di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

Identità (II)

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Napule. Tra Napoli e la Repubblica c’è indubbiamente un rapporto speciale. Guardate per esempio i Presidenti: di Napoli ce ne sono stati già tre (su dieci). Sassari, è vero, ne ha avuti due, e anche questo è un bel caso: ma Napoli tre. Macerata, tanto per dire, nessuno; e Palermo, non avrebbe avuto Palermo almeno altrettanti titoli di Napoli? Siamo sicuri che in futuro si provvederà. Intanto questo è un innegabile indizio di identità, potremmo dire un giusto risarcimento storico. Nel 1860 l’Italia conquistò Napoli, oggi Napoli conquista l’Italia. Certo, Milano rimane la capitale morale, perché c’è Piazza Affari, Roma quella politica perché c’è il papa, ma Napoli è l’autobiografia della Repubblica, il suo specchio, il suo destino, perché a Napoli ’a nuttata non passa mai.

Come dice Francesco Rosi, il regista, Napoli è «una questione nazionale». E aggiunge: «la città deve uscire dal precipizio nel quale è precipitata».[7] Però Rosi lo diceva già quarant’anni fa, in Le mani sulla città. Il film raccontava della camorra, di come andasse devastando Napoli in collusione con i partiti di destra e di centro che allora vi prevalevano, di come queste complicità fossero essenziali allo strapotere della camorra e di come l’opposizione tentasse eroicamente di opporsi. Una didascalia del film avvertiva: «I personaggi e i fatti sono immaginari, ma autentica è la realtà che li produce». Molti dovevano essere d’accordo, infatti il film vinse al festival di Venezia. Dopo quarant’anni che cosa è cambiato? La camorra domina sempre la vita napoletana, si muore come allora e più di allora, solo che ora il precipizio lo amministrano i vecchi oppositori: al governo centrale, in quello regionale, in quello provinciale, in quello cittadino. Significa qualcosa oppure questa volta la realtà è immaginaria e la sceneggiatura è vera?
Il Capo dello Stato si preoccupa. È tornato nella sua città per una visita istituzionale, lunga e articolata, e si sente ferito – dice – da «una certa informazione su Napoli», «dalla rappresentazione della realtà napoletana».[8] Ce l’ha con la stampa e sembra di risentire Andreotti quando si lamentava dei film di De Sica. Però esorta a «vincere violenza e degrado cercando di farlo sapere». Ma allora, perché si lamenta dei giornali? Il fatto è che questa visita del Presidente alla sua città è stata pensata e organizzata come una sagra dell’ottimismo e non tutti si sono adeguati con la necessaria solerzia. Il sindaco Iervolino comunque è contenta, giudica «splendidi» i giorni della visita presidenziale. «Alcune cose sono state organizzate, altre sono avvenute a caso, come il fermo di Mazzarella. E hanno un forte valore simbolico».[9] Sia pure casuale, la tempestiva coincidenza poliziesca non poteva mancare alla ritualità coreografica che sempre si addice a Napoli. Tra le cose organizzate, non meno rituali e spettacolari, la manifestazione anticamorra dei bambini delle scuole, con T-shirt affettuosamente evocative («Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli»), chissà se tessute clandestinamente in qualche basso di Spaccanapoli. Tutto comunque altamente simbolico, come piace alla Iervolino. Giacché di simboli intorno ai quali addensare identità accettabili c’è grande bisogno, e non solo a Napoli. Il titanico debellatore degli autisti di piazza, il ministro Bersani (dello Sviluppo, ohibò!), per esempio pesca nel motociclismo in evidente dispregio dei taxi e propone Valentino Rossi come simbolo nazionale.[10] Certo, tutti i gusti sono gusti, ma bisogna che i simboli identitari abbiano un minimo di pertinenza. In tema di «riscatto italiano» allora meglio Stenterello, se non si è abbastanza sinceri da riconoscersi in Pulcinella, cui non mancano titoli di «modello» identitario e che infatti, come tale, è raccomandato dal ministro Amato ai bambini napoletani.[11] Nemmeno i simboli identitari accreditati qui dal Capo dello Stato sembrano immuni da riserve. Il Presidente ha approvato il valore emblematico della molletta da bucato esibita dalle scolaresche come espressione di «concorde volontà» legalitaria e ha calorosamente ribadito la sua «fiducia nei giovani»;[12] non ha spiegato però che cosa accadrà, secondo previsioni ragionevoli, se e quando gli scolari avranno finito gli studi. Lo Stato e la società legale daranno loro modo di sopravvivere o con la molletta come souvenir dovranno rivolgersi alla camorra o andarsene, non diversamente dai loro padri e fratelli maggiori? Certo, se «i primi risultati», che Napolitano vede già a Napoli, pretendono di essere qualcosa di più di un simbolo, i bimbi napoletani hanno poco da stare allegri. Il treno Napoli-Roma ad alta velocità, di cui il Capo dello Stato si è compiaciuto di visitare la cabina di guida, è certo un simbolo accattivante, ma chi, oltre alla camorra, nei quartieri spagnoli avrà davvero desiderio di andare a Roma a 300 Km orari, risparmiando mezz’ora di viaggio? Che faranno i disoccupati con quella mezz’ora in più?
