681.jpgdi Giuseppe Genna

La pubblicazione, su queste pagine, dell’introduzione [qui e qui] di Marco Philopat al pamphlet Contro il ’68, di Alessandro Bertante, mi permette di liberarmi da un compito, che era per me necessario dopo le precisazioni di Valerio Evangelisti: e cioè, ricollocare, rispetto a una questione tanto vasta e complessa qual è il Sessantotto, con tutte le sue derive, il testo di Bertante, che rimane per me importante non certamente nella prospettiva sociologica riduzionista di quel tal Giuliano Da Empoli, di cui come Evangelisti ricordo il pumping markettaro ed elitario anni fa, essendone io testimone direttamente nel ventre della balena.
Posso, quindi, dire la mia su quello che ho letto in Bertante, su cosa ho pensato in anni e anni di attraversamento di esperienze, a proposito di Sessantotto e ricadute, di vicende emblematiche assurte a fama nazionale, di anonimati eroici e silenziosi, di anagrafi mandate a puttane dalla bennota cecità umana.

bertante68cover.jpgBurroughs, nei giorni degli scontri di Chicago, proprio nel ’68, rispondeva a un’intervista: “Credo si tratti della più profonda rivoluzione politica della storia dell’umanità. Se ne sono felice? Per ora. Poiché ho consapevolezza di quanto avverrà dopo. Per questo mi occupo di fantascienza”. La risposta è paradossale. Mi nutro di questo paradosso, io, nato nel dicembre ’69, dicendo quanto ricordo dopo il ’68, in una forma innestata nella tradizione classica millenni addietro, cioè la trenodia: il canto funebre, ossessivamente ripetuto nella sua retorica di celebrazione memoriale, che fu della classicità greca. Chi non ama le anafore, si ritenga libero di non continuare o, se continua, di irritarsi legittimamente con lo scrivente…

TRENODIA PRIVATA PER UN PUBBLICO DISSESTAMENTO: I MERCANTI DI VENEZIA DEL ’68

Ricordo il volto le rughe i capillari esplosi e lo sguardo liquido di Giampaolo Pansa, mentre demolisce una rivoluzione che sta alle origini del ’68, gettando fango su partigiani e Resistenza con argomenti copiati da libri che ricordo avere studiato attentamente e

Ricordo il medesimo Giampaolo Pansa analizzare le derive politiche settantine del ’68 facendo la medesima mossetta, quella dell’acrobata che sa che, cadendo dal filo sospeso, mai si farà male, anzi, sortirà un applauso che ne stimolerà l’autostima ancora più intensamente, scrivendo egli in Storie italiane di violenza e terrorismo: “Più tardi si ricorse a un camuffamento meno lontano dalla realtà: i terroristi, in fondo, sono soltanto dei compagni che sbagliano”

Ricordo che il ’68 non è gli anni Settanta e tantomeno il ’77

Ricordo l’entusiasmo di Laura Boella, docente genderista di Filosofia Morale alla Statale di Milano, nel vocìo dei suoi seminari inneggianti a un ’68 del tutto immaginale, da un giorno all’altro, crollato il Muro, affermare di non essere mai stata comunista

Ricordo mio padre nel ’76 parlare a tavola di “opportunismo della frazione” e tracciare la linea di discrimine con il ’68, “l’unico anno della nostra vita dove ci furono frazioni, ma non opportunismi”

Ricordo la mia responsabile all’Abacus, quando, diciassettenne, lavoravo come addetto di call center alle ricerche di mercato, e lei controllava i tempi effettivi delle telefonate e quanto lavoro veniva svolto e se un non dipendente (collaboratore coordinato continuativo – oggi: precario) stava sotto la media prestabilita della produzione, e poi davanti alla macchinetta del caffè si lasciava andare a ricordi improbabili e gioiosi di episodi avvenuti nel ’68, e quell’anno in cui ascoltavo quelle parole era il 1987, vent’anni orsono

Ricordo tre lettere imploranti da me vergate e inviate a Paolo Mieli, reduce del ’68 alla prima direzione del Corsera, che non ebbero mai risposta né tantomeno pubblicazione, scritte invocando, con pacata fenomenologia di appoggio, un intervento del Corriere della Sera nell’organizzazione culturale della città di Milano, e questo accadeva nel 1992

