di Valerio Evangelisti

[Nel corso del 2017, il quotidiano “il manifesto” ha pubblicato le corrispondenze dalla Russia di un secolo prima (poi raccolte nel fascicolo Rivoluzione) di un suo redattore ovviamente immaginario, tale Leone Levy. Dietro “Levy” si nascondevano vari autori, tra cui chi scrive, rivelati solo alla fine. I miei pezzi, che ora ripropongo, sono stati due, riferiti al febbraio e al luglio 1917. Il secondo, in Rivoluzione, non reca la mia firma, dato che fu mischiato con quello di un altro scrittore per un pasticcio redazionale. Qui lo pubblico nella forma integra.]

FEBBRAIO

Ho avuto la sorte di assistere a un episodio sanguinoso e premonitore. Era sabato 25 febbraio. Presso piazza Znamenskaja, davanti alla scalinata del tribunale,  un ufficiale della polizia a cavallo ha alzato la sciabola per colpire un manifestante. Un soldato cosacco ha reagito con la propria lama, quasi troncandogli il polso. Si è udito un urlo disumano del poliziotto, seguito dalle grida furiose dei suoi uomini e dagli applausi e urrà della folla. Il cosacco è stato sollevato di peso e portato in trionfo.

I cosacchi sono ritenuti feroci repressori, esperti nel disperdere manifestazioni a colpi di nagajka, il corto staffile di cui sono dotati. Era la prima volta da giovedì 23, giorno d’inizio dello sciopero, che li si vedeva in piazza. Segno che lo zar Nicola e il generale Chabalov, responsabile dell’ordine pubblico a Pietrogrado e autore di proclami minacciosi, erano decisi a fare sul serio.

Il fatto è che il moto che scuoteva la città, e che vedeva per le strade del centro centinaia di migliaia di dimostranti, stava sfuggendo a ogni controllo. All’originario grido di “Pane! Pane!” lanciato dai primi scioperanti, in prevalenza donne, si erano sostituite parole d’ordine più temibili: “Abbasso l’autocrazia!”, “Abbasso la guerra!”. I partiti sovversivi, che di fronte all’esplosione spontanea di popolo erano rimasti attoniti almeno quanto la Duma di Stato e la monarchia, ora erano riapparsi. Tenevano comizi volanti sotto il monumento ad Alessandro III, distribuivano bandiere e cartelli, cercavano di indicare obiettivi spesso confusi e contraddittori. La massa operaia li ascoltava, ma tendeva a fare da sé.

Era inevitabile un crescendo di repressione. I cosacchi ne erano stati il primo strumento, cui seguirono i soldati della guarnigione, forte di 150 mila uomini. Armi spuntate. E’ vero che la sera del 25 un reparto di dragoni aveva fatto fuoco sulla calca che, quasi festante, continuava a cercare di raggiungere la Prospettiva Nevskij (mentre scrivo, a distanza di tre giorni, non si sa ancora l’esatto numero di morti e feriti). Nondimeno qualcosa, nella macchina del terrore ordita da Chabalov, si stava incrinando, e l’episodio del cosacco ne era stato un segnale.

Domenica 26, a poche ore dalla strage, mi sono recato alla Monetnaja, alla redazione del Letopis’, la rivista di Gorkij. Vi ho trovato un solo redattore importante, il mio amico Nicolaj Suchanov. Un brillante pubblicista espulso dalla città per “disfattismo”, ma che vi vive in clandestinità facendo uso di documenti falsi.

Suchanov aveva appartenuto ai menscevichi (l’ala gradualista del Partito operaio socialdemocratico russo, ormai separata da quella estrema, la bolscevica), ma, a differenza di tanti suoi compagni, si era schierato con l’Internazionale di Zimmerwald e col rifiuto della guerra. Era a lui che mi ero presentato all’arrivo nella capitale. Sapevo che i socialisti italiani godevano di ampie simpatie, per essersi schierati a Zimmerwald accanto ai russi nell’ostilità al conflitto. Serrati era popolare a Pietrogrado o a Mosca quanto in Italia. Io, poi, ero di sangue russo, e l’affinità nasceva spontanea.

Suchanov stava imprecando al telefono contro una centralinista. Cercava non so quale deputato, e non si convinceva che molte linee fossero bloccate. Coprì la cornetta e mi guardò.

«Hai novità, compagno?»