Sicuramente di alto valore simbolico l’omaggio che il Capo dello Stato ha voluto rendere ai suoi predecessori napoletani, soprattutto a Giovanni Leone, ricordato con commozione come «un fine giurista al Quirinale».[13] Poiché il Presidente era amico di famiglia, avrebbe potuto ricordarlo al Quirinale anche quale affettuoso pater familias – così soprattutto se lo ricordano molti italiani –, nonché come il Presidente che contro gli studenti contestatori introdusse nel dibattito politico l’uso delle corna. Infine Leone, travolto dagli scandali «in seguito a una serie di, chiamiamole così, gravi scorrettezze» (Rosetta Loy),[14] dovette dimettersi, cosa da noi più unica che rara, propiziata dalla stagione convulsionaria, ma non senza «le sue ragioni», della contestazione, come ammette oggi, sia pure a denti un po’ stretti, lo stesso Presidente, che allora non gradì affatto.[15] Successivamente la Loy ha arricchito di maggiori dettagli la sua rievocazione e i residui estimatori del fine giurista non dovrebbero trascurare l’elenco davvero impressionante delle «chiamiamole così, gravi scorrettezze». Qui ci limiteremo a constatare che le dimissioni di Leone furono richieste da Enrico Berlinguer, Benigno Zaccagnini e Ugo La Malfa e che «fu la stessa Corte Costituzionale a raccogliere la documentazione che indusse Leone a dimettersi».[16] Va detto che, restaurato l’Ordine, come suole accadere la magistratura espresse l’opinione che Leone fosse innocente delle accuse mossegli; ma un Presidente, come la moglie di Cesare, non dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto? Infatti è di pochi giorni fa la notizia che la candidatura dell’evidentemente non immacolato presidente aggiunto della Cassazione Vincenzo Carbone a guidare la Suprema Corte è stata respinta per la terza volta, perché se è ‘aggiunto’ va bene, ma «al massimo vertice della magistratura deve andare una toga “immune da ombre e rispettosa delle istituzioni”». Così spiegano i giudici del Consiglio Superiore della Magistratura che hanno votato «per il rispetto delle regole» a fronte del «privilegio dei titoli e della brillante carriera». Che dire allora del Capo dello Stato, che del Csm è Presidente? Vero è che uscendo dalla sala Napolitano si è dichiarato «“molto dispiaciuto dell’accaduto”»; vero è anche che i suoi collaboratori minimizzano – «“nulla è irrimediabile”» – e che Carbone «al limite […] potrebbe fare appello».[17] Comunque non è questo il punto di vista essenziale dal quale occorre valutare il valore simbolico della rievocazione presidenziale. Leone, deputato sin dalla Costituente, primo ministro di un paio di governi «balneari», presidente della Camera, senatore a vita e presidente della Repubblica, fu un’espressione che più tipica non si può della Democrazia Cristiana di quegli anni, quella di cui parlava il film di Rosi. No, Leone non pare un buon simbolo identitario per il riscatto di Napoli.
I funerali del re della sceneggiata, Iliade della camorra, hanno suggerito la variante più grottesca di questa deprimente ricerca di simboli identitari. Non c’era da aspettarsi in verità che gli eminenti responsabili politici del degrado cittadino perdessero pudicamente questa occasione di rendere omaggio alla «maligna mutazione lazzara che distrugge Napoli, sotto gli occhi di tutti».[18] Nell’elezione dell’eroe eponimo essi anzi hanno esibito l’elaborazione più avvilente ma anche più immediatamente significativa della «cultura dell’Effimero», in generale tutt’altro che politicamente innocente. Per Bassolino, governatore della Campania, «Merola è un grande punto di riferimento, un grande simbolo per Napoli e il Mezzogiorno»; per il ministro Mastella (della Giustizia, veh!) è «il cantore della Napoli verace»; per l’assessore Oddati (della Cultura, come no!) «un ambasciatore positivo della migliore tradizione popolare napoletana». Scegliendo senza seriosi pregiudizi, con oculatezza nazional-popolare, Quelli che il calcio come assise della denunzia, il sindaco Iervolino si è lamentata in televisione: «A Napoli soffriamo due volte per i fatti di camorra e per pregiudizi a volte incredibili».[19] A costo di ripetere i pregiudizi del vocabolario sul guappo («s.m. – bravaccio, camorrista»), complimenti, sindaco, per la spregiudicatezza del programma: «Merola era un prepotente buono. Dobbiamo recuperare la guapparia nella misura in cui è orgoglio».[20] Tuttavia, sinistre implicazioni risuonano nel dissenso antropologico di Giuliano Amato, ministro di polizia, quello stesso del «modello Pulcinella» per i giovani: «Ci sono anche i neomelodici tra le espressioni della pervasività della cultura camorrista. Una cultura che cerca comunque di fare del camorrista un eroe».[21]
Si è parlato di impiegare l’esercito a Napoli. Contro chi?

