di Enzo Fileno Carabba

Vincigliata.jpg2 – IL NATALE DELLE MUTANDE DI LATTA

A dicembre mia nonna disse che per Natale intendeva regalarmi delle mutande di latta. Abbassò le palpebre, prese quell’aria assorta e spiegò che mi avrebbero protetto dagli stupratori di Campo di Marte e in ogni caso — anche ammesso che uno stupratore più abile degli altri fosse riuscito a sfilarmele — le mutande avrebbero prodotto un rumore tale da dare l’allarme e qualcuno sarebbe accorso. Io immaginai il rumore delle mutande di latta come un boato assordante, tipo i timpani di un’orchestra sinfonica.
Mia nonna era un vulcano di idee, a volte fondate a volte no. Resta il fatto che in quel periodo riscuotevo un successo straordinario presso i molestatori.

Li incontravo soprattutto a Campo di Marte. Era un mondo a sé. Come ti allontanavi dalla zona protetta in cui stavano tutti — soprattutto le mamme e i bambini piccoli – iniziavano i territori selvaggi, una terra di nessuno fatta di campi incolti dove crescevano erbe durissime, chiazze di asfalto, muretti misteriosi, passaggi segreti, fil di ferro e recinzioni bucate. Tutto questo dentro alla città, appena sotto le colline. I vecchi narravano che un tempo ci crescevano il grano e i papaveri. E io giuro che percepivo la campagna anche sotto le isole di asfalto. Lì si spingevano gli avventurieri ardimentosi come noi.

