di Chiara Vozza

Voghera.jpg[Questo racconto è ambientato nei primi anni Ottanta. E’ solo un frammento di un immenso affresco che comincia e finisce dove cominciano e finiscono le istituzioni totali, in qualunque epoca, in qualunque luogo. Un affresco sconosciuto ai più, soprattutto a coloro che ne invocano la riproduzione infinita.]

“Cammina, puttana”.
Non ha nessun motivo lo sbirro, né di incitarmi né di insultarmi.
Fuori dalle sezioni, corridoi deserti verso la sala colloqui, e certo che cammino, che altro potrei fare? perché non dovrei camminare, sto andando a incontrare persone che amo.

Mi volto a guardarlo, ma di uno sguardo interrogativo mi accorgo d’un tratto: non duro, non minaccioso, non sarcastico – interrogativo. Gli sto chiedendo con gli occhi: perché insultarmi?
Ed è completamente fuori luogo il mio stupore, come perché?
Perché siamo in galera, perché io sono una detenuta per di più po-li-ti-ca e lui uno squadrettaro picchiatore di lungo corso, perché siamo a Voghera, “Il supercarcere più sicuro di Stammheim! l’unico carcere femminile in Europa con questi standard di sicurezza!” come pubblicizza la Premiata amministrazione penitenziaria in tutti i depliant che quasi ti senti un po’ orgogliosa di esserci, insomma, prescelta per essere una delle cento fanciulle più assicurate d’Europa.
Ma il fatto è che l’immagine registrata dalla mia retina mentre guardo lo squadrettaro picchiatore è assolutamente inedita per me: vedo un umano.
Un membro della mia stessa specie.
Per la prima volta dopo anni di puttana di qua e puttana di là, non è una ‘bestia’ quella che vedo – ché così chiamavamo abitualmente quelli delle squadrette, senza neanche particolare intento offensivo ma proprio a constatare differenza di specie, “le bestie hanno pestato le compagne a…”, “occhio, arrivano le bestie”.
E invece no.
La ‘bestia’ ha la mia stessa struttura genetica – umano come me perdìo come me.
E’ un capogiro, un orrore, uno spavento.
Ecco cosa intendeva in realtà Gesù di Nazareth quando ha detto ama il prossimo tuo come te stesso: riconosci nell’altro la vostra comune umanità. Come potremmo odiarlo, altrimenti, l’altro, se non lo riconoscessimo come nostro simile? Si è mai sentito di un umano che ‘odia’ un animale, a meno di non umanizzarlo appunto?
BANG. Mi esplode nella testa: la nostra comune umanità (attenzione-attenzione-allarme, pericolo-sindrome-coatta, si comincia con Gesù e si finisce a scrivere poesie sugli uccelli…).