«Venivo a chiederne. Il massacro di ieri mi ha impressionato.»

«Perché sei straniero e non hai visto il 1905. Siamo in presenza di un fenomeno inedito. A sparare è stato un drappello di allievi ufficiali. Il grosso dei soldati non mostra avversione nei confronti di chi protesta. Al contrario, spesso scioglie i ranghi, avvicina la popolazione, fraternizza con i civili. Gli ufficiali si sgolano, ma non c’è verso. Il meccanismo della disciplina cieca non funziona più.»

«E questo cosa vuol dire? Che siamo alle soglie di una rivoluzione?»

«Chi può dirlo? Vieni stasera verso le otto a casa di Gorkij, nel Kronverskij. C’è una riunione di compagni, per fare il punto. Anche perché i quartieri operai fin da ieri stanno eleggendo i delegati al Soviet.»

Il Soviet dei deputati operai era un frutto della fallita insurrezione del 1905. Inizialmente incoraggiato dalle autorità, per convogliare in un organo controllabile le rivendicazioni proletarie, era stato sciolto e ricostituito più volte. Le sue finalità erano state a lungo piuttosto oscure, ma i lavoratori, appoggiati dai bolscevichi, parevano scorgere in esso grandi potenzialità future. Quasi fosse uno strumento di autogoverno, piuttosto che di mediazione. Fino a una settimana prima, non era né una cosa né l’altra.

Mi avviai, per scrivere il pezzo che state leggendo, verso la pensioncina che proprio Suchanov mi aveva consigliato, camminando con difficoltà sui ghiacci della Neva congelata. Rinunciai subito al mio proposito. Si udivano lontane sparatorie, echi di esplosioni, frastuoni. Solo più tardi ho saputo che, quello stesso giorno, a Vyborg e in altri sobborghi i lavoratori avevano messo di traverso i tram, eretto barricate e fatto fuoco con rivoltelle contro i faraoni (così erano detti gli odiati agenti di polizia) che provavano a rimuoverle.

Risalgo la Neva e mi imbatto in nugoli di dimostranti, che l’attraversano e salgono verso i parapetti della Prospettiva Nevskij, aggirando il ponte della Trinità. Li imito, per quanto un’arrampicata sul ghiaccio scivoloso non sia nelle mie corde. Mi dà una mano Ludovic Naudeau, celebre corrispondente di guerra del quotidiano parigino Le Temps.

«Vedrai, è uno spettacolo. La calca sul ponte è grandiosa, complice la giornata festiva. L’esercito non riesce a tenerla a freno, o forse non vuole nemmeno. Gli ordini di sparare restano inascoltati. I soldati dialogano con la massa e vi si mescolano.»

«Eppure ho udito fragore di scontri armati.»

«Ci sono un po’ ovunque confronti tra operai e polizia, oppure allievi ufficiali. I faraoni hanno la peggio, nei quartieri della periferia. Sono fatti bersaglio di pietre e di blocchi di ghiaccio. Hanno subito perdite e si stanno ritirando.»

«Quanti morti?»

«Non lo sa nessuno.»

Sulla Prospettiva mi congedo dal collega. Un fiume di gente, non più trattenuta dai militari, marcia in direzione del Palazzo di Tauride, sede della Duma. Canta inni rivoluzionari, inalbera bandiere rosse. Seguo per un po’, e noto movimenti di artiglieria sugli spalti della fortezza di Pietro e Paolo. All’imbrunire raggiungo l’abitazione di Maksim Gorkij, centrale ma appartata. Vi trovo Suchanov e una decina di altri socialisti a me ignoti. Discutono con passione, fumano con accanimento. Mi offrono patate lesse e un bicchiere di Tokaij Aszù, vino prezioso caro ai Romanov. Gorkij ha relazioni anche con membri delle classi elevate.

Mentre si parla dei possibili esiti dell’insurrezione, il padrone di casa è costantemente al telefono. Ho conosciuto Gorkij alla scuola per bolscevichi di Bologna, continuazione di quella da lui fondata a Capri. Ha lineamenti grossolani da contadino, che nascondono un cervello raffinato. La sua salute è malferma, e tossisce in continuazione. E’ stato per molto tempo uno stretto collaboratore di Alexandr Bogdanov, il filosofo e scrittore che ha impersonato per anni il bolscevismo più radicale (il suo romanzo avveniristico La stella rossa ha spiegato in dettaglio, a decine di migliaia di proletari, i vantaggi di un sistema collettivista). Soppiantato Bogdanov dal più duttile Lenin, è rimasto fedele al partito.

