nellemanigiustedecataldo.jpgdi Giuseppe Genna

frecciabr.gif GIANCARLO DE CATALDO, NELLE MANI GIUSTE, EINAUDI STILE LIBERO BIG, € 15.80

Dobbiamo a Giancarlo De Cataldo due atti letterari che sono fondamentali per il nostro comparto narrativo, storico e politico. Il primo, celebratissimo con una legittimità che ricompone saldamente il rapporto tra narrazione e critica, è stato Romanzo criminale [qui la recensione su Carmilla], la saga epica che esplode intorno alla Banda della Magliana, mettendo in luce e in ombra quella Italian Connection che sembra non abbandonare mai le quinte di questo martoriato Paese. Romanzo criminale è, al momento, il romanzo italiano dei Settanta/Ottanta e lo è con una potenza di racconto devastante, già canonizzata. Se fosse questo soltanto il debito di gratitudine che dobbiamo a De Cataldo, già sarebbe sufficiente. Invece gliene dobbiamo un altro che, a prescindere dall’esito letterario (di cui discuto più sotto), è a mio parere fondamentale: Nelle mani giuste affronta il soggetto più difficile, imprendibile e scivoloso che uno scrittore italiano possa mettersi in testa di romanzare – cioè il passaggio post-Muro e la stagione delle bombe agli Uffizi, al PAC di Milano, alle chiese di Roma, oltre che l’attentato a Costanzo, nel ’93. Nell’occhio del ciclone De Cataldo finisce la stagione tricolore più ambigua e vergognosa: la transizione dell’Italia che si autodefinisce Seconda Repubblica e Paese trasformato. Ci finisce, cioè, la merda autentica – quella che si nasconde, tirando lo sciacquo senza nemmeno osservarla.

Per esperienza diretta, avendo voluto narrare trasvolante quel segmento iniziale dei Novanta, so quanto deve essere stato difficile per De Cataldo comporre un disegno, recuperare informazioni che non fossero superficiali e cronachistici articoli di giornale, carte giudiziarie che non possono mai coincidere con la verità. Qui sta il differenziale rispetto a Romanzo criminale: affrontare la stesura di Nelle mani giuste significa porre sotto l’obbiettivo un periodo circa il quale non si è confortati da nulla, da nessuna opera di riflessione e ricomposizione (se non la prospettiva Travaglio/Gomez/Barbacetto in Mani Pulite). Il contesto saggistico manca dei De Lutiis, dei Cipriani, dei Flamigni, dell’infinitudine di materiali che erano a disposizione per ricostruire una storia, quella della Magliana, che è centrale nella vicenda della gestione del potere durante i Settanta. Sia chiaro: è comprensibile. Lo è per molte ragioni: i Settanta furono anni di movimento, ricchissimi quindi di una controinformazione fitta e spesso esaustiva; i Settanta e l’emersione della Loggia di Gelli, con le sue diramazioni (caso Sindona, caso Calvi, caso Orlandi, attentato al Papa) presenta elementi che hanno segnato indelebilmente la memoria collettiva e giudiziaria di questo Paese; i Settanta sono un’ossessione generazionale e la produzione culturale intorno al percorso criminogeno di affiliazioni e singoli personaggi sfiora addirittura la mitopoiesi. Che Romanzo criminale potesse intitolarsi Italian Tabloid, visto l’amore incondizionato che De Cataldo nutre per Ellroy, era più che giustificabile.
