di Mauro Vanetti

IlvaInquina.jpgTaranto fraintesa e ricattata, Taranto chiusa nella morsa di crisi concentriche, Taranto messa a scacco matto dal dilemma ILVA, è stata raccontata con passione e volontà di chiarezza su questo sito come su pochi altri. Perciò ho chiesto di poter dare un contributo di riflessione portando quel che mi è sembrato di capire della vicenda, al netto di un dialetto che ancora non decifro facilmente, in questi anni in cui mi sono trovato accolto e intrappolato dalle storie fosche di Taranto, come un braccio di operaio rimasto impigliato in un macchinario, pochi secondi prima della mutilazione, con la voglia urgente di liberarsi dalla morsa. E forse questa liberazione è diventata possibile.
Lo scopo precipuo di questo intervento è presentare l’appello #occupyILVA, che può essere letto e, se si crede, firmato qui. Il titolo di questo appello è semplice e chiaro: «Espropriamo il gruppo Riva», ovvero prendiamoci un gruppo siderurgico di rilevanza più che nazionale, che fa profitti d’oro, di proprietà di una famiglia di mascalzoni, con stabilimenti in tutta Europa.

L’estate rovente di Taranto

Questo appello è nato nel caldo, sia reale che metaforico, di quest’estate tarantina 2012 nella quale in ogni pescheria e sotto ogni ombrellone, ai cancelli del siderurgico come nelle piazze dei rioni popolari, il primo argomento di preoccupata conversazione era sempre lo stesso: il precipitare drammatico della questione ILVA a partire dalla giornata del 26 luglio, quando i padroni Emilio e Fabio Riva, insieme ad alcuni altri manager dell’acciaieria, sono stati posti agli arresti domiciliari in quanto responsabili di un gigantesco disastro ambientale e sanitario. Carmilla ne ha scritto qui per voce di Cosimo Argentina: Taranto ricorderà il giorno di Sant’Anna del 2012.
In quei primi giorni convulsi leggendo i giornali sembrava che la situazione stesse cadendo nella più scontata guerra tra poveri: da un lato gli operai, compattamente intruppati da sindacati e azienda in difesa del posto di lavoro a qualsiasi costo, dall’altra i “cittadini” schierati con la magistratura e gli ambientalisti, disposti anche a chiudere la fabbrica ciclopica pur di salvarsi dall’inquinamento letale. Il 2 agosto però è cambiato tutto, con l’irruzione in piazza del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti guidati da un’Apecar, tipico veicolo plebeo a tre ruote dei vicoli di Taranto Vecchia. Il corteo compatto e combattivo del Comitato del Tre Ruote si è fatto largo in una vasta massa di lavoratori raccolta sotto il palco ad ascoltare i comizi conclusivi dei dirigenti sindacali, interrompendoli per portare la propria posizione alternativa. Carmilla ne ha parlato qui, con un’introduzione di Girolamo De Michele: Trecento black bloc, autonomi, ultras… o tremila cittadini liberi e pensanti?
Per tutto agosto e settembre, il Comitato ha accresciuto le proprie forze in una serie di partecipatissime assemblee popolari e manifestazioni, molte delle quali proprio di fronte ai cancelli dello stabilimento. A quanto pare non tutti i lavoratori dell’ILVA sono disposti a cedere al ricatto dei Riva e del governo che pretendono di essere presi sul serio quando sostengono che si possa mettere a norma l’ILVA senza neppure spegnere l’area a caldo. La penetrazione delle idee del Comitato, favorevoli allo stop della produzione anche attraverso l’organizzazione di scioperi, all’interno della fabbrica, ha creato scompiglio nel mondo sindacale, spingendo la FIOM a prendere le distanze dagli scioperi farlocchi organizzati da FIM e UILM. Anche in televisione sono state mostrate le prove di come gli scioperi filo-aziendali dei sindacati gialli non siano altro che strumentalizzazioni organizzate dal padrone stesso, con tanto di fornitura di quella che in Lombardia chiameremmo schisceta: L’infedele – gli operai dell’ILVA di Taranto.

