di Filippo Casaccia

Mi par d’esser con la testa in un’orrida fucina…

turbo01.jpg“Siamo quel tipo di band che, se diventiamo vostri vicini di casa, vi muore il prato”. Lo ha detto Lemmy dei Motorhead, ma la definizione potrebbe andare benissimo anche per i Turbonegro, band norvegese che, a oltre vent’anni dalla nascita, comincia ad ottenere il riconoscimento che merita. Tantissimo tempo, okay, ma nella musica, oggi, come in tanti altri campi artistici, troppi messaggi — specie se geniali, conflittuali e non immediati — confondono pubblico e critica ormai abituati ai pacificati prodotti standard spinti dal reparto marketing. E i Turbonegro sono esattamente il contrario di quello che un buon addetto marketing potrebbe consigliare a una band, credetemi. Sul Wikipedia italiano li danno per heavy metal, ma mai come in questo caso la definizione è fallace (si veda, invece, la scheda inglese di Wiki). O meglio: sì, sono anche heavy metal, ma un metal dall’atteggiamento etico profondamente punk, che si traduce sonicamente in un calderone dove può ribollire qualunque genere musicale. Per fortuna.
È uscito da poco il loro nono album, Sexual Harassment, e la ricetta non viene smentita: il disco è stato ben accolto nonostante la scioccante sostituzione del cantante e leader storico del gruppo Hank von Helvete. Hank s’è sposato, disintossicato e ha figliato, mettendo su un altro gruppo.
Sono contento. E un po’ mi dispiace.

turbo02.jpgMa il tempo passa e la nostalgia è una brutta bestia da cui imparare a stare alla larga. Von Helvete l’ho incontrato 5 anni fa, in occasione dell’album Retox, lui e il bassista Thomas Seltzer, conosciuto anche come Happy Tom. Riavvolgo il nastro e siamo nel maggio 2007. L’intervista si tiene nei bei locali di una combattiva etichetta musicale, sui navigli milanesi. Io arrivo un po’ inquieto e francamente non so come andrà a finire. Questi sono dei maestri della provocazione e suonano un rock sfuggente dove trovi senza soluzione di continuità metal, sleaze, punk e pop (che mescolati tutti assieme sono uno stile vero è proprio da loro definito “deathpunk”, qualunque cosa significhi, probabilmente nessuna). Poi, visti su un palco, fanno veramente paura. Von Helvete sembra uscito da un film di Rob Zombie, panzuto e vagamente fassbinderiano. Happy Tom, per intenderci e rimanere in tema Fassbinder, è invece un Popeye declinato alla Querelle de Brest. Gli altri — che per fortuna oggi non mi toccano — esibiscono uniformi naziste, completi da taglialegna o giubbotti da biker gay: una ghenga al confronto della quale i Village People sembrano innocue comparse del Bagaglino.
Hank e Tom sono in borghese e molto cordiali: nel loro tranello mediatico ci son cascato in pieno. Il cantante — occhi chiari e buoni — mi offre un caffè e poi si mette a fumare alla finestra, ammettendo sconsolato che anche in Norvegia è vietato ovunque. Il bassista è filosofico: “Ormai l’unica cosa libera è la pornografia. Per fortuna”.
Partiamo dal disco, di cui sono credibilmente molto orgogliosi. Ci hanno lavorato un anno, rifinendolo fino a renderlo compatto e tirato, in una parola: esplosivo. Come dice Tom (che si rivelerà grande battutista e Principe della Definizione Esatta), hanno cercato il “Perfetto equilibrio tra genio e idiozia. Il problema è che il rock è pieno di idioti che si credono dei geni”.
turbo03.jpgPoi, all’improvviso e in perfetta sincronia, i due musicisti si snodano come dei manichini e rimangono fermi in posa come dei burattini disarticolati. Riconosco la postura di Iggy Pop sulla copertina di The Idiot. Capiscono che ho capito e sanciscono: “Iggy è un genio, vero”.
Da Iggy è facile passare subito alle influenze che saltano fuori da questo Retox (superfluo chiosare sul titolo, visti anche i passati problemi di droga di Hank). Nel caleidoscopio sonoro senti Def Leppard, Stooges, Guns n’ Roses, Germs, Van Halen, Black Flag, AC/DC e pure GG Allin. E per i testi aspirano all’arguzia di Randy Newman. Siccome in certi momenti si passa dall’hard più violento a melodie pop che non sfigurerebbero in un pezzo degli Scissor Sister gli chiedo se è la volta buona per diventare un gruppo mainstream, loro che si vantano di essere la “Più grande underground band della terra”. Se lo augurano, ovviamente, su scala planetaria: il traguardo lo hanno già tranquillamente raggiunto tra i crucchi e in Scandinavia e, a dimostrare il lento ma costante successo, non ci sono vendite stratosferiche ma la capillare diffusione della Turbojugend, una agguerrita e folle truppa di fan particolarmente attiva in Germania (capitale del movimento, ovviamente, il quartiere Sankt Pauli di Amburgo), dove si tiene ogni anno una bella festicciola tutti assieme.
Certo, arrivare fin qui è stata dura. Fin dall’inizio, quando volevano chiamarsi Nazipenis (ehm) e alla fine optarono per Turbonegro (cioè “Un negrone ben dotato e armato, in cerca di vendetta su una macchina veloce”), presentandosi in scena alla Al Jolson, con facce pittate di nero e paglietta anni Venti.
Non era il massimo e presto venne il look macho gay, che esalta il jeans denim e denigra la pelle borchiata. Hank lo definisce “Alice Cooper meets Salvador Dalì”. Tom elabora: “C’è chi nasce rivoluzionario e finisce a fare cabaret, per noi è successo il contrario” e i disattenti li bollarono frettolosamente come dei cialtroni mestatori, senza cogliere il gioco sovversivo di canzoni come Bad Mongo (con un Hitler mongoloide in copertina), I Got Erection o la magnificamente titolata Rendezvous With Anus.