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Sinergie. Però c’è un altro esercito che a Napoli sta affilando le armi contro la camorra, quello dei preti. Certo la Chiesa a Napoli c’è da assai più tempo dello Stato, ma senza risultati migliori contro la guapparia, non sapremmo dire per quale motivo. Però adesso c’è un papa nuovo, che ha benedetto Napoli e ha detto di amarla[22] e c’è anche un nuovo arcivescovo, dettaglio non secondario. Che cambi qualcosa? Il Capo dello Stato comunque in proposito si è detto fiducioso, ha parlato di «missione comune» dello Stato e della Chiesa, esortando a «mobilitare anche le forze organizzate della religione cattolica nella battaglia contro la malavita camorristica». Insomma, ci si attende molto da questa sinergia e in caso di bisogno rimane il ricorso a san Gennaro. Nell’occasione tuttavia il Capo dello Stato si è espresso in termini che vanno ben oltre le circostanze e le necessità napoletane: ha parlato di Chiesa e Stato «chiamati a servire gli stessi valori di moralità e di eticità».[23] Parole di peso, ripetute più volte in questo inizio di settennato, nelle quali sono da riconoscere importanti implicazioni per quanto riguarda i rapporti dello Stato italiano sia con lo Stato vaticano sia con la religione cattolica.
La consuetudine dei rapporti tra lo Stato italiano e l’enclave confessionale – «peculiari legami» li definiva perentoriamente L’Osservatore romano[24] e in effetti dirli buoni sarebbe riduttivo, meglio forse filiali – sono stati ritualmente ribaditi dalla visita del Presidente in Vaticano nel novembre scorso. La stampa ha cercato di dare risalto all’evento rilevando che si è trattato della prima volta di un Presidente ex comunista. In effetti non è il caso di evocare Enrico IV e tanto meno Canossa per il pellegrinaggio del vecchio bolscevico, materialista sì – se non storico almeno dialettico, viste le sue variabili opinioni sul socialismo da esportazione –, scomunicato sì, come Enrico IV, ma non per sua renitenza all’appeasement. In realtà se c’era una Canossa da replicare si replicò ab ovo, in sede di Assemblea Costituente, quando Togliatti, straziando quanto c’era di laico e di antifascista nella Sinistra di quei tempi, diede il voto del suo partito all’articolo 7, che inglobava nella Costituzione i Patti Lateranensi di Mussolini. Da allora, se ci furono difficoltà tra i papi e il servizievole partito di Togliatti, nacquero da malintesi e soprattutto dalla caratteriale diffidenza dei papi e dai loro gusti personali, spesso più inclini ai generali sudamericani. Ora però che il nuovo papa apre anche ai turchi, sorvolando su islamismo delle masse e laicismo statale, perché, come un Gregorio VII un po’ in ritardo, non avrebbe dovuto accogliere il sovversivo da tanto tempo pentito? Tuttavia, a scanso di equivoci, alla vigilia della visita L’Osservatore romano si è premurato di ricordare il ben preciso significato dell’evento, di conferma della continuità con «ciò che è stato solennemente sancito dai Patti Lateranensi», con il «fedele adempimento degli impegni internazionalmente assunti dallo Stato italiano nel 1929».[25] E certamente da questo punto di vista la visita presidenziale non ha portato nulla di nuovo: in nome della continuità delle istituzioni i rapporti dello Stato italiano con la Santa Sede continuano ad essere, Mussolini o non Mussolini, quello che erano nel 1929. Filiali.