Blindate nelle gabbiette del blindato schiavettoni ai polsi, era stata lunga la strada da Palmi a Voghera, con intermedio deposito delle detenute al transito di Rebibbia – la particolare inquietudine che destano le sezioni di transito, sei in quel carcere ma non ci sei, sei esclusa dal conteggio delle unità detenute, la tua roba sta in un posto diverso dal cubicolo dove hanno chiuso te, in attesa della nuova scorta che non si sa quando sarà disponibile, e fuori dai meandri segreti della burocrazia penitenziaria nessuno sa dove ti trovi, e se ti dimenticano lì (sindrome dell’Abate Farìa)?
L’arrivo a Voghera è plumbeo.
Non lo sappiamo dove siamo, dall’interno del blindato non si vede nulla, salvo complesse operazioni di parallasse tra quel particolare buchino nella parete metallica della gabbietta (no, non ci hanno messe in gabbiette rotte, i buchini li hanno fatti apposta, per ragioni umanitarie, così abbiamo una chance di respirare) e quel particolare intervallo tra una sbarra esterna e un’altra; però il plumbeo filtra all’interno, si espande, dà un colore alla semioscurità in cui siamo immerse: un colore plumbeo.
Perfetta ouverture della sinfonia che seguirà.
Il rituale d’ingresso è lungo, minaccioso — sentiamo incombere, anche, il vuoto di quelle migliaia di metri quadri di metallo e cemento, si sono dimenticati i rinfreschi ma questa è l’inaugurazione, siamo le prime ospiti di questa meraviglia della supersicurezza.
Perquisizione.
Non si limitano a tastarci con la solita minuziosa professionalità, un ordine secco: si spogli.
Mi guardo intorno: stanza nuda, capoguardiana con la faccia sadica, subalterne allineate due passi dietro, guardie non se ne vedono ma ne ho viste schierate abbastanza prima di varcare la soglia e, soprattutto, il nulla che incombe.
Non è aria.
Mi spoglio.
Lentamente, ostentatamente, come su un palcoscenico, sorriso accennato, sguardo fisso negli occhi della sadica.
Si impadroniscono dei miei vestiti e della mia biancheria, li portano via, ma non basta.
Arriva il secondo ordine: allarghi le gambe, tre flessioni.
Eh no, questo no. Lo dico: no.
“Preferisce la visita ginecologica?” sorride la guardiana capo “il ginecologo è già pronto”.
Compare un uomo in camice bianco.
Ginecologo?
I pantaloni che sbucano dal camice sono verde militare.
Lo faranno? Lo faranno davvero?
In quel momento sono sicura di sì.
Per via del vuoto, di questo luogo sorto dal nulla nella nostra geografia carceraria, non ne abbiamo mai sentito parlare – per via della domanda di ghiaccio che mi si scalpella nella testa: chi lo sa che questo posto esiste, chi lo sa che siamo qui?
Osservo la capoguardiana. E’ quasi raggiante. Di piacere, di aspettativa.
Le subalterne non hanno espressione.
Va bene. Lo dico: va bene.
Il ‘ginecologo’ scompare.
Allargo le gambe. Tre flessioni, poi sorrido, guardo la sadica, “Ne faccio altre tre? Così, per divertirci, tanto non servono a niente. Potrei avere qualunque cosa dentro, non uscirebbe. Non dalla mia vagina. Dalla tua sì, vecchia sfatta, ma non dalla mia”.
Cosa ho detto cosa ho detto come ho potuto usare come un’arma la giovinezza del mio corpo contro la vecchiaia del suo – mi spingono sotto una doccia mi danno un pezzo di sapone mi osservano rabbrividire sotto l’acqua gelida – ma perché se cinquant’anni li avessi avuti io e ventidue lei sarebbe stata forse meno ignobile — non riavrò i miei vestiti nessuna di noi li riavrà ci danno invece una specie di inverosimile divisa marroncina da povere orfanelle che se c’era Antongiulio Majano ci scritturava subito – quella squallida donna godeva dell’umiliazione del mio corpo e tutto quello che io ho saputo fare per reagire è stato umiliare il suo — ci rinchiudono nei cubicoli una alla volta queste assurde calze continuano a crollare sulle caviglie – come ho potuto umiliare me stessa abbassandomi a infliggere a lei quel genere di umiliazione — non so che ore sono non lo sa nessuna ci hanno tolto gli orologi sono distrutta ma continuo a camminare febbrilmente avanti e indietro per i tre metri di lunghezza del cubicolo – sono sicura che quando ho visto il suo ghigno sadico raggelarsi davanti all’ostentazione spavalda della mia giovinezza per un attimo il mio sguardo è stato identico a quello che aveva lei fino a un momento prima. Non voglio. Non voglio diventare così. Non gli permetterò di farmi questo. Dipende da me. Non lo permetterò.