Ricordo un editore vantarsi di essere praticamente mio padre perché aveva “fatto il ’68” e quindi io derivavo da lui, mentre beveva e mangiava oscenamente dicendosi comunista e non essendolo nemmanco in un mitocondrio del suo corpo gonfiastro, e figurarsi se lo era nelle intenzioni e nell’atteggiamento, questo editore costantemente menzognero e sprezzante nei confronti degli “altri” e in particolare della classe individuata con l’etichetta “intellettuali”

Ricordo, ai bordi di un prestigioso ateneo extramilanese, due docenti che vivevano, nel ’68, in una comune, la medesima, raccontare di prestazioni galvanizzanti quanto a espressione della gioia di vivere, e non ricordare come in seguito, usciti dalla comune, si sedettero su scranni universitari che, a decenni di distanza, non intendono abbandonare e fino all’ultimo non intendono concedere, e ciò da anni, che briciole a un esercito di menti brillanti e più giovani, le prime menti alimentate da tali vergognose briciole ormai avendo raggiunto la cinquantina

Ricordo Sergio Cusani ricordare in tv il suo ’68 e ricordo perché finì in tv a ricordare il ’68, essendo imputato per uno degli affari di corruttela più impressionanti nella storia di questo Paese, vestito come un manager deve essere vestito, e questo prima del suo attuale esito esistenziale

Ricordo i funerali di Primo Moroni, in piazza sant’Eustorgio a Milano, quest’uomo che per ore mi aveva spiegato, illustrato e fatto vivere la realtà argentina e magnetica del ’68, e intorno al suo cadavere serrato in una bara all’interno del suo leggendario furgone, mentre attorno si alzava la coltre di fumogeni violacei e la sua voce che leggeva una poesia a lui dedicata da Fortini, dico che ricordo i compagni di lotta sessantottina di Primo Moroni, che quella lotta l’avevano rinnegata e stavano in silenzio, presenti, eretti e rigidi ai margini della piazza, un poco nascosti e più seppelliti del corpo insepolto di Primo Moroni, seppelliti di un innegabile senso di colpa, questi bipedi eretti provenienti da grandi aziende, conosciutissimi perché le loro foto e i loro nomi apparivano su testate che in alcuni casi loro stessi dirigevano, vestiti come pinguini, autentici uomini di azienda, cioè uomini in cui l’azienda è penetrata come un ultracorpo

Ricordo il volto di mio zio Gino, ex partigiano, pronto alla lotta armata nel 1973, uno dei primi ricordi che ho, e la spiegazione di quello sguardo disgustato e deluso che suo fratello, cioè mio padre, ne diede anni dopo, me cosciente, quando disse: “Non solo gli ideali della Resistenza, ma addirittura quelli del ’68, sono andati frantumati dallo stato delle cose, e Gino non resse”

Ricordo l’incontro alla Rai con un alto dirigente, mentre pietisco lavoro essendo disoccupato, lui ex sessantottino, conosciuto mentre ricordava di essere stato a Parigi nei “momenti più caldi”, dirmi che per me non c’è lavoro perché “non hai la copertura politica”

Ricordo il primo premier ex comunista della storia d’Italia, che fece il ’68 essendo allievo alla Normale di Pisa, e dice sì alla guerra al di là dell’Adriatico, e giustifica il sì con sillogismi che innalzano onde anomale di vergogna umana e di sangue altrettanto umano

Ricordo gli operai e i diritti conquistati anche grazie al ’68, ma non soltanto grazie al ’68, che se li vedono erodere e mangiare fino al culmine costituito dal referendum sulla scala mobile, vinto da Craxi che si autodefiniva socialista e aveva “fatto il ’68”

Ricordo il poeta Antonio Porta dirmi che “o la poesia, la letteratura è rivoluzionaria o, semplicemente, non è” e, accanto a questo magistero, i ricordi e i discernimenti su ciò che secondo lui nel ’68 era stato “rivoluzionario nel senso autentico del termine e ciò che era reazionario e omologato sotto spoglie di falsa rivoluzione”

Ricordo la baronia letteraria e critica e giornalistica di certi nomi importanti, traduttori, scrittori, poeti, critici di teatro, che scrissero libri di versi a così caro sangue sul ’68 che, dopo il 1980, di sangue non ne avevano più e apparivano cerei e inarrivabili e dispregiatori di ogni conato di nuova intelligenza, come Mandarini dall’impenetrabile corte