Sul passaggio di inizio Novanta, invece, proprio “all’italiana”, cala il silenzio. I fatti sono eclatanti, non meno di quelli settantini, ma non esiste una compattezza ideologica e nemmeno giudiziaria che ne tragga un certo disegno: la strage di capaci con la morte di Falcone, quella di via D’Amelio con il massacro di Borsellino, l’emersione del pool Mani Pulite capitanato da Di Pietro, il crollo di un’intera classe politica con la scomparsa di Dc Psi Psdi Pli Pri e trasmutazione del Pci, le bombe del ’93, l’omicidio/suicidio di Gardini, l’omicidio/suicidio di Gabriele Cagliari, l’irrisolto caso del manager delle Partecipazioni statali Sergio Castellari, l’emersione dal nulla della Lega, la discesa in campo di Berlusconi, i referendum Segni e il passaggio al maggioritario, la fuga di Craxi, probabilmente un conato di colpo di Stato… Si potrebbe continuare, a elencare le ondate di questo mare magnum di eventi epocali per l’Italia: mai raccontati, se non da stampa approssimativa, saggi insufficienti, sentenze accomodanti o accomodate. E’ uno snodo fondamentale, ma evidentemente troppo vicino a oggi: Berlusconi si impone politicamente da Arcore allora e stamattina è ancora lì che parla sul “Corriere della Sera” di assenza di alternativa a lui come leader del Centrodestra. E’ tutto talmente vicino e talmente illusoria fu la partecipazione di popolo (che si limitava semplicemente a fare uscire dai propri pori l’innato giacobinismo e la tendenza a tagliare postume le teste e a esprimere i suoi giudizi forcaioli da bar), che davvero non sarebbe il caso di sollevare la pietra e scoprire il formicaio, vero? Nel momento in cui Giampaolo Pansa ritrova energie e fumigoso zolfo per ridiscutere – con caduta di braccia – la Resistenza, nel momento in cui in cui la questione sessantottina si comprende non essere stata del tutto metabolizzata e in cui i Settanta non smettono di ossessionare chi li visse e dunque anche chi ci fu con la sua infanzia – figurarsi se è il caso di narrare il tempo dei segreti sottaciuti che producono direttamente e strategicamente il nostro presente. E’ un deserto impressionante di materiali, se ci si ricorda quel momento storico, tutto fibrillante e adrenalinico per l’elettorato televisivo italiano, con i magistrati sugli scudi, il Pds dato per sicuro al governo, gli americani che gestiscono la transizione in maniera molto meno plateale e consenziente che nei decenni precedenti. Qui si annida il tarlo italiano: quello che divora la possibilità di metabolismo storico, quello che aggredisce i fatti e li polverizza creando buchi. Nell’incapacità degli intellettuali di affrontare non dico in tempo reale, ma almeno a un decennio di distanza i fatti capitali della propria storia – ecco dove ravvedo il male italiano. Che oggi un farmaco, e un farmaco potente, ce l’ha: è il romanzo di De Cataldo.
nellemanigiustedecataldo2.jpgHo scritto romanzo e non saggio: poteva essere un saggio, ma è un romanzo, perché così ha scelto De Cataldo, tentando la chance epica che, purtoppo non per colpa sua, è impossibile a priori, poiché degli anni Novanta gli italiani se ne sono bellamente dimenticati, dopo essere andati a dare qualche scossetta al camper del Tg4 con Brosio a bordo, davanti al Tribunale di Milano, credendo di fare una rivoluzione. Non c’è la comunità in grado di recepire quanto De Cataldo evoca. Se, in un punto di Nelle mani giuste, lo scrittore fa chiedere come è possibile che ci sia una P2 se non c’è stata una P1, saremo in meno di duecento a comprendere cosa realmente sta dicendo (la chiave è l’azionista Pacciardi, per inciso). Se la “sovranità limitata” viene problematizzata ad alto livello, possiamo immaginare qualche italiano interessato a discendere dopo piazza Fontana o dopo Moro per dare corpo a questo perno storico che ha fatto la storia della nostra nazione?
A fronte di una simile situazione di azzeramento (azzeramento di partenza, azzeramento nell’audience), De Cataldo compie una scelta letteraria, oculatissima e strategica. Anzitutto non racconta la trama intera che si innerva in quegli anni. Falcone muore, ma non attendetevi una scena mitologica dell’esplosione di Capaci. Muoiono come mosche, saltano palazzi custodi dell’arte e chiese, si salva per miracolo Costanzo, ma il focus è ristretto. L’impressione è che si potrebbe partire, guidati da De Cataldo, verso una eptalogia (cosa che, immagino, non sarà), che narri quanto incredibilmente è accaduto in quel periodo. Niente narrazione delle inchieste: soltanto, e nemmeno primari, gli esiti delle inchieste. Qualcuno che a una specie di festino improvvisato en passant osserva che arriveranno a Craxi. Dove sta, dunque, il dramma?
Il dramma sta su due livelli. Anzitutto nella selezione dei fatti. De Cataldo indaga – e pone tra le righe domande potentissime – a partire dalla morte di quello che posso pensare essere l’Edgar Hoover italiano, con tanto di archivio, cioè l’ex capo dei Servizi segreti Federico Umberto D’Amato, che in Nelle mani giuste potrebbe tranquillamente essere il personaggio del Vecchio, ossessivamente presente seppure assente, in quanto passato a miglior vita e avente lasciato un’eredità comoda e scomoda: cioè archivi riservati praticamente su qualunque personaggio agisca con rilievo in Italia, dai politici agli imprenditori agli uomini di mafia. Il nesso tra Stato e mafia è fondamentale per comprendere la strategia che porta all’esplosione degli ordigni del ’93, mentre la vista dell’autore è sempre più acutamente penetrante nella nube tossica e offuscante di un regime politico che smette di esistere, di uno Stato che non propone più interlocutori certi, fino alla manifestazione del movimento politico creato da Berlusconi. Emblema del percorso personale di disfacimento personale e anche di un ordine pregresso di corruttela e di commistione col potere mafioso è la vicenda di Ilio Donatoni, che è evidentemente Raul Gardini. La rievocazione delle linee di condotta del documento detto “Rinascita democratica”, ritrovato o a bella posta fatto ritrovare in un doppiofondo di una valigia della figlia di Gelli a Fiumicino, è la guida e il glossario di un lessico politico che si parla anche oggi, di un disegno palesemente realizzato sotto gli occhi imbecilli di una comunità nazionale che, a conti fatti, per la sua incapacità di reazione collettiva, comunità non è più. Questi sono gli elementi centrali che De Cataldo ha trascelto nell’infinità di variabili che potevano essere raccontate. E che, in effetti, lo sono: per evocazione, per digressione che viene lasciata partire e subito stoppata, ma che dà l’idea e ha il tempo di fornire la domanda al lettore su movimenti embricati nel segmento di vicenda che è sotto la lente dello scrittore De Cataldo.
