Oggi, in anni in cui quest’ultimo termine ha cominciato a risultare un po’ troppo vago per definire lo sviluppo di un nuovo movimento antagonista capace di rovesciare gli attuali rapporti di produzione su scala mondiale, è salutare l’impegno di Quadrelli teso a dimostrare i diversi apporti, spesso dal basso e da aree politiche poi rimosse, in nome dell’”ortodossia”, dal curriculum del partito bolscevico, da cui derivò il successo dello stesso, prima e dopo il 1917.

Parafrasando l’incipit di un famoso e probabilmente dimenticato editoriale degli anni Sessanta2 iniziamo con una asserzione che non lascia spazio a equivoci e tanto meno a malintesi di sorta: cominciamo con il dire Kamo poiché, ciò che con il testo presente si è provato a ricostruire è la fabbrica della strategia leniniana, o l’altro bolscevismo, osservando la figura di Kamo come esemplificazione di tutto questo. Con ciò proveremo a discutere e leggere Lenin in maniera decisamente poco convenzionale, nella convinzione che il brigante del Caucaso (questo l’altro modo in cui Kamo, specialmente nella narrazione popolare è passato alla storia) rappresenti, non il tratto folcloristico del bolscevismo, bensi la cartina tornasole della teoria leniniana stessa3.

Come afferma fin dalla prima pagina, l’autore va a ricostruire su più solide e materialistiche basi lo sviluppo di quella che è stata considerata la fabbrica della strategia leniniana, in cui, occorre dirlo da subito, l’audacia (esattamente come nel pensiero militare di Napoleone) ha giocato un ruolo essenziale. Sia sul piano teorico che pratico. Una teoria e una prassi politica, oltre che militare, dell’audacia di cui Kamo costituì l’autentica e, forse, insuperata epitome.

Il testo di Quadrelli si divide in tre parti ben distinte. Nella prima (L’altro bolscevismo. Kamo, Lenin e il «partito dell’insurrezione», pp. 5- 69) viene evidenziato come non pochi tratti del populismo politico russo, di cui Marx nell’ultima parte della sua vita fu estimatore nonostante l’opera di rimozione in seguito condotta a partire da Plechanov4, divennero parte costitutiva dell’eresia leniniana. Nella seconda parte (La stagione di Kamo, pp. 70-146), avvalendosi delle metodologie della storia orale e della ricerca etnografica, si ricostruisce la ricezione che i militanti politici di base ebbero di Kamo nel corso degli anni Settanta. Mentre nelll’ultima (S’avanza uno strano soldato, pp. 147-204), declinata al presente, si argomenta la necessità di una ripresa «metodologica», senza dogmi di sorta, dell’eresia di Kamo e di Lenin.

In questa terza e ultima parte del libro si rivela la summa teorica, si potrebbe dire, dell’ulteriore eresia di Quadrelli che inizia là dove egli si pone una domanda tipica del presente:

esiste oggi “una questione immigrazione”? La risposta appare scontata. Ma cosa significa porsi questa domanda se non riconoscere che, in fondo, gli immigrati sono un corpo estraneo alle nostre societa? Cosa significa porsi “la questione immigrazione” se non percepire l’immigrato come qualcosa che rompe gli equilibri dei nostri mondi? Cosa significa ratificare l’esistenza dell’extracomunitario se non continuare a pensare che esiste un qua e un rigidamente separati. In fondo le retoriche dell’accoglienza o del respingimento che tanto animano il dibattito politico europeo soggiacciono alla medesima logica: “gli immigrati sono altro da noi”.
Ma gli immigrati sono veramente altro? I Paesi dai quali provengono sono veramente qualcosa che non ha nulla a che vedere con i nostri mondi? In altre parole, siamo ancora dentro i confini della vecchia fase imperialista? Ecco che, se posta in questi termini, la domanda sull’esistenza o meno di una “questione immigrazione” appare meno ovvia e scontata di quanto, in prima battuta, poteva apparire. La cosiddetta questione immigrazione, a ben vedere, non e altro che lo specchio per nulla deformato di cio che la fase imperialista globale ha prodotto. Gli immigrati e con loro i rispettivi Paesi di origine non sono l’arcaicità che approda al moderno, non sono i retaggi di un qualche ritardato modello di sviluppo, non sono il frutto esotico che improvvisamente compare nel mercatino rionale sotto casa, ma l’avanguardia, sotto il profilo politico e sociale, dell’attuale modello politico, economico e sociale capitalistico. Gli immigrati non sono plebi, lumpen, e chi più ne ha più ne metta. Gli immigrati sono la concretizzazione della figura proletaria prodotta dal punto piu alto dello sviluppo capitalista. Sono la storia del presente, non del passato5.