Un pomeriggio ero da quelle parti, neanche troppo lontano dallo scivolo per la verità, quando mi si avvicinò un individuo che difficilmente avrebbe potuto fare il modello. Esibiva un occhio in mezzo alla guancia, l’altro sguazzava in un liquido giallo come un uovo nell’acquacotta. Mi fa:
Bella la grana, alla tua età, eh?
Io sono un tipo accomodante:
Eh sì, bella la grana.
Non vedevo il motivo per non essere gentile. Lui però voleva avere ragione su tutta la linea e ribadì il punto a cui non avevo risposto:
Bella la grana alla tua età.
Io, sempre squisito, risposi simulando entusiasmo: Ma certo, la grana è bella, alla mia età.
Lui sembrava al sembrava al settimo cielo. Ho già il posto, disse radioso, dondolando quel testone colossale.
Davvero, ha già il posto? Fantastico, dissi. Non capivo che posto fosse. Intuivo che la situazione mi stava sfuggendo di mano.
Lui tergiversò un po’ poi disse, meno gentile: allora, andiamo?
Andiamo dove?
Ho già il posto ripeté lui, come se fosse una spiegazione chiarissima. E aggiunse: dodicimila lire, per una bella cosina fatta bene.
A quel punto capii, a grandi linee.
Fu dopo questo episodio che mia nonna lanciò l’idea delle mutande di latta. Mio nonno che era magistrato avrebbe voluto far arrestare il molestatore, o meglio i molestatori, visto che c’erano stati altri episodi. Mia nonna osservò che comunque dodicimila lire erano pochine per una cosina.
Devo riconoscere che i molestatori non mi facevano troppo paura (quelli che esercitavano l’attività sull’autobus 11, poi, mi facevano ridere) e neanche sono rimasto traumatizzato, almeno non mi sembra, forse per merito di questo atteggiamento sportivo della mia famiglia. Sportivo ma anche grandioso, noncurante, mi sembrava di essere invincibile e di potere tutto.
Per dire: dalle colline alle nostre spalle scendeva il torrente Africo, che tempo prima era piaciuto anche a D’Annunzio, il quale sosteneva che quando le rondini sfioravano l’Africo col petto diventavano azzurre di piacere.
Mio nonno mi disse: senti Nuccio (mi chiamava Nuccio) come regalo per il prossimo Natale non vorresti che facessi scorrere l’Africo sotto terra?
Sì! dissi io. Mi sembrava un’idea magnifica. Anche perché l’Africo, pur non avendo perduto niente dell’antica poesia (io ci andavo a prendere il muschio), non era più pulito come una volta e le rondini rischiavano di rimanerci stecchite se lo sfioravano.
Per il Natale dell’anno dopo l’Africo nel tratto finale era interrato.
Mio nonno mi disse anche che tutte quelle bandiere rosse che sventolavano per il mio compleanno (il primo maggio) erano in mio onore e io ci ho creduto per anni. Non ci vedevo niente di strano.
Mio nonno mi chiamava “il padrone”, e la cosa era particolarmente rimarchevole perché era una persona autorevole e molti ne erano intimoriti.
Però non ero viziato: i miei genitori quando ero molto piccolo mi sistemavano in un cassetto e uscivano a divertirsi, la sera, così si racconta. Una volta al loro ritorno trovarono in casa mia mio nonno che faceva un solitario (me lo vedo che fuma una nazionale col bocchino bianco) e minacciò di denunciarli.
Un’altra volta nei pressi dello stadio (perché dalle nostre parti c’era anche lo stadio) una macchina mi rasentò e quasi mi mise sotto, ero con mio padre, mia madre e il mio amico Nicola. Mio padre partì all’inseguimento di corsa, uno scatto formidabile. Quando tornò non disse nulla, ma sembrava Al Pacino nel Padrino, io ero convinto che il corpo del pirata della strada giacesse da qualche parte, prima o poi avrei ritrovato le sue ossa in un campo attorno, come era giusto.
Riferisco questi episodi per dire che ero convinto di godere di una protezione assoluta, anche se esercitata con somma nonchalance dai membri della mia famiglia. E quindi nei memorabili pomeriggi della mia infanzia vagavo spensierato ovunque, protetto da un’immunità segreta.
Salendo per il bosco di Vincigliata trovavo un castello con delle lapidi. Mio padre diceva che quello era il castello dell’orco e le lapidi ricordavano i bambini che aveva mangiato. Bisognava fare attenzione, quando si passava da quelle parti, tutto qui. Solo da grande, controllando le date di nascita e di morte sulle lapidi, mi sono reso conto che all’orco di Vincigliata piacevano i bambini parecchio stagionati.
Vicino allo stadio si accampavano i circhi. Una volta sono entrato in un tendone lungo lungo e ho camminato tra due file di elefanti che mi mostravano il sedere. Ero solo, non c’era nessun guardiano. Solo io e gli elefanti. Ero emozionato ma tranquillo ed è stato allora che mi sono accorto che gli elefanti sono sostanzialmente mucche. Non lo dico per sminuirli dato che amo le mucche.
Sui marciapiedi del quartiere transitavano dei vecchi che strascicavano i piedi a terra senza staccarli, come andassero su rotaia. Erano apparizioni, non parlavano mai. Servivano da bersaglio per i ragazzi armati di cerbottana. Non so perché non li vedo più da nessuna parte, eppure la vita dovrebbe essersi allungata. Non credo siano stati decimati dalle cerbottane.
Grazie all’immunità segreta, i problemi ci lambivano. Io sono nato nel 1966, l’anno dell’alluvione di Firenze. L’acqua arrivò fino a piazza Alberti. Quella mattina mio zio, che aveva sentito la notizia alla radio, telefonò da Roma tutto preoccupato. Mio padre, giornalista, stava dormendo e non sapeva nulla.
Disse: ma quale alluvione, le solite esagerazioni dei giornalisti.
Si girò e riprese a dormire.

