di Mauro Baldrati

Max Martirio si è costituito

cannabis.jpgMax Martirio stava ultimando il lavoro di interramento delle piantine. Avevano raggiunto le dimensioni giuste nei piccoli vasi di soya, ora andavano trasferite nei solchi arati dell’orto. Precedentemente il terreno era stato concimato con torba, una sostanza particolarmente amata dalla cannabis, e stallatico di cavallo. Due cisterne sigillate erano piene di acqua di cottura dei fagiolini, che costituiva un mangime ideale, per i sali minerali che conteneva. L’acqua proveniva dal campo sud-ovest, dove si occupavano soprattutto di cottura e di confezionamento dei cibi.

L’orto, di mezzo ettaro, avrebbe fornito circa 10.000 piante, per un raccolto di 80 quintali di materia grezza, da trasformare in pillole e tisane da vendere nelle farmacie. Era la seconda piantumazione da quando il governo neocomunista rivoluzionario aveva legalizzato le cosiddette “droghe leggere”, inserendo i derivati dalla cannabis tra i farmaci naturali antidolorifici, antiossidanti, antiansia e antitumorali, previsti dal servizio sanitario.


Max Martirio affondò il vanghetto nella terra umida. Creò un buco e vi inserì il vaso, che rincalzò ai lati. La soya si sarebbe sciolta nel terreno e la pianta sarebbe stata libera di espandere le radici. Erano semi nepalesi, particolarmente adatti all’uso terapeutico. Anche da fumare peraltro, come aveva verificato di persona alla fine del lavoro, quando i detenuti nel campo di rieducazione si concedevano qualche pipetta, tollerati dai sorveglianti, benché in teoria la norma lo vietasse.

Certo i semi nepalesi non potevano competere con quelli tailandesi, giamaicani, indiani e messicani che venivano coltivati nei campi sugli Appennini tosco emiliani. Là i terreni erano in grado di produrre fino a 500 tonnellate di materia grezza, che venivano vendute a governi stranieri, quelli che avevano legalizzato le droghe leggere per uso personale, come l’Olanda, il Canada, la Spagna, il Portogallo, la Grecia, alcuni stati americani. I ricavati venivano immediatamente reinvestiti nei servizi pubblici.

Max Martirio ripose gli attrezzi, e infilò nella sacca due piantine, che col permesso dei sorveglianti avrebbe trapiantato nel suo orticello privato, che gli era stato assegnato per buona condotta. Avrebbe ricavato un po’ di erbetta per uso personale. Era ammesso il consumo solo dopo le ore 22, quando tutti gli impegni erano stati esauriti: letture, lezioni di teoria o di dialettica, attività fisica.

Si stirò, bevve un sorso d’acqua.
Il servizio pubblico. Una pietra miliare, quasi un’ossessione. Ormai era diventata una sorta di deformazione professionale: ripassava mentalmente le lezioni che gli venivano impartite sulle normative, le leggi e gli obiettivi della Nuova Repubblica Popolare Italiana. In quel periodo, per l’appunto, stavano studiano il funzionamento del servizio pubblico. Poiché l’intero patrimonio immobiliare, le industrie, l’erogazione dell’acqua, dell’energia elettrica, tutto era stato nazionalizzato, le spese di un cittadino si limitavano alle bollette, al cibo, ai ristoranti, agli spettacoli, ai vestiti. Il funzionamento dei servizi era integrato, oltre che dai proventi dell’industria e del commercio, dal turismo, molto fiorente dopo l’opera di restauro dei monumenti, l’apertura dei musei, la cura delle coste. Per esempio: una stanza d’albergo a Venezia, per due persone con colazione, veniva pagata da un turista americano 250 euro, mentre ne costava alla Repubblica Popolare 50. Quindi 200 euro venivano reinvestiti nella sanità, nelle scuole o nelle pensioni. In questo modo, spiegavano con puntiglio i docenti, le modeste trattenute sugli stipendi, unite a questi considerevoli guadagni, generavano il servizio pubblico più efficiente del mondo: la sanità era totalmente gratuita, così i trasporti, le scuole, gli affitti, la manutenzione delle strade, degli edifici ecc.
Max Martirio entrò negli spogliatoi e si ficcò sotto la doccia. Indugiò a lungo con l’acqua fresca, mentre pensava che era venerdì — era venerdì! — e mancavano ormai poche ore al fine settimana. Il sabato sera c’era l’incontro dei detenuti con le detenute, non vedeva l’ora di appartarsi con la bella Rosy. Un sorriso neanche troppo dissimulato gli illuminò la faccia, mentre il pensiero che forse non aveva del tutto perso il suo vecchio fascino gli illuminava anche il cuore.