Mentre cala la sera, Gorkij posa finalmente la cornetta e si rivolge a noi, emozionato. «Ho appena saputo che è accaduto qualcosa di sorprendente. Il reggimento Pavlovskij si è ammutinato. Non accettava che la polizia sparasse sul popolo inerme, sul canale Ekaterininskij. Una squadra è uscita e, dall’altra sponda, ha aperto il fuoco sui faraoni. Li ha messi in fuga. Tornata alla caserma, ha ingaggiato un duello di fucileria con i commilitoni rimasti obbedienti.»

«Saranno stati sterminati» mormorai.

«No. In questo momento girano tra le altre caserme, invitando i compagni a imitarli.»

La serata prosegue tra chiacchiere, speculazioni sull’accaduto, progetti più o meno sensati. Vincono per concretezza i pochi bolscevichi presenti, che hanno idee semplici ma realistiche. Le ripetono di continuo. E’ scoppiata la rivoluzione. Si tratta di armarsi, e di armare il popolo. Non c’è da avere fiducia nei socialisti presenti nella Duma, e nella Duma stessa. Il Soviet può diventare l’istituzione del futuro. Simili uscite, maturate in anni di lavoro clandestino in fabbrica, sono accolte con scetticismo.

Torno al mio alloggio che è notte tarda. La Neva è deserta. Si vedono bagliori di incendi e colonne di fumo. Prevale il silenzio. Che sia tutto finito?

Lunedì 27 mi sveglio tardi, alle dieci passate. Il figlio della portinaia, che simpatizza per il partito fuorilegge dei socialisti-rivoluzionari, mi mette al corrente delle novità. Dopo il reggimento Pavlovski se ne sono ammutinati altri due: quelli di Volynia e Lituania. Abbandonate le caserme, disarmati gli ufficiali reazionari, si sono uniti al popolo. Distribuiscono fucili, animano i comizi, si scontrano con la polizia. Almeno 25 mila soldati sono passati nei ranghi degli insorti.

Chiedo notizie sulla situazione politica. Il giovane mi dice che lo zar ha ordinato lo scioglimento della Duma, che ha rifiutato di dissolversi. Esiste ora una Duma provvisoria, presieduta dal liberale Miljukov e comprendente tre deputati socialisti: Kerenskij, leader molto popolare di un partitino laburista (ma segretamente affiliato agli S-R), Čcheidze e Skobelev. Hanno accolto nel Palazzo di Tauride, con discorsi di elogio, i reggimenti ribelli.

Mi precipito in strada. Il ponte della Trinità non è più presidiato. Il tribunale distrettuale sta bruciando, le carceri sono state assalite, i detenuti politici messi in libertà. Passano camion carichi di lavoratori e soldati, acclamati dai cittadini. Molte le donne, alcune col bracciale della Croce Rossa. Manifesti affissi ovunque annunciano che alle 19 si riunirà nel Palazzo di Tauride il Soviet dei deputati operai.

Il palazzo è circondato da una calca eccitata. Gli insorti si passano fucili e distribuiscono alimenti. Artiglieri installano cannoni, puntati un po’ a casaccio. All’interno del labirintico edificio la confusione è totale. Sbaglio direzione e finisco nell’ala occupata dalla Duma. E’ deserta. Vedo Miljukov che passeggia in solitudine, alcuni deputati che conversano su un divano.

Torno sui miei passi, e mi viene indicata la sala 12. Vi si accede dalla 11, in cui si verificano le credenziali. Tutti vorrebbero essere ammessi alla riunione, con i pretesti più vari. Come giornalista straniero subisco un esame solo formale, e mi guadagno un sorriso.

Nella sala, molto grande, si accalcano 250 persone, ma altre affluiscono di continuo. Sono state sistemate al centro file di panche, di cui alcune strappate ai giardini. Dietro una fila di tavoli siedono i socialisti e i democratici più noti, incluso Kerenskij. Šljapnikov rappresenta i bolscevichi, Aleksandrovič i socialisti-rivoluzionari.