Tuttavia le esternazioni del Capo dello Stato in questa circostanza sono andate oltre il linguaggio e i temi diplomatici. Ha parlato di «dovere dello Stato di riconoscere la dimensione sociale e pubblica del fatto religioso».[26] Il presidente ha ragione: chi non riconoscerebbe questa dimensione, in tempi in cui nelle società ci si scanna pubblicamente come non mai per il «fatto religioso»? perché lo Stato non dovrebbe riconoscerla? Ma forse il Presidente intendeva dire qualcosa di diverso, del genere delle cose dette a Napoli sulla sinergia tra Stato e Chiesa nella lotta contro la camorra. Si ha l’impressione che si vada diffondendo nelle istituzioni una qualche inclinazione a scaricare sul «volontariato» e in particolare quello gestito dalla Chiesa in vista appunto della sua «dimensione sociale», il maggior numero possibile di funzioni per loro natura di pertinenza delle articolazioni statali. Per questo genere di sinergia, fatti salvi i profitti d’impresa, si renderebbe talora disponibile e semigratuito come «fatto religioso» o «impegno civile» qualcosa che altrimenti richiederebbe regolare salario e gli eventuali risparmi potrebbero essere patriotticamente dirottati sulle spese militari e quelle per le forze dell’ordine, sempre crescenti e difficilmente surrogabili da un volontariato gratuito, almeno sino a prova contraria. Tutto questo potrebbe apparire come un’improvvida abdicazione dello Stato ai suoi compiti; ma guardiamo la cosa da un punto di vista positivo: non potrebbe anche essere il principio di ciò che Marx chiamava estinzione dello Stato?
Nelle parole del presidente di omaggio al papa tuttavia sembra esserci qualcosa di più di un apprezzamento per le prestazioni civiche delle «forze organizzate della religione cattolica». C’è piuttosto, nell’indicazione della medesimezza di «valori di moralità e di eticità», un contributo ad una ridefinizione dell’identità nazionale che da più parti si va assiduamente proponendo in modo esplicito o surrettizio. Si ricorderà che di recente il Consiglio di Stato è intervenuto autorevolmente a chiarire che simboli della laicità dello Stato sono quelli stessi della cattolicità, per la buona ragione (buona per il Consiglio di Stato, non tanto per Machiavelli e Leopardi) dell’«origine religiosa dei valori che connotano la civiltà italiana». Questa sentenza, che le tempestive dichiarazioni citate del Presidente sembrano inclini a corroborare, in realtà ridà forza di legge al vecchio apoftegma «non possiamo non dirci cristiani» sinora ammesso a mero titolo di opinione dal comune senso del pudore. L’apoftegma traduceva in bigotta pensosità storicistica e anchilosi liberale la verità storica – databile almeno dal Concilio di Trento e dall’istituzione del Santo Uffizio dell’Inquisizione – che in Italia non si poteva proprio non dirsi cristiani. Quindi non era senza possibili implicazioni pratiche che quella formulazione desse origine ad una specifica scuola di pensiero tipicamente italiana: l’ateismo cattolico o cattolicesimo ateo, a seconda che prevalga l’istanza teologica o quella istituzionale. È sotto gli occhi di tutti l’attuale reviviscenza del fenomeno e c’è solo da domandarsi in quale misura sia restaurativa la sentenza identitaria del Consiglio di Stato. Non pare sinora che sia stato autorizzato il ripristino della camera di tortura in Castel S. Angelo né che si preparino roghi in Campo de’ Fiori. Certo è però che tira un’aria bruttissima. Da destra e da sinistra, da Venezia e da Lucca, per esempio, i filosofi sono intervenuti con pari zelo, a sostenere la sentenza del Consiglio di Stato, e si tratta di filosofi che sanno le segrete cose. Il loro comune argomento è che a nessun titolo gli italiani possano astrarre dalla Chiesa perché la Chiesa c’è, sta qui. Insomma, volpinamente usurpando l’argomento ostensivo degli immigrati sans papiers: On est ici, on est d’ici. Però è colpa nostra se gli avignonesi l’hanno mandata via e gli USA per i loro motivi infantili non la vogliono? Ad ogni buon conto cresce nel Paese l’eccitazione spiritualistica, si moltiplicano le appassionate esibizioni identitarie di religiosità conforme. Un paio di esempi eterogenei mostreranno la diffusione epidemica dell’affezione.

