di Valerio Evangelisti

Tortura2.jpg[Il presente testo, originariamente apparso nel 2005 su GQ, riflette in parte la relazione svolta in un convegno su L’Inquisizione tra storia e immaginario che si è tenuto a Trieste il 4-5 maggio 2007.]

Esistono, in Italia come un po’ in tutta Europa, “musei della tortura” che mostrano sempre gli stessi strumenti: il letto di chiodi, la Vergine di Norimberga, la ruota dentata, gli aculei per lacerare i genitali dei suppliziati, ecc. Si tratti di Milano, di Praga o di Carcassonne, negli opuscoli illustrativi delle esposizioni, stabili o itineranti, si dice ogni volta che simile armamentario era comunemente usato dall’Inquisizione cattolica, in Spagna, in Italia o in altri paesi. Questo anche quando tali macabri strumenti, tipo la famosa Vergine di Norimberga, erano palesemente destinati non a estorcere confessioni, bensì a provocare la morte della vittima.

In realtà, mai l’Inquisizione — si trattasse di quella medioevale, di quella spagnola, di quella italiana del Rinascimento, di quella francese o boema — fece ricorso ad arnesi così truci di supplizio. Vi si opponevano due veti ferrei e mai violati. Il primo era la proibizione di versare sangue. Il secondo era quella di uccidere direttamente il prigioniero. Di ciò si occupava la giustizia civile — il cosiddetto “braccio secolare” — a cui la vittima era consegnata, con atti in cui la punizione da infliggere era ben indicata, però accompagnata da ipocriti e volutamente inani appelli alla misericordia.
Sedie e letti chiodati, “stivaletti spagnoli” e sistemi sanguinosi di tortura erano piuttosto tipici dei principati tedeschi o dei Paesi Bassi, dove la “caccia alle streghe” infierì con particolare crudeltà per quasi tre secoli (col beneplacito della Chiesa, s’intende: spesso i principi erano anche vescovi). Ciò non significa che l’Inquisizione propriamente detta torturasse poco o niente, come oggi pretende una vera orda di storici e divulgatori “revisionisti”, con esiti pretesamente scientifici che sfiorano il ridicolo (un recente, grosso volume edito dal Vaticano fissa in meno di cento le morti causate dagli inquisitori in sei secoli di storia).
La verità è che l’Inquisizione, in tutte le fasi e i luoghi della sua vicenda, praticò la tortura con sistematicità, ma anche con razionalità: cioè senza eccedere nei mezzi usati e senza nutrire una fiducia esagerata nelle confessioni ottenute tramite costrizione. I gradi di tortura erano tre, e nessuno di essi comportava fuoruscita di sangue: la corda, l’acqua e il fuoco. Il più delle volte ci si limitava al primo. Il prigioniero, uomo o donna, era sospeso nudo a una fune, per i polsi legati dietro la schiena. Veniva tenuto in quella dolorosa posizione per un massimo di mezz’ora e fatto ruotare nel vuoto. I giorni successivi, se non aveva ammesso ciò che ci si attendeva da lui (di solito denunce e delazioni), il supplizio poteva essere reiterato, sempre nei limiti della mezz’ora quotidiana.
All’acqua, cioè alla pratica di far bere il prigioniero con un imbuto fino a un inizio di soffocamento, o in alternativa di immergerlo in una vasca, si faceva ricorso di rado, e quasi solo in Spagna. Più frequente la tortura del fuoco, che il domenicano Eliseo Masini, vissuto nel XVII secolo, così descrive in una raccolta di formulari pronti all’uso:
“Sottoposto al tormento, egli [il prigioniero], con i piedi nudi spalmati di lardo di maiale e tenuti fermi in ceppi vicino a un bel fuocherello ardente (…) all’inizio restò zitto sotto quella tortura, poi cominciò a gridare ad alta voce «Ohimè» ecc.”.
Molto comune anche la tortura della “stanghetta”, in cui i piedi del detenuto erano schiacciati in gambali di legno che si restringevano gradualmente.
Erano esentati da questi tormenti i bambini sotto i nove anni (per loro era prevista solo la fustigazione con bacchette e la torsione delle dita) e le donne incinte. Per torturare queste ultime si attendeva che avessero partorito, salvo rare eccezioni documentate (esistono autorizzazioni della Suprema di Spagna alla tortura, in via eccezionale, di una donna incinta e di una bambina non ancora novenne). A volte si risparmiavano i supplizi agli anziani ultrasessantenni, ma la prescrizione era, nel loro caso, meno tassativa.
