di Claudia Andretta

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– Non mi dicesti mai quale fu la vera ragione per la quale decidesti di entrare al Licevm, e io non te lo chiesi.
Prendo una breve pausa, lasciando che le parole dei miei ricordi – che stringo a me con forza, che afferro per appropriarmene ancora una volta – fluiscano nella mia mente e arrivino sulle mie labbra. Così che io possa pronunciarle, e dividerle con lei, e raccontarle cose che conosce già, e che tuttavia la morte potrebbe averle portato via.
Questo non lo so, e non m’importa, in verità.
Voglio solo avere l’illusione di parlare con mia sorella ancora una volta, a un anno dalla sua scomparsa.
Voglio solo credere che lei sia qui, materializzata nei mille piccoli frammenti di luce che giocano sulle lettere del suo nome che furono incise sulla pietra da Khristalia, in quel giorno maledetto.

Voglio ricordare insieme a lei quando, quel giorno, a due settimane dal suo ingresso in Accademia, mi disse cose sulle quali non ho mai indagato o chiesto conferma, ma che ho tenute strette nel mio cuore, come un dolore condiviso, come una disillusione subita insieme a lei, per compassione e per amore.
– Una sera, tuttavia – riprendo a dire – dopo gli allenamenti, riverse esauste nei nostri letti vicini, la lingua resa avvezza alle chiacchiere dal sangue che scorreva più rapido e liquido nelle nostre vene, per la fatica e la stanchezza, iniziammo a scambiarci confidenze.
Ridacchio, alle mie parole -sentendomi terribilmente sciocca, per questo.
– E se io non avevo proprio nulla da dirti che non sapessi già dalle mie lettere mensili, tu avevi lasciato molto di non detto, nelle tue.
Inspiro profondamente, e poi ricomincio a parlare.
– Era un anno e mezzo che languivi, chiusa tra le mura del Santuario, divenute immediatamente opprimenti quando, un giorno, facesti da usciera a un giovane nobile e al suo seguito in visita alla Capitale, recatosi al Tempio degli Dei per un’offerta. Lui ti guardò con un paio di occhi che immediatamente stregarono il tuo animo romantico. E, benché io non sappia decidere se per fortuna o per disgrazia, evidentemente egli fu a sua volta ammaliato da te -e come non avrebbe potuto!
Rido un istante, ricordando l’avvenenza della mia dolce sorella.
– Mi dicesti solo che iniziaste a incontrarvi, e che lui prese residenza a Sintoriah proprio per te, per poterti vedere. Mai, tuttavia, tu tradisti i tuoi voti, trai quali la castità e l’impegno a non abbandonare il noviziato fino al giorno della tua investitura a Sacerdotessa. Allora, e solo allora, avresti lasciato il Santuario e avresti fatto in modo di diventare sua moglie.
– Avresti intrapreso una vita ben lungi dall’essere quella fuori dall’ordinario tipica delle Sacerdotesse di Bashemath e Keliyah: quella di moglie e madre; ma avresti vissuto bene, e felice, innamorata e amata a tua volta. Non c’era prospettiva più bella, per te, in quel momento: così mi dicesti.
Mi rabbuio, adesso, perché le mie espressioni seguono le mie parole e le note interne ai miei sentimenti.
– Ma lui non ti aspettò. Parlò di doveri verso la sua famiglia, della necessità di prendere moglie il prima possibile, di affari da portare avanti al sud, da dove egli veniva. Parlò di cose che non ti interessavano, in realtà, e che a malapena comprendevi. Le prendesti tutte come scuse o come bugie, e ciò nonostante non glie ne facesti una colpa, non foss’altro che per il suo estremo tentativo di portarti via dal Santuario, di nascosto e protetta dalla notte e dai suoi cavalieri.
– “Gli Dei sanno se non avrei voluto!” mi dicesti quella notte, in un sospiro. La vita al Tempio non era stata decisamente quella che ti aspettavi, e di questo non avevi fatto segreto nelle tue lettere – o almeno, non quanto avevi fatto con la tua storia con quell’uomo, rimasto per me senza nome. Ma ad ogni modo finisti per credere che la ragazzina di otto anni che ero stata avesse ragione: che la Magia non esisteva, o che, se proprio da qualche parte rimaneva qualcosa di essa, non era certo quaggiù in Ilendar, ma nelle Terre del Crepuscolo che così irreparabilmente erano separate da noi, così gelosamente celate dai nostri sovrani.