Ma si riprese subito.
Niente nostalgia della vecchia vita.
Il vecchio mondo era morto e sepolto.
Doveva affrettarsi.

Prima di cena c’era lezione di kung-fu.

shaolin.jpgIl maestro shaolin Rohininandana fece il saluto a mani giunte. Gli allievi erano seduti in cerchio, chi nella posizione del semiloto, chi del loto (i più magri e snodati).
“Oggi parleremo della quiete” disse, con la sua voce piena, regolare, vagamente non-umana. “Alcuni di voi” soggiunse, e Max Martirio fu sicuro di intercettare un’occhiata, “hanno vissuto gran parte della loro vita nella frenesia, nella fretta, nell’urgenza, scambiando tutto questo per velocità. Questo tipo di vita rovina il Qi, l’energia vitale, perché genera la paura di non tenere il passo. La frenesia ansiosa non è velocità. Il kung-fu è velocità. Il kung-fu è forza. Ma questo si ottiene dalla quiete. E’ la quiete che genera la velocità. E’ dall’incontro dell’Yin con lo Yang che si raggiunge l’equilibrio della forza. E’ dalla consapevolezza della quiete che si combatte la paura, e si raggiunge la velocità perfetta.”
Rohininandana fece una pausa, poi impostò alcune posizioni di kung-fu zoomorfico, che era alla base della disciplina shaolin: la tigre, il serpente, la gru, il leopardo. Poi le fece ripetere agli allievi, per un’ora e mezza. Posizioni tese, che richiedevano l’uso di tutti i muscoli e una sintonia perfetta col respiro. Non facevano altro da mesi.
Alla fine della lezione un allievo pose la domanda, che serpeggiava da tempo: “Maestro, quando cominciamo a combattere?”
Rohininandana lo guardò serio.
“Quando sarete pronti” rispose. “Combattere non serve per sfogarsi, o per aggredire un avversario. Combattere nel kung-fu è disciplina. E’ stile. Il fatto che tu me lo chieda significa che non lo sei.”

Senza più parole, andarono a cena.

Il menu serale era composto da pasta o riso conditi coi prodotti coltivati nel campo, ortaggi con sugo di pomodoro, pesto alla genovese, minestre in brodo. Seguivano stufati o sformati di verdura, uova, formaggi, raramente carne. Gli allevamenti intensivi erano stati eliminati, sia per le condizioni di sofferenza degli animali sia per la sottrazione di enormi quantità di terreno agricolo.

Dopo cena si stava un’ora nella sala comune, a parlare, giocare a carte, o a scacchi.
Ma la giornata non era ancora finita.
Forse alcuni sospiravano, pensando alle ultime ore di lavoro.

Perché era lavoro la lezione di teoria.

Il docente era una donna. Visti gli argomenti alquanto impegnativi stupiva la sua giovane età. Era una ragazza coi capelli neri tagliati a caschetto, dal fisico slanciato, gli occhi penetranti. Indossava la giacca maoista, un vezzo comune a molti funzionari pubblici. Max Martirio sentiva in lei una tensione e una serietà che lo eccitavano. Nei fumi dei ricordi salivano immagini di ragazze simili che venivano a chiedergli un lavoro, nella sua vecchia vita. Lui tergiversava, diventava sfuggente, le teneva in uno stato di nervosismo, perché voleva abbattere quella serietà. Voleva violare quella tensione. Voleva divorare quella dignità. Voleva possedere i loro corpi, per possedere anche la loro forza interiore.

“Martirio” disse la ragazza, fissandolo.
Questo soprannome, ormai, era il suo nuovo nome.
“Mi riassuma le tre leggi fondamentali della nostra Costituzione.”
Max Martirio si alzò in piedi.
Una domanda facile.
Le avevano studiate e analizzate fino allo sfinimento.

