di Sbancor

PiazzaFontana.jpg
Pochi lo noteranno, ma questo è il primo anniversario di Piazza Fontana (17 morti, 84 feriti) in cui non c’è nessun imputato.
L’ultimo sul banco degli accusati e peraltro, come ricorda il giudice Guido Salvini, l’unico condannato, era Carlo Digilio, “Zio Otto”, l’armiere di Ordine Nuovo, il primo e unico “pentito”. E’ morto, per uno di quegli strani incroci del destino, il 12 dicembre del 2005.
Gli altri sono stati tutti assolti. Assolto Valpreda, morto anch’esso, assolto Freda, assolto Ventura, assolto Delfo Zorzi.
A questo punto, se non ci fosse il dolore ancora attuale dei parenti delle vittime e quel ragazzino che era allora nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, che ora è un uomo, ma a cui mancano le gambe, ci sarebbe forse da chiedersi se quella bomba è veramente esplosa. Non c’è più neppure la Banca Nazionale dell’Agricoltura, fagocitata dalle fusioni e acquisizioni che hanno attraversato il mondo del credito.

Intanto le carte del primo processo di Catanzaro sono affidate all’alacre lavoro del tempo (e dei topi). Ricevo una e-mail da vecchi compagni della F.A.I. (Federazione Anarchica Italiana):

“Il 7 Novembre del 2006, il Corriere della Sera ha lanciato un preoccupato allarme sulla sorte degli atti del processo di Piazza Fontana. Questi atti, che contengono le istruttorie, centinaia di fotografie, gli interrogatori, le deposizioni di tanti protagonisti e ogni altra carta rilevante (di cui rappresentano l’originale e l’unica copia esistente), rischiano di deteriorarsi, di finire prima o poi al macero, di divenire più probabilmente inservibili. Per tali ragioni, il Tribunale di Catanzaro ne ha deciso la digitalizzazione, oltre che un riordino logico e cronologico che sopperisca alla confusione in cui versa la loro attuale conservazione. Fin qui tutto bene. I problemi nascono quando il Ministero della Giustizia stanzia 50 mila euro per l’operazione e le ditte che partecipano alla gara d’appalto chiedono ben 85 mila euro. Ciò avveniva nove mesi fa e da allora tutto tace; il tempo passa e la situazione comincia a divenire, per l’appunto, preoccupante.”

Viene data una e-mail per sottoscrivere un appello: info@altracatanzaro.it.
E forse fra quelle carte c’è ancora una traccia. Che mancherà agli storici del futuro, perché lo Stato dopo non aver trovato i colpevoli oggi non trova 35.000 euri.

Quanti appelli ho sottoscritto in questi anni per Piazza Fontana?
E la memoria incomincia a lavorare portandomi indietro nel tempo.
23 febbraio 1972.
Inizia a Roma il primo processo per la strage, che vede come principali imputati Valpreda e Merlino. Il processo verrà poi trasferito a Milano per incompetenza territoriale e infine a Catanzaro per motivi di ordine pubblico. Ero a Piazzale Clodio quel giorno. C’eravamo andati in tanti. Avevo 19 anni e non mi chiamavo ancora Sbancor. Come mi chiamavo non importa. Non importava neanche a me quel giorno. Sapevo solo che stavano processando un anarchico. E io ero anarchico. Assiepati nel cortile incominciammo a spingere il cordone dei carabinieri. Allora giocavo come terza linea, in una squadra di rugby. Sapevo spingere in mischia. Sapevo spingere così bene che quando alzai la testa mi accorsi con orrore che eravamo rimasti in due a spingere. Io e Marco, oggi uno scenografo di successo. La linea dei compagni era circa a dieci metri dietro di noi. Gridavano slogan. Gli imbecilli. Guardai Marco. Marco mi guardò, quasi con compassione. Era stata sua l’idea di andare lì. Incominciammo piano a sganciarci, cercando di evitare con eleganza le manganellate che ci piovevano addosso. Lo stile era tutto a quei tempi. Raggiungemmo i compagni, che ci guardavano stupiti da tanto eroismo. Finita lì.