La riunione è già cominciata. Salgono alla tribuna i soldati dei reparti insorti. Reggimento Kelksgolmskij, di Lituania, di Finlandia… Ogni delegato proclama i suoi compagni fedeli al popolo e alla rivoluzione. Un boato accompagna l’adesione della Guardia imperiale, la più sottomessa allo zar. Volano i cappelli, echeggiano gli urrà.

Dal palco centrale è dichiarato costituito il Soviet degli operai e dei soldati. Gli applausi sommergono la voce dell’oratore.

LUGLIO

Nel pomeriggio del 3 luglio, mentre imbocco la Prospettiva Nevski, tra la Sadovaja e il corso Litejnvj, odo grida provenienti da mille voci, rullare di tamburi, squillare di ottoni. La giornata, fino  quel momento, era parsa tranquilla. Dato che il lunedì a Pietrogrado i giornali non escono, la cittadinanza non sapeva ancora della crisi del governo Lvov e delle dimissioni dei deputati cadetti. Ero andato a pranzo in uno dei pochi ristoranti della capitale che ancora servono pane bianco. A prezzi oltraggiosi si possono avere aringhe fresche, acqua e una tazza di tè.

Ed ecco quelle grida, sempre più chiare: “Via i ministri della borghesia!” “Tutto il potere ai Soviet!” Vedo apparire un intero reggimento dai ranghi male allineati, irto di striscioni rossi. E’ preceduto dalla banda del corpo (saprò poi trattarsi del 1° mitraglieri), che esegue la Marsigliese in versione russa: lenta, un po’ triste, con l’ultimo verso, abreuve nos sillons, ripetuto due volte.

I soldati sono armati di fucile, come se andassero in battaglia, con una cordicella al posto della correggia (spesso venduta dai militari affamati per farne una cintura). In testa romba un’automobile su cui è stata montata una mitragliatrice Maxim. Segue una gran folla disordinata e, in parte, armata anch’essa. Sono operai che reggono cartelli e bandiere rosse. Non mancano alcune delle peggiori canaglie della teppa pietrogradese, ma anch’esse si sgolano a urlare: “Tutto il potere ai Soviet! Via il governo dei capitalisti!”

Resto sbalordito. Da buon cronista avevo seguito le vicende successive alla malferma offensiva voluta da Kerenskij in giugno e ai primi segni di cedimento del fronte galiziano. Avevo appuntato con diligenza le sedute del governo del principe Lvov, che ormai non contava più niente, e quelle del Comitato esecutivo del Soviet degli operai e dei soldati, nonché di quello dei contadini, gli unici poteri effettivi. Mi ero recato presso le sedi dei vari partiti rivoluzionari. Nulla mi aveva fatto presagire l’imminenza di un’insurrezione armata contro Lvov, o contro Kerenskij, elemento di traballante congiunzione tra un ordinamento al tramonto e un altro che si stava affermando.

Fermo Alexander Gay, un giovane anarco-comunista conosciuto a casa di Suchanov. Parla un ottimo francese. «Chi sono costoro? Bolscevichi?»

«Molti sì, però il partito di Lenin non c’entra con la manifestazione. I soldati hanno deciso di muoversi da soli. Sono riusciti a coinvolgere gli operai di Vyborg, che li hanno seguiti in massa. Aspettano l’arrivo dei marinai di Kronstadt.»

«Dove stanno andando?»

«Credo al palazzo di Tauride. Vogliono arrestare i ministri, inclusi quelli socialisti. Hanno anche cercato di acciuffare Kerenskij, ma sono arrivati tardi in stazione. Era appena partito per ispezionare il fronte.»

Non occorreva chiedere di più. Il malumore grondava da tempo nella truppa e tra i lavoratori. Dalla rivoluzione di febbraio, nessun provvedimento era stato adottato a livello governativo per migliorare la condizione della classe operaia, a parte l’introduzione della giornata di otto ore. Kerenskij, Čcheidze, Tsereteli non facevano che parlare di democrazia e di uguaglianza, senza che a ciò seguissero atti concreti. La riforma agraria restava un miraggio, sebbene in tutta la Russia i contadini avessero occupato le grandi proprietà e se le fossero spartite, nella maggior confusione possibile. I rifornimenti alimentari tardavano, o non giungevano affatto. In sottofondo, rumoreggiava una guerra sanguinosa di cui nessuno afferrava più il senso.