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Walter Veltroni è l’ambasciatore, il Giovanni Battista, il socio di riferimento della cultura dell’Effimero, il Clausewitz dell’offensiva contro ogni residua consistenza dell’identità nazionale. Gli piace il caduco, il labile, il fugace, l’evanescente; si inchina al volubile, al precario, al sostituibile, al superfluo. Il suo motto potrebbe essere tout passe, tout lasse, tout casse, se la citazione non fosse troppo al di sopra delle sue possibilità. Per quanto navighi con la stella polare della rimozione, non potrà mai far dimenticare di aver dato alle stampe il trattato Il calcio è una scienza da amare (Savelli, Roma 1982), in cui rivendicava la «struttura hegeliana» del football, essendo che esso prevede la dialettica triadica di vittoria, sconfitta, pareggio, a differenza del tennis, così aristotelico. Fu conseguenza di questo titanico sforzo del pensiero la carica di ministro, per la quale si avvalse subdolamente dell’accoppiata ministeriale Cultura e Sport, un abbinamento invalso solo da noi, come quello di ateismo e cattolicesimo. Poi non ci fu tragedia umana che egli non sapesse riportare alla dimensione effimera che gli è più congeniale, in particolare animatore assiduo delle «partite del cuore» di parlamentari in vena ludica di filantropia trasversale. Prima di diventare l’eroe eponimo terminale del bimillenario degrado di Roma, ridusse alla sua passione creativa e ricreativa anche l’Africa. Inviato dall’Internazionale socialista – sissignori! – a constatare l’immane discarica umana di Korogocho, spese la sua commozione istituzionale a commento dell’eccidio dell’infanzia – «morti sociali, non fatalità» –, recitando con la dovuta compunzione l’atto di dolore: «siamo noi, i suoi assassini»,[27] ammissione effimera, epperò veritiera, inclusiva in larga misura dell’Internazionale socialista. Avendo assicurato al ritorno «anche da qui si può fare molto. Io intendo farlo», quale espiazione, quale riparazione sufficientemente effimera poteva venirgli in mente? Non una partita di calcio a sollievo di Korogocho, no, non potrebbe. «Lì – dice infatti – tra i rifiuti delle discariche e le morti silenziose di bambini innocenti, ho trovato energie e motivazione. Ho dato un nuovo senso alla mia vita».[28] Niente più calcio dunque? che cosa, allora? Eccolo l’uomo nuovo, più effimero che mai, col suo «molto» per Korogocho: «Roma dovrebbe ospitare un concerto annuale sul modello Live Aid per sensibilizzare i giovani e contribuire ai problemi dello sviluppo».[29] Dove, se per sviluppo non si intende quello fisiologico, si può apprezzare un tipico nonsenso veltroniano. Però ha anche assicurato: «Ci sarà un tempo della mia vita in cui mi occuperò soltanto di Africa. Non è oggi, né domani. Ma quel tempo della mia vita verrà e io lo aspetto con ansia».[30] Per le molte urgenze di un più pressante effimero – i circenses da ammannire ai quiriti – quel tempo mitico non è ancora venuto, deludendo l’ansia di molti. Però forse siamo al momento buono. Potrebbe infatti un tale personaggio mancare all’attuale revival di religiosità atea? No, non può. Si è confidato con i fiduciosi padri passionisti abruzzesi. Dice di «credere di non credere», che però insiste nella ricerca di Dio.[31] Visto il tipo, si potrebbe pensare che la consideri una specie di caccia al tesoro. Ma dice anche che è ispirato dalla luce che ha visto negli occhi di papa Giovanni Paolo II e dalla fede dei missionari conosciuti in Africa. Ecco, qualunque cosa ne pensino gli africani, se questa volta per una volta in vita sua fa sul serio, è in Africa che secondo la promessa deve tornare e cercare. Forse non troverà, ma almeno si sarà divertito.