Per noi i festeggiamenti natalizi iniziavano il 23 dicembre. Non che disdegnassimo il 24 o il 25, ma il 23 dicembre era senz’altro il giorno più importante. In teoria mio nonno quel giorno doveva suonare una campanella (la squilla, mi sembra si chiamasse), noi dovevamo andare a baciargli le mani – anche gli adulti – e lui ci doveva dare dei soldi in una busta.
Chiariamo che mio nonno non era un boss mafioso, era anzi un magistrato. Immagino che questa cosa della squilla fosse una tradizione abruzzese, ma non ricordo che la scena sia mai avvenuta veramente. Certo è che in quella data arrivavano gli zii e tutte le cugine da Roma, mi trasferivo a casa dei nonni e iniziava un esaltante stravolgimento della mia vita che si protraeva fino alla befana.
Io e le mie cugine dormivamo nella stessa stanza a casa dei nonni. La cugina maggiore mi leggeva le favole e rimane a tutt’oggi la più grande esperta di favole che io conosca. Sosteneva anche che c’era un omino alla finestra, fuori. La cosa era ben strana perché eravamo al secondo piano. Quell’omino alla finestra mi faceva una paura dannata. Doveva essere un ottimo arrampicatore, molto resistente al freddo. La cosa era ancora più rimarchevole perché lo immaginavo vecchissimo. Senza imbracatura, chiodi, corde. Un free climber urbano. Ma allora non pensavo all’aspetto sportivo della faccenda. Tendevo piuttosto verso l’ultraterreno, anche se non lo consideravo propriamente un fantasma. Non c’è una parola per descriverne la natura. L’omino alla finestra era un essere in carne e ossa, soggetto alla forza di gravità. Ero percorso da un brivido, quando lo vedevo. Perché ogni tanto lo vedevo, tra i riflessi del vetro. E lui stava lì, per ascoltare le storie di mia cugina. Magari l’omino alla finestra ero io adulto, che adesso ritorno con la mente a quei momenti. Al momento non sono vecchio, ma si sa che i bambini vedono gli adulti più vecchi di quello che sono in realtà.
Comunque, il nostro natale era popolato di omini terribili. Chiudevamo la mia cugina minore nel bagno, al buio. Dicevamo che dal water usciva l’omino del gabinetto e lei – piccola, non era in grado di accendere la luce – strillava di paura. Non so cosa prova oggi quando guarda un water. A me la cosa pareva divertentissima perché l’omino del gabinetto chiaramente non esisteva, era una cosa da bambini. Mentre l’omino alla finestra aveva una sua tremenda realtà.
Tuttora ogni tanto, quando nelle sere di inverno passo davanti a una finestra affacciata sul buio, una controllatina gliela dò.

Per quanto mi risulta sono stato il primo maschio della famiglia a stappare una bottiglia di vino col cavatappi. Così, senza problemi. Ricordo che era un 23 dicembre, per l’appunto. Sono stato salutato come l’evoluzione della specie. Momenti di esultanza. Una scena commovente.
Infatti quell’immunità segreta, quel potere magico che caratterizzava la mia famiglia non si accompagnava all’abilità manuale. Per esempio: ho appreso solo da grande che mio nonno mangiava raramente le arance non perché non gli piacessero ma perché non era capace di sbucciarle. Mio padre poi non è che si leghi le scarpe con totale disinvoltura, è un’attività che gli risulta impegnativa. Nessun maschio della famiglia, mai, in nessuna circostanza, è riuscito a cambiare la ruota di una macchina o ha creduto possibile cambiare la ruota di una macchina. Nessun maschio della famiglia ha mai messo o creduto possibile mettere alle ruote le catene da neve, soprattutto quelle che “metterebbe anche un bambino” (forse intendono solo un bambino). Non lo dico per vantarmi, riferisco i fatti.
Mio zio però osservava che come scimmie siamo geniali. Pensava di girare il mondo con uno spettacolo da circo in cui mio padre si fa la barba. Lo zio si figurava con la frusta, in veste di domatore elegantemente vestito, che urlava al pubblico: guardate, signore e signori, Ciccio si fa la barba da solo (Ciccio è il soprannome di mio padre).