Una proposta unificante

Tra i primi firmatari dell’appello #occupyILVA ci sono tarantini, soprattutto medici e lavoratori ILVA, che simpatizzando per il Comitato hanno voluto portare al suo interno una proposta capace
di unificare le lotte ambientali e quelle contro il declino produttivo accelerato dalla crisi. Ecco come l’appello descrive i propri obiettivi:
«Vogliamo una nazionalizzazione-modello dell’ILVA e dell’intero Gruppo Riva, basata sulla partecipazione democratica dei lavoratori e dei cittadini, per ricostruire un futuro industriale rispettoso della salute umana!
[…] La nazionalizzazione del Gruppo Riva che abbiamo in mente non riguarderà solo Taranto ma tutti gli stabilimenti in Italia e all’estero. Non dovrà riproporre l’industria di Stato burocratica, clientelare, inquinatrice, sprecona e subordinata agli interessi dei grandi gruppi privati come era l’Italsider. Crediamo sia possibile una nazionalizzazione basata sul coinvolgimento diretto dei lavoratori e dei cittadini delle zone degli stabilimenti, tramite la formazione di comitati di portavoce eletti democraticamente e revocabili in qualsiasi momento: una nazionalizzazione-modello, un laboratorio per un futuro alternativo.»
Sono ipotesi coerenti con i discorsi più avanzati che ho sentito nelle piazze di Taranto, alle assemblee del Comitato del Tre Ruote, quando si collegava la voracità dei Riva ai meccanismi malati del capitalismo finanziario, rivendicando il diritto per il popolo di Taranto di riprendere in mano il proprio destino economico. Ma come si può essere liberi di scegliere se ai Riva resta il potere di aprire o chiudere i cancelli della fabbrica, di decidere cosa e come e quanto produrre, di acquistare o affittare non solo gli impianti e le materie prime, ma i politici, i sindacalisti, i preti? E come si può credere, dopo tanti anni, che si possa in qualche modo obbligare questi padroni ad “ambientalizzare” l’ILVA, ammesso e non concesso che ciò sia tecnicamente possibile? Come hanno spiegato candidamente certi sindacalisti di CISL e UIL, se si chiudono i forni più inquinanti, si va “fuori mercato”. E se di fronte alla proprietà privata si ha timore reverenziale, un capitalista che va fuori mercato ha diritto di chiudere, anche se si tratta di un capitalista agli arresti domiciliari.
Al tempo stesso, questo appello entra in polemica con l’idea che si debba uscire da questa crisi lasciando Riva libero di abbandonare la produzione (magari per spostarla all’estero, come pare stia macchinando) ma imponendogli un risarcimento, magari “rabboccato” anche dallo Stato che porta la sua bella parte di colpa. Chi sostiene questa posizione spesso afferma, sfidando il buon senso, che la città potrebbe vivere benissimo su altri tipi di produzione non industriale, ovvero le cozze e il turismo. Agli operai licenziati si potrebbe garantire un reddito o di tipo assistenziale o legato ai lavori di bonifica. Questa posizione è perdente perché consegna Taranto a un destino da recessione permanente, accettando come niente fosse la distruzione di quelle competenze tecniche e di quella rete di rapporti sociali e umani che vanno sotto il nome di “classe operaia”. Inoltre, è una posizione che isola la vicenda ILVA dal resto dei lavoratori italiani, a cui si chiederebbe soltanto di pagare le tasse per finanziare gli ammortizzatori sociali, lasciando per giunta alcuni di loro a rischio di un effetto domino (i colleghi dell’ILVA di Cornigliano, per esempio). Avremmo il paradosso che mentre Squinzi e Confindustria considerano Taranto una questione economica e politica di rilevanza nazionale attorno alla quale unificare la loro classe, la classe lavoratrice si limiterebbe a considerarla una faccenda puramente locale, accettando per giunta una sorta di eutanasia del proletariato metallurgico tarantino.
Viceversa, usare l’ILVA per tornare a parlare di nazionalizzazione lancia un ponte di solidarietà di classe, non solo verso gli altri dipendenti del gruppo Riva, ma anche verso altre realtà industrialmente strategiche che vivono analoghe situazioni di ricatto: FIAT, Alcoa, Carbosulcis ecc. Inoltre, unifica la mobilitazione dei “liberi e pensanti” di Taranto alla lotta per il rovesciamento del governo Monti, perché è chiaro che non è a un governo “austero” come questo che si possono chiedere nazionalizzazioni e nuovi modelli di sviluppo. Per ottenere questo risultato serve una trasformazione politica generale, di cui Taranto può rappresentare necessariamente solo una prima leva.

