di Federico Mastrogiovanni

pitbull2.jpgNove. Occorre essere attenti per essere padroni di se stessi.

Se la sfera lavorativa tende a limitare l’interiorità, dovreste cercare di recuperarla attraverso la riflessione, con momenti di pausa ritagliati ad hoc. Affioreranno anche alcune verità del passato, e un amore soffocato dall’effimero riemergerà. MALINCONICI.

«Non ti vedi che sei? A terra a leccarmi i piedi! Non hai un minimo di dignità, cazzo! Tirati su. Smettila per dio! Più mi lecchi e meno ti stimo. Mi fai schifo Groucho!»
Groucho è un cane. Per l’esattezza un cane da più di un quintale. E ha solo due anni. Credo che la sua razza sia il boxer.
Sto parlando con lui da un po’. Da un po’ troppo. Ho abbondantemente superato il limite massimo in cui è accettabile che un umano parli da solo con un cane senza essere considerato un subnormale.
«Ti rendi conto che io ti odio??»
Lo odio. Mi sta simpatico. Ma odio il fatto che mi lecchi. E che mi ami in maniera incondizionata SENZA ALCUN MOTIVO.
«È una cosa inaccettabile Groucho!»
Groucho ha un padrone, che evidentemente non sono io.
Il suo padrone è Tintan. Che ora è uscito a comprare un settimanale sulla lucha libre. Groucho lo odio perché senza alcuna ragione mi ama e mi lecca i piedi. Si butta per terra, si rotola. Vuole le coccole da me!

«Non solo sei senza dignità. Ma affidi il tuo amore a una persona che possibilmente ti userebbe per fare i combattimenti tra cani.»
La sua è fedeltà totale. Incondizionata e senza motivo. È fede in un essere superiore. Che non è superiore. Lui potrebbe farmi a pezzi diciamo in tre mosse. Eppure mi lecca i piedi, cazzo!
Oggi sono passato a fare un giro per il mercato di Tepito, per comprare qualche vestito e qualche cd.
Tintan mi ha accolto con un sorriso strano. Non un sorriso. Un ghigno. Un ghigno sinistro.
E mi ha fatto conoscere Groucho. Poi è uscito a comprare il suo giornale e a chiamare Fernando.
Tintan dice che se continua così Groucho sarà un campione della lotta tra cani.
Dice che gli mangia la faccia, agli altri cani.
A me pare un bambacione. E mi lecca i piedi pelosi che tengo in un paio di Birkenstock infradito. Sono un regalo di Ginevra. Quelle classiche da frate non le piacevano. Ora lei non c’è più e mi sono rimaste queste ciavatte infradito.
Groucho non ha l’aria di essere gran ché aggressivo, ma io di cani da combattimento va detto che ci capisco poco.
Aspetto Fernando. Mentre dormivo mi è venuto in mente che forse lui potrebbe sapere qualcosa sugli affari sporchi delle sette esoteriche. Qualcuno lo dovrà pur sapere qualcosa.
Entra il boss. È scuro in volto. Deve essere una giornata storta. E con questa faccia fa davvero paura. È un incrocio tra Joker di Batman, nella versione di Heath Ledger, e Toto Cutugno (per il doppiopetto che porta oggi e il capello impomatato).