Il fatto è che quando hai poteri magici l’abilità manuale passa in secondo piano. Ciò non toglie che tu abbia bisogno di strumenti che si trovano nel mondo concreto. Per esempio mio padre aveva una polverina bianca che teneva in un contenitore giallo e rosso. Non era droga. Credo che la usasse per disinfettarsi dopo esseri fatto la barba. Ma io sapevo che era ben più di quello. Infatti quando mi ruppi la gamba nel corso di uno dei miei esperimenti scientifici (trasportavo l’acqua dal bagno a camera mia) cominciai a urlare “La polverina, la polverina”, me la misero e un mese dopo guarii, nonostante il gesso che per un sacco di giorni mi impedì di mettere la polverina.
La sera prima di andare a letto dicevo sempre: “domattina si fanno tante belle cose”. Negli anni abbreviato in “belle cose”. Lo dicevo perché ne ero convinto, ma anche perché non mi convinceva del tutto questa cosa di andare a dormire, temevo che non sorgesse un nuovo giorno, e “domattina si fanno tante belle cose” era una mia formula per costringere il nuovo giorno a sorgere. Di fatto ha funzionato.

Il potere magico portava anche a trascurare i soldi. Non ho quasi mai sentito parlare di soldi, fino ai diciotto anni di età. Non eravamo ricchi. Ma di sicuro non era una di quelle fastidiose famiglie dove ti annoiano spiegandoti che le cose costano, che dovrai guadagnarti da vivere e cose del genere. Quando l’ho scoperto sono rimasto piuttosto meravigliato. Vivevo come un sultano, camminavo leggero sulla terra.
Quando sentivo parlare di soldi era solo perché mio padre aveva vinto o perso puntando alle corse dei cavalli o giocando a poker. Ogni tanto lo accompagnavo all’ippodromo, nonostante lui preferisse la sordida atmosfera della sala corse. E per quanto riguarda il poker, veniva praticato assiduamente in casa anche da mia mamma. Quindi avevo l’idea che i soldi fossero qualcosa di giocoso che si poteva perdere con sommo divertimento. Qualcosa che deve muoversi. “Non è niente, è solo denaro”, diceva mio padre citando qualche film.
Penso di aver ricevuto un’educazione particolare.

Non vorrei dare l’idea di una famiglia irrazionale. La mia era invece una famiglia con solide basi illuministiche. Io non ho fatto la comunione, tanto per dire. E quando veniva il prete a benedire la casa mia madre lo mandava via dicendo “grazie ma non ne abbiamo bisogno”. Certo, avessi frequentato il catechismo magari avrei altre storie di molestie da raccontare, ma non si può avere tutto.
E’ vero però che – se mia madre cacciava il prete — mio zio Manin, fratello di mio padre parlava spesso del diavolo. Mi piaceva ascoltarlo. Era una diavolo molto letterario, quello di cui parlava Manin. Ho sentito raccontare fin da piccolo il Doctor Faustus o Il maestro e Margherita, per esempio. Quando poi sono cresciuto e ho letto gli originali, cioè i libri che mio zio raccontava, mi sono piaciuti molto ma mi sono sembrati inferiori alla versione orale di Manin.
Mi piaceva stare a sentire i racconti di mio zio, di mio padre e di mio nonno. Ne valeva la pena. Forse per questo sono venuto su abbastanza taciturno. Inoltre quando tutta la famiglia era riunita – dato che soprattutto i maschi erano parlatori vulcanici – poteva essere difficile inserirsi nel discorso. Era il caos, anche se un caos molto brillante. I discorsi cozzavano tra loro, un fuoco pirotecnico. Se uno voleva dire qualcosa doveva dirlo in fretta. E nella fretta poteva darsi che venisse equivocato, dato che magari spiccava un frammento di discorso e non il discorso completo. Così a volte scoppiavano litigi per nulla.
Diverso era il caso quando mi trovavo da solo con mio nonno. A mio nonno piaceva molto anche ascoltare. Se avevi qualcosa da raccontare, te la faceva raccontare dall’inizio, come se fossimo a un processo.
Bisogna fare quello che si fa, mi diceva. E dunque se mi mettevo a raccontare una cosa dovevo raccontarla bene, e se lui si metteva ad ascoltare ascoltava con la massima calma, senza saltare subito alle conclusioni, come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo. Un’altra frase che ripeteva spesso era “Me ne importa”, che sarebbe il contrario di “Me ne frego”.
Una parte della mia famiglia viene da Siena. Mio zio certe sere nebbiose d’inverno in un famoso bar di Siena trovava un cameriere morto col piede di capra che gli parlava della bisnonna, morta anche lei, a quel punto, e credo che ogni tanto lo incontri ancora. Il bar è il Nannini, della famiglia della famosa cantante Gianna Nannini, credo. E per quanto Gianna Nannini si sforzi di cantare di gente presumibilmente fichissima che non si deve insaponare se nella notte ha ancora un brivido animale, tuttavia io non posso che collegarla al fantasma esangue del cameriere.
Il Natale delle mutande di latta, affascinato dai racconti di mio zio, dissi al nonno che mi sarebbe piaciuto evocare il diavolo. ”Non ti preoccupare, lo incontrerai molte volte” mi rispose.

