di Marco Philopat

GuerrieriDellaNotte.jpgL’amico Marco Philopat ci ha autorizzati a riprodurre la sua introduzione al libro di Alessandro Bertante Contro il ’68, per capire meglio gli intenti della pubblicazione (di cui Philopat è anche editore). Lo facciamo volentieri, dividendo il testo in due puntate, per via della lunghezza. Premettiamo uno stralcio significativo della lettera di Philopat. (V.E.)

Innanzitutto non è certo un libro storico, ma un amaro sfogo di un figlio che non è riuscito a uccidere il proprio padre. E a mio parere, anche il ’68 italiano non è riuscito ad ammazzare il proprio padre/padrone, il Pci, creando una devastante situazione per tutti coloro che hanno tentato di opporsi al capitalismo nel corso di questi ultimi trent’anni. Eppure, nel nostro paese, il movimento dei lavoratori aveva per lungo tempo rappresentato una forza di contrapposizione reale, tanto da incutere timori a chi era intenzionato a instaurare una qualsiasi forma di nuovo ordine mondiale.

Certamente il ’68 è stato tutt’altro da quello descritto nel pamphlet di Bertante, ma indubbiamente se non ci fosse stato il Pci a progettare, realizzare e imporre “i lager di stato per l’autonomia”, (frase pronunciata per telefono da Petruccioli, allora dirigente del Pci, alla vigilia del 14 maggio 1977 a suo cugino Scalzone), forse adesso non ci ritroveremmo solo tre parlamentari che votano contro la guerra… Ecco il perché di questa operazione provocatoria, un sasso lanciato contro la nuova inquisizione condotta in Italia anche dai vertici di un partito che una volta, tanto tempo fa, difendeva il proletariato. Una svastica che si distrugge insieme a un crocifisso, diceva Johnny Rotten commentando la sua maglia che assomigliava a una camicia di forza da manicomio…
Insomma il discorso si farebbe molto lungo e di certi argomenti preferisco parlarne vis a vis e magari in un dibattito pubblico. Mi auguro si possa organizzarlo in breve tempo in luoghi adatti.
Come AgenziaX abbiamo creduto importante pubblicare un libro del genere per sviluppare delle riflessioni e per evitare di cadere nella trappola intellettualoide sul genere di questo messaggio preso dal blog della Lipperini a proposito di “Contro il ’68”… “
In queste condizioni sociali, se un trentenne costruisce una buona mistica dell’assurdo e della storia come teatro del Male, è già un gran successo; altro che rivoluzioni”. Ma quando mai i moti rivoluzionari sono stati assenti nella storia dell’umanità?

Mi chiamo Philopat e più di ogni altra cosa mi sento un personaggio dei cartoni animati; in questa veste posso permettermi di parlare liberamente del rapporto tra il sessantotto e i suoi strascichi nell’odierna industria culturale italiana. Colgo l’occasione offertami da questo provocatorio pamphlet di Alessandro Bertante. Leggendo le pagine di Contro il ’68 sono rimasto colpito dalle frasi che spiegano la differenza che ha avuto nell’immaginario nostrano la partita di calcio Italia-Germania finita 4 a 3 durante i mondiali in Messico del 1970 (si trattava solo di una semifinale), rispetto alla vittoria finale dell’Italia, sempre sulla nazionale tedesca, nei mondiali del 1982 in Spagna. Quel trionfo inaspettato passò in sordina, mentre Italia-Germania 4 a 3 è persino il titolo di un film. La sinistra italiota si è nutrita per anni, e forse continua a farlo, delle gesta dei “messicani” Gianni Rivera e Gigi Riva, mentre gli “spagnoli” Paolo Rossi e Franco Causio sono stranamente passati nel dimenticatoio. Non che sia un appassionato di football, anzi… Ma in alcuni dibattiti mi è capitato di sollevare la questione calcistica, manco fossi Beppe Viola, parlando di un’epoca di cui per certuni era perfettamente inutile occuparsi a livello storico e per descrivere come e perché i punk si ritrovarono, proprio all’inizio degli anni ottanta, in una situazione così isolata e disperata. Nella società come nel calcio ci sono momenti ricordati e celebrati fino alla nausea, altri invece sono sistematicamente dimenticati. Infatti nessuno si è mai sognato di fare un film nostalgico sui mondiali spagnoli… Nel 1982 c’era il riflusso, il craxismo della Milano da bere, e il movimento era una tabula rasa. I punk, unici giovani bocconcini sovversivi per uno spropositato apparato di repressione poliziesca, erano barricati dentro il covo del Virus e insieme a tutta Italia gioivano per le imprese di Pablito Rossi. Alcuni di loro cominciarono in quei giorni a frequentare la libreria Calusca di Primo Moroni e a capire meglio ciò che era successo negli anni settanta. Probabilmente, se non ci fosse stato questo incontro, i punk milanesi non sarebbero riusciti ad aprire lo scrigno blindato dei cosiddetti anni di piombo. Forse, avrebbero presto pensato che ogni cosa inventata, creata e scaturita nella loro gioventù era spazzatura, merda, roba da buttare via se paragonata alle imprese sessantottarde… Appunto come una semifinale calcistica che nella riscrittura a posteriori supera di gran lunga una finale. Senza questo incontro, i punk avrebbero anche loro ingurgitato l’unica verità storica disponibile, quella scritta dai vinti su commissione dei vincitori.