– Avevi assistito ai vaticini della Somma Sacerdotessa e del suo Sposo, e avevi presieduto a decine -se non centinaia – di riti, nei cinque anni di noviziato. E avevi finito con il convincerti che molto poco di quel che accadeva nel Santuario fosse realmente ispirato dagli Dei, e che la vera estasi era quella del danaro e della politica.
Sospiro, e non trattengo il mezzo sorriso che mi piega il labbro, mentre dico:
– E ti ricordasti della tua sorellina, e della sua follia e dell’amore per la spada. E decidesti di raggiungermi: “perché non c’è menzogna, nell’immediatezza dell’azione marziale”.

*****

In piedi sulla soglia del grosso portone aperto, che dava accesso a uno dei cortili, appoggiata allo stipite, le braccia conserte e un piede incrociato sull’altro, Ranya osservava, sorridente e silenziosa, sua sorella che con grazia letale scambiava colpi di spada con un giovane uomo in uniforme.
Era leggermente più alto di Ieriel, i capelli castano chiaro trattenuti sulla nuca in una coda corta, ciuffi ribelli erano sparsi sulla sua fronte madida di sudore. Sferrava colpi contro Ieriel, penetrando spesso la sua guardia senza tuttavia mai arrivare a colpirla, e gridando esclamazioni che Ranya, dalla sua posizione, non riusciva a sentire, ma che avevano tutta l’aria di essere istruzioni.
Ieriel, dal canto suo, si difendeva come poteva, sfruttando l’agilità della sua stazza, e quando riusciva ad attaccare a sua volta, arrivava quasi sempre a penetrare la difesa del suo avversario, deviando all’ultimo istante la lama della spada in un’altra direzione.
Quello che era evidente agli occhi della loro silenziosa spettatrice, comunque, era che Ieriel doveva chiudere maggiormente la sua difesa, per evitare di essere colpita davvero.
Ranya era in Accademia solo da alcune settimane, e non aveva ancora avuto il tempo di apprendere molto; neppure avrebbe saputo dire quanto sua sorella Ieriel si battesse con abilità, a un anno e mezzo dal suo ingresso al Licevm, rispetto a quanto non facesse prima. In realtà era la prima volta che la vedeva duellare con qualcuno, e la scioltezza dei movimenti e l’agilità degli scatti le parvero sorprendenti, a dispetto degli affondi andati a segno e delle grida istruttorie del ragazzo contro il quale si batteva. D’altra parte, per essere stata inserita tra gli spadaccini di terzo livello – dove coloro che erano al primo erano prossimi all’investitura di Ufficiale dell’Esercito dell’Ilendar – dopo così poco tempo, immaginò che non avrebbe dovuto aspettarsi niente di meno da lei.
Mentre rifletteva su tutto questo, si accorse che Ieriel stava congedando con gesti formali e un’espressione seria sul viso il giovane uomo che era stato suo duellante, quel giorno, per quindici minuti dopo la fine degli allenamenti.
Quando Ranya la raggiunse, Ieriel baciò sua sorella sulla guancia e le posò una mano aperta sulla schiena, per indurla ad allontanarsi assieme a lei.
Sembriamo davvero sorelle, adesso, constatò Ieriel, tra sé.
Erano entrambe abbigliate con calzoni e casacca, un paio di stivali di cuoio a fasciar loro i piedi e le caviglie, uno stretto corpetto a contenere con i suoi lacci le loro forme femminili. Anche i loro capelli stretti in una lunga treccia oscillavano all’unisono dietro le loro schiene, quelli di Ranya chiari come il rame, quelli di Ieriel castani come il più scuro legno degli alberi.
– Chi era quello?
La voce della sorella distolse Ieriel dai suoi pensieri. Non le bastò che un’occhiata di sottecchi per accorgersi del sottile sorriso malizioso che piegava le labbra di Ranya.
– Tenente Jael Nerik, maestro di scherma di terzo livello – si limitò a rispondere lei, guardando davanti a sé, l’espressione del volto congelata nella sua serietà. Non aveva intenzione di dare adito alle idee decisamente strane e fuorviate di sua sorella.
– Mh. — fece Ranya, innocente. – E il tuo Tenente sa che avevi chiamato Khristalia la stressa spada che hai usato per duellare con lui? – chiese, e guardò Ieriel in viso, arricciando le labbra in un’espressione birichina, gli occhi ridenti.
NO! – squillò Ieriel. L’improvviso allarme nella sua voce tradiva il disinteresse che aveva mostrato sino ad allora. – E non deve saperlo. – fece poi abbassando il tono della voce, mordendosi il labbro inferiore per non ridere quando puntò il dito indice contro sua sorella, che ora le rideva in faccia senza ritegno.