La situazione più drammatica era quella dei soldati, contadini analfabeti provenienti dagli angoli più remoti dell’impero e spinti in trincea a staffilate. Il Prikaz n. 1, del 2 marzo 1917, li aveva sottratti alla tirannia di tipo feudale esercitata dagli ufficiali, li aveva lasciati liberi di organizzarsi in comitati e fare politica, aveva abolito la pena di morte nell’esercito. Malgrado ciò la costrizione maggiore, continuare a combattere un nemico quasi sconosciuto e lanciarsi ogni tanto in mortiferi assalti contro i reticolati austro-tedeschi, seguitava a dominare le loro vite. Proprio adesso, che a casa servivano braccia per il lavoro dei campi. Oltre a soffrire personalmente la fame, temevano quella che stava per abbattersi sulle loro famiglie.

Numerosi reparti avevano interpretato a modo loro le concessioni del Prikaz. Molti comitati avevano cacciato gli ufficiali, che ora vagavano a migliaia per la Russia, e arrestato o linciato i più prepotenti. Quando in giugno era cominciata l’offensiva voluta da Kerenskij, progettata dal generale Kornilov, si era avuto un successo iniziale dovuto all’artiglieria e ai reparti in prima linea. Al momento, però, di sostituire questi ultimi con truppe fresche, i comitati delle retrovie avevano chiamato al voto. Risultato quasi unanime: i reggimenti arretrati non ne volevano sapere. Era tempo di tornare a coltivare il podere, a volte ricavato dall’espropriazione del latifondo, e di assicurare il raccolto. Così Kerenskij e Kornilov erano rimasti con un pugno di cannoni, e un flusso di diserzioni ormai inarrestabile.

Mentre osservo la sfilata tenendomi a distanza, si odono numerose fucilate. Si direbbe che provengano dall’alto. Operai e soldati si danno alla fuga, abbandonando l’automobile con la mitragliatrice. Una parte dei militari si getta a terra e, non sapendo dove sia il nemico, apre il fuoco contro le facciate dei palazzi. Ne nasce una sparatoria a casaccio, con un certo numero di morti e feriti. Attraverso il fumo se ne odono i lamenti.

Decido di darmela a gambe, corro più in fretta che posso. Sì, ma dove andare? La logica direbbe: nel mio alloggio. Prevale invece l’istinto del cronista. Mi dirigo al palazzo della Krzesinska, sede dei bolscevichi e dimora di Lenin. L’edificio, sfarzoso, è appartenuto a una famosa ballerina. Solo lo stretto canale di Kronwerk lo divide dalla fortezza di Pietro e Paolo. I giornalisti stranieri, soprattutto francesi, hanno ironizzato sul fatto che Lenin si sia scelto un’abitazione così lussuosa. I più informati sanno che abita una cameretta per bambini, e che le altre stanze ospitano un animatissimo quartier generale. Dalla terrazza i leader del partito tengono comizi quasi quotidiani.

Trovo guardie armate dall’atteggiamento vigile e teso. Mostro un lasciapassare firmato da Trockij. Non c’è verso di entrare. Tutte le finestre sono illuminate, devono svolgersi riunioni concitate. Mentre scende la sera decido di sedermi in un angolo, in attesa che esca qualcuno che conosco. Da lontano giunge l’eco di sparatorie, in una notte tiepida e serena.

Devo aspettare un paio d’ore, poi ecco apparire Anatolij Lunačarskij, uomo coltissimo, esponente dei comitati inter-rionali. Sta andando al palazzo di Tauride, dove i soldati in rivolta assediano il Soviet, perso in discussioni senza fine.

«Cos’avete deciso, voi bolscevichi? Appoggiate o no l’insurrezione?»

«Leggete domattina la Pravda e lo saprete» mi risponde infastidito.

Risolvo di andare a dormire. La mattina successiva, martedì 4 luglio, compro l’organo bolscevico da uno strillone. In prima pagina una colonna bianca. Probabilmente ospitava un comunicato del partito, che all’ultimo momento era tornato sui suoi passi. Era palese che non aveva voluto quella rivolta, e forse ne temeva le conseguenze.

Verso mezzogiorno la Neva si copre di imbarcazioni: rimorchiatori, traghetti. Sono i marinai di Kronstadt, la potente isola-fortezza che ospita la base navale posta a difesa di Pietrogrado. Scendono in migliaia con perfetto ordine, armati fino ai denti, e ogni contingente ha la propria banda. Si mettono in marcia, guidati dal guardiamarina bolscevico Raskolnikov e da Rošal, uno studente divenuto l’idolo della flotta malgrado l’eloquio incerto, dalle cadenze infantili.