Per poi proseguire affermando che:

La polarizzazione sociale dell’attuale fase imperialista non può che proletarizzare gran parte di quella middle class sulla quale poggiava per intero il “consenso di massa” al potere imperialista nelle nostre società. La classe media e l’aristocrazia operaia occidentali di un tempo, il che è ampiamente comprensibile, rimangono strenuamente ancorate alle coordinate del vecchio mondo imperialista, guardando con avversione e terrore l’imporsi del nuovo ordine imperialista globale. La loro battaglia di retroguardia è tutta tesa ad evitare di precipitare dentro la condizione di vita del proletariato internazionale, non certo a sovvertire il modo di produzione capitalista. Per loro, ma non per il proletariato internazionale, la conservazione dei perimetri politici dello Stato Nazione è qualcosa di assolutamente appetibile e desiderabile. In fondo ciò a cui questi settori sociali mirano è la conservazione di un modello politico in grado di riconvertire nelle loro tasche una quota dei sovra-profitti rastrellati dall’imperialismo sulla pelle e sul sangue delle popolazioni extraoccidentali.
Questi settori, del resto, si sono sempre mostrati ampiamente schierati contro le insorgenze di popolo e proletarie di carattere radicale. Basti pensare, solo per citare esempi tanto noti quanto macroscopici, alla “linea di condotta” di questi segmenti di classe in Francia nel corso della Rivoluzione algerina, oppure nei confronti del movimento antimperialista tedesco degli anni
Sessanta e Settanta o nell’Italia del decennio insurrezionale. Centrale in questo ragionamento è il riconoscere come oggi siamo posti di fronte ad una trasformazione radicale sia della forma-stato che ha fatto da sfondo al nostro ‘900 sia della composizione di classe e della sua soggettività6.

Ed è a questo punto che Lenin, sempre secondo Quadrelli, torna ad insegnarci qualcosa, al di fuori degli schemi:

Abbiamo visto come, per Lenin, la lotta di classe e la soggettività a questa coeva siano il solo e unico termometro su cui misurare l’agire del partito. Tutto ciò, ovviamente, ha delle ricadute non secondarie sull’organizzazione e il suo modello. Abbiamo visto come, per Lenin, l’organizzazione sia sempre il prodotto storico della lotta di classe, quindi di una determinata composizione di classe e della soggettività di questa. L’organizzazione non è mai data una volta per tutte ma, volta per volta, il partito formale è tale solo se in grado di essere la materializzazione storicamente determinata del partito storico. Dentro le fasi storiche, e su questo Lenin, come si e ricostruito nei paragrafi precedenti, scrive cose che non lasciano dubbi in merito, l’organizzazione deve essere sempre in grado di cambiare pelle. Per farlo, non di rado, deve letteralmente gettare per aria tutto ciò che solo un attimo prima poteva considerarsi il punto di vista politico e organizzativo più elevato del conflitto di classe. Ma la storia, la lotta di classe, come non cessa mai di ammonire Lenin, obbligano a balzi, rotture e fratture che scompaginano e disorientano anche lo stesso partito d’avanguardia poiché quest’ultimo non può essere o pensarsi come soggetto astorico immune dalla dialettica storica. Ciò che vale per la classe, vale per il partito. Per questo tra partito formale e partito storico non può che esistere una costante dialettica storica in virtù della quale il partito formale è soggetto a una permanente mutazione.
Mantenere la struttura, la forma e le retoriche del partito formale all’interno di un contesto storico trasformato vuol dire condannarsi all’estinzione. Ciò che e valso per i populisti, incapaci di leggere il mondo nuovo che avevano di fronte e perciò condannati a estinguersi o a sopravvivere nell’ambito dell’archeologia storica, vale non meno per il movimento comunista. Chi non coglie il portato delle giornate rivoluzionarie e, a partire da ciò, non e in grado di organizzare e rilanciare ciò che la lotta di classe ha posto all’ordine del giorno si pone, obiettivamente, fuori dalla storia7.