Certo che quel processo agli anarchici era davvero antistorico. In Italia, nell’800 e nei primi del ‘900, ogni volta che c’era la necessità di accusare un bravuomo, si mettevano in galera gli anarchici. Non sempre innocenti. Ma era colpevole Bresci che giustiziò il re Umberto I° responsabile di aver premiato Bava Beccaris — il “feroce monarchico Bava” — che aveva cannoneggiato la folla a Milano? E Malatesta e la banda del Matese? Colpevoli, ma di che cosa? Di aver trasformato la fame e l’ingiustizia del Mezzogiorno in ribellione? E Sacco e Vanzetti? Sante Caserio era sicuramente colpevole di aver accoltellato il Presidente della Repubblica Francese, Carnot. Ma l’aveva anche rivendicato. “Si, si che lo conosco, ha il manico rotondo / nel petto di Carnot, lo ficcai a fondo!”
Ma questa bomba di Milano che cadeva in mezzo alle lotte operaie, che voleva buttare nel rogo la contestazione, che mirava a muovere la parte più schifosa della nostra società: i benpensanti. Una bomba di cui gli accusati si dichiaravano innocenti.
E poi Pinelli, volato giù da una finestra della Questura. “”Malore attivo” — sentenziò il giudice D’Ambrosio — oggi deputato D.S. Lo stesso che ha messo i bastoni fra le ruote del giudice Salvini.
No c’era proprio di che incazzarsi di brutto!

Si. Tutto ok. Ma perché stavo con gli anarchici? Perché mi ero dovuto buttare nell’occhio del ciclone? Solo oggi scopro di aver sempre amato le storie di confine. “Borderline”. Stare sulla linea.
Dall’altra la sfiducia in qualsiasi istituzione, specie in quelle religiose.
Ricordo Andrea. Anarchico e toscano – il “di cui” è aggravante generica. Aveva una Guzzi V7. Andavamo in giro intorno al Vaticano a fregare i cappelli ai preti. Andrea ne aveva una collezione. Ricordo ancora l’eccitazione per un cappello cardinalizio portato via con destrezza, mentre il motore rombava. E’ morto qualche anno fa di overdose d’eroina, ma a me piace pensarlo ancora in moto, a rubare i cappelli ai preti.
No, forse non ero più innocente negli anni ’70. Nessuno poteva più esserlo. La Storia ci aveva colpito duro. E dovevamo reagire. Perché la Storia continuava a colpire. Noi, in particolare.

Il primo a reagire con lucidità fu Marco Ligini, giornalista, compagno, amico fraterno e caro, conosciuto troppo tardi e mancato troppo presto. Il libro La Strage di Stato inaugurò la “controinformazione”.
Era molto, ma ancora troppo poco.
Eravamo di una ingenuità disarmante e di uno schematismo ideologico altrettanto biasimevole. Eravamo troppo giovani. E poi…poi le bombe continuavano a scoppiare a Brescia, sull’Italicus, i telefoni a suonare la notte per lanciare allarmi su possibili colpi di stato, i fascisti ti aspettavano sotto casa e i poliziotti ti aspettavano in piazza.
Eppure…

Eppure qualcosa, anche allora, non mi quadrava. Da circa un anno non faccio che leggere atti processuali, interviste, libri su Piazza Fontana. Un progetto di libro forse. Ma anche qualcos’altro.
La voglia di capire qualcosa che ho sicuramente vissuto, di cui conosco anche alcuni dei protagonisti, ma appartiene come a un mondo parallelo, oscuro, pericoloso. Non mi riferisco al “complotto fascista”. Quello, anche se con delle zone ancora da chiarire, è abbastanza strutturato. Basta rimettere a posto la gerarchia, e quindi collocare al posto che gli spetta il “comandante” Junio Valerio Borghese, l’unico che poteva tener insieme l’aristocrazia “ariana” di Freda e Zorzi con la bassa macelleria fascista del “Caccola”, al secolo Stefano Delle Chiaie.