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Erri De Luca è la faccia pulita del reducismo contestatorio. Non ha fatto carriera nei partiti, non lo hanno sistemato all’università o alla televisione o nella stampa di regime; non ha scritto nemmeno trattati globalmente salvifici sulla partecipazione multitudinaria alla gestione dell’esistente. Non vota, ragionevolmente: «finché ci sono dei prigionieri e degli esiliati in giro, per i reati politici del 1900, io non voto».[32] Si è allocato nelle buone lettere, dove talora si danno approdi innocenti alla deriva delle coscienze. Nel suo caso certamente con merito, se si eccettuino sortite teatrali non strettamente necessarie; e anche con fortuna, poiché sono in molti ad apprezzare, tra i politici e gli intellettuali in carriera, che poeticamente si ricordi loro l’infanzia ribelle. Tuttavia neanche lui sfugge alla legge ferrea della selezione naturale: adeguare, per sopravvivere, la propria identità al contesto. E si è visto quali siano in Italia il contesto imprescindibile e le identità compatibili. Sicché anche Erri accende i suoi ceri sugli altari dell’ateismo cattolico e, poiché è napoletano, identitariamente compenetrato dalle tradizioni della sua città, dà alla sua testimonianza i pittoreschi toni devozionali, piamente fiduciosi, miracolistici, accreditati a suo tempo da sant’Alfonso de’ Liguori: una superstizione in tutti i sensi sana – intera e benintenzionata –, che per la riparazione delle pene del mondo confida nella magia dei riti e delle giaculatorie. Si lascia interrogare sul tema della fame Erri, e come napoletano sa quanto sia importante: «Sì, la forza della preghiera può scuotere le coscienze e smuovere anche l’indifferenza verso il flagello della fame. Anche i non credenti possono sentirsi interpellati. E non è un male». L’intervistatore sembra un po’ perplesso: «Ma come si può sconfiggere la fame con una preghiera?». Bisogna attenersi al rito, puntualizza liturgico Erri, «pregare prima e dopo i pasti».[33] Ora, noi non vogliamo mettere in dubbio che, se l’esorcismo è correttamente eseguito, a qualcosa giovi, specialmente se accompagnato, come raccomandano in buona sintonia Erri e papa Ratzinger, da un cambiamento negli «stili di vita». Gioverà certamente alla buona coscienza – fosse anche non credente – e alla digestione di chi il cibo ce l’ha. Ma gioverà a chi il cibo non ce l’ha? Gioveranno le nostre preghiere a «smuovere le coscienze» degli azionisti delle Sette Sorelle e altre simili confraternite, accreditabili della fame universale? Non vogliamo dubitare che, se fossero gli azionisti a praticare in proprio l’esorcismo, questo funzionerebbe a beneficio di tutti, meglio ancora se cambiassero «stili di vita». Ma come convincerli? Il dubbio non sembra contaminare la fede non credente di Erri, che in materia di «stili di vita» si dichiara «in perfetta continuità con papa Wojtyla, il pontefice che più di ogni altro ha sollevato il problema delle storture del sistema capitalistico». Be’, questo è troppo anche per un esorcista non credente, proprio vero che la fede acceca: Wojtyla non era il papa che apprezzava lo stile di vita di Pinochet e Videla? Gesù! con non credenti così chi ha bisogno delle «parenti di san Gennaro»?

