di Saverio Fattori

BuonLavoro.jpgFederico Platania, Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato, Fernandel editore, 2006, pp. 155, € 13,00.

In anni in cui il lavoro precario si impone come emergenza sociale, Platania ci ricorda che l’altra faccia della luna è sempre cupa, il lavoro fisso rimane un baratro oscuro e profondo che tiene in ostaggio anima e cervello.
Platania butta dodici piccole perle in questo baratro che restituisce mormorii strozzati di pc in accensione, suonerie di telefonini inopportuni, lo FTAC di una cimice che sbatte contro un neon. Il TLAC della macchinetta del caffè che ha deposto il bicchierino, i ronzii di radioline fuori frequenza, le frasi sconnesse di colleghi di ufficio devitalizzati, in bilico tra cameratismo e arroganza.

L’io narrante dei primi racconti è un neoassunto che si avvicina al microcosmo di un ambiente di lavoro, congelato su automatismi logori e ipocriti. Da absolute beginner deve tenere i ricettori aperti, orientarsi sul campo di battaglia. Come una cimice inizia a ronzare attorno a una luce opaca e artificiale con il rischio di finire schiacciato.
I Filini e i Fracchia post-Legge Biagi osservano rituali di cortesie per gli ospiti imbarazzanti.
I dialoghi sono ruvidi, sempre sul filo della gaffe conclamata, i silenzi urlano vendetta. L’esperienza accumulata in anni sempre uguali è l’unica misera forza di cui dispongono, la merce di scambio, una piccola arma bianca di offesa e difesa. A casa allevano tarme che devastano abiti, si cibano di TRIS DELUXE MARGHERITA CAPRICCIOSA PROSCIUTTO E FUNGHI.
E’ un’umanità piccola piccola quella che si trascina in questi racconti. Molli strategie, estenuanti guerre di trincea aziendale, disarmonie riequilibrate dall’istinto di sopravvivenza, rigenerazioni umorali da camera caffè.
La materia dei racconti è omogenea ma si concede un angoscioso crescendo. Nei racconti Gallerie e Le scimmie di Vergara, si scivola inesorabilmente dalla mediocrità verso la follia pura. Gli edifici mutano in territori ostili ignorati dalle donne dell’impresa di pulizia, poggiano sopra reti di gallerie dove inquietanti addetti alla derattizzazione scavano buche dal contenuto ripugnante. Gli ascensori sono trappole infide e ingovernabili. Dirigenti caduti in disgrazia e minati dalla paranoia si aggrappano a segretarie-mamma, allevano scimmie liberate da sottoposti rancorosi. Vengono rinvenute in successione caricature su fogli A4 di impiegati che, per oscure trame vendicative, sono fatti oggetto di tacite persecuzioni. E la fauna continua a sorprendere spiacevolmente. Dalle fondamenta marce, i ratti risalgono per andare a morire incastrati nei filtri dei condizionatori. Pacchi contenenti quaglie morte sono recapitati a ignare vittime prossime al licenziamento, nel quadro di una Progressione geometrica messa a punto dall’ufficio personale.

“E gli altri tre chi sono?”, ho chiesto io. Romoli ha fatto una smorfia. “Colpiscono il middle-management”, ha detto poi. Io l’ho guardato senza dire nulla. “Il ventre molle dell’azienda”, ha detto lui.

“Ma che c’hai paura? Ti pensi che ti seccano a te? Ma se quelli manco si ricordano che esisti”, ha detto Romoli sempre ridendo.

Federico Platania è un bel colpo di Fernandel, un esordio importante. Non genera dispersione nella scrittura, realizza un’omogeneità e un controllo stilistico invidiabili. Ha scritto un perfetto romanzo dell’orrore aziendale. Arriva all’essenza del marcio a tempo indeterminato. Parte dai sotterranei popolati da ratti e ci racconta di uccelli che hanno smesso di volare.
Da tempo.