Il secondo piano del romanzo è la soluzione narrativa che Giancarlo De Cataldo adotta per narrare questi elementi storici. Non è semplice. Davvero: non è semplice. Chi deve parlare? Chi deve agire? I reali protagonisti? Degli alter ego? La soluzione scelta da De Cataldo è geniale: fa epica e la fa facendo fiorire la figlia dell’epica, cioè la lirica. Nelle mani giuste è la storia di tanti “io” che sono psicologizzati ai massimi livelli e che si muovono in un contesto storico che esigerebbe la depsicologizzazione. Sembra la soluzione trascelta da Ellroy per raccontare l’immenso arazzo storico della storia americana dei Cinquanta/Sessanta, e invece non è così. Certo, l’amore per l’autore di American Tabloid è palpabile, De Cataldo ama farsi piegare il polso da Ellroy, saltuariamente riprendendone alcun tic stilistici: c’è una pagina di asindenti allitteranti che ricorda lo stile di Hush-Hush; compaiono le & commerciali; frequenti sono le paratassi con ripresa del soggetto nelle frasi che seguono, battenti e martellanti. Tuttavia non è questo che vorrei mettere in luce: vorrei mettere in luce la voce verace di De Cataldo.
Da dove proviene uno scrittore? Da uno spostamento: lo sguardo dello scrittore è spostato. Cosa lo sposta? Nella quasi totalità dei casi è l’esperienza del dolore – esperienza diretta, concreta, traumatica. Qui sta il nucleo che necessita di una voce. Questa voce emerge, per strappi potenti, in Nelle mani giuste. E’ come se De Cataldo, in certi punti, mandasse affanculo l’Italia, le sue meschinerie, queste trame criminali e istituzionali indegne di un contesto civile – e si strappasse dalla gola un urlo di dolore. Qui, io credo, sta il futuro della scrittura di De Cataldo. Non penso sia un caso che questa voce che sorpassa il finzionale e la ricostruzione storica e la psicologia dei personaggi che operano carsicamente nel drammatico contesto italiano – questa voce acuta e grave allo stesso tempo, che irradia pietà e canta traumi, sia affidata a personaggi femminili, essenzialmente tragici. Patrizia, l’amante/sposa di Stalin Rossetti, fascio ed ex agente dei Servizi, piazzata come amante/spia dell’erede delle carte del Vecchio, il boss tremulo dei Servizi Scialoja – ecco una Cassandra che non riesce a profetizzare. Valeria, tossicodipendente salvata da Pino Marino, killer atipico e freddo agli ordini di Stalin, la ragazza che viene immolata come una Madonna sui quadri idealizzanti del suo pigmalione, pronta a ricadere nella perdizione per mano di Lady Eroina – ecco un’Antigone priva di Creonte. E’ in queste zone, in queste identificazioni di sé con il dolore, che De Cataldo raggiunge la potenza che sferra il pugno nello stomaco al lettore, gli cuce la bocca con il filo di ferro del trauma, lo acceca con la visione della sofferenza esasperante e lenta, lo rende sordo nell’urlo dell’inaudito.
Insomma: questo digesto storico e personale che è Nelle mani giuste di De Cataldo fuoriesce da ogni sottogenere narrativo e trasuda un coraggio che non può non suscitare ammirazione e gratitudine nel lettore italiano. De Cataldo è il primo intellettuale e narratore a compiere il gesto: gli anni Novanta entrano nella letteratura. Questo è l’inizio di un metabolismo. Vedremo chi raccoglierà l’appello dello scrittore-magistrato: forse lui stesso, poiché la competenza che ha raggiunto circa i fatti svoltisi in quel periodo nodale è enorme e al momento irraggiungibile, mentre la sua voce va facendosi sempre più delicata e scorticante – e questo per il bene di tutti, perché il vaffanculo che si esprime nella letteratura autenticamente tale, cioè autenticamente politica, abbia una sua metrica, una sua prosodia, una sua capacità mitopoietica.