Quando il momento di ilarità si fu esaurito, coperto dal rumore dei loro passi, e loro due ebbero percorso un paio di metri verso la porta che dava sulla sala mensa, Ranya se ne uscì con un:
– Mi sorprende che tu non abbia obiettato, quando ho detto “il tuo Tenente”.
Stavolta Ieriel si limitò a gettare gli occhi all’indietro e ad espirare pesantemente, con un atteggiamento falsamente esasperato.
Percorsero altri due metri in silenzio, poi:
– Hai sentito le ultime notizie? – Ieriel aveva cambiato argomento, e insieme tono di voce.
Ranya le rispose con uno sguardo interrogativo: il tono grave di sua sorella non le faceva pensare a nessuna buona notizia.
– Pare che il Gatarim sia avanzato con le sue truppe fino in Sadani – spiegò Ieriel. – E che il nostro Re sia ammalato.
Il tono della sua voce era calmo e freddo: Ranya sentì una morsa allo stomaco, alle sue parole, per quanto le stavano dicendo così come per il modo in cui erano state pronunciate. Il suo volto acquistò un’espressione contrita.
– Credi che la guerra coinvolgerà anche l’Ilendar? – chiese alla fine, alla ricerca di rassicurazioni.
– Questo non saprei dirlo. So però che è solo questione di tempo prima che Jonathan Howthrone lasci questo mondo. – rispose semplicemente Ieriel, negando così a sua sorella una risposta rincuorante.
– Allora sarà Dilène Howthrone a prendere il comando dell’Esercito, in caso di guerra – disse Ranya, asciutta, ma con una certa mestizia.
Era stata un’affermazione, non una domanda, e pronunciata con una sicurezza tale che Ieriel si voltò a guardare sua sorella con gli occhi spalancati, fermando per un istante i suoi passi.
– Davvero? – disse, ancor mezzo intontita. – Insomma, intendo dire: davvero credi che sarà la Principessa a guidare le truppe, in caso di guerra?
Non ci avevo mai pensato si disse di nuovo Ieriel, scioccata dalla notizia.
– Dimentichi che l’erede al trono dell’Ilendar è uscita da questa stessa Accademia due anni fa, dopo anni di addestramento. Perché credi che suo padre glielo abbia concesso? – spiegò Ranya a una Ieriel completamente stupita. – Jonathan Howthrone è stato Comandante dell’Esercito prima ancora di essere Re, e non ha figli maschi. Non è un’eventualità poi così assurda che sua figlia percorra lo stesso cammino, e rivesta le sue stesse cariche – concluse.
Già, pensò solo Ieriel, ancora stordita.
O forse l’aveva detto ad alta voce, o aveva annuito -non avrebbe saputo dirlo- perché Ranya stava a sua volta annuendo al suo indirizzo, in volto un’espressione soddisfatta per averla trovata d’accordo con la sua tesi.
Così, pensò Ieriel, quando accanto a sua sorella ebbe ripreso il cammino verso la sala mensa, in volto un’espressione preoccupata e meditabonda, l’Ilendar andrà in guerra guidato dalla Principessa erede.

*****

– E così fu: due mesi dopo Jonathan Howthrone, il nostro saggio e vecchio Re morì, lasciando la nostra Terra davanti al conflitto più vasto che si sia visto a Diaphane da quando fu istituita la Costituzione, e sua figlia, nostra attuale sovrana, ci condusse in guerra contro il Gatarim.
Questi sono ricordi che condividiamo, Ranya e io.
Parole che può sentirmi pronunciare ovunque lei sia. Anche accanto ai nostri Dei: perché loro sanno, e perché – devo crederlo – tutto questo è il loro volere.
– Ogni cosa andò come tu l’avevi pronosticata – scandisco, le labbra arricciate in un sorriso di soddisfazione.
– Confesso che all’epoca mi sorprese la tua cognizione di causa in materia, e il fatto stesso che le tue previsioni si fossero avverate in maniera così puntuale. Avevo erroneamente pensato che una giovane donna cresciuta nell’ambiente ovattato di un Santuario non sapesse niente di politica e di guerra. Ma tralasciavo che Sintoriah è la Capitale, e che le voci circolano. E, soprattutto, che i Sacerdoti e le Sacerdotesse sono educati alla politica, e ci convivono in maniera quotidiana.
Dico questo in maniera spontanea, fino a che non mi accorgo che sto per eccedere, andare oltre, oltrepassare una barriera che mi sono posta coscientemente, prima di venire qui.
