di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» Antonio Lucci

Riprendiamo la serie “Nemico (e) immaginario” grazie ad alcuni spunti interessanti offerti dal breve saggio “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” di Antonio Lucci contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016), ove sono presenti anche scritti di Rocco Ronchi, Livio Marchese, Tommaso Ariemma, Tommaso Moscati, Emiliano Cinquerrui e Cateno Tempio.

Lucci ripercorre la trasformazione dell’immaginario degli zombi costruita dagli strumenti narrativo-mediatici contemporanei ripercorrendo al contempo il tipo di frames che tale immaginario veicola e rafforza. Nonostante George Romero trasformi, sin dalla fine degli anni Sessanta, decisamente la figura dello zombi rispetto alle sue origini haitiane, lo studioso individua tre elementi che restano sufficientemente costanti: gli zombi sono morti che tornano in vita,  sono sempre più di uno e sono una massa indifferenziata.

Lo zombi haitiano messo in scena dal film White Zombies (L’isola degli zombie, 1932) di Victor Halperin è esplicitamente vittima del sistema capitalista; è un morto che viene risvegliato da uno stregone che lo priva di volontà per renderlo schiavo impotente mancante di bisogni e desideri ed è impossibile da redimere. L’immaginario dello zombi haitiano è costruito sul terrore per una schiavitù che rischia di essere eterna, tanto che nemmeno con la morte l’individuo riesce ad emanciparsi da essa. Si tratta di un immaginario che prospetta uno stato atemporale in cui esiste soltanto il lavoro ed il comando.

«Questo elemento – lo zombi come paradossale controfigura dell’oppresso – resterà sempre, più o meno dichiaratamente, come elemento caratterizzante il frame-zombi. […] Gli zombi-drogati delle piantagioni della HASCO […] erano lavoratori senza forza-lavoro, in quanto per essere forza-lavoro, in una prospettiva marxiana, bisogna essere innanzitutto forza, ossia qualcosa che vive, e che vivendo eccede il lavoro, si ricarica delle proprie energie, della propria vitalità, dopo, malgrado e al di là del proprio impiego nell’attività produttiva. Lo zombi haitiano, privato anche di questa potenzialità produttiva, non è più né forza-lavoro (ma solo lavoro) né proletariato, in quanto privato persino della potenzialità di creare prole, di essere vita che perpetua sé stessa, ma pura morte, nuda morte che cammina: walking dead. Lo zombi – incarnazione visiva del ritorno del rimosso freudiano – si vendicherà di questa schiavitù preoriginaria nelle sue incarnazioni successive, che da un lato renderanno la figura dello zombi un emblema della critica al capitalismo, mentre dall’altro esso diventerà una macchina da riproduzione, un prole-tario nel senso letterale del termine: un ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione» (pp. 72-73).

Se il film Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero può essere interpretato in chiave antirazzista, con The Dawn of the Dead (Zombi, 1978) di George Romero è esplicatamene l’immaginario capitalista ad essere messo in discussione e, secondo lo studioso, in questo film mutano alcune caratteristiche fondanti del frame-zombi: «se, infatti, l’idea originaria per cui lo zombi porta in sé un potenziale critico nei confronti delle strutture di potere esistenti era già presente in nuce nella figura della mitologia haitiana (lì, come visto, la critica alla schiavitù si esprimeva indirettamente come critica nei confronti del malvagio stregone-schiavista, simbolo del padronato bianco), essa si presenta ora con una forza sempre maggiore nelle trasposizioni cinematografiche romeriane» (p. 74). In realtà già sul finire del primo film di Romero, al di là della critica al razzismo, si trovano alcuni elementi che resteranno costanti nella produzione romeriana, come la critica nei confronti di governanti e militari palesemente incapaci di proteggere la popolazione nelle situazioni di pericolo.

«L’inoperosità dello zombi diventa in questo film paradigmatica (gli zombi sono pura “potenza di non”, una potentia negativa per eccellenza, in quanto il loro agire non crea mai nulla, nessun prodotto, ma solo l’opposto di un prodotto, un non-prodotto, vale a dire la contraddizione in atto che è il morto vivente) assieme al rovesciamento della sua posizione proletaria. Se – come visto – lo zombi haitiano era deprivato sia della sua inoperosità (base di qualsiasi forza, anche di quella produttiva) sia della sua capacità procreativa di generazione e riproduzione, lo zombi romeriano – al contrario – rappresenta l’oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione: gli zombi romeriani sono (non-) morti che creano altri, potenzialmente infiniti, seguaci della loro stessa non-morte, portando così alle sue conseguenze estreme, critiche e massime il proprio potenziale prole-tario. Gli zombi, dunque, mutano con Romero – in maniera importante anche se non direttamente percepibile – le coordinate-base dei loro frames di riferimento: restano massa, ma da asservita diventano soggiogante, non sono più in potere di un padrone, ma fanno parte di un movimento eminentemente acefalo, collettivo e organizzato “dal basso” nella propria assenza di opera» (pp. 75-76).