«Hola Fernando.»
«Hola Samuele. Come va? Cosa ti porta di nuovo a Tepito?»
«Tutto bene, grazie. Sono venuto perché volevo parlare con te di una cosa. Magari mi puoi aiutare.»
Le sicurezze che mi hanno portato qui cedono come le torri gemelle di fronte allo sguardo scettico di Fernando.
Capisco perché bisogna avere paura di uno come lui. Il suo sguardo trasmette potere e violenza. E carisma. Bestiale.
La storia di Akira ha aperto una serie infinita di caselle. Di possibilità. Ho la testa zeppa di informazioni, di dubbi e di idee. E ho una sensazione che non riesco a definire. È un tipo di gastrite che non riconosco. Che mi porta ad essere qui da Fernando. Lui deve sapere qualcosa.
Il denaro che muovono gli adepti del PEM è tanto. E gira intorno ad attività commerciali. Questa città enorme funziona come tutte le città. I criminali si conoscono tra loro, quanto meno di fama.
Fernando aspetta quello che ho da dirgli. Non è per nulla impaziente. Solo che si capisce che dietro la maschera di calma non ha tempo da perdere.
«Sai di qualche affare poco chiaro legato a una setta che si chiama Percorso per un’Esistenza Migliore a Città del Messico?» domando diretto.
«Che cazzo ti frega di Percorso per un’Esistenza Migliore?»
Ecco una risposta a sorpresa. Mi spaventa.
«No, è che sto facendo un’inchiesta…»
«Dovresti stare attento a quello che chiedi in giro. È un consiglio, il mio. E un altro consiglio è quello di lasciar perdere questa faccenda. Non so cosa stai cercando ma a naso non sono cose che ti riguardano. Ora vattene che ho da fare.»
Cerco di ribattere qualcosa ma la mano di Tintan già stringe il mio gomito in una morsa. Tintan è un sordomuto fatto di muscoli in presenza del capo. Esso si limita a eseguire.
«Pensavo che tu potessi aiutarmi… non volevo offendere.»
«Non mi hai offeso. Io però non aiuto i ficcanaso. Queste sono cose che non ti riguardano. Stai alla larga da me e da questa setta.»
«Per favore, Fernando. Almeno dimmi a chi posso rivolgermi. È la mia unica speranza per il mio lavoro. Ti prego.»
«Non è una mia responsabilità il tuo successo nel lavoro. Sono affari tuoi. Non vengo certo da te quando ho bisogno di aiuto, mi pare.»
Non fa una piega il suo ragionamento. Ovviamente. Ho solo cercato di fargli pietà. Ma non attacca.

Esco dall’incontro con Fernando piuttosto demoralizzato. E spaventato.
Tintan mi accompagna per il mercato, seguito a ruota da quel bestione di Groucho. Fanno una bella coppia. Provo a attaccare bottone anche con lui. Ci devo provare. Altrimenti IO MUOIO. Vediamo.
«Ma con questa bestia ce li fai i combattimenti? Sicuramente sarebbe un campione. Ho visto quel film, Amores perros. Il tuo cane sembra proprio perfetto per cose così.»
Anche un maiale può arrampicarsi su un albero quando viene adulato. Tintan gongola per il complimento. Almeno credo. Forse invece no.
«È ancora troppo piccolo. E poi è un regalo per mia figlia. Questo non combatte. Ho altri cani da combattimento. Dei pitbull.»
«Ne ho sentito tanto parlare della pelea de perros. Anche in Italia. Mi piacerebbe moltissimo vedere alcuni incontri. Credi che sarebbe possibile?»
Tintan mi squadra ghignando. «Tu alla pelea de perros? Ma sei pazzo?»
È evidente che non mi reputa adatto. Mi sottovaluta! No. Invece mi ha già inquadrato… «Comunque se vuoi ti ci porto. Così la smetti una volta per tutte di fare l’investigatore. Dopodomani. Alle due. Vedi di non perderti.»