Non posso dire davanti alla luce del sole e al nome inciso di mia sorella, inginocchiata come sono davanti al suo sepolcro, che quei cinque anni al Tempio devono davvero essere stati una grande delusione, per lei. La più bruciante della sua vita.
Che non vi imparò la Magia e i misteri degli dei, ma l’intrigo della politica e l’inganno di falsi vaticini, e quanto sia crudele la mente fredda e calcolatrice dei nobili.
Posso pensare tutto questo, e posso dirlo a me stessa.
Non posso pronunciare ad alta voce queste parole.
Per rispetto agli anni di sofferenza e speranza infranta in cui Ranya era stata lasciata languire, senza mai lamentarsi, senza una parola di sfogo o di rimpianto.
Le sue azioni e le sue decisioni hanno parlato per lei, alla fine.

*****

Erano trascorsi due anni da quando l’Esercito dell’Ilendar era corso in aiuto del Sadani, iniziando a rompere l’assedio stretto intorno ai suoi confini dai soldati del Gatarim, il vasto e montuoso territorio che occupa tutto il sud delle Terre di Diaphane.
Come un giorno Ranya, educata come una Sacerdotessa e addestrata come un soldato, aveva previsto in un dialogo con sua sorella, a condurre l’Esercito contro il nemico era stata e tuttora era Dilène Howthrone, la ventiduenne figlia di Jonathan dell’Ilendar, erede al trono della grande Terra del Nord di Diaphane.
La sua vittoria era stata schiacciante, la sua abilità di comandante a dir poco strabiliante e inaspettata.
Fino a poco, pochissimo tempo prima.
In tutta Ilendar si era diffusa in breve la notizia della terribile disfatta subita dall’Esercito al Passo di Cerere, il vallo principale della massiccia catena montuosa che correva lungo il confine tra l’Ilendar ed il Gatarim.
Quella dell’esercito nemico era stata una vera e propria imboscata, attuata su un territorio che definire poco familiare e inclemente, per chi come gli Ilendariani è abituato a muoversi su pianure e morbide colline erbose, ha dell’eufemismo.
– Come ormai saprete tutti, le perdite subite sono state molto gravi – stava dicendo il Tenente Nerik alle classi di scherma che andavano dal quinto al primo livello, tutte riunite in uno dei cortili maggiori. – E’ per questa ragione che il Comandante Howthrone ha mandato ordine di inviare quanti più uomini possibile dall’Ilendar, in previsione di una battaglia di grandi dimensioni che ponga finalmente la parola fine a questa guerra.
Ieriel, dal suo posto in mezzo alla folla di soldati e aspiranti tali nella quale era immersa, in piedi con le braccia conserte e l’espressione seria, sbuffò sonoramente. Jael non stava dicendo loro nulla che le fosse nuovo, e lei stava iniziando a seccarsi di stare lì, a sentirlo sproloquiare. Lo preferiva nettamente quando agiva, piuttosto che quando parlava.
A questo pensiero scosse la testa, e la girò verso sua sorella, che diversamente da lei sembrava attenta a quelle parole e angustiata per quanto esse implicavano.
Allora si guardò intorno, studiando inutilmente quel luogo che conosceva tanto bene. Il cortile aveva la forma di un anfiteatro semiconico, con una lunga scalinata che correva dal basso verso l’altro, allargandosi ai due lati. Tutti i giovani studenti che erano stati convocati per assistere al discorso del Tenente erano ammassati al centro dell’anfiteatro, sul tondo spiazzo erboso.
Jael Nerik aveva salito alcune gradinate, in modo da poter essere visto da tutti i suoi ascoltatori, e per ottenere la migliore acustica possibile.
Nonostante la giovane età, da lungo tempo, ormai, il Tenente Nerik teneva i corsi di combattimento e uso della spada a tutti gli allievi del Licevm ammessi ai corsi dal quinto al secondo livello. Quelli inferiori appartenevano solitamente a una fascia di età molto giovane, e venivano pertanto affidati a Ufficiali non necessariamente decorati, e con una predisposizione verso l’insegnamento ai fanciulli.
In quanto agli allievi di primo livello, essi erano affidati a un Capitano, tale Dison La’Ihri, un uomo grosso e di mezza età, con la pelle scura e abrasa. Non era partito in guerra, due anni prima, perché zoppo a una gamba. Questa sua condizione gli aveva guadagnato spesso, negli anni, derisione e mancanza di rispetto da parte degli allievi, che non capivano come egli potesse insegnare scherma in quello stato.