Era interesse di costoro addossare l’intera responsabilità di ogni misfatto al periodo della seconda metà degli anni settanta, in particolare al movimento del ’77, di cui in questi mesi si celebra il trentennale, ricordandolo perlopiù come un tragico epilogo del sessantotto. Ma non andò così. Primo Moroni, che nel corso dei suoi ultimi vent’anni di vita non si stancò mai di organizzare dibattiti, incontri e conferenze dal titolo: “Liberiamo gli anni settanta”, nel suo libro scritto con Nanni Balestrini, L’orda d’oro, a proposito del ’77 scriveva: “in quell’anno si sommano gli effetti di una prolungata stagione di lotte operaie e di una esplosione culturale dei movimenti di rivolta dei disoccupati e dei giovani, di tutti coloro che si sentono minacciati dal nuovo assetto produttivo che si intravede all’orizzonte nel postindustriale”. Nei primi mesi del ’77, anche se a Milano il tutto fu anticipato all’estate del 1976, il tono delle lotte era ancora quello della rivoluzione dietro l’angolo, della speranza messianica, della fiducia euforica in una comunità liberata, ma nei mesi successivi, dopo l’impatto con la durezza della repressione e soprattutto con la spietata logica della competitività sul lavoro, la disoccupazione inevitabile, l’emarginazione galoppante, divenne predominante il tono disperato e autodistruttivo, il rifiuto di sopravvivere in un’epoca disumana, in cui tutti i valori della solidarietà sarebbero stati cancellati. Sempre in L’orda d’oro si legge: “In questo senso possiamo dire che il ’77 fu al contempo una sintesi degli anni sessanta e settanta e una cupa premonizione degli anni ottanta”. Questo prezioso e fragile anello di congiunzione generazionale sembra totalmente trascurato dai sessantottini che stanno riscrivendo la storia di quel decennio, anzi, in qualche modo i settantasettini sono i più vituperati, criminalizzati e infine dimenticati. Eppure, esattamente come i punk, sono esistiti e hanno portato avanti una battaglia durissima in una situazione capovolta, una lotta corpo a corpo con una società in rapido cambiamento. Poi si sono sorbiti per trent’anni i racconti di un fantastico mondo che non avevano vissuto e che non sarebbe mai più arrivato. Da qui nascono i livori dei più giovani nell’Italia dei giorni d’oggi, i figli dei sessantottini che non riescono più ad accettare una verità raffazzonata e che finalmente provano ad alzare la voce.