Si racconta che mia mamma da ragazza, presentandosi per la prima volta ai festeggiamenti natalizi della famiglia di mio padre, nella confusione, abbia ricevuto uno schiaffo che non era indirizzato a lei.
Questo per dire che a Natale, con tutta la famiglia riunita, divampavano litigi memorabili. Si parla sempre dei litigi a Natale, è una cosa risaputa, ma io resto convinto che i litigi della mia famiglia avessero un’intensità e direi una grandiosità superiore. Esplodevano come fenomeni naturali.
Mio nonno era l’unico calmo della famiglia, ma doveva essere l’epicentro di questi fenomeni perché dopo la sua morte non si sono più verificati, non con la stessa magnificenza.
La ragionevolezza di mio nonno finiva per irritare di più mia nonna.
Mia nonna quando un ragionamento la convinceva e lei era in buona diceva: “alzo le mani”. Tuttavia questo accadeva di rado. Di solito portava all’esasperazione l’interlocutore perché ribadiva le sue posizioni – spesso maliziose e sorprendenti – fino all’esaurimento. Si può parlare di una vera e propria arte, in tal senso. L’episodio di partenza poteva essere il più semplice del mondo, non importava, come il tema iniziale di una Fuga, quello che contava era l’edificio che ci costruivi su. Per esempio il Natale delle mutande di latta fu anche il Natale dei cugini Cipollone. O meglio il coronamento di un lavoro di due anni sui cugini Cipollone.
Due anni prima i cugini Cipollone (miei cugini, alla lontana), in Abruzzo, avevano vinto un torneo di ping pong in occasione di una loro visita all’Hotel Garden. I cugini Cipollone erano bravi a giocare ping pong, tutto qui. Bisogna ammettere che non è facile imbastire una polemica su queste basi. Ma da quel giorno mia nonna aveva preso a insinuare che i cugini Cipollone nonostante la giovane età erano due truffatori, giocatori professionisti che giravano tutti gli alberghi di Italia imbrogliando gli incauti villeggianti. E lei si vergognava di simili parenti e anche mio nonno avrebbe dovuto fare altrettanto, se era un uomo.
La cosa era talmente inverosimile che era anche difficile controbattere, tra l’altro il torneo dell’Hotel Garden non prevedeva neanche un premio in denaro. Quindi sarebbero stati truffatori ben miseri. Comunque, due anni dopo divampò un litigio terribile sull’argomento, che peraltro nessuno conosceva bene a parte me. Mi sembra che in quell’occasione, dopo un martellamento e uno stillicidio di due anni, perfino io persi la calma e pregai la nonna di abbandonare l’incandescente argomento cugini Cipollone.