La stessa Ieriel si era sorpresa dentro di sé quando, mesi prima, era passata tra gli allievi di primo livello. Tuttavia, la sua totale mancanza di pregiudizi e l’amore per la spada le avevano permesso di accorgersi quasi subito che il Capitano La’Ihri non ricopriva immeritatamente il suo posto di insegnante.
Si era scontrata con lui, in allenamento, e si era ritrovata in seria difficoltà dopo pochissimo dall’inizio del duello: il suo attacco era incredibilmente potente e preciso, la sua difesa così calibrata che neanche una volta era riuscita a penetrarla. E, cosa più sconcertante di tutte, la sua gamba zoppa non gli impediva di muoversi in maniera agile e veloce, sfuggendo così agli attacchi avversari.
Dison La’Ihri aveva imparato, nei lunghi anni dal suo infortunio sul campo, a sfruttare il gioco di braccia e di busto, evitando gli affondi della controparte senza spostarsi dalla sua posizione, poiché ciò gli avrebbe richiesto tempo, ma sfruttando ogni centimetro dello spazio d’azione concessogli.
Questo, comunque, non era abbastanza da consentirgli di partire in guerra.
Ieriel credeva che la cosa gli dispiacesse: l’aveva percepito nella sua voce dura, quando tuonava: “In battaglia nessuno avrà pietà di voi o vi ricorderà di chiudere la difesa!”. E, soprattutto, dalla luce che gli brillava negli occhi, quando sollevava la sua spada, per mostrare loro qualcosa, o quando attaccava direttamente uno degli allievi, senza reprimersi nel timore di colpire – come invece era stato fino al livello precedente.
Come per Ieriel era stato con Jael.
Si vedevano ancora per duellare, loro due, tre o quattro volte la settimana.
Si incontravano la mattina molto presto, o alla fine degli allenamenti, per confrontarsi con qualcuno che, ormai, poteva dirsi un pari. Ieriel era difatti molto migliorata, da quel giorno di due anni prima, quando Ranya aveva per la prima volta scherzato sul rapporto che legava lei e il suo Tenente.
Adesso neanche Ieriel stessa avrebbe saputo come chiamarlo, questo rapporto. Non era neanche sicura che una parola esistesse.
Aveva ancora le braccia conserte, e con la stessa espressione calcolatrice e per metà annoiata guardò di nuovo sua sorella; non provò alcuna sorpresa nel trovarla assorta ad ascoltare il discorso, le dita intrecciate davanti al viso.
Ieriel sbuffò tra sé.
Le cose sono cambiate. si disse. Io sono diversa. Ranya è diversa. Alzò di nuovo gli occhi verso il Tenente, rigidamente dritto e in formale uniforme, che stava terminando il suo discorso. I raggi di un inclemente sole estivo giocavano sui riflessi castani dei suoi capelli lunghi, legati dietro la nuca in uno stretto codino.
Anche Jael è cambiato, in questi tre anni.
Eppure, tutto è esattamente come deve essere. si disse Ieriel, emettendo un sospiro.
Anche se c’è la guerra.
– …e in quanto Tenente e allenatore di quattro classi di scherma, mi è stato chiesto di selezionare un certo numero di soldati, trai miei uomini, che siano in grado di seguirmi in Gatarim, per portare rinforzi e rimpinguare le truppe dell’Ilendar – stava intanto dicendo Jael.
Queste ultime parole ricatturarono l’attenzione di Ieriel, che fece due passi in avanti, gli occhi ridotti a due fessure nel tentativo di vedere il più nitidamente possibile, da quella distanza, il Tenente che parlava ad alta voce.
– Oltre a coloro che io ho scelto personalmente, e che chiamerò per nome, tutti gli altri potranno scegliere di venire in maniera volontaria. Una volta scelto non si torna indietro, e sarete dal primo all’ultimo sotto il comando mio e degli altri superiori – spiegò Jael. Poi alzò la voce per chiedere: – E’ tutto chiaro?
Non attese la risposta, e da un foglio che aveva in mano iniziò a leggere a gran voce nome e cognome di coloro che aveva scelto.
Diversamente da poco prima, ora Ieriel era tutta orecchi. Guardava Jael, scrutatrice, mentre una strana sensazione di disagio che intanto le cresceva dentro.
Solo quando i primi due nomi furono scanditi nel cortile a forma di anfiteatro, Ieriel si rese conto di avere trattenuto il respiro fino a quel momento.

*****

– Non chiamò mai il mio nome – dico secca. – Né il tuo, se è per questo – e il mio tono mi porta, per un istante, a chiedermi se da qualche parte, dentro di me, io ancora ce l’abbia con Jael per non avermi inclusa di sua volontà.