Resta il fatto che la pratica della quaestio, come veniva chiamata, non era, in teoria, centrale nel giudizio inquisitorio. Già i maggiori codificatori dell’Inquisizione medievale, il francese Bernard Guy e il catalano Nicolau Eymerich, avevano lanciato un duplice avvertimento: non procedere a tortura in assenza di indizi, non prendere per buone tutte le dichiarazioni del torturato. Di fatto, la quaestio aveva finalità di verifica, e ciò che se ne traeva doveva essere a sua volta verificato. Accadde poi che quasi non vi fosse interrogatorio senza tortura, lieve o pesante che fosse, tanto che a tale prassi rimase indissolubilmente legata l’immagine stessa dell’Inquisizione, prima ancora che i polemisti protestanti la oscurassero ulteriormente esagerandone la ferocia. E’ comunque certo che, agli occhi degli inquisitori seriamente compresi nel loro ruolo, la “regina delle prove” (come venne in seguito chiamata la tortura) non fosse affatto regina, bensì elemento di indagine accessorio.
Hanno dunque ragione gli storici revisionisti, che a proposito dell’Inquisizione parlano di “leggenda nera”, costruita su un castello di menzogne? Niente affatto. La tortura non era che un dettaglio di un sistema di terrore molto più articolato, in seguito ampiamente imitato da regimi autoritari e da governi senza scrupoli.
Prendiamo il meccanismo stesso della quaestio. Intanto il prigioniero veniva sempre denudato. Non si trattava di sadismo, ma dell’innesto nella vittima di un sentimento di umiliazione e di completa impotenza a fronte dei giudici. Tanto più che, nel caso dell’Inquisizione di Spagna, questi talora si presentavano mascherati, ciò che accentuava la posizione di forza da cui agivano.
Gli interrogatori avvenivano sempre in stanze sotterranee, e il fatto stesso di esservi condotti era fonte di paura per i prigionieri, al di là di ciò che avrebbero concretamente subito. Le stanze erano addobbate con strumenti di supplizio la cui funzione doveva essere spiegata al detenuto prima che l’interrogatorio avesse inizio. In età rinascimentale erano poi presenti un medico e vari chirurghi, preposti a sorvegliare le conseguenze dei tormenti. Una garanzia per l’imputato, si dirà. In parte sì, ma anche un’ulteriore fonte di terrore: la presenza di simili personaggi era sufficiente a lasciar presagire il dolore che sarebbe stato inflitto. Del resto, in uno studio di dimensioni mastodontiche (Crime et châtiments dans l’Espagne inquisitoriale, 2 voll., Parigi 1992), Michèle Escamilla-Colin ha documentato in quanti casi i torturati subissero menomazioni permanenti, impazzissero o, più raramente, morissero, subito o a distanza di anni.
Ma il terrore vero consisteva nel meccanismo tragico della delazione. Imprigionati sulla base di testimonianze che dovevano rimanere anonime, i prigionieri dell’Inquisizione capivano di avere un solo modo per sottrarsi all’inferno della tortura: denunciare complici reali o immaginari, riferire voci, spostare su altri una parte del proprio fardello di accuse. Era ritenuto particolarmente grave, e passibile di un aggravio dei tormenti, il confessare le colpe proprie e tacere quelle di persone care: moglie, marito, parenti, figli. I più deboli cedevano, e così a cadere sotto il rigore inquisitorio erano intere comunità, in una moltiplicazione senza fine. Eretici, ebrei, omosessuali, musulmani, bestemmiatori, donne dai comportamenti anticonvenzionali caddero sotto una falce dal moto circolare sempre più largo. Solo la rivoluzione francese, che pure adottò sistemi repressivi quasi altrettanto atroci, pose un freno all’infamia della tortura.
E gli inquisitori? Alcuni di essi ebbero soprassalti di coscienza, altri ritennero in buona fede di stare compiendo il loro dovere. Che male ci poteva essere, nella tortura, se salvava anime e salvaguardava da pericoli peggiori? Del resto, il rimedio a possibili dubbi consisteva nell’affidare a terzi — al “braccio secolare” — la parte peggiore del lavoro e, dal canto proprio, svolgere il resto in maniera asettica, con medici e giuristi pronti a certificarne la buona forma e le finalità umanitarie.