gabriellicarm.jpgDi Andrea Scarabelli

[Ho intervistato Enrico Gabrielli nell’ambito di un progetto di ricerca più ampio sulla nuova musica italiana. Questo è un estratto del testo, proposto in forma di racconto orale per viva voce del polistrumentista toscano, più che con il classico botta e risposta.] (A.S.)

Vengo da un Ambra, un paese in provincia d’Arezzo di circa mille abitanti. Sono figlio di un impiegato comunale e di un’assistente sanitaria in casa di riposo, nipote di muratori da entrambi i lati. Per questo ho sempre nutrito una specie di complesso nei confronti della manovalanza: a volte mi sembra di non saper fare niente di concreto. Intraprendendo una strada diversa mi è sembrato di perdere una parte di eredità culturale, ma a dirla tutta l’ho anche rifiutata: ad Ambra non c’era nulla, zero possibilità. Mio padre era comunista molto attivo: faceva comizi, portava avanti il punto di vista del partito. Mille difficoltà. Mi sembrava tagliato fuori dalla storia. Però mi è rimasto il ricordo di personaggi leggendari della mia infanzia, come Andrea Gaggero, un prete rosso ligure a cui poi furono tolti i voti.

I miei genitori nel 1975 erano stati in viaggio di nozze in URSS, con una comitiva di compagni, ed erano tornati dalla visita con un enorme e pesantissimo mezzobusto in ghisa di Lenin. Pesava uno sproposito. L’aveva messo sull’armadio a vetri in cui c’erano i biscotti, e da bambino avevo provato ad arrampicarmi per raggiungerli, ma così facendo avevo rovesciato il busto che era finito per terra accanto a me. Mio padre s’era preso un colpo. La scena era questa: suo figlio a terra, ignaro di tutto, con accanto la micidiale testa di Lenin conficcata nel pavimento. Forse, se fossi morto nell’incidente, avrebbe avuto una conversione tipo Lindo Ferretti… Agli inizi degli anni novanta il Pci passò a Pds e questo periodo coincise con una crisi profondissima della mia famiglia. Mio padre non rinnovò la tessera e gettò il busto in un cassonetto.
Non ho mai ascoltato musica pop negli anni ottanta. Mio padre mi faceva ascoltare spesso musica sinfonica russa: Shostakovich, Borodin… un sacco di Borodin. E poi anche folk americano: soprattutto Bob Dylan e Neil Young. Tra gli italiani girava Ivan Della Mea in casa, in particolare Il rosso è diventato giallo. Ironicamente a mia madre piaceva Battisti, ma mio padre non lo sopportava.
Ad Ambra però cominciato a suonare in banda, c’era il boom delle filarmoniche di paese. Avevo tredici anni e la banda contava un’ottantina di elementi su neanche mille abitanti, una cosa mai più ripetutasi. C’erano tutti: ragazzi, bambini, vecchi. Perfino i miei genitori: mio padre suonava il trombone a pistoni e mia madre il flauto. Il maestro della banda era un laido uomo di settantadue anni col gozzo, tale Lido Campani, che neanche sapeva suonare troppo bene. Era clarinettista e insegnava tutti gli strumenti senza conoscerli. Mi diceva che avevo stoffa, ma io non ci capivo niente. Avevo un clarinetto cinese, il mio ricordo più cupo riguarda una marcia funebre a cui dovevamo suonare, ero tutto magro e piccoletto, avevo lo spartito attaccato sotto, tolsi la mano e la metà inferiore del clarinetto cadde in un tombino… fu un trauma. Continuai a marciare con gli altri, facendo finta di suonare. Diventò un incubo ricorrente, quello della banda che partiva senza di me. Non era un bel periodo: i compagni mi martoriavano, loro iniziavano ad avere successo anche con le ragazze e io niente… in quegli anni mi è salito un gran desiderio di rivalsa. Compiuti i diciotto sono scappato, anche se ho fatto il liceo musicale ad Arezzo, la situazione non era di molto migliore… però in classe ho conosciuto due dei futuri Mariposa, il cantante e il tastierista.