– In verità, una parte di me sospirò di sollievo, nel sapere che tu non eri stata convocata: avrei fin da allora fortemente preferito che te ne stessi buona in Accademia, anziché partire in guerra. Eri allieva da soli due anni, contro i miei quattro; senza contare che, prima di entrare al Licevm, non avevi praticamente mai preso in mano una spada.
Emetto un sospiro, scioccamente esasperata.
– Eri brava, senza dubbio: per una che combatteva da così poco tempo te la cavavi più che bene. È che… – mi prendo una piccola pausa, e abbasso di nuovo la testa, a fissarmi le ginocchia piegate.
– È che probabilmente volevo solo proteggerti da… questo.
La mia voce prende una strana inflessione, sull’ultima parola: una traccia di collera disperata che mai, fino a questo momento del mio monologo, aveva finito per trasparire.
È la rabbia che mi viene dall’impotenza, che si è impossessata di me e delle mie parole, per un attimo.
Poi torno a raccontare, frammenti di ricordi che mi si conficcano nella pelle – come schegge di topazi.
– Fu per questo che, quando andai a firmare il foglio che raccoglieva il nome dei volontari, appena al di là della grande porta di accesso alla Sala delle Udienze, non ti dissi niente. Speravo vanamente che tu mi credessi capace di non offrirmi volontaria, e che seguissi questa strada a tua volta.
Ora è un mezzo sorriso, a disegnarsi sulle mie labbra e a prendere il posto della smorfia di collera di poc’anzi.
– Credo sia stata una delle cose più sciocche che io abbia fatto in vita mia, convincermi che sarei riuscita a lasciarti in Ilendar. – Scuoto la testa. – Due righe sopra quella dove posi la mia firma, c’era già scritto il tuo nome, vergato nelle lettere eleganti della grafia della Sacerdotessa che fosti.
– Ricordo ancora che quando mi vedesti uscire dalla Sala, mi venisti incontro con un sorriso e, senza dire niente, mi mettesti un braccio intorno alle spalle. Io, che ero indecisa se sorridere o se mettermi a piangere, abbassai la testa, e dopo pochi istanti ti abbracciai a mia volta intorno ai fianchi, annuendo nervosamente, perché non sapevo che altro fare.
Tiro su aria, adesso, e mi asciugo leggermente gli occhi, a questo ricordo così vivido: perché neanche ora, a distanza di tutto questo tempo, riesco a decidere che sentimenti provare, o se frenare le lacrime e permettere a un sorriso di affiorare.
– Così allacciate, arrivammo fino alle porte dei dormitori. Fuori di lì ti lasciai, dicendoti che avevo ancora una cosa da fare.
Un sospiro esce dal mio diaframma, mentre mi appresto a raccontare a Ranya l’unica cosa che io le abbia tenuto nascosta, in tutti i giorni della nostra vita. Mi è pesato non essere mai stata capace di parlarle di questo; mi pesa ancora di più dirglielo solo adesso. E fa tanto più male perché, improvvisamente, mi sembra non abbia tutta l’importanza che vi diedi allora – ora che le cose sono così radicalmente cambiate.
Che lei non c’è più.
E che Jael è qui al mio fianco, dove un tempo c’era lei.
– Mi diressi verso la stanza del Tenente Nerik – se fossi qui, mi chiederesti di certo come facessi a sapere dove si trovava la sua stanza, ma evito di rispondere a questa domanda, adesso che posso.
Emetto un colpetto di tosse secca, per impedirmi di ridere miserevolmente alle mie stesse parole, e per tornare a raccontare con un minimo di serietà. – E lì, scatenai l’unico litigio che io e lui ci siamo mai scambiati – dichiaro, asciutta.
– Sì, per quello: per il fatto che non mi avesse inclusa tra i soldati scelti da lui. Proprio io, che da tre anni mi battevo con lui più volte la settimana, prima o dopo gli allenamenti curricolari. Proprio io, che ero l’unica a riuscire a tenergli testa, l’unica che fosse riuscita a tenere a bada per un po’ anche il Capitano La’Ihri, in duello. Io, che sognavo da quattro anni di poter applicare sul campo quello che avevo imparato in tutti gli anni della mia vita, per vedere quanto fossi brava, per condividere con il resto del mio popolo la gloria della vittoria.
Prendo una piccola pausa, perché mi rendo conto di avere alzato la voce: e mi chiedo se io mi senta ancora coinvolta nel profondo, a parlarne. Se sia davvero rabbia, questo sapore amaro come ferro in fondo alla mia bocca.