28-days-laterUna nuova mutazione dell’immaginario zombi, sostiene Lucci, ha a che vedere con «la teoria del complotto e l’ansia sociale nei confronti dei possibili risvolti tanatologici (e tanatopolitici) della medicalizzazione sempre più evidente della cosa pubblica» (p. 76). Secondo lo studioso è a partire da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle che tale filone diviene il nuovo standard per il genere zombi, anche se in realtà nasce insieme alle prime opere di Romero, basti pensare a The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973). «Fin dall’inizio, quindi, potremmo dire che nella testa del creatore dello zombi sul grande schermo, e più in generale nell’immaginario collettivo, lo zombi e l’infetto sono l’uno il Doppelgänger dell’altro, camminano – claudicanti – assieme» (p. 77).

Dunque se da un lato lo zombi è un morto che ritorna, dall’altro è un vivo malato. «Le due figure non possono mai totalmente coincidere: a livello cinematografico, infatti, vi è piuttosto una sovrapposizione iniziale che diviene poi una staffetta tra i due generi, per finire con una sostituzione praticamente totale […] lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte – sia nel dibattito pubblico che nelle angosce che dominano le rappresentazioni collettive – per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» (pp. 77-78).

A partire da 28 Days Later, sostiene Lucci, le narrazioni insistono nell’indicare l’origine degli zombi nella contaminazione da virus, solitamente derivante da un esperimento militare o da un atto terroristico, e ciò determina un allontanamento dell’immaginario zombi dalle sue origini ove veniva data importanza alla tematica della morte ed a quella del lavoro e della sottomissione. La variante contemporanea dello zombi tende piuttosto a concentrarsi sullo zombi infetto che spesso perde la proverbiale goffaggine e lentezza per divenire un corridore affamato, dunque una perfetta incarnazione dei valori della società capitalistica realizzata.

Lo zombi contemporaneo, lo zombi-infetto, non è più un morto che ritorna e se «il potenziale critico dello zombi-morto si esprimeva per contrasto metaforico (gli zombi erano gli schiavi, o le vittime incoscienti – e al fondo innocenti dell’innocenza propria dei morti – delle macchinazioni militari o governative), gli zombi-infetti sono sempre più spesso solo la molla d’innesco di film che hanno al proprio centro un’antropologia pessimistica, e che hanno come fine quello di mostrare come – in una società resettata, in cui le istituzioni collassano e tornano al punto zero, grazie a o per colpa degli zombi – l’essere umano sia il vero mostro» (p. 79).

Lucci sottolinea come nelle recenti produzioni audiovisive, nonostante lo zombi-infetto sia tale a causa di un virus propagato, più o meno volontariamente, da altri, l’accento tende ad essere posto non tanto sui rapporti tra esseri umani e zombi, quanto piuttosto sulle dinamiche intercorrenti tra i gruppi umani dopo l’apocalisse. «In questo modo, mostrando la crudeltà dell’animale umano allo stato di natura, il genere si rovescia da cultural-critico in conservatore: vengono, infatti, sempre più affermati i valori della famiglia, del gruppo, della leadership (un tormentone, nei film del genere, la domanda “Who is in charge?”, “Chi comanda qui?”), della violenza “giustificata”, della sopravvivenza del più “adatto”. In questo punto il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» (pp. 79-80).

Nella serie di fumetti The Walking Dead, da cui è tratta l’omonima serie televisiva, vi è un momento in cui esplicitamente la narrazione dello zombi-morto finisce col coincidere con quella dello zombi-infetto: «nel mondo di TWD un’infezione dall’origine sconosciuta ha colpito tutti in potenza, ma il divenire-zombi si attualizza solo una volta che (non importa come) si muore. Dunque l’infezione (preoriginaria) e la resurrezione (necessaria e inevitabile, come in un’inevitabile realizzazione postmoderna del dogma cristiano) finiscono per coincidere in un’unica narrazione, dove la teoria del complotto fa da sfondo. TWD riesce così, da un lato, a rimanere una serie paradossalmente “mortalista” (dove cioè la morte svolge ancora un ruolo portante nella determinazione dello zombi, in pieno stile romeriano, anche se affiancata dall’idea della zombificazione come risultato di un virus), anche laddove […] la narrazione dello zombi-infetto sposta l’accento più sui rapporti umani e sulle implicazioni delle macchinazioni (complottiste) delle entità statali nell’epoca pre-apocalisse. Questo punto (il “mortalismo”) è di particolare rilevanza in TWD, perché, paradossalmente, fa “rientrare” lo stato d’eccezione che l’outbreak, per definizione, crea: nel mondo di Rick Grimes e della sua compagnia, infatti, gli zombi (ossia la presenza quotidiana della morte) sono la normalità, la morte che essi incarnano e rappresentano è inevitabile… così come necessariamente, anche per noi, la morte è, e non può che essere» (pp. 80-81).