Mi sono trasferito a Milano nel 1995 perché era lontana; non conoscevo nessuno, non ne sapevo nulla. La sera prima della partenza in Tv davano Romanzo popolare con Tognazzi e Ornella Muti, per cui Iannacci ha scritto Vincenzina e la fabbrica, e ho pensato: “Ma dove diavolo sto andando?”. Lì sono entrato nel delirio degli studi classici, ci ho messo il massimo dell’applicazione possibile, è stato quasi un incubo per quanto ho faticato.
A partire dal 1999 ho iniziato ad abbandonare la classica, molto gradualmente. Fino al 2001 facevo parte di un’orchestra austriaca stagionale, d’estate, facevamo musica sinfonica tedesca sotto la guida di Gustav Kuhn, un allievo di Karajan. Suonavamo soprattutto Wagner, Bruckner, Mahler… robe poderose, molto poderose. Avevo co-fondato anche un ensemble di musica contemporanea chiamato Risognanze, da cui fui buttato fuori per un ritardo di quarantacinque minuti. La psicopatologia del musicista classico è molto peggio di quella di qualsiasi rockstar, perché queste ultime mantengono comunque una sorta di aderenza con la realtà, mentre i musicisti classici di alto livello sono quasi tutti scacchisti, hanno quel tipo di paranoia lì…
Non sapevo nulla della scena pop. Il progetto dei Mariposa è partito perché mi sono ritrovato con i compagni del liceo che mi hanno coinvolto in questo gruppo fondamentalmente nonsense, una specie di cabaret punk. All’inizio eravamo due tastiere, fiati e voci. Non so spiegare questa svolta, ma mi divertivo. Tanto.
La band è cresciuta fino a diventare di sette elementi, e noi abbiamo sempre lavorato in modo assembleare, come un collettivo. Penso che siamo stati i primi in assoluto a fare, nel 2004, un disco solo per la rete interamente scaricabile gratis. Nessuno di noi era un maniaco del web, ma ci siamo resi conto, facendo un disco con Santeria, che le etichette erano in crisi, così abbiamo provato a bypassarle. Al Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza, quell’anno, abbiamo portato l’operazione “Fotocopia e masterizza”: al nostro stand c’erano solo una macchina per fotocopie e un masterizzatore, e permettevamo a chiunque di duplicare tutta la nostra produzione, a offerta libera. Eravamo (e siamo) estremamente elastici rispetto al concetto di copyright e questo era il nostro modo per dimostrarlo.
I Mariposa sono stati il perno attorno a cui ha ruotato e ruoterà sempre tutta la mia produzione artistica. Totalmente underground, con progetti che si sono rivelati precursori di sviluppi futuri. Per esempio nel 2005 facemmo un album molto politico, Pròfitti now!, che rivendicava il diritto di satira. Un doppio concept album, una raccolta di conferenze sulla musica componibile, che già di per sé è un paradosso: tutta la musica lo è. Alternavamo discorsi di personaggi della scena musicale, che parlavano a braccio di questo concetto paradossale, a brani purtroppo ancora oggi molto attuali, come Forza musica. Era un pezzo che si ispirava all’estetica di Forza Italia, l’inno di un gruppo musicale che si faceva leggi ad personam… Purtroppo ancora non riusciamo a farla passare di moda. Il paese è reale degli Afterhours parte dallo stesso concetto, anni dopo: fotografare una presunta o assente scena musicale italiana. Siamo riusciti a inquadrare un decennio che secondo me è finito incredibilmente con il capodanno tra il 2009 e il 2010. Gli anni novanta, da un punto di vista musicale, sono terminati intorno al 2003. Nel 2002 per esempio c’era ancora molto post-rock, nei dischi degli Yuppie Flu, Julie’s Haircut, Giardini di Mirò… Si richiamavano a gruppi completamente anni novanta, come i Godspeed You! Black Emperor o i Mogwai. Tutti figli dei Sonic Youth, in un certo senso. Tuttora in Italia non ci si può discostare da grandi riferimenti come i Massimo Volume. Bologna era la città per eccellenza della controcultura, ancora più che Milano, con gruppi che facevano avant-gard jazz, c’era il Festival Angelica, il Tpo, la Scuola Popolare di Musica Ivan Illich, la scena elettronica del Link, ma la loro forza è finita insieme agli anni novanta.