– Si trattava solo di orgoglio ferito, naturalmente – dichiaro, convinta delle mie parole, vergognandomi un po’ per la reazione che ebbi allora. – Altrimenti avrei capito cosa Jael stesse cercando di fare, e forse avrei quantomeno ascoltato le sue parole, quel giorno. – Abbasso gli occhi. – Cercava solo di proteggermi, proprio come io avevo voluto fare con te. E non lo capivo perché non vedevo la ragione per la quale avrebbe dovuto farlo.
Il breve silenzio di qualche istante porta via gran parte della mia voce, cosicché, adesso, le mie parole escono in un bisbiglio a malapena udibile:
– La mia ragione nei tuoi confronti era l’amore. Quale fosse la sua nei miei, ero io — stupida – a non capirlo.

*****

C’era riuscita: Dilène Howthrone aveva persuaso Stendhal, sovrano del Gatarim, a firmare la Convenzione di Guerra, una regolamentazione del corrente conflitto che prevedeva che la battaglia che avrebbe opposto il Regno del sud delle Terre di Diaphane all’Ilendar sarebbe avvenuta sul suo stesso territorio.
Ora l’intero Esercito dell’Ilendar, arricchito dai contingenti di recente inviati dal nord e dalla Capitale stessa, occupava con il suo estesissimo campo tutta la zona nord-ovest della grande Piana dei Topazi, unico bassopiano presente in Gatarim.
Si diceva che, secoli prima, quel luogo fosse attraversato da una piccola catena di colline che nascondevano giacimenti immensi di pietre preziose: topazi di ogni colore, dal giallo al viola, dall’azzurro all’arancio al rosso. Secondo le leggende, gli uomini venuti dal nord si erano avventurati in quei luoghi ancora sconosciuti, su per le colline brulle di quella Terra che ancora non si chiamava con il nome di Gatarim, e avevano iniziato a scavare miniere e cave, alla ricerca dei tesori nascosti nella terra. E tanti furono gli uomini che erano giunti in quel territorio in cerca di fortuna, e tanto fu il tempo che essi trascorsero a scavare, che la catena di colline divenne un’amplissima pianura, nel bel mezzo del Gatarim.
Fosse quella una semplice leggenda, o Storia del Mondo, non importava: la catena di colline ridotta a pianura prese il nome di Piana dei Topazi.
C’è chi, a tutt’oggi, giurerebbe di aver visto schegge luminescenti nel terreno, o persino di essersi ferito con esse scavando.
Ora, tra gli uomini accampati c’era il più ristretto nucleo di soldati che era partito pochi mesi prima dal Licevm dell’Ilendar, e che aveva preso il nome praticamente ufficiale di Divisione Accademica dell’Esercito dell’Ilendar, giunto in Gatarim sotto il comando e la guida del Tenente Jael Nerik.
Nel loro viaggio verso Sud non avevano incontrato particolari difficoltà, né sommosse o attacchi da parte di contingenti nemici. Questo era stato un bene, perché aveva permesso alla loro divisione, già non molto ampia, di arrivare nella sua interezza e con una buona scorta di provviste fino al Passo di Cerere, il vallo tra le montagne al confine con il Gatarim.
Era pur vero che, nella loro incursione in Ilendar, i soldati del Gatarim erano passati per lo più inosservati, poiché l’offensiva portata avanti dagli Stendhal, gli attuali sovrani, era stata fondamentalmente mirata alla conquista, e sarebbe stato sciocco, da parte loro, saccheggiare i villaggi, distruggere le città, rovinare le campagne della terra di cui intendevano appropriarsi. In secondo luogo, comunque, la controffensiva dell’Ilendar era diretta vero i confini Sadanensi, per rimetterli al sicuro e diminuire il rischio che l’assedio aumentasse di dimensioni.
Non poco merito aveva, in questo senso, Dilène Howthrone, salita al comando dell’Esercito alla morte di suo padre, e per volere di quest’ultimo.
La cosiddetta Divisione Accademica si era da subito unita alla massa dell’Esercito, accampato alla Piana dei Topazi, e insieme avevano preso parte alla grande battaglia che da lunghi giorni scuoteva Diaphane, e che decideva la sorte delle loro Terre.
Quella sera, Ieriel si aggirava per il campo, agitata.
Un altro giorno di lotte si era concluso, in Gatarim, il buio era calato sulla Piana dei Topazi, e l’accampamento Ilendariano risuonava del rumore dei soldati che preparavano le loro razioni per la cena, e il meritato riposo notturno dopo le fatiche e gli orrori della guerra.
La giovane Caporale stava girando ormai da svariati minuti, alla ricerca di sua sorella, o di qualcuno che l’avesse vista.