***

Vado a bere al Groove con Serapio.
Il Groove è un locale gestito da argentini nella colonia Condesa.
Per chi non lo sapesse, la colonia Condesa è piena di locali e piena di argentini. Quindi dire sono stato alla Condesa in un locale di argentini è un po’ non dire un cazzo su dove sei stato.
Il Groove ha bella musica. Bei divani. Belle cameriere e bella gente. Ma ieri sera essendo lunedì non c’era nessuno a parte me e Serapio a berci due J&B lisci.
Ora anch’io sono cliente abituale. È molto importante per un emigrante essere cliente abituale di qualcosa.
Ti fa subito casa.
Usciti dalla Condechi torniamo in taxi verso Mixcoac.
Sotto casa c’è un catorcio informe di macchina stescionvègon. Qualcuno per un periodo l’ha usata come una casa.
Dentro c’è di tutto. Da qualche giorno hanno sfondato il parabrezza. I sedili sembrano comodi.
Io e Serapio stiamo pensando che visto che è parcheggiata lì da secoli, si potrebbe chiamare una grua per farla portare via, e rivenderla a un chatarrero a peso.
Ci potremmo tirare su forse diecimila pesos. Che so’ tipo cinquecento euri.
Da spendere magari a Tulum.
Quindi facciamo un sopralluogo per controllare se ha il motore e che cazzo ci stava dentro.
RInveniamo un orrendo quadro su tela. Un’illustrazione forse indiana di una divinità inquietante e sicuramente malvagia, su sfondo blu.
La portiamo a casa e ora campeggia minacciosa nel salotto di Serapio.
Stanotte ho sognato dio.
Vittorio sembra inquieto.
Mi sveglio sul divano di casa di Silvia, l’amica italiana da cui sono ospite da un mese a tempo indeterminato. Il televisore è acceso su Televisa. Sullo schermo un faccione sorridente di politico incravattato di rosa, sta dando un annuncio. Non capisco bene di cosa si tratti, ma ha una camicia inamidata con un colletto esageratamente alto.
La finestra è aperta sulla Calle Cuernavaca, in piena Condesa. Nel televisore, sotto la facciona ben rasata e abbronzata leggo un nome: Fidel Herrera Beltrán, governatore di Veracruz. Lo stato del Golfo di Veracruz.
Dice qualcosa che non capisco.
Alzo il volume ancora pieno di sonno. «…Quindi abbiamo deciso di inaugurare la bellissima statua che raffigura il piccolo Edgar Hernández, il primo paziente che ha contratto il virus della cosiddetta influenza suina. Questo bambino di cinque anni, sopravvissuto al virus AH1N1, è un simbolo del suo paese e merita una statua. Infatti il suo essere la prima vittima e superstite del virus ha attirato l’attenzione su La Gloria, suo paese natale di solo tremila abitanti, che ora è già diventato una meta turistica. La statua, che raffigura il piccolo Edgar con in mano una rana, è alta un metro e trenta e simboleggia la speranza e la fiducia nel futuro.»
Non riesco a capire se quello che sto ascoltando è reale o frutto della mia mente. Seguono immagini di La Gloria. Due sole strade asfaltate, una delle quali porta alla casa del piccolo Edgar.
C’è festa a Veracruz oggi. E tutto grazie al piccolo Edgar.
Guardo negli occhi il mio toro di cartapesta e mi chiedo dove cazzo sono finito.
Esso non mi risponde e continua a guardarmi ottuso.
Lo chiamerò Vittorio.
Anche oggi mi viene da vomitare.