Il giudice Salvini ha anche trovato le tracce degli “amici americani”. Solo tracce, e probabilmente solo dell’ultimo livello. Ma abbastanza per capire il gioco. Sulla presenza dei servizi segreti della Grecia dei “colonnelli” non c’erano mai stati dubbi. Certo, molto c’è da lavorare sui documenti che via via verranno “declassified” dalla C.I.A. Se verranno declassificati anche quelli sull’Italia.
E allora cosa resta ancora da sapere su Piazza Fontana?
Cos’è che anche allora non capivamo? Purtroppo la risposta è: il ruolo della “sinistra”, o meglio dell’allora Partito Comunista Italiano. Perché il P.C.I. era così “freddo” – nel migliore dei casi – nel difendere Valpreda? Perché non divulgava le notizie che anche noi avevamo sui tentativi di “golpe” e che ci venivano puntualmente confermate dai “compagni ferrovieri”, i quali registravano le insolite partenze per l’estero concentrate alla stazione di Roma di esponenti del P.C.I. e della C.G.I.L. ?

Rimando qui a un articolo apparso su “Libertaria” n.1, anno 1 del 1999, di Aldo Giannuli, lo storico che più attivamente ha contribuito a far luce su quegli anni, scoprendo, fra l’altro l’archivio “segreto” dell’Ufficio Affari Riservati, sulla via Appia.
L’articolo si intitola “PCI & Stragi: la politica del silenzio”.
Nell’articolo viene analizzato un fatto a dir poco sconcertante: nel secondo memoriale, Aldo Moro — prigioniero delle Brigate Rosse — ricorda quel 12 dicembre. E commette un apparente errore. Fissa la data in cui lui viene informato della strage nella tarda mattinata del 12. Come tutti sanno le bombe esplosero invece alle 16,37. La prima notizia Ansa è delle 17,05, la notizia che si tratti di una bomba viene diramata dopo le 18. Sempre nel memoriale, Moro, che stava a Parigi per la riunione della Cee e che aveva all’ordine del giorno l’espulsione della Grecia dalla comunità dopo il colpo di stato, parla dei colloqui avuti con Tullio Ancora, funzionario della Camera dei Deputati. Tullio Ancora teneva i contatti fra Moro e i “comunisti”, attraverso Luciano Barca, il quale tramite appunto Ancora avverte Moro di prendere accorgimenti per il rientro in Italia.
Tullio Ancora in audizione alla Commissione Stragi precisa di aver incontrato Luciano Barca che gli aveva comunicato le preoccupazioni del P.C.I. sulla sicurezza di Moro, di aver chiesto a Picella, segretario generale alla Presidenza della Repubblica, di mettergli a disposizione la “batteria” dei telefoni del Quirinale, di aver contattato Moro, e avergli espresso le preoccupazioni del P.C.I.
Ora questa storia della telefonata di Ancora ha tutti gli ingredienti del “giallo”. Se fosse avvenuta il 13, come sostiene Ancora, non si capisce perché Moro la ricordi “a ridosso” della strage. Se si è svolta il 12 avrebbe dovuto essere comunque in serata, visto che prima Ancora doveva aver avuto il tempo di sentire Luciano Barca e Picella.
A meno che non abbia ragione, ancora una volta, Moro e la telefonata fosse avvenuta prima della strage, cioè in tarda mattinata.
Ipotesi impossibile?