Ricordo la mia facoltà universitaria che costrinse all’infarto un docente che ancora si ostinava a propalare un insegnamento apparentemente anarchico e veracemente sessantottino, un luogo senza spazio né tempo in cui io e altri apprendavamo sul serio

Ricordo il docente di Estetica, che muoveva da Lukács e dal ’68, approdare a uno Spengler letto male e a uno Junger letto peggio, con un salto, oplà, ideologico che non comportava alcun processo di sofferta revisione interiore e di assunzione di eventuali responsabilità

Ricordo il giorno in cui si suicidò Guy Debord e lessi un vergognoso coccodrillo (che si cibava delle spoglie indifese del cadavere) sul Corriere a firma Macciocchi, e io e il mio più caro amico progettammo di recuperare un televisore rotto dalla discarica dietro Parco Alessandrini e portarlo in piazza Duomo a Milano, ai piedi della statua equestre su cui troneggia il re nano di bronzo

Ricordo il poeta sessantreino, poi diventato sessantottino, chiamato a tradurre il messale dal latino all’italiano contemporaneo, tutto fiero di questa chiamata ecclesiastica, e poi sparare a zero, morto Franco Fortini, contro Fortini stesso, in un’intervista postuma per Fortini e mai postuma per quel poeta che, a tutt’oggi, si permette di intervenire con fare censorio contro chi tenta di demummificare la situazione culturale di un Paese che aspira a essere faraonico e lo è: uno di quei faraoni tombali, residui fasciati di una memoria fastosa sideralmente distante nel tempo

Ricordo che il ’77 non è il ’68, lo ricordo per la seconda volta

Ricordo la foto in bianco e nero di mia madre e mio padre a una manifestazione nell’estate del ’68, felici, sorridenti, come mai li ho visti da quando nacqui, e camminavano insieme a tanti altri in corso di Porta Venezia, davanti a Palazzo Serbelloni

Ricordo Brandirali leader dei maoisti, passato a Comunione e Liberazione, il suo freno sul progetto di Città della Cultura all’ex Fabbrica del Vapore, e tutti i comportamenti che portarono lo scrittore Antonio Moresco a immortalarlo in righe memorabilli nel libro Lettere a nessuno

Ricordo gli appartenenti alla fazione comunista migliorista milanese, composta da ex sessantottini, che anticipano, con rovinose premesse, la deriva altrettanto rovinosa di quello che oggi ancora non esiste e già ha un nome e si chiama Partito Democratico e non è più il partito fondato da Antonio Gramsci, che sto ristudiando e del quale non riesco a scorgere una riga dove non abbia ragione su ciò che prevede per il tempo in cui io sto vivendo

Ricordo i film di Lizzani e ricordo poi le sue performance miliardarie due anni fa, in un abominio televisivo, girato per compiacere la Lega nord, sulle Cinque Giornate di Milano, con set a Torino

Ricordo che negli anni Novanta, all’inizio, la controinformazione che era nata nel ’68 nelle sue modalità quintessenziali, era lasciata impraticata e se la si praticava ci si meritava immediatamente l’aggettivo di “fascista”, perché la controinformazione era diventata una teoria dei complotti, e di questo slittamento ridevano e ciarlavano con sorrisi antropomorfi ma non umani

Ricordo lo scatenamento dell’immaginario e il fatto che, dieci anni dopo il ’68, leggere Tolkien era reazionario e la Nuova Destra di Marco Tarchi organizzava i siddetti “campi hobbit”, finché lo scrittore Valerio Evangelisti, con una prepotenza di cui l’Italia dovrebbe essergli grata, strappò il fantastico letterario da quella assolutamente indebita connotazione ideologica

Ricordo che Gilles Deleuze, per me l’autentico padre del ’68, si suicidò e non mi chiedo perché, visto che conosco la risposta, e la risposta non è che una malattia gli impedisse la sua quota di epicureismo

Ricordo che Gilles Deleuze è oggi de-deleuzizzato, con un’agilità irresponsabile, apolitica e mistificatoria

Ricordo un alto dirigente di Publitalia vantarsi che tutti i suoi colleghi avevano fatto il ’68 ed erano tutti amici e adesso erano tutti assieme in questa impresa geniale e fantastica, ed era il 1996 quell'”adesso”

Ricordo che il verde Alexander Langer si suicidò e credo di sapere perché

682.jpgRicordo all’inizio degli anni Ottanta, sui giornali, che per fortuna personale leggevo attentamente ogni dì, imporsi le categorie di “giovani” e di “privato”, con conseguenze culturali devastanti che sono sotto gli occhi di chiunque, tranne di coloro che non vogliono vedere