Prima legge: un cittadino della Nuova Repubblica Popolare Italiana non può diventare ricco, intendendo come ricchezza un guadagno superiore al doppio dello stipendio di un operaio-impiegato, o il possesso di una casa o altro edificio oltre a quella in comodato gratuito dove risiede la propria abitazione, o di un terreno agricolo di superficie superiore a 5.000 metri quadrati, o di beni finanziari per un valore superiore a dieci mensilità. Seconda Legge: un cittadino della Nuova Repubblica Popolare Italiana ha totale libertà di fondare aziende, laboratori, associazioni, uffici, agenzie, coordinando e producendo il lavoro di altri, purché tali attività non contravvengano alla Prima Legge. Terza Legge: un cittadino della Nuova Repubblica Popolare Italiana ha totale libertà di espressione, di credo politico, religioso, sessuale, e può tutelare e difendere la propria libertà anche di fronte a leggi o normative che ritenga ingiuste, con ogni mezzo a sua disposizione, legale e non violento, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e con la Seconda Legge.”

Restò in piedi finché la docente annuì, facendogli segno di accomodarsi.
Gli occhi della ragazza mandavano bagliori, come lampi di luce mentre parlava, con un tono di voce che a Max Martirio non sembrava esente da una certa drammaticità.
“Molto bene. Dovete ricordare sempre le Tre Leggi Fondamentali, perché sono la base creativa del nostro ordinamento. La società fondata sul parassitismo di una casta dominante non potrà mai più riprodursi, perché la Prima Legge non lo permette in nessun caso. Noi non temiamo gli oppositori, i contestatori, anzi, sono preziosi, perché ci aiutano a migliorare. Ma nessuno può usare la contestazione o la libertà in maniera strumentale, perché non può infrangere la Prima Legge. Lo capite questo?”
Tutti annuirono. Max Martirio non riusciva mai a stabilire con certezza se il consenso che esprimeva era sincero o derivava dalla necessità di non aggravare la sua posizione. Voci di corridoio dicevano che gli restavano ancora due anni di rieducativo, poi sarebbe tornato libero, con una casa e un lavoro. Un tumulto interiore, una vera e propria tempesta talvolta lo mandava in stato confusionale. Avrebbe trovato un mondo del tutto diverso. Avrebbe dovuto ricominciare da zero.
Sperava che la pratica del kung-fu potesse aiutarlo a combattere la paura, come diceva il maestro Rohininandana.

La docente si dilungò su vari aspetti dell’ordinamento sociale ed economico della Repubblica Popolare, poi fece una pausa, fissò i detenuti e chiese: “Vi siete mai chiesti come mai il resto del mondo capitalista ci permetta di andare avanti? Vi siete chiesti perché gli anglo-americani, col sostegno dei tedeschi, non agiscano con tutti i mezzi a loro disposizione, compresa un’invasione militare? La storia ci insegna che non sarebbe certo la prima volta.”

Qualcuno rispose: “Perché acquistano i nostri prodotti a prezzi concorrenziali, quindi pagano poco l’eccellenza.” Erano risposte in un certo senso stereotipate, definite “deboli” dalla docente. Gli anglo-americani, disse, non potevano permettere che una rivoluzione creasse una società antitetica alla loro. Ne temevano l’espansione. Ne avevano terrore. Non era certo l’acquisto di manufatti a far cambiare loro idea. Qualcun altro fece riferimento al piccolo ma moderno esercito della Repubblica Popolare, e al contingente di riservisti, pronti a organizzare un’accanita resistenza. Di nuovo questa risposta fu definita debole. Eserciti enormi come quelli americani, inglesi e tedeschi avrebbero prevalso in pochi giorni, radendo al suolo mezzo paese e deportando la popolazione. Un altro disse: “Perché temono la nostra federazione”. No, ribatté la ragazza, l’alleanza tra i paesi amici, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, col sostegno esterno della Francia, non era ancora una vera federazione in grado di contrastare la potenza anglo-americana-tedesca.

“No, il vero motivo sta altrove. Gli anglo-americani non si farebbero scrupoli a scatenare una guerra di aggressione, magari fabbricando prove false, pur di difendere la loro società fondata sull’accumulo di capitale. Potrebbero anche organizzare una guerra interna, inondandoci di spie e terroristi, per organizzare insurrezioni. Il fatto è che noi abbiamo un’arma segreta. Un’arma che li spaventa. Un’arma più forte dei loro missili e dei loro bombardieri. Presto” disse, fissandoli seria, tesa come una giovane pantera rivoluzionaria, pensò Max Martirio, “voi che siete i detenuti per i quali è previsto il ritorno alla libertà, voi che state dimostrando segni indiscutibili di ravvedimento e di presa di coscienza, la conoscerete. Presto” soggiunse stringendo i bellissimi occhi furenti, “faremo insieme una gita molto interessante.”
(continua…)