***

Sto tornando a casa con Serapio. L’ennesima serata alcolica a Città del Messico passata da un locale all’altro. Sono le tre di mattina e siamo entrambi alticci.
Il nostro rapporto si sviluppa principalmente nei bar. Fermiamo un taxi per la strada e diamo indicazioni al tassista per tornare verso l’Avenida Patriotismo. Serapio è silenzioso e teso.
«Come va la nottata?» Attacca bottone col tassista come l’ho sempre visto fare da quando lo conosco. Lo deve fare per forza. Altrimenti lui MUORE. Nella sua concezione ogni conversazione può essere fonte di informazioni. Può essere fonte di confronto. O di scontro.
«Abbastanza tranquilla, señor.»
«Ho letto che ultimamente sono diminuiti gli incidenti stradali? Lei che lavora per strada che ne pensa?»
«Non saprei. A me sembra sempre un casino questa città.»
Percorriamo il Periferico Sur, l’anello che fino a qualche anno fa delimitava i confini della città e che ora è inglobato in essa come un’arteria qualsiasi.
«Se non sbaglio è da queste parti che qualche anno fa hanno sparso il sapone quei deficienti del PAN, no?»
Questi i fatti.
Nel 2000 alcuni impiegati di un grosso saponificio, su ordine del loro presidente, con un camion rovesciano sul selciato otto tonnellate di sapone di diverse fragranze mischiato con acqua, su un tratto del Periferico Sur.
La trovata, soprannominata Aromas del cambio, Aromi del cambiamento, era venuta in mente al Presidente della impresa Esencia Flour de México SA de CV, per festeggiare la vittoria del candidato del partito di estrema destra (PAN) Vicente Fox alle elezioni politiche di quell’anno. Per la prima volta dopo settant’anni vinceva un partito che non fosse il PRI.
Raúl Camacho aveva promesso di profumare il Periferico se avesse vinto Fox.
Lo ha fatto.
Risultato: sedici auto coinvolte in un mega tamponamento a catena causato dalla saponata sparsa sulla strada. Periferico bloccato per quattro ore per ripulire il manto stradale, con il coinvolgimento di decine di mezzi delle forze dell’ordine e dei pompieri. Nessun morto. Molti feriti e contusi.
E una fragranza di fiori nell’aria per giorni.
«A me sembrava una bella idea. Almeno hanno fatto qualcosa di nuovo.»
«Sono soltanto degli imbecilli. A chi può venire in mente di spargere tonnellate di sapone sul Periferico? Solo un idiota può fare una cosa del genere.»
«Si vede che abbiamo idee politiche differenti, señor.»
Serapio è incazzato e molesto. Sta cercando lo scontro. Lo deve fare. Altrimenti LUI MUORE.
E io non ho la forza né la voglia di dissuaderlo. Sono cazzi suoi. Ma l’atmosfera si scalda e ho la sensazione che forse non è il caso mettersi a litigare con un tassinaro di estrema destra nel mezzo della notte a Città del Messico. Per di più ubriachi.
Di conseguenza: continuo a stare zitto e aspetto con fiducia l’evolversi degli eventi.
«Non abbiamo idee diverse. È solo che lei è uno stupido tassista fascista che non capisce la gravità di certe cose.»
«Piano con le parole! Questo è il mio taxi e dico quello che mi pare.»
L’uomo è sulla cinquantina. Piazzato. Con una camicia rosa e uno straccio sul collo per detergersi il sudore. Ha dai grossi baffi grigi e gialli di nicotina. Ci osserva dallo specchietto retrovisore formato gigante. Non gli piace per niente la piega che sta prendendo questa corsa notturna. E nemmeno a me.
«È grazie a gente come lei che questo paese è una merda. È grazie a quelli come lei se continuano a trattarci come imbecilli. E poi il taxi sarà pure suo ma se dice delle stronzate di fronte a me ho il dovere di farglielo notare. Imbecille!»
«Se non le va bene quello che penso se ne può pure scendere qui!»
«Ah, certo! Ma io non solo scendo qui. Io non la pago!»
«Come ha detto?!»
«Che non la pago. Ha capito benissimo. Fermi immediatamente questo cazzo di taxi!»
Il taxi inchioda in mezzo alla strada.
Serapio si paralizza. Sta pensando. Sguardo nel vuoto. Con voce calma, come se fosse rinsavito di botto, chiede: «Per caso lei ha una pistola?»
«Come?»
«Le ho chiesto se ha con sé una pistola.»
«…No…»
«E allora se ne vada a fare in culo e io non la pago.»
Apre veloce la portiera, scende e si mette a camminare rapido in mezzo alla strada.
Io non credo a quello che sto vedendo. Cazzo, non siamo in un film di Tarantino. Queste cose semplicemente NON succedono nella vita vera.
Per qualche secondo rimango immobile sul sedile posteriore di un taxi Tsuru rosso e oro fermo in mezzo alla strada con uno sportello aperto. Poi mi catapulto fuori dalla macchina e correndo raggiungo Serapio che continua a borbottare.
In effetti avevo proprio voglia di sgranchirmi le gambe!
Dove cazzo sono finito?