Ricordo che a 18 anni ero una giovane promessa della poesia italiana e a 37 anni sono un giovane scrittore promettente

Ricordo che negli anni Ottanta e nei Novanta e in questi anni è stato attuato un processo che ha menti e corpi che lo hanno incarnato, e, se ci mettiamo a fare un elenco di nomi di notabili e li raffrontiamo con dichiarazioni dei medesimi e biografie personali, emergerebbe che più della metà partecipò con scanzonata irresponsabilità alla configurazione mobile di una festa collettiva che aveva un sogno per il pianeta

Ricordo che le prime vittime di questa scanzonata irresponsabilità dei vertici (e i vertici non sanno sognare) sono persone che sono morte, hanno ucciso, sono state emarginate e schiacciate dal potere istituzionale nel decennio detto “di piombo”, ovverosia gli anni Settanta

Ricordo che ex-sessantottini sono in prima fila per tenere aperta la ferita degli anni Settanta, sentendosene censori ed essendone colpevoli, ben più moralmente colpevoli di una generazione falcidiata, che tentò ciò che era stato preparato senza protezione per chi veniva dopo

Ricordo che questo ’68 di cui io ricordo è composto di gentaglia che è un pugno di persone, a fronte dell’immensa mobilitazione popolare che effettivamente diede impulso e forza al ’68, confidando in leader che tradirono, senza colpo ferire, quelle speranze e quei sogni

Ricordo che l’eredità del ’68 che dev’essere contestata non è valoriale, ma ha rappresentanti corporei che determinano una élite attualmente al potere in ogni àmbito produttivo, organizzativo, istituzionale, pedagogico, comunicativo della nazione

Ricordo che ho visto Toni Negri insultato dal figlio a un pubblico dibattito, il figlio dire che la gente neanche si immaginava cosa fosse nel privato Toni Negri

Ricordo, affacciandomi dal ballatoio della casa dove abitavo due anni fa, nel palazzo sulla destra, a piano terreno, nel suo giardinetto, Mario Capanna fumare solitario e depresso una sigaretta e lamentarsi col vicino che aveva lanciato nel giardinetto dello stesso Capanna due foglie secche, urlando che il suo giardino era “proprietà privata”

Ricordo che il vicino di Mario Capanna è il massimo esperto, non italiano bensì europeo, di cirrosi epatica, e l’Università lo ha respinto fino a ora e lo ha sbeffeggiato, e i fondi sulle ricerche se li è dovuti conquistare con una fatica immane, da solo, ed erano fondi destinati a salvare vite, e questo primario è diventato tale a furia di risultati scientifici di rilievo internazionale, in un ospedale che è il più sfigato di Milano e rischia di chiudere ogni anno, perché la sanità, in Lombardia, è affare di CL e questo medico ha fatto il ’68, permane per vocazione e testardaggine ideologica a compiere il suo servizio che è pubblico e a Los Angeles ha illustrato i risultati di una ricerca prendendosi cinque minuti di applausi senza soluzione di continuità

Ricordo che un’amica sororale, a Comiso, a sedici anni, prendeva manganellate dalla polizia davanti alla base militare, mentre i responsabili comunisti, che erano ex-sessantottini, le dicevano di smetterla, che c’erano ormai altri modi per protestare e comporre le differenze, e lei grondava sangue, fuori e dentro, fino a oggi

Ricordo il film sul ’68 di un ex-sessantottino come Bertolucci, The Dreamers, una specie di autorevisione che lascia allibiti, girato malissimo, e i cineasti internazionali a Venezia hanno scosso la testa, quando sono stato convocato in giuria e il discorso è caduto su quel film, su quella indegna spiegazione che si pretende apodittica sul ’68 figlio di una borghesia viziata, e uno dei massimi registi europei contemporanei diceva che “Definitively Bartoluci has finished at all”

Ricordo che la sottocultura berlusconiana è stata trasformata in continuo evento culturale, svuotando il valore effettivo di ciò che è culturale, da uno che fa il sindaco e farà il premier e ha fatto il ’68 e ha come mito Kennedy, che è tra l’altro l’uomo che diede inizio alla guerra nel Vietnam, contestando la quale negli USA soffiò forte il vento del ’68