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Avendo iniziato ad ascoltare popular music molto tardi ho vissuto pienamente gli anni zero, e nonostante quanto si potrebbe pensare per motivi anagrafici non sono figlio della cultura anni novanta. In questo periodo sto cercando di capire quale sia stata la musica del decennio, come inquadrarla. Un fatto mi pare quello della molecolarizzazione delle tendenze, sempre più individuali. Prima c’era un tentativo di ricerca di filoni nella scena, di gruppi affini, ed è venuto a mancare, o forse si è spostato in altri ambienti. Nell’indie rock, se ci fai caso, lo stesso pubblico che va a vedere Dente segue anche Calibro 35 e Teatro Degli Orrori, tre fenomeni che non hanno nessun tipo di nesso. Dieci anni fa si era più legati a un’attitudine musicale, ora è tutto più intercambiabile, o comunque non è legato strettamente alla musica, ma più a interessi individuali, e questo è un riflesso della fruizione attraverso il web. Secondo me questo è ottimo. Ci sono altri aspetti interessanti, per esempio la svolta di internet, che ha reso molto più semplice le cose per i gruppi, dando loro la possibilità di autopromuoversi e organizzare concerti senza passare necessariamente per un booking, spostando molto il ruolo delle etichette. Internet ha dato una spallata meravigliosa alle grandi strutture, ha creato dei vuoti di potere mostruosi, è stupendo. Anche tanti gruppi anche più grossi ora non lavorano più con le major. Le major sono sparite, ormai totalmente fallimentari. Vorrei vedere dei bei fallimenti all’americana, gente che si butta dai grattacieli, magari dal palazzo della Warner di piazza Repubblica a Milano, mi piacerebbe molto vedere qualcuno volare giù. O un auto-sbudellamento alla Mishima. I grossi discografici, si sa, sono responsabili di tantissimi errori, troppi.
Un altro aspetto interessante è che il circuito live si è rinnovato, il giro dei palazzetti è stato rimpiazzato da strutture che appartengono in pieno alle mie origini e alla mia formazione culturale: gli Arci. Luoghi che fino a poco fa erano i ritrovi dei compagni. I nuovi Arci, quelli veri, sono gestiti da un gruppo di ragazzi che creano una programmazione che non è il frutto di una testa soltanto, come per esempio accadeva nei club, in cui decideva tutto il proprietario, soprattutto in base all’aspetto economico. Negli anni novanta ce ne erano moltissimi di successo, oggi pochissimi sono sopravvissuti… In tutto ciò bisogna anche considerare che i centri sociali, che sono stati un’esperienza fondante della cultura italiana negli anni novanta, oggi sono in crisi, a partire dal loro anno zero, ovvero il 2001 con il G8 di Genova. Da un lato c’è poco ricambio nei collettivi, dall’altro le menti migliori fanno famiglia e abbandonano l’impegno… e la programmazione spesso non si rinnova. In qualche strano modo gli Arci, qualcosa di apparentemente decrepito in quanto luoghi di una sinistra istituzionale, sono riusciti a diventare il palcoscenico della nuova scena musicale, che ha comunque una precisa vena critica. E proprio ora che del Pci non c’è nemmeno più il ricordo, il Pd non esiste, il passato ha trovato un modo di rigenerasi. Questo forse perché questi palchi offrono di una buona via di mezzo tra impegno politico e divertimento individuale. Certo c’è chi se ne approfitta, per via dei benefici economici. Spero che costoro crepino presto di soldi.