[Fine. La prima parte di Identità qui]

[7] «Napoli, vedo già i primi risultati». Napolitano bacchetta la stampa, in la Repubblica, 26 novembre 2006.

[8] Ivi.

[9] i.d.a., Decapitato il clan dei Mazzarella, in la Repubblica, 28 novembre 2006.

[10] Valentino simbolo del riscatto italiano, in la Repubblica, 15 novembre 2006.

[11] «Accolto da ’A città ’e Pulcinella cantata dai bambini, Amato ha detto: “Se il vostro modello è Pulcinella e non la camorra ce la possiamo fare”». Cfr. Amato a Napoli: piano sicurezza funziona, in Televideo, 14 dicembre 2006.

[12] Roberto Fuccillo – Ottavio Lucarelli, Napoli, anticamorra in piazza, in la Repubblica, 11 novembre 2006.

[13] Omaggio del presidente a Leone, in la Repubblica, 26 novembre 2006.

[14] Rosetta Loy, Quell’omaggio a Leone pensando alla Cederna, in la Repubblica, 30 novembre 2006.

[15] Silvia Fumarola, Napolitano: «Ripensiamo il ’68», in la Repubblica, 2 dicembre 2006.

[16] Rosetta Loy, Quel busto al presidente Leone, in la Repubblica, 7 dicembre 2006.

[17] Cfr. Liana Milella, Cassazione, il Csm boccia Carbone. Il «no» alla nomina divide i giudici, in la Repubblica, 12 dicembre 2006.

[18] Giuseppe D’Avanzo, Se Merola diventa un eroe, in la Repubblica, 15 novembre 2006.

[19] Dario Del Porto, Napoli, assedio ai quartieri dei clan, in la Repubblica, 6 novembre 2006.

[20] D’Avanzo, op. cit.

[21] Ottavio Lucarelli – Conchita Sannino, Camorra, Amato contro i neomelodici, in la Repubblica, 14 dicembre 2006.

[22] Fuccillo-Lucarelli, op. cit.

[23] Giorgio Battistini, «Stato e Chiesa contro l’illegalità», in la Repubblica, 28 novembre 2006.

[24] Un cordiale e rispettoso saluto, 19 novembre 2006.

[25] Ivi.

[26] Giorgio Battistini, Napolitano in visita al Vaticano, in la Repubblica, 19 novembre 2006.

[27] Walter Veltroni, Forse Dio è malato, Rizzoli, Milano 2000, p. 93.

[28] Ivi, pp. 130 s.

[29] Arturo Zampiglione, in la Repubblica, 15 febbraio 2001.

[30] il Resto del Carlino, 24 marzo 2001.

[31] Veltroni e la religione, in la Repubblica, 8 novembre 2006.

[32] Intervistato da Claudio Sabelli Fioretti in Corsera Magazine, 9 settembre 2004.

[33] Orazio La Rocca, De Luca: sì al rito del ringraziamento, può scuotere le nostre coscienze, in la Repubblica, 13 nov. 2006.