Mi aggrego a quella massa. Si aggiungono colonne di operai. Fin dal mattino si sono udite le sirene delle fabbriche chiamare allo sciopero. E’ una turba innumerevole quella che batte il passo sulla prospettiva Nevskij, con striscioni rossi che reclamano la fine del governo borghese e la cessione del potere ai Soviet del proletariato.

Ma dove si va? Anche Raskolnikov e Rošal sembrano incerti, poi piegano decisamente verso il palazzo della Krzesinska. I marinai lo attorniano, reclamano Lenin. Il leader bolscevico si affaccia, pallido per le malferme condizioni di salute. Il suo discorso non è tagliente come al solito. Loda operai e soldati, inneggia alla gloriosa Kronstadt, ma si limita a invitare a protestare sotto Tauride. Cede la parola a Lunačarskij, che reitera l’esortazione con parole forbite.

Ed eccoci in cammino verso la sede del Comitato esecutivo. Percorso tormentato. Cecchini sparano dalle finestre, un distaccamento di cosacchi tenta fulminei assalti. I marinai perquisiscono le case in cui si acquattano i tiratori e, già che ci sono, svuotano cantine, bottiglierie e negozi di alimentari. La tensione si somma a una certa, selvaggia allegria, a notevole tenore alcolico.

Ora gli operai sovrastano largamente di numero i militari. Giunti al palazzo di Tauride, pretendono un colloquio con i dirigenti del Soviet, mentre spari e raffiche di mitragliatrice echeggiano ovunque.

Esce il moderato Černov, sospinto da alcuni energumeni, e mal gliene incoglie. Lo fanno salire su un’automobile, pare certo il linciaggio. Per fortuna interviene Trockij, che con qualche capriola dialettica delle sue lo fa mettere in libertà.

E ora che fare? Nessuno ne ha idea, circolano proclami insensati. Si combatte in vari quartieri della capitale, a volte tra compagni che equivocano sul nemico che hanno di fronte. Le vittime sono soprattutto innocui passanti. Le colonne operaie seguitano ad affluire.  Gridano slogan bolscevichi e inalberano le insegne del partito, che non ne è affatto contento. Incrocio di nuovo Lunačarskij, adesso meno ostile.

«E’ una follia» mi dice. «Insorgere senza sapere se il resto della Russia sia d’accordo con Pietrogrado. E che si sa del fronte? E’ come porgere il collo al cappio.»

«Questa gente segue le vostre parole d’ordine.»

«E’ vero, ma, come ripete sempre Lenin, l’insurrezione è un’arte, non uno sfogo.»

Verso le diciassette, dopo giorni di sereno, scoppia un fortunale di incredibile violenza. Si smette di sparare, la folla si disperde sotto la grandine e torna come può verso le proprie case. I marinai di Kronstadt, persuasi dai loro leader, raggiungono fradici le imbarcazioni su cui sono arrivati e ripartono. Solo una minoranza si insedia nella fortezza di Pietro e Paolo.

Mi riparo sotto un porticato e, appena la tempesta si calma, riesco ad arrivare al mio alloggio. Sono digiuno ed esausto. Il tempo di spogliarmi e cado addormentato.

Mi sveglio che il sole, di nuovo splendente, è già alto nel cielo azzurro. Quando esco, mi accorgo che non solo il clima è mutato. Gli strilloni stanno vendendo un solo giornale, l’insignificante Birźevye Vedomosti. Gridano:

«Trovate le prove! Lenin è un agente tedesco!»

«Le truppe venute dal fronte riportano la calma in città! L’insurrezione bolscevica era istigata dalla Germania!»

«Kerenskij sta tornando per riprendere la guida del governo e del Soviet! Con lui il generale Kornilov!»

In strada, una decina di facoltosi commercianti sta picchiando ferocemente, con bastoni e canne da passeggio, quattro operai con la fascia rossa sul braccio. «Dagli al bolscevico! Dagli all’ebreo! Traditori! Canaglie! Sporchi giudei!»

Spaventato corro via, vigliaccamente. Mi chiedo se la rivoluzione non sia ormai finita.