Una proposta controcorrente

Mi rendo conto che parlare di rendere pubblica l’ILVA e tutto il gruppo Riva possa sembrare una proposta “statalista”, che suona particolarmente sinistra a chi ricorda come l’Italsider non fosse precisamente una fabbrica ecologica né rispettosa della sicurezza dei suoi dipendenti. Mi rendo anche conto che parlare di pensare a un diverso sviluppo industriale per Taranto e per l’Italia possa sembrare una proposta “sviluppista” o “lavorista”. Sandro Moiso ha fatto un bel ragionamento, sempre qui su Carmilla, partendo proprio dal caso di Taranto: Lavoro e Stato. Girolamo De Michele ha scritto per Uninomade un testo che esprime idee simili incentrato proprio sulla sua Taranto: Risvegliarsi dal Giorno della Marmotta. Chiudere l’Ilva, uscire dal Novecento.
Non condivido del tutto questi punti di vista, che pure sono molto presenti nel dibattito ILVA a Taranto e in particolare all’interno del Comitato. Mi sembra che il loro vizio di fondo sia dare già per obsoleto il lavoro di fabbrica, riducendo così le tute blu a patetici residuati bellici. In questo modo si confonde il contingente declino industriale italiano ed eventualmente europeo con un processo storico inevitabile, quando a dire il vero i Paesi che stanno emergendo sulla ribalta mondiale hanno tutt’altro che abbandonato l’industria, la quale anzi fa spesso da volano proprio allo sviluppo del terziario e dell’alta tecnologia. Ma addirittura, come dimostra lo stesso esempio della siderurgia, sono proprio le maggiori potenze industriali come la Germania e le grandi nazioni- fabbrica dell’Estremo Oriente ad avere più spesso la necessità (imposta dalle lotte operaie e ambientaliste, non certo dal buon cuore dei padroni) di investire in produzioni ecologicamente meno insostenibili — produzioni moderne e intelligenti, che a Taranto sono rese difficili soprattutto dalla scriteriata vicinanza del quartiere Tamburi al mostro velenoso, ma che altrimenti sarebbero tecnicamente realizzabili a fronte di un adeguato investimento.
Del resto, anche ammesso che i milioni e milioni di operai industriali europei siano destinati a diventare tutti impiegati, tecnici e operatori del terziario, c’è una bella differenza tra governare questa transizione sociologica come un’evoluzione che preservi la forza sociale e la coesione umana della classe operaia, oppure ottenerla come sottoprodotto di una distruzione selvaggia di posti di lavoro e competenze professionali fatta secondo i ritmi stabiliti dai padroni. È un po’ la stessa differenza che corre tra un trasloco e una deportazione. Questo discorso, sia detto en passant, vale anche al rovescio: non solo la distruzione, ma anche la creazione dei posti di lavoro non è “neutrale” e c’è modo e modo di creare posti di lavoro. L’industrialismo tarantino gestito alla maniera dei Riva non ha certo indotto uno sviluppo generale dell’economia locale, che ne è stata anzi soffocata: il porto è egemonizzato dal monopolio ILVA, soffocando altre iniziative economiche, l’inquinamento ha devastato attività economiche tradizionali come la miticoltura e l’allevamento; la città negli ultimi trent’anni non è stata affatto salvata dalla disoccupazione e dall’emigrazione verso nord, come si vede all’istante da questo grafico: Evoluzione demografica di Taranto..
I processi di riscatto e di trasformazione sociale più interessanti in corso nel nuovo secolo, penso per esempio al Venezuela, alla Bolivia, all’Ecuador, che sono stati capaci anche di approcci molto innovativi, hanno trovato nella classe operaia organizzata la loro forza decisiva. L’idea che Taranto possa fare una specie di rivoluzione che prescinda dal lavoro salariato, perché tanto basta chiedere il reddito di cittadinanza, mi sembra velleitaria ma anche tatticamente votata alla sconfitta, perché lascia nelle mani dei Riva la forza d’urto delle maestranze ILVA, una forza che i padroni hanno dimostrato di essere in grado di strumentalizzare bene a proprio vantaggio. Tra l’altro, è pure paradossale, perché il capitalismo in generale e il capitalismo dei Riva in particolare non è per niente in grado di difendere le forze produttive dalla distruzione e questo dobbiamo dirlo: quel che si prospetterebbe per lo stabilimento di Taranto se tutto andasse come vuole la proprietà è lo sfruttamento degli impianti obsoleti fino alla fine estrema del loro ciclo di vita, per poi chiudere baracca e burattini lasciando a Taranto la doppia gatta da pelare delle casse integrazioni e dei tumori.
Per quanto sia giusto introdurre un reddito garantito per tutti, migliaia di disoccupati soggetti alla
dipendenza da un sussidio statale sarebbero in ogni caso dei soggetti straordinariamente deboli e passivi, non protagonisti e non partecipi. Una nazionalizzazione sotto controllo operaio e popolare significa invece liberare le intelligenze proletarie e le competenze tecniche dal ricatto del padrone privato, permettendo loro di sperimentare come reindirizzare le forze produttive ad usi economicamente razionali e socialmente validi. Se spegnere un altoforno è la cosa più razionale da fare, un’ILVA “del popolo” lo potrà fare avendo in mano gli strumenti per gestirne le conseguenze.