***

Il sonno tarda ad arrivare. E insieme al sonno calano sogni confusi, storti. Ho accumulato parecchia ansia nelle ultime settimane. E la notte trovano sfogo nell’attività onirica.
Sto viaggiando da solo nel sud della Francia. Guido a casaccio la mia Panda rossa verso la Camargue. Sono felice. È estate. Nella radio Le vent. Io guido e canto.
Si par hasard,|sur l’Pont des Arts |tu crois’s le vent, le vent fripon |prudenc’ prends garde à ton jupon.
Si par hasard, | sur l’Pont des Arts | tu crois’s le vent, le vent maraud | prudenc’ prends garde à ton chapeau.
Il vento entra nella macchina e fuori ci sono fenicotteri rosa. Mi sporgo a guardarli. Lagune, cavalli. In macchina c’è qualcuno oltre a me. Mi giro per vedere chi mi siede accanto, ma non riesco a vedere il suo viso. C’è una persona seduta a fianco a me. La vedo. Sento che so chi è. Ma non ho coscienza di chi sia. Non ho paura.
Les Jean-foutre et les gens probes | médis’nt du vent furibond | qui rebrouss’ les bois |détrouss’ les toits | retrouss’ les robes.
Des Jean-foutre et des gens probes | le vent, je vous en réponds | s’en soucie, et c’est justice comm’ de colin-tampon.
Siamo a Sète. La città di Georges Brassens. In un ristorante di pesce. Siamo felici e ci abbuffiamo di frutti di mare e vino e si ride e si canta. Ci abbracciamo. Metto la faccia nel suo collo. È una donna. I capelli ricci e vaporosi. Affondo il mio viso nel suo profumo. Nei suoi capelli. Chi sei?
In un bar un uomo che somiglia a Brassens sorseggia un bicchiere di pastis 51. parliamo. Cantiamo con lui. Ci dice che in cima alla collina c’è un parco meraviglioso da dove si vede tutta la città. E il mare. E la notte.
Il parco è deserto. Stendo una coperta sull’erba.
La mia mano stringe la tua. Lauréda. Non riuscivo a vederti. Eri così lontana. E ora sei qui e mi dai la mano. Finalmente vedo e sono consapevole delle tue labbra. In piedi di fronte a te. Riconosco il neo sul tuo viso stupendo. Avvicino la mia bocca alla tua. Sento il profumo caldo del tuo respiro. Chiudo gli occhi e sciolgo la presa della mano. Solo il tempo di riannodare le mie braccia intorno alla tua vita. Appoggio piano le labbra sulle tue. La punta della mia lingua ti cerca. Incontra la tua lingua. La accarezza. Ti stringo a me. Le tue mani salgono sul mio collo per stringere il mio viso più vicino al tuo. Per guardarmi negli occhi. Ti vedo. Sei tu. I tuoi occhi neri come le perle di Tahiti, dove sei cresciuta. Ora sento il tuo seno sul mio petto, le mie mani sui tuoi fianchi cercano la tua pelle. Ti sfilo il vestito estivo. Sei nuda. Riconosco le curve del tuo corpo, la tua pelle è di nuovo per me. La mappa dei tuoi nei, le cicatrici, l’odore che non sono riuscito a scordare. Sei tu a spogliare me, come amavi fare. Stesi sulla coperta. Percorro il tuo profilo dalla spalla al seno. La mia mano è nata per toccare il tuo seno, l’aureola scura dei tuoi capezzoli. Scende sul fianco. Ti bacio. Mi baci. Ho bisogno del tuo sapore. La mia bocca è nata per posarsi sulla tua. Lecco il tuo collo, assaggio le tue spalle, mi nutro del tuo petto, le mie mani ormai incapaci di fermare il loro viaggio raggiungono il tuo sesso, dischiuso, umido, caldo. E tu cominci ad ansimare. A cercare il mio collo. Ti stringo, devo toccare più pelle, devo sentire più odori, più sapori, più calore. Mi chino sulla tua pancia liscia, la mordo piano, con la mano e la bocca cerco e accarezzo il clitoride. Tu gemi, in estasi. Apro le tue gambe e mi immergo nella tua vagina ormai bagnata. Ti bacio ti assaporo ti respiro mi perdo. Restare tra le tue gambe. Un sussulto leggero e regolare comunica il tuo piacere. Le tue mani mi accarezzano la testa mentre ti lecco. Mi tirano su. Vuoi che entri in te. Voglio entrare in te. Amore mio. Il mio sesso diventa me. Non sono più un uomo. Sono tutto contenuto in una parte di me. Sono io. Che devo entrare in te. Nel tuo calore morbido e bagnato. Ti penetro. Per un attimo è tutto fermo. Ora insieme ci lasciamo trasportare dal piacere. Ora siamo una cosa. Ancora. Ancora. Insieme aumenta il piacere. Insieme ci stringiamo le mani. Insieme ci guardiamo negli occhi mentre siamo una sola creatura che ama, che gode. Insieme urliamo. Vengo dentro di te. A lungo. Cerco di nuovo le tue labbra. Per un bacio ancora.
Mi rimane nelle mani la sensazione della tua pelle. I tuoi capelli ricci. Il tuo odore. L’odore della tua pelle sudata. Mentre ti bacio si alza il vento. Muove le cime dei pini marittimi sulle nostre teste. Muove il mare ai piedi della collina. Sento il tuo respiro calmo.
Mi hai raggiunto fin qui. Perché tu? Dal fondo del mio passato. Dal fondo del mio cuore. Dall’altra parte dell’oceano ho portato solo te. Ho voluto solo te nei miei sogni. Ho scelto solo te.
Bien sûr, si l’on ne se fonde | que sur ce qui saute aux yeux | le vent semble un’ brut’ raffolant de nuire à tout l’monde | mais une attention profonde | prouv’ que c’est chez les fâcheux | qu’il préfèr’ choisir les victim’s de ses petits jeux
La Camargue svanisce col vento.
Mi sveglio in lacrime. Sono troppo pieno di te.
Devo fumare una sigaretta. Giro piano il tabacco nella cartina. Appoggio il filtro. Chiudo leccando la colla della cartina. Accendo. Guardo la brace rossa mentre aspiro il fumo. Piano.
Respiro.