A differenza di ciò che avviene nelle narrazioni romeriane, in The Walking Dead gli zombi sembrano essere divenuti parte della normalità. A tal proposito Lucci si sofferma sull’episodio intitolato “The Grove” (n. 14 – Stagione 4) in cui la piccola Lizzie, aggregatasi a Carol dopo aver perso la madre, si dimostra incapace di considerare gli zombi ontologicamente diversi dagli umani. Tale logica appare inconcepibile ai personaggi adulti e, attraverso essi, tende a risultare assurda anche allo spettatore. «In realtà, dal punto di vista logico, l’atteggiamento di Lizzie è perfettamente coerente con le coordinate ontologico-esistenziali del mondo in cui sta crescendo: gli zombi sono (in un modo del tutto peculiare, per noi inconcepibile) persone, fanno parte della realtà, di quella determinata realtà, è impossibile ignorarli, e – soprattutto per chi conosce solo quel mondo, come i bambini, appunto – ghettizzarli ontologicamente, come un’anomalia che non va accettata in alcuna maniera, appare parimenti assurdo. La paradossale figura di Lizzie rappresenta l’interiorizzazione parossistica delle categorie del mortalismo assoluto che la presenza della morte entificata (ossia dello zombi) porta nel proprio orizzonte logico». (pp. 81-82).

Nelle narrazioni delle serie televisive, che hanno tempi narrativi lunghi, le categorie logiche, ontologiche ed etiche, constata Lucci, mutano facilmente rispetto alla realtà pre-apocalittica ed il genere zombi (sia nella variante dead che in quella dell’infetto) non può che mettere in scena strutture sociali e morali trasformate mentre nei film, che hanno tempi di narrazione meno dilatati, ed il racconto tende a svilupparsi a ridosso dell’apocalisse, si possono più facilmente esporre elementi di critica culturale, mostrando gli esseri umani in balia di situazioni estreme. «Laddove l’apocalisse diventa uno stato acquisito, essa viene normalizzata, e la funzione della narrazione-horror quale esperimento mentale viene meno» (p. 82).

the-walking-deadFacendo riferimento alla puntata intitolata “Them” (n. 10 – Stagione 5) lo studioso si sofferma su una frase pronunciata da Rick Grimes: “We are the walking dead!”. Con tale affermazione si ha il superamento del dualismo tra zombi-morto e zombi-infetto; l’uomo e lo zombi finiscono col coincidere. E non è casuale, continua Lucci, che tale frase venga pronunciata dopo lo scontro tra il gruppo di Grimes e gli abitanti di Terminus, che intendevano sperimentare un’utopia post-apocalittica accogliente ed avendo dovuto far ricorso alla violenza per difendere la propria libertà, si sono poi trasformati in un gruppo militarizzato incline al cannibalismo.

Dunque, conclude Lucci, l’affermazione “We are the walking dead!” «è vera non solo perché ogni vivente, nel mondo di TWD, è già sempre infetto (senza contare che – anche prima dell’infezione – ogni vivente porta in sé la propria morte), ma anche e soprattutto perché in un mondo dove la resurrezione è avvenuta senza giudizio, tutti – vivi e morti – sono zombi, e tutto è permesso. I cannibali di Terminus, al fondo, così come Lizzie, sono abitanti perfetti di un mondo in cui le coordinate storiche ed etiche di riferimento non possono che essere mutate, e dove gli ancoraggi della morale pre-apocalisse (ad esempio concetti come “persona”, “comunità”, “fratellanza”, “onore”, ecc.) perdono tutto il loro valore. Anche qui, nella variante post-apocalittica e post-moderna dello stato di natura hobbesiano, il genere zombi perde il suo valore cultural-critico, normalizzandosi, e diventando anzi conservatore: vengono rimpiante quelle istituzioni che invece l’esperimento mentale dell’apocalisse metteva radicalmente in questione. Infatti, in un mondo dove tutto è permesso, dove non c’è Dio, e la prova di questa assenza è (al contrario di quello che sosteneva San Paolo) proprio l’avvenuta resurrezione dei morti, rimane solo la speranza che arrivi un qualche Leviatano (nella forma militarizzata dell’esercito o in quella tecnocratica di una cura), in quanto Deus ex machina, a salvarci» (p. 82).


Qua l’intera serie “Nemico (e) immaginario