Statalista sarà Lei

Più importante però è capirci sul tema dello Stato. La disamina di Sandro Moiso motiva bene l’ostilità dei rivoluzionari verso lo Stato così come l’insanabile antagonismo tra gli interessi dei lavoratori salariati e quelli dello Stato attualmente esistente in Italia; ed è vero che le nazionalizzazioni industriali fatte dalla borghesia italiana almeno dai tempi dell’IRI di Mussolini rispondevano a precise esigenze padronali. Del resto la privatizzazione dell’Italsider, un vero regalo alla famiglia Riva, è stata gestita dallo stesso Stato che ne portò avanti la malgestione pubblica per decenni, e oggi sempre quello Stato si muove, a suon di Autorizzazioni Integrate Ambientali addomesticate, soglie di emissioni molto lasche e interventi diretti dei ministri Clini e Passera, a difesa dell’intangibilità del profitto privato. Sarebbe da pazzi riporre fiducia in quello Stato per raddrizzare le storture che esso stesso ha contribuito a creare.
Proprio questo è un punto di forza dell’appello #occupyILVA: la chiarezza sulla diversità tra le nazionalizzazioni tipo IRI e quest’altra idea di nazionalizzazione, che tra l’altro non prevederebbe alcun costo per i contribuenti, perché sarebbe fatta a spese delle fortune dei Riva. Così, a chi anche a sinistra blatera di keynesismo e New Deal, si può dare una prospettiva molto diversa, basata sulla sfiducia totale non solo verso la classe cosiddetta imprenditoriale ma anche verso il ceto politico parlamentare e il funzionariato statale. Le assemblee popolari nelle piazze e le assemblee operaie davanti all’ILVA vanno viste come embrioni di una “democrazia consiliare”, per dirla con Gramsci, che dovrebbe prendere in mano la gestione della produzione, della bonifica, della riconversione, della stessa chiusura di quella parte di fabbrica che non può essere resa compatibile con la preservazione della vita umana. Sarà un piano ambizioso, ma almeno è un piano.
Sembra un paradosso ma questa è l’unica posizione non statalista, che non si affida allo Stato burocratico dei padroni. Infatti, dietro la maschera da sostenitori della “libera impresa”, Squinzi e tutta la Confindustria si aspettano dal governo un intervento risolutore per l’ILVA, che includa fondi per la bonifica (già stanziati dal governo), favori fiscali e al limite anche forme di protezionismo. I Riva sono così poco “liberisti” che hanno aiutato il governo precedente a togliersi d’impiccio nel caso Alitalia con un investimento di 100 milioni che rispondeva a logiche che non erano proprio di mercato…
Ma anche la posizione apparentemente contrapposta, quella della chiusura pura e semplice dell’ILVA, finisce per invocare come suo pilastro centrale l’intervento dello Stato: per fare le bonifiche, per sostenere il reddito dei licenziati con ammortizzatori sociali di vario tipo, per risarcire gli ammalati e la città (e questo è giusto), ma soprattutto invoca la magistratura, che è pur sempre parte dello Stato, come deus ex machina che venga a risolvere i problemi lasciati insoluti dalla politica e dal sindacato. Se è comprensibile l’affetto e l’ammirazione verso una persona coraggiosa e integra come il GIP Patrizia Todisco, riporre fiducia cieca nel potere giudiziario è pericoloso e ben poco libertario — e si rischiano amare delusioni, specie se si crede a rivoluzioni che partono dai tribunali. Le rivoluzioni invece partono da dove si lavora e si vive.

Mo’ avast!

Il nome #occupyILVA è nato quasi come una trovata pubblicitaria: suonava bene come hashtag su Twitter, alludeva all’idea di riprendersi la fabbrica e usarla “come vogliamo noi”. Tuttavia a ben pensarci mostra anche l’unica via praticabile per imporre una “nazionalizzazione-modello” come
quella che si propone: l’occupazione degli stabilimenti da parte degli operai. Quando gli operai ILVA che stanno nel Comitato del Tre Ruote, come Cataldo Ranieri, dicono ai loro colleghi che, invece di uscire dalla fabbrica per andare a bloccare le strade come “suggerito” dai capireparto, dovrebbero restare dentro i cancelli e interrompere la produzione, stanno facendo il primo passo in quella direzione. Vogliamo o no cominciare a immaginarci i passi successivi?
L’appello #occupyILVA non è un comitato né un’organizzazione. Per ora è solo un sasso nello stagno, una bandiera appoggiata per terra in attesa di qualcuno che la prenda in mano. Qualcuno le sta già dando gambe a Taranto, in particolare i primissimi firmatari, e le firme crescono di giorno in giorno; ma le penne e i click dei mouse non fanno rivoluzioni, anche se talvolta aiutano a prepararle. Tanti stanno appoggiandolo da fuori Taranto, e questo è essenziale per uscire dal provincialismo. Spero che ci si ragionerà su, e che questa idea prenda corpo; se l’appello dimostra qualcosa, dimostra che «Espropriamo il gruppo Riva» non è un’idea balzana, ma che può essere presa sul serio già oggi da centinaia di tarantini, dentro e fuori dall’ILVA. Quando comincerà a comparire sugli striscioni, inizierà tutta un’altra storia.

http://www.occupyilva.org/