Riguardo appunti e scopro una seconda strana coincidenza: Paolo Emilio Taviani nelle sue memorie ricorda : “La sera del 12 dicembre1969, il dottor Fusco defunto negli anni ’80, stava per partire da Fiumicino per Milano, era un agente di tutto rispetto del SID…Doveva partire per Milano recando l’ordine di impedire attentati terroristici. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era tragicamente scoppiata e rientrò a Roma. Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la sinistra, un ufficiale del SID, il Ten. Col. Del Gaudio.”
Questa ricostruzione è confermata dalla stessa figlia del Dottor Fusco, Anna, solo pochi mesi dopo, il 13 marzo 2001. “Posso dirvi” — ribadì, riferendosi al padre — “che il non aver impedito la strage di Piazza Fontana fu il cruccio della sua vita”. In questa ultima deposizione la signora Fusco aggiunse anche un particolare su cui mai si è forse riflettuto sufficientemente. “Mio padre” — sostenne — “era un ‘rautiano di ferro’ e ho sempre avuto l’impressione che abbia appreso l’episodio del 12 dicembre non dai servizi, ma dalle sue conoscenze di destra”.
Dunque il SID, o almeno alcuni suoi agenti, sapevano della bomba prima che questa materialmente esplodesse. Chi altro ne era a conoscenza? I fascisti, ovviamente, e poi chi altro? Possiamo escludere che la rete del V° Direttorato del KGB in Italia fosse del tutto all’oscuro di quel che avveniva negli ambienti fascisti e filo-americani del Triveneto? E il “Lavoro Riservato” del P.C.I., il cosiddetto “parapartito” cosa ne sapeva?

Sempre Giannuli (“Libertaria”, cit.) riporta le minute della Direzione del P.C.I. del 19 dicembre 1969.
Ne risulta un P.C.I. che ha il quadro chiarissimo, sulle implicazioni dei fascisti, sui servizi segreti, sul quadro internazionale. Conosce ovviamente gli articoli dell’ “Observer” che accusavano Saragat di essere fra i “mandanti” del colpo di Stato, e viene messo al corrente da parte dei “compagni socialisti” delle posizioni del primo ministro inglese Wilson e del Cancelliere Willie Brandt e le loro preoccupazioni sul fatto che “…il Pentagono intervenga brutalmente nella situazione italiana”.
Il P.C.I. sapeva, ma aderì a quel “patto di stabilità istituzionale”, in cambio del quale Moro, Andreotti e Forlani bloccarono il “colpo di Stato”, ma pretesero il silenzio — almeno nell’immediato – sulla “Stage di Stato”, le connivene dei servizi, l’implicazione delle “alleanze atlantiche”.
“Non è ancora il tempo per la rivoluzione”, si disse allora … non lo sarebbe mai più stato.
Quello stesso P.C.I. nel 1973 inaugurò il compromesso storico, subito dopo che il Generale Pinochet, appoggiato da Henry Kissinger, aveva tradito ed assassinato Salvator Allende.
Nel 1973 avevo dato il mio nome per partire con le “Brigate Internazionali”. Dovevamo fare scalo a Cuba e proseguire per il Cile. Avevo vent’anni. Ma in Cile non c’erano già più campi di atterraggio.
Il progetto, come tanti in quegli anni, fallì miseramente.

Da un’intervista a Pietro Valpreda:

Z: Questa giustizia che le è stata resa le basta o la vuole piena, senza alcuna riserva?
V: Ma senta, io ho trovato abbastanza forza in me per reagire, e forse ho avuto anche una situazione oggettiva che mi ha permesso di rifarmi una vita. Per il resto, non credo di dover chiedere di più… Non credo neanche che lo Stato possa e voglia dare di più. Altri hanno detto: sarà fatta giustizia, sarà fatta luce. Non so, questo mi pare misticismo… Credere in un dio statale che non esiste… Perché dovrei pregare davanti a un altare in cui non credo? C’è una verità dello Stato. Io ho avuto la mia, che mi ha permesso di sopravvivere. Proseguo con la mia.”