Le conseguenze delle proprie azioni. VIII.

Questa dunque è la paura?
Mi hanno visto? Sicuro mi hanno visto.
La consegna avviene davanti ai miei occhi.
In fondo a destra.
In fondo a destra.
Come sempre, porca troia!
Il bagno dove sta? Dove cazzo vuoi che stia?
Sta in fondo a destra!! Sempre. Anche in Messico. Derecha.
DE RE CHA.
Non ti puoi sbagliare.
Io invece arrivo in fondo e vado a…?
Izquierda.
IZQUIERDA suona proprio diverso.
Per non farmi i cazzi miei.
La porta è socchiusa e vedo dentro. Due persone. Una persona, anzi. Che parla con un’altra nascosta dalla parete.
In mano ha un sacco nero dell’immondizia.
È un ragazzo.
Avrà trent’anni.
Vestito casual.
Ai piedi un paio di Adidas Samba, come le mie.
Jeans, una maglietta bianca e una felpa con cappuccio e le maniche tirate su.
Oddio non proprio casual. Più come me che casual.
Occhiali e espressione fissa.
Potrei essere io. Mi somiglia quasi.
In mano la busta di plastica e sul braccio un tatuaggio.
Un simbolo.
Una svastica?
Una stella di David?
No. Che cazzo è?
E perché io non mi tolgo da questa cazzo di porta e non vado a pisciare nella portainfondoadestra?
Non ci riesco. Devo vedere che cazzo succede. Lo devo fare altrimenti IO MUOIO. C’è puzza di marcio qui.
Oltre che di merda stantia che arriva dal cesso di fronte.
Il ragazzo sta parlando a bassa voce con l’uomo nell’ombra.
Fa segno di sì con la testa.
Si dice annuisce.
Annuisce.
Poi caccia una mano nella busta.
Acchiappa qualcosa in fondo. Tira su piano. Fa uscire solo un pezzo di…
Che cazzo è? UNA TESTA UMANA??
Porco dio!
Ha tirato fuori una cazzo di testa umana!!
Solo un pezzo. Per farla vedere all’uomo nell’ombra.
La rimette dentro al volo.
Ho un conato.
Un conato imponente.
Sto per vomitare. Qui.
Ora.
Mi hanno visto PER FORZA, porca puttana.
Mi giro e mi fiondo nel cesso in quella cazzo di porta in fondo a destra.
Ho un tamburo in gola.
Mi batte un tamburo in gola e sa di succhi gastrici.
Una cazzo di testa umana in una busta della monnezza. In questo posto di merda dimenticato da dio.
Mi hanno visto sicuro.
E allora tra mezzo secondo entrano e mi sbragano. Entrano e mi spanzano.
Entrano e mi fanno male come non ho mai sentito.
Allora tra mezzo secondo è finita.
Devo vomitare.
Apro lo sportello del primo gabinetto e ci riverso dentro tutto quello che ho in pancia.
Prevalentemente birra Victoria.
Non è una stella di David, il tatuaggio. Sembra il simbolo della Dharma Initiative di Lost.
Una voce dietro di me.
«Demasiada cerveza, guero?»
Guero vuol dire biondo.
Sono cazzi miei adesso.

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