Ricordo che nei dibattiti sul lavoro, oggi, non c’è ex-sessantottino che tenga presente la fulminea analisi di Baudrillard: “Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare”, e che perciò la questione del lavoro è in realtà deideologizzata da coloro stessi che ne ereditarono il carico analitico dalle generazioni che li precedettero e che sperperano la capacità di analisi concreta e fattiva, trasmettendo questo vuoto pneumatico a coloro che vennero dopo di loro, cioè noi – interrompendo una trasmissione tra umano e umano che è l’unica legge morale a cui ci si può appigliare a questo mondo

Ricordo che Gyorgy Lukács ha detto che “più aumentano la razionalizzazione e la meccanizzazione del processo lavorativo, più l’atteggiamento del lavoratore perde il suo carattere di attività per trasformarsi in un atteggiamento contemplativo“, il che riassume in toto l’atteggiamento che irradia questa élite uscita illegittimamente dal ’68 e attualmente irradiante disvalori di tal fatta, dalle plance tecnocratiche che si contenta di gremire

Ricordo che Guy Debord, prima citato in veste di suicida e non di teorico, può essere citato ancora non in quanto teorico bensì come uomo che invera uno dei portati genuini e popolari del ’68, nella sua prefazione del ’79 all’edizione della Società dello spettacolo, quando scrive: “Niente è stato peggiore, tuttavia, di ciò che ho visto in Italia dove, nel 1968-9, l’editore De Donato ha pubblicato la più mostruosa di tutte le traduzioni del mio libro, solo parzialmente migliorata dalle due edizioni rivali che l’hanno seguita. All’epoca, comunque, Paolo Salvadori era andato a trovare nei loro uffici i responsabili di un simile affronto e, dopo averli colpiti, aveva loro letteralmente sputato in faccia: perché tale è naturalmente il modo di agire dei buoni traduttori, quando ne incontrano di cattivi. E’ inutile dire che la traduzione per la quarta edizione italiana, fatta da Salvadori, è finalmente eccellente”, e questo è ciò che esce dal ’68 come portato di scrupolo, rigore e approccio alla cultura

Ricordo una seduta sulla traduzione al Salone del Libro di Torino dove una ex-sessantottina sembra amplificare una richiesta sacrosanta di formazione allargata, ma lo fa per lanciare il suo corso privato e a pagamento di traduzione, a fronte di una platea di giovani inconsapevoli che, immancabilmente, cadranno nella trappola

Ricordo che, se scrivessi io quanto sto per citare, mi piglio una causa, mentre non si può fare causa a un morto, che però dice cose che dovrebbero essere ascoltate, a distanza di ventotto anni dai fatti, e il morto che parla è ancora Guy Debord, qui finalmente in veste di fenomenologo e teorico: “Giorgio Bocca, che passa per il miglior analista della stampa italiana e che fu nel 1975 la prima vittima del Rapporto veridico di Censor, trascinando subito nel suo errore tutta la nazione, o almeno lo strato qualificato che scrive sui giornali, non è stato scoraggiato dal mestiere a causa di questa disgraziata dimostrazione della sua stupidaggine. E può anche darsi che sia un bene per lui che essa sia stata provata allora da una sperimentazione così scientifica perché, altrimenti, si potrebbe essere pienamente convinti che è per venalità, o per paura, che nel maggio 1978 egli ha scritto il suo libro Moro: una tragedia italiana, nel quale si fa premura di trangugiare, senza perderne una, tutte le mistificazioni messe in circolazione, per rivomitarle dichiarandole eccellenti. Un solo istante egli è indotto ad evocare il centro della questione, ma beninteso all’inverso, quando scrive: «Oggi le cose sono cambiate; con il terrore rosso alle spalle, le frange operaie estremiste possono opporsi o tentare di opporsi alla politica sindacale. Chi ha assistito a un’assemblea operaia in una fabbrica come l’Alfa Romeo di Arese ha potuto vedere che il gruppo degli estremisti, non più di cento persone, è però in grado di stare in prima fila e di urlare accuse e insulti che il Pci deve sopportare». Che degli operai rivoluzionari insultino degli stalinisti, ottenendo il sostegno di quasi tutti i loro compagni, non c’è niente di più normale, poiché vogliono fare una rivoluzione. Non sanno essi forse, istruiti da una lunga esperienza, che la condizione preliminare è quella di scacciare gli stalinisti dalle assemblee? E’ per non aver potuto farlo che la rivoluzione fallì in Francia nel 1968 e in Portogallo nel 1975. Ciò che è insensato e odioso è di pretendere che queste «frange operaie estremiste» possano giungere a questo stadio necessario perché avrebbero, «alle spalle», dei terroristi. Al contrario, è proprio perché un gran numero di operai italiani è sfuggito all’inquadramento della polizia sindacal-stalinista che ha dovuto essere lanciata la «brigata rossa», il cui terrorismo illogico e cieco non può che dar loro fastidio; mentre i mass media coglievano l’occasione per riconoscervi senza l’ombra di un dubbio il loro distaccamento avanzato, e i loro inquietanti dirigenti”