Quel giorno non erano riuscite a rimanere l’una accanto all’altra, in battaglia, nella mischia terrificante del sanguinoso scontro con i soldati del Gatarim. In genere, se la frenesia del combattimento lo permetteva, rimanevano l’una al fianco dell’altra, o comunque a vista, per essere certe di potersi guardare le spalle a vicenda, e di soccorrersi nell’eventualità fosse necessario. Era già accaduto: una o due volte, in quei giorni, Ieriel si era divincolata in fretta e abilmente da un nemico, per precipitarsi ad aiutare sua sorella in difficoltà.
In questo senso, la differenza di età si perdeva e si invertiva, nel diverso grado di esperienza.
E, per quanto non lo dimostrasse o lo desse a vedere, Ranya, per Ieriel, non era mai stata un vero soldato.
Nelle sue preghiere agli dei, prima dell’inizio di ogni battaglia, mentre osservavano dalle loro fila il sorgere del sole, e le voci dei Capitani e del Comandante Howthrone si levavano alte con i loro ordini in tutta la Piana dei Topazi, Ieriel vedeva negli occhi di Ranya tutta la devozione della Sacerdotessa che era stata.
A ogni modo, era da quando la carica era partita, quella mattina, che non vedeva Ranya. Ora si aggirava per il campo, con una strana e sgradevole inquietudine che le cresceva dentro, mentre chiedeva agli ufficiali di lancia che incrociava se avessero visto sua sorella, da qualche parte.
Poi, a un certo punto, mentre si affrettava nuovamente verso un altro punto del campo, si sentì prendere per un braccio.
– Caporale De Nalher? – la chiamò una voce maschile.
Si voltò, e riconobbe un Capitano di lancia, abbastanza giovane per questa carica e particolarmente affascinante, che era in guerra sin dall’inizio. Era stato trai feriti gravi dell’imboscata avvenuta mesi prima al Passo di Cerere, tra le montagne al confine. Ora pareva essersi rimesso, se non altro quanto bastava per poter combattere.
Mentre tentava di ricordare come si chiamasse, Ieriel si mise sull’attenti e fece il saluto, cercando di non indugiare con lo sguardo sul torace del soldato, percorso da un’ampia fasciatura bianca che spiccava sotto la giacca aperta dell’uniforme.
– Capitano.. Gordon, Signore. Dica. – Aveva ricordato il suo nome, e salutato adeguatamente, reprimendo il sorriso che le stava salendo alle labbra.
Perché Gordon, da parte sua, aveva un’aria grave.
Non ci vollero che pochi istanti perché Ieriel capisse per quale ragione. Stava tornando dalla tenda ospedale, le disse, per farsi cambiare la medicazione da un’infermiera ed assicurarsi che l’ampia ferita che aveva al petto non infettasse.
– Mi hanno detto di farti cercare, e di inviarti lì – le disse. Nei suoi occhi scuri c’era un che di protettivo: come se avesse vissuto una scena simile mille e mille volte, nella sua carriera, e insieme come un superiore che dà una brutta notizia a una sua protetta.
Ieriel non seppe mai se avesse adeguatamente salutato il Capitano. Non seppe mai neppure se si fosse congedata da lui, in un modo qualunque.
L’unica cosa che ricordava era una corsa a perdifiato attraverso l’accampamento Ilendariano fino alla tenda d’ospedale, tutte le sensazioni sgradevoli di poco prima amplificate mille volte. E il camice bianco pieno di macchie del chirurgo girato di spalle, che si sfregava le mani con un panno, fuori della baracca che era il suo luogo di lavoro.
Scambiò con lui parole che non ricorderebbe se non con un sortilegio, ma seppe solo che le percepì come poco meno di una condanna calata sulla sua testa, pur nel loro suono compassionevole e benché pronunciate con sguardo comprensivo.
Poi entrò, e percorse nella sua lunghezza la tenda pieni di soldati e di infermieri intenti a suturare, a fasciare e a pulire ferite. Arrivata in fondo a quell’ampio corridoio, si ritrovò a fissare un drappo grigio scuro, che cadeva dal soffitto della tenda e nascondeva una sorta di stanzetta appartata.
Involontariamente, Ieriel deglutì, mentre alzava la mano lentamente, con esitazione, a pochi centimetri dal drappo.
Passarono lunghi secondi, ma alla fine lo afferrò, stringendo la stoffa ruvida tra le dita, e lo sollevò. Avanzò subito all’interno dell’anfratto, illuminato dalla luce fievole di alcune candele.
Fu allora che la vide.

(2-CONTINUA)