Con i Mariposa abbiamo appena pubblicato un pezzo, scaricabile gratis, Sanremo, in perfetto stile sanremese più di qualsiasi altra canzone in concorso. È ispirato a una storia vera: una signora anziana, malata di gioco d’azzardo, passa tutto il tempo alle slot machine di Sanremo, durante il festival, fino a morire di arresto cardiaco. La nostra idea di paese reale… cioè interamente drogato, dopato di gioco d’azzardo, gossip e plastica, in cui l’utilizzo di certe droghe, cocaina über alles, è trasversale e accettato. Paradossalmente, le controculture ora sono molto più sobrie. La controcultura oggi vuole pulizia, quando invece quella di Andrea Pazienza e i suoi personaggi desideravano violento autolesionismo. Questo in relazione all’esercito del Sert di Vasco Brondi, con cui ho suonato l’estate scorsa. Questo ragazzo in qualche modo ha chiuso la porta del decennio, gli è stato appiccicato un ruolo di alfiere di una generazione che lui non ha mai chiesto. Certo, è spuntato fuori all’improvviso in un periodo in cui c’è stato un grosso rigurgito di protesta giovanile, lasciando enorme impatto nell’immaginario collettivo dei giovanissimi, fornendo del materiale nuovo di protesta, dopo tanto che mancava.
Mi rendo conto che il mio ruolo possa sembrare molto ambiguo, perché suono davvero con moltissimi artisti, sono iper-presenzialista, e questo va completamente contro il concetto di atomizzazione di cui parlavo prima, è un contrasto molto interessante. Mi sono trovato da un paio d’anni a fare da trait d’union tra realtà molto diverse. Da ognuna imparo moltissimo, e spesso questo è l’unico tipo di compenso: lo scambio e il reciproco arricchimento. Però non sono il solo, appartengo a una categoria molto strana che prima non esisteva, ma deriva da quei personaggi che negli anni sessanta firmavano moltissime incisioni. Per esempio Reverberi, Morricone, Bakalov, Bardotti: erano pochi, completavano il prodotto artistico con delle competenze che spesso gli artisti non avevano. Il mio ruolo di arrangiatore s’inserisce in questa tradizione ma ha elementi nuovi. Resto comunque un tecnico, anche se spesso vengo integrato nei progetti come fossi un membro a tutti gli effetti. Poi le relazioni finiscono, come quella con gli Afterhours, ma non sono traumi, è giusto e naturale.
L’esperienza con i Calibro 35 è diversa: siamo nati nel luglio 2007 partendo da zero, a differenza di quella con i Mariposa, che aveva radici profonde. Questo ci ha messo le ali, il nostro percorso è stato frenetico, un po’ come la musica che facciamo. Il merito principale di tutto ciò va a Tommaso Colliva, che ha stabilito subito delle linee molto chiare che ci hanno permesso di avvicinarci. C’era pochissimo di cui discutere e molto da fare. All’inizio pensavo fosse un’operazione estemporanea con un pubblico ben definito di appassionati del genere, e non mi sarei mai aspettato che potesse raggiungere così tante persone. Non si fanno più poliziotteschi, non c’è più quella fioritura del cinema indipendente e anche di serie B come quello italiano degli anni ’70. Il loro immaginario, per molti versi, poteva addirittura essere considerato di destra: armi, omicidi, malavita, vendetta privata, donne oggetto… Però a indagare bene si scopre che Banditi a Milano è di Lizzani, che ha fatto anche Kapò, ed è uno dei più grandi registi viventi di formazione socialista… Ma la vera trasformazione nella percezione del grande pubblico è stata portata da Tarantino nel cinema, e da Mike Patton e John Zorn nella musica. Il progetto dei Calibro è vicino a quello spirito, il nostro legame con quel mondo deriva da Tommy, che è stato un hip hopper graffitaro, e quelle controculture ha attinto a piene mani dal funk di cui sono intrise queste colonne sonore. C’è un legame diretto tra la cultura di strada e i Calibro 35, che riescono a unire chi proviene dal punk, dal metal o dall’hip hop. E, come me, che vengo dalla maledetta musica classica. Dal vivo invece noi abbiamo soprattutto un’attitudine punk, perché siamo un gruppo grezzo, facciamo dei soundcheck brevissimi, registriamo i dischi dal vivo. La nostra filosofia è: “attacca il jack e suona”. Nel live utilizziamo anche vari elementi scenografici, come videoproiezioni e campionamenti dai film, impiegate più come détournement che come semplici citazioni. Inoltre, adesso un musicista che intende davvero raggiungere pubblico deve agire a 360 gradi, curare la comunicazione della propria musica collaborando con ambienti diversi, dagli illustratori ai video maker, ora che non c’è più il filtro pesante delle etichette. Nel disco nuovo, appena uscito, rispetto al primo c’è un passaggio evidente: più della metà dei pezzi sono composti da noi, non cover, e abbiamo eliminato qualsiasi traccia vocale.