turbo04.jpgIn un mercato in cui la gran parte degli artisti evita la complessità che costringe a pensare, il mondo dei Turbonegro è un caso a sé, molto confuso eppure perfettamente coerente: si cantano doppi sensi e oscenità esplicite, tra marchette, pompini, inchiappettate, droghe assortite e marinaretti frocioni. Il sound proviene dai più classici anni 70, quelli che mescolavano naturalmente energia e sensibilità melodica: T. Rex, Cheap Trick, Ramones e New York Dolls. E a completare il cocktail micidiale c’è l’oltraggiosa abilità di stare sul palco, dove Hank ha dato prova di grande creatività con fischioni e petardi infilati nel culo e sparati direttamente sulla folla.
La provocazione politica va di pari passo a quella spettacolare, tant’è che i Turbonegro giocano molto con l’immaginario nazi. Però è evidente che propendono da tutt’altra parte. Una volta Tom ha detto che i Turbonegro sono influenzati da Black Flag, Abba e Rote Armee Fraktion. Glielo ricordo e lui vuole precisare: “Sí, siamo vicini alla RAF; sai, le B.R. erano troppo eleganti, troppo Armani. Ma non è neanche male l’Armata rossa giapponese”. Comunque – si fanno seri – non gli interessa diffondere messaggi politici, bensì… “Il terrore!” e giù risatone mentre Tom lancia un altro slogan: “La birra è rivoluzionaria, lo jogging è borghese!”.
Non posso che chiedergli di Bush e la risposta è prevedibile, ma senza la correttezza politica di tanti loro colleghi musicisti che ho incontrato in questi anni, timorosi di bruciarsi il mercato USA. Hank non ha mezzi termini: “Bush è un ritardato, in mano a una lobby economica. Per fortuna la politica è una cosa e l’America, quella vera, quella che amiamo, un’altra”.
Fossero italiani avrebbero problemi ogni giorno con la Chiesa, i fascisti e pure gli omosessuali. Alzano le spalle, ridendoci su: “Succede anche in Norvegia… dove tra l’altro le tre categorie sono un gruppo unico”.

turbo05.jpgOggi siamo a quasi dieci anni dal momento di più grande crisi della band, che si dissolse alla vigilia della grande affermazione. Accadde a Milano, nel dicembre del 1998, con il crollo psicofisico di Hank, drogatissimo e molto confuso mentalmente. Per il bene di tutti, si lasciò perdere e fu proprio nell’assenza che cominciò la clamorosa rimonta che ha portato i Turbonegro alla gloria: un live, un disco omaggio con grossi nomi, la ripubblicazione dei primi album e infine la reunion, con dischi sempre più azzeccati come Scandinavian Leather (la pelle è quella vera, del cantante) e poi Party Animals.
Oggi glielo leggi in faccia che sono soddisfatti di come siano andate le cose. Ne hanno passate di tutti i colori e hanno resistito a ipocriti, criticonzi, arbitri d’eleganza e oltranzisti ideologici che non hanno capito la deflagrazione fantasmagorica delle loro provocazioni.
I minuti che mi sono rimasti a disposizione sono ormai pochi. Gli chiedo se c’è qualcosa che ancora non è venuto fuori dai loro dischi. C’è qualche passione segreta? Tom si avvicina un po’ contrito, abbassa la voce e gli occhi e mi rivela che, sí, lui è un feticista perverso: “Mi piacciono le donne nude”.
Hank invece confessa di essere un vero fanatico di storia, specialmente quella del XVI secolo: sa tutto dell’intreccio monarchico-sessuale di Medici e reali di Francia e Inghilterra. Ma non solo: mi dimostra di conoscere bene anche il passato di alcuni nostri politici e la storia della P2, certamente meglio dell’elettore italiano medio che ancora crede al Tg4. Siamo ai saluti finali, alle strette di mano e agli abbracci, quando Hank si avvicina al mio orecchio e ammette con aria cospiratoria: “Quella notte, a Londra, Roberto Calvi l’ho ucciso io”. Ho un leggero sbandamento ma riporta tutto sugli ordinari binari della follia il felice Tom che conclude: “Per cui, a questo punto, tu sai troppe cose. E noi dobbiamo ucciderti”.