Penso che a diversi membri della famiglia piacesse arrabbiarsi, almeno io sul momento non trovavo altra spiegazione, perché i pretesti erano talmente incredibili. Non che mancassero i pentimenti. Ricordo mio zio chiedere perdono in ginocchio, in posa teatrale, di fronte alle mie cugine.
Quando il litigio era generale, tutti erano tenuti a prendervi parte, era come una chiamata alle armi.
La mia memoria arriva fino alla bisnonna che – seduta su quel divano giallo dove mi leggeva storie scritte da lei, che ho ritrovato di recente – apostrofa un qualche adulto che evidentemente sta facendo sforzi sovrumani per sottrarsi all’obbligo di litigio. Tremante di sdegno la bisnonna dice: Tu! Tu!! Tu che mentre la famiglia va a rotoli te ne freghi e non fai niente.
A quel punto l’adulto scatta e fa per prenderla per il collo.
A parte che si capisce da chi avesse ereditato le sua arti la nonna, mi piace soprattutto quel “va a rotoli”. Una famiglia che va a rotoli ha un buon sapore antico.

L’unica che in parte riusciva a estraniarsi dai litigi era mia zia, la sorella di mio padre. Si chiudeva in se stessa quando veniva provocata, dando risposte ripetitive e apparentemente infantili tipo: “Ma che ti metti a dire?”.
Certo che tra tutti eravamo soggetti particolari. Non so chi, osservò che uno psichiatra avrebbe dovuto dedicare la vita per seguire esclusivamente la nostra famiglia e alla fine scrivere un saggio gigantesco.
Una volta vedemmo un film dove c’era una grande, cupa scena di litigio in famiglia. Poteva essere un film di Bergman. “Ma questo è niente, è troppo sdolcinato”, osservò mio padre.
Mio zio un’altra volta, finito il tradizionale litigio natalizio, disse a mio padre: in quei momenti avessi una pistola sparerei.
Anch’io, disse mio padre.
In verità non ricordo che in queste scenate qualcuno abbia picchiato qualcun altro. Era solo un grande spettacolo. Liberatorio, presumo, a giudicare dalle facce degli adulti dopo.
Ricordo mia nonna che scappa per non farsi acchiappare da mio padre o da mio zio e urla “Mi uccidono, mi uccidono”. Ricordo anche una sveglia scagliata contro il muro: andò in pezzi. I frammenti che rimbalzano sul muro sono – nella mia memoria — una galassia in espansione e cercano di dirmi qualcosa sul tempo, ma non si esprimono chiaramente. Era una sveglia di quelle vecchie, tonda, in metallo dorato, coi numeri gotici, piena di ingranaggi splendenti. Scagliare una di queste sveglie contro il muro è una cosa da provare, sia dal punto di vista visivo che da quello sonoro. Non come le sveglie che fanno oggi che non danno alcuna soddisfazione e dunque poi – non avendo avuto soddisfazione dalla sveglia – magari ricorri alla violenza sulla persona.
Quando mi inviteranno alla Biennale di arte contemporanea la mia performance sarà il lancio di sveglie antiche.

Ricordo io e le mie cugine in fila per ordine di età nel corridoio dei nonni, l’attimo prima di correre verso i regali.
Ma poi non è che semplicemente ricordo. “Ricordo” non è la parola giusta. Io sono quel tale in tenera età in fila nel corridoio in attesa dei regali e sono tutto quello che ho detto.
Ricordo – o forse sono – quei giorni, pieni di mistero e certezza. Proprio così. Per cui non concordo con tutti quelli che detestano il Natale o dicono di detestarlo per sembrare più furbi. Evidentemente nelle loro famiglie non si litigava abbastanza.
Credo che l’energia psichica che si sprigionava nelle nostre scenate avesse qualcosa a che vedere coi poteri magici. Ricordo – o forse sono – mio nonno seduto al pianoforte che suona a orecchio “Tu non torni e non scrivi” sovrastando il casino generale come un mago nella tempesta dei demoni. Quando comincia a cantare sembra sollevarsi dal suolo, con tanto di pianoforte.

(2-CONTINUA)