Infine c’è il mio progetto solista, con cui ritorno proprio da dove sono partito. Se mio padre e mio nonno erano muratori, con questo disco, che si chiama appunto Der Maurer, ho cercato di rifarmi: realizzando sovraincisioni per altre realtà discografiche dalla mattina alla sera, ho pensato che ne avrei potute fare qualcuna anche per me stesso. Suono soltanto io, sovrainciso. È un Volume 1 a cui ne seguiranno altri, sempre di repertorio colto contemporaneo, e sarà reperibile solo su internet, scaricabile gratuitamente a partire da Aprile. Le illustrazioni sono di Martina “P0na” Merlini. Mi piacerebbe portare questa musica tra chi non ascolta generalmente queste cose. E spero che questo genere di progetti vengano portati avanti anche da altre persone che magari hanno una formazione simile alla mia, o magari no. Il primo è un brano di Steve Reich, New York Counterpoint, del 1985, che è stato concepito per 10 clarinetti e uno live, 11 in totale. Steve Reich è uno degli esponenti più importanti del cosiddetto minimalismo americano. Assieme a Terry Riley, La Monte Young, Philip Glass, Gavin Bryars, e gli stucchevoli Michael Nyman e Wim Mertens, c’è, appunto, Steve Reich, che forse è, a prescindere dal minimalismo, uno dei più importanti compositori dello scorso secolo. La musica elettronica ha attinto a piene mani dalle sue elucubrazioni.
Un altro brano, Matematica Naif, è mio: l’avevo scritto nel 2001 per un concorso indetto da un ensemble olandese elettroacustico di dodici esecutori, gli Icebreaker. Lavoravo con carta millimetrata e grafici, tentando un approccio molto scientifico che poi ho perso perché di scientifico in me c’era ben poco. Un altro è un brano di Giovanni Gabrieli, uno dei primissimi autori di musica antifonale (ovvero di botta e risposta) strumentale, ed è del 1596, quando a Venezia c’era anche quel geniaccio di Monteverdi. La basilica di San Marco è uno degli esempi di ambienti dediti agli esperimenti stereofonici più vecchi che io ricordi. Anche Vivaldi ha scritto diversi lavori in questo senso: la basilica ha molti anfratti e nicchie in cui disporre i vari gruppi della compagine. Lo stesso concetto di Concerto Grosso, ovvero un ensemble con un’orchestra e un piccolo gruppo di strumenti che rispondono, deriva direttamente da quello di musica antifonale. Erano sistemi semplici e artigianali per creare dialettica e meraviglia.
Infine, il brano che rende meglio il senso di questa operazione è Worker’s Union di Louis Andriessen, un importante compositore olandese. Si tratta di una composizione del 1975 per gruppi di strumenti gravi che devono suonare sempre insieme e quasi sempre omoritmici dall’inizio alla fine per tutta la durata del lavoro (che è di circa quindici minuti). È una partitura ritmica, non c’è melodia, solo una linea che marca genericamente il grave, il medio e l’acuto. È molto rognosa ma dà un senso di potenza incredibile. L’idea concettuale alla base è quello della massa che suona insieme, lavorando insieme, superando le difficoltà che si presentano lungo un percorso arduo. Worker’s Union è l’ultimo brano di Der Maurer, vol.1, progetto in cui io finalmente sono un muratore culturale e un operaio di concetti. Ecco chiuso il cerchio con la tradizione di famiglia.