Purtroppo, e per sole ragioni di spazio e tempo di lettura, occorre fermare qui l’analisi di un testo e di un’opera, quella complessiva di Quadrelli, che soltanto negli anni a venire dimostrerà appieno la sua utilità e indispensabilità per il ragionamento militante. Ecco perché vale davvero la pena di iniziare a conoscerla fin da oggi.

Bibliografia (sommaria) delle opere di Emilio Quadrelli.

La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, (con Alessandro Dal Lago), Feltrinelli Editore, Milano 2003

Andare ai resti. Banditi. Rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, DeriveApprodi, Roma 2004

Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, DeriveApprodi, Roma 2005

Evasioni e rivolte. Migranti Cpt Resistenze, Agenzia X, Milano 2007

Sulla guerra. Crisi Conflitti Insurrezioni, Red Star Press, Roma 2017

Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, Roma 2019

Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975, Interno 4, 2020

Gang, merce, autodifesa. Note sul “fronte interno” e la guerra permanente in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021

Ri-cominciamo a dire Lenin. Dal “Partito di Mirafiori” al “Partito della banlieue” in G. Toni, P. Lago, Spazi contesi, cinema e banlieue, Milieu Edizioni, Milano 2024

Articoli di Emilio Quadrelli apparsi su Carmillaonline:

É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio; serie di otto articoli comparsi tra il 22 luglio e il 22 settembre 2023

Atena sulla terra, 5 agosto 2023

Cronache marsigliesi; serie di otto articoli comparsi tra il 2 aprile 2023 e il 13 luglio 2023

Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia ; serie di quattro articoli comparsi tra il 26 marzo 2023 e il 22 aprile 2023

Genova 2001. Una storia del presente; due articoli comparsi il 3 e il 6 marzo 2023

Il mondo della prigione tra alterità e realismo storico. La morte di Francis Turatello, (con Bruno Turci); due articoli comparsi il 25 e il 28 febbraio 2023

Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica; serie di sei articoli comparsi tra il 1° ottobre e il 29 ottobre 2022

Le gang dei “minori stranieri”: teppisti o nuovo soggetto operaio?, 28 settembre 2022

Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente; serie di quattro articoli comparsi tra il 6 e il 17 settembre 2022

Le voci di dentro. Intervista a Emilio Qudrelli (a cura di Chiara Cretella); pubblicata in due parti il 22 e il 23 dicembre 2005

A tutto questo va aggiunto che se nel frattempo nessun editore vorrà farsi carico della pubblicazione dell’opera di Quadrelli sulla lettura data da György Lukács dell'”eresia Leniniana”, György Lukács, un’”eresia” ortodossa, questa sarà presentata, nei prossimi mesi, in una serie di circa dodici puntate ancora una volta su Carmillaonline.


  1. Jacques Baynac, Kamo. L’uomo di Lenin. Una biografia, Casa editrice Valentino Bompiani & C., Milano 1974 (edizione originale francese 1972).  

  2. “Cominciamo a dire Lenin”, in Potere operaio, n.3, ottobre 1969.  

  3. E. Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 5.  

  4. Si veda: E. Cinnella, L’altro Marx. Una biografia, Della Porta Editori, Pisa- Cagliari 2014.  

  5. E. Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, pp. 180-181.  

  6. Ibidem, pp. 183-184.  

  7. Ivi, p. 184.  

]]>