Per una questione anagrafica, dei fasti della stagione sessantottina i punk inizialmente conoscevano solamente i giovani settantasettini. “I punk sono i figli disperati del no future, figli inconsapevoli di un modello di produzione ormai superato, e con lui tutto il ciclo di lotte precedenti” scriveva ancora una volta Primo Moroni. Se oggi si guarda e si ascolta attentamente l’interminabile film sul festival del Parco Lambro del 1976, girato da quattro troupe di videoteppisti e da tre troupe di cinematografari coordinati da Alberto Grifi, si può notare che, nonostante il look e l’abbigliamento siano diversi, gli sproloqui e le argomentazioni allucinogene dei partecipanti al festival si avvicinano sorprendentemente a quelle dei punk: rifiuto del lavoro, centralità del soggetto desiderante, crisi della militanza e della forma partito. Soprattutto esprimevano preoccupazione per un futuro che senz’altro sarebbe stato radicalmente diverso, non solo da quello dei padri, ma anche da quello dei loro fratelli maggiori… E così fu… Se oggi i sessantottini, indipendentemente da dove si collocano, destra o sinistra, sono ai vertici dell’industria culturale italiana, per i pochi settantasettini sopravvissuti non ci sono nemmeno le briciole. I vertici della politica di sinistra invece sono rimasti saldamente in mano alla classe dirigente precedente al sessantotto. Per fare qualche esempio si può parlare di D’Alema, allora dirigente della Fgci, e quindi dall’altra parte della barricata, o di Fassino, che nella sua tragicomica autobiografia afferma di non avere vissuto il sessantotto in quanto, dopo la morte prematura del padre, si era dovuto sobbarcare le responsabilità di un adulto. O ancora di Veltroni, che probabilmente allora faceva il chierichetto, magari a fianco a un prete rosso, ma pur sempre un chierichetto. I sessantottini autosconfitti sono stati quindi sistemati nell’industria culturale, da dove era più facile svolgere il ruolo che i vincitori gli avevano assegnato, cioè riscrivere la storia. Qualcuno ha mantenuto una sfumata apparenza degli antichi valori, altri, i più cinici, si sono trasferiti a destra. Nessuno di loro aveva probabilmente capito un film americano di quel periodo, amato sia dai punk sia dai settantasettini: I guerrieri della notte.

“Gli uomini che hanno il potere sono coloro che ci hanno spinto uno contro l’altro.” Sono le parole della scena iniziale del film, con cui il capo della gang dei Riff, Cyrus, arringa le migliaia di ragazzi delle bande di strada dei diversi quartieri di New York. Frasi semplici e dirette: allearsi per opporsi all’oppressione e alla violenza poliziesca; combattere i padroni del potere e conquistare la città intera. E qui ci sono dei paralleli con la celebre speranza della rivoluzione dietro l’angolo che mosse i giovani ribelli italiani all’alba del 1977. Al termine del comizio, Cyrus viene ucciso da alcuni traditori e i Guerrieri saranno ingiustamente accusati dell’omicidio. Anche i settantasettini erano, già allora, i capri espiatori di una tragedia che coinvolgeva l’intera società e come i Guerrieri si sentivano braccati, senza scampo. Le manifestazioni che si susseguivano ogni sabato si svolgevano in un clima di conflitto aperto. La notte, i ragazzi tornavano in quartieri che già si stavano riempiendo di masse amorfe e teledipendenti che chiedevano più sicurezza e di cui proprio oggi, almeno a Milano, vediamo dispiegarsi i cortei bipartisan. Erano braccati, ma non volevano arrendersi a un futuro così di merda. Il lungometraggio della storia però non ebbe un lieto fine come in I guerrieri della notte, i nostri Guerrieri furono semplicemente lobotomizzati, chi nelle galere, chi nel riflusso e in tantissimi con l’eroina. Il cambio repentino del modello produttivo, l’improvviso declino della grande fabbrica fordista e di tutto il ciclo di lotte operaie collegato, causarono profonde lacerazioni nel precario equilibrio delle forze di opposizione gettando le basi per l’imposizione del nuovo ordine sociale che si sarebbe dispiegato negli anni a venire. Le responsabilità di tutto ciò non vanno certo ricercate in qualche migliaio di giovani resistenti che si opponeva tale ordine. Arrivò poi la grande ristrutturazione e i punk gridarono il no future. Giunse il mercato globale e i centri sociali divennero fragili case del popolo. Arrivarono infine i ministri del culto televisivo, l’espansione dell’impero e la ridefinizione della proprietà privata e tutto si fece silente… Tranne le rinnovate genuflessioni culturali della generazione infinita sul tipo: “che bello il ’68, quanto è brutto il ’77”. Evviva l’ondata creativa, abbasso la violenza. Scordandosi a priori le contraddizioni interne innescate da molti fattori. Uno su tutti: la strategia della tensione.

(CONTINUA)