“Chiuda il cancello”. “Cosa? “Chiuda il cancello”.
Dunque: i cubicoli hanno un cancello e una porta blindata. Stiamo tornando dall’ora d’aria (che sospettiamo sia stata decurtata di almeno dieci minuti, ma non abbiamo orologi, il tempo non è misurabile), man mano che rientriamo nei cubicoli le guardiane dicono: “Chiuda il cancello”. A noi. Che siamo le detenute. Ci stanno ordinando di chiuderci dentro. Con le nostre stesse mani.
Siamo del tutto impreparate, non c’è tempo di pensare, tantomeno di discuterne per decidere come comportarci, ma reagiamo d’istinto, ci rifiutiamo.
Il balletto sincopato della risalita dall’aria si ferma all’istante.
I cancelli automatici che scandiscono ogni passaggio — tra l’uscita dai cortili dell’aria e l’inizio dei corridoi che portano alle scale, tra la fine dei corridoi e l’inizio delle scale, tra una rampa e l’altra delle scale stesse, tra la fine delle scale e il corridoio della sezione, ogni passaggio due cancelli, il secondo si apre solo dopo che si è chiuso il primo, una detenuta alla volta (scomodo ma sicuro, a prova di rapinatori) — vengono bloccati, ogni due cancelli sta bloccata una detenuta.
I toni in sezione si alzano: le guardiane alzano la voce perché minacciano sempre più concitate, le detenute urlano per far arrivare alle altre pedine bloccate nel giro dell’oca il riassunto di quello che sta accadendo.
Ma alla fine la situazione è ingestibile.
Per la custodia dico, ché a noi ci sta montando il delirio di potenza.
Cazzo. Abbiamo bloccato la Macchina.
Da quanti giorni, da quante notti stiamo girando intorno alla nostra totale impotenza, al nostro smarrimento, all’annichilimento di essere completamente in balìa di una Macchina di cui ancora non siamo riuscite a comprendere appieno il progetto né il funzionamento?
L’abbiamo bloccata per caso, in realtà, nessuna strategia, solo caso e istinto immediato, ma in fondo è questo l’aspetto più elettrizzante.
E adesso smarriti sono loro. Impotenti.
In teoria potrebbero mandar su la squadretta. Che però sarebbe costretta a passare per gli stessi passaggi dove stanno bloccate le detenute — le pericolose detenute – e quindi portarsele su, in una sezione dove ci sono già altre due pericolose non rinchiuse perché loro non si rinchiudono e le guardiane hanno sbagliato i conti. E questo significherebbe contravvenire al primo comandamento della Fortezza, quello che regola tutto il suo funzionamento: mai, assolutamente mai, deve trovarsi più di una ‘terrorista’ (debitamente scortata) nello spazio ‘aperto’ del corridoio di sezione.
Alla fine le guardiane devono cedere. Chiudono loro i cancelli, poi le porte blindate. Più forte sbattono, più assaporiamo la loro sconfitta.
Naturalmente non finisce qui.
La rappresaglia continua per un pezzo.
Le luci delle celle rimangono accese anche di notte, sempre di notte dall’altoparlante della radio murato in ogni cubicolo esplode improvvisa musica disco a tutto volume, e le guardiane ci urlano continuamente insulti dal microfono del loro gabbiotto, collegato a un altro altoparlante murato in ciascuna cella; e il carrello del pranzo rimane fermo per ore nel corridoio, finché è tutto freddo ma tanto faceva schifo anche caldo, e si ‘dimenticano’ di distribuire la cena, e la spesa del sopravvitto figuriamoci se arriva, e poi neanche le sigarette, e quando chiami perché è il tuo turno della doccia le guardiane sono troppo impegnate, “sì sì un momento, arriviamo” cinguettano, finché, sorry, è passato l’orario; e ancora mille sabotaggi quotidiani che si sentono proprio tutti, perché già eravamo alla sopravvivenza e ogni piccola cosa che ci tolgono pesa davvero, ma non cediamo.
Continuiamo a rifiutarci di chiuderci in cella da sole (in realtà ci stiamo divertendo: con le occhiaie fino agli zigomi, affamate, in crisi d’astinenza da nicotina e pure un poco fetenti, ma ci stiamo divertendo – le guardiane invece alla fine sono così isteriche che ci fanno quasi pena, poverette).
E sono loro che cedono, alla fine. Definitivamente.
Il primo giorno che non ci provano neanche, chiudono loro e basta, si sente crescere l’eccitazione, gradualmente, un cancello dopo l’altro. E cominciano i commenti gridati, i sarcasmi rimbalzano attraverso le porte blindate, “avete deciso di guadagnarvi la paga finalmente?”.
Finché una voce sopra le altre riassume l’esito dell’epica battaglia: “Compagne! Abbiamo vinto! Siamo riuscite a farci rinchiudere!”.
Un attimo di silenzio cosmico, e poi l’esplosione: stiamo ridendo. Tutte insieme, senza ritegno, a voce spiegata.
Dopo lo smarrimento, e neanche uno specchio per riconoscerci, dopo l’isolamento della posta bloccata e dei colloqui ostacolati, dopo l’impotenza come una nemesi per le donne che avevano osato sfidare gli dei, stiamo ridendo. Tutte insieme.
Stiamo ridendo. Siamo salve.