Ricordo la fatica di una miltanza culturale quotidiana, pluriennale, fatta in Rete instancabilmente da poche persone, uomini di lettere e di genio, la qual cosa differisce essenzialmente dall’essere uomini di azienda, per riconnettere un tessuto culturale comunitario, della qual cosa un editore che fu sessantottino e ora sta dall’altra inqualificabile parte mi ha rivelato. “Non ne capisco nulla e non mi frega niente. E, se non frega a me, significa che sicuramente non è importante”

Ricordo la pavidità di chi a tutt’oggi in certe grandi aziende si definisce comunista o di sinistra e al tempo stesso guarda con sdegno alle manifestazioni del ’68 più creative, innovatrici e letali per le mostruosità mercantilistiche in cui personaggi simili natano come se si trovassero nella piscina di villa Rockfeller (mentre si trovano in una bagnarola presa al mercato rionale, laddove solo la loro febbre può alterare la percezione tanto da farne ai loro occhi in deliquio un vascone aureo)

Ricordo un’amica dire, in una lontana cena, che “la coscienza di sé è in sé e per sé in quanto e perché è in sé e per sé per un ‘altra coscienza di sé: ciò vale a dire che essa non è se non come qualcosa di riconosciuto”, che è una citazione da Hegel, e viene guardata come una pazza e poi viene pubblicamente definita come tale, proprio mentre aveva dichiarato uno dei fondamenti ideologici imprescindibili di tutto il ’68, e chi le dava della pazza era implicitamente automesmerizzato in un incantesimo surreale, per cui si voleva portatore dell’eredità sessantottina

Ricordo, per chi fosse giunto a questo punto, con pazienza e/o irritazione, che io, nato nel 1969, non ho da chiedere legittimità a nessuno, tantomeno ai falsi padri che si fanno scudo con un’idea distorta e immorale del ’68, e dico immorale perchè la loro voce seppellisce milioni di altre voci che non hanno ora pubblica rappresentanza e nel ’68 subirono e imposero, fecero, loro sì davvero, il ’68

Ricordo, per essere ancora più idiosincratico, che la legittimazione non viene richiesta, ma non prelude a nessun desiderio di potere, il quale considero un implacabile anticorpo del sistema immunitario antiumano e una iattura per chiunque desideri gestirne la corrente elettrica che sempiternamente si schiera contro l’umano grazie alla sua capacità magnetica

Ricordo che Contro il ’68 di Alessandro Bertante è il primo pamphlet a essere pubblicato non contro una stagione, ma contro un preciso blocco generazionale e culturale, per cui il primo pamphlet contro il ’68 esce da un editore alternativo, e non da un grande editore, nel 2007, e non nell’84 o nel ’93

Ricordo che la comunità è sempre rivoluzionaria ed esiste sempre, anche quando sembra non esistere, e spacca ogni istituzione, anche l’istituzione che pare schierata contro le istituzioni e invece non lo è – lo stato primordiale da cui mosse il ’68, che può ripetersi, inatteso e potente, in ogni momento e in ogni luogo, anche dopo lunghi periodi di apparente latenza

Ricordo che per me vivere è partecipare a quel momento comunitario oppure non è, e, se non è, è vivere una vita della falsificazione, che la mia formazione filosofica e umanista asserisce immediatamente essere una vita falsificata, checché ne pensi qualunque mio contemporaneo

Ricordo che prima dell’appropriazione del territorio, esiste il territorio, e che l’orizzonte stesso di qualunque territorio è sempre al di là della conquista di ogni porzione del territorio, e che il territorio di cui scrivo non ha fine finché un umano sia cosciente, vivo della vita non falsificata, innestato nel suo habitat di sogni e allucinazioni: il territorio è l’umano