di Valerio Evangelisti

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Il 1° dicembre 2006 si è svolto, a Città del Messico, uno spettacolo tra il penoso e l’imbarazzante. Nella Camera dei Deputati doveva prestare giuramento il nuovo presidente, Felipe Calderón. Fuori del palazzo di San Lázaro tumultuavano centinaia di migliaia di manifestanti, persuasi che il conservatore Calderón fosse un “presidente spurio”, e che il “presidente legittimo” fosse invece il candidato di sinistra (molto moderato nei programmi) Andrés Manuel López Obrador.
Da tre giorni la tribuna del parlamento messicano era occupata sia da deputati del PAN (partito di azione nazionale), compagni di Calderón, che del PRD (partito della rivoluzione democratica), cui appartiene Obrador. I primi volevano che il loro “eletto” giurasse, gli altri intendevano impedirlo. La Costituzione del Messico prevede infatti che un presidente possa entrare in carica solo se ha giurato di fronte ai parlamentari.

A un certo punto, dietro la tribuna, si apre una porticina di servizio. Sbucano Calderón, che è piccolo piccolo, e il presidente uscente Fox, che invece è altissimo, con folto seguito. Calderón pronuncia in fretta e furia la formula del giuramento, Fox gli mette la sciarpa tricolore al collo. Poi entrambi scompaiono come pupazzi a molla.
Dalla sala, quelli del PRD lanciavano insulti, mentre i deputati del PAN gridavano “Ce l’abbiamo fatta! Ce l’abbiamo fatta!”.
Uno spettacolo assolutamente penoso. Per fortuna l’unico capo di Stato latinoamericano presente era il colombiano Alfredo Uribe, attualmente in seri guai per l’appoggio prestato da membri del suo governo, e forse da lui stesso, a massacri condotti da gruppi paramilitari di estrema destra. Gli altri presidenti, con una scusa o con l’altra, si erano defilati dalla cerimonia.

Perché il “presidente eletto” ha difficoltà a presentarsi in pubblico? Perché le elezioni del 2 luglio, che lo videro vincitore con circa 250.000 voti di vantaggio, su 76 milioni di elettori, furono quasi certamente truccate. A dispetto di tutti i sondaggi condotti alla vigilia, e degli exit poll, durante lo scrutinio, a partire dal tardo pomeriggio, Calderón iniziò a vincere, seppur di poco, in TUTTE le circoscrizioni scrutinate, e López Obrador, inizialmente in testa, a perdere con altrettanta regolarità. Il grafico che ne risulta è impressionante, dato che disegna un cono quasi perfetto, statisticamente del tutto improbabile.
Ciò, forse, ricorda a noi italiani qualcosa.
Sta di fatto che gli intellettuali messicani non sono molluschi come molti di quelli che abbiamo in Italia. I cervelli dell’UNAM, l’università di città del Messico si misero subito al lavoro. Presto fu individuato l’algoritmo che falsava i risultati elettorali a favore di Calderón.
Ma la manipolazione era articolata. In 72.000 seggi elettorali furono riscontrate irregolarità. I dati diffusi dall’IFE, istituto federale elettorale, fornivano un numero di voti espressi superiore a quello del totale degli iscritti. Mancavano per di più i dati di quasi 200.000 schede (un dossier completo si trova qui).
Se Enrico Deaglio vuole sapere cos’è accaduto in Italia durante le elezioni politiche di aprile, dovrebbe studiarsi il caso messicano, estremamente simile (e simile a quelli della Florida e dell’Ohio).
Il giudizio definitivo spettava al Tribunale elettorale federale, subissato di ricorsi. Questo optò per un riconteggio limitato a poche circoscrizioni. Pur ammettendo pesanti ingerenze di Fox, della confindustria e della Chiesa nella campagna per la presidenza (con tutto il potente duopolio tv messicano schierato contro Obrador), e pur denunciando brogli a favore di Calderón, finì per proclamare la vittoria di quest’ultimo.
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La piazza non la prese bene, almeno nella capitale. Vi furono manifestazioni con milioni di partecipanti. Il 20 novembre scorso López Obrador si insignì della carica di “presidente legittimo”, davanti a una folla incalcolabile e sotto l’emblema che fu di Benito Juárez: un’aquila dalle ali spiegate che divora un serpente. Diversa da quella, ad ali chiuse, che figura nel simbolo del Messico. Pochi giorni prima aveva nominato un proprio governo alternativo.
Bello tutto quanto (e certamente meglio della penosa reliquia a cui è ridotta la sinistra italiana, fervida adepta della Legge del Menga). Solo che non appare chiaro quale percorso abbia in mente López Obrador. La sua mossa — dare vita a un contropotere — è arrischiata, e forse coraggiosa. Peccato che sia viziata da almeno tre pericoli: 1) Uno è il suo partito, che per ora lo segue ma, chiaramente, controvoglia; 2) Un altro è l’appello a membri di altri schieramenti, in particolare il semidefunto PRI (partito rivoluzionario istituzionale, centrista, al potere per decenni), ampiamente discreditati; 3) Il terzo è la rincorsa, troppo tardiva e affannosa, di movimenti sociali a lungo ignorati. Primo fra tutti il movimento di Oaxaca.
Perché ciò che accade a Oaxaca è importante? Non aspettatevi di trovare una risposta sui giornali italiani, che vi parleranno di generici “scontri fra estremisti” (per scoprire perché l’Italia affonda nella merda non è necessario considerare le manifestazioni dei fan del cavaliere: basta partire dai giornalisti, più ancora della carta stampata che della tv).

Oaxaca, oltre che una città, è uno Stato fra i più grandi del Messico, molto differenziato al suo interno. La regione della Sierra Madre del Sud è ritenuta la più povera del paese, con villaggi di capanne e tassi elevati di analfabetismo. Il tenore di vita, pur tra mille contraddizioni, è molto più elevato sulla Costa e nella zona dell’Istmo di Tehuantepec: la prima beneficiata dal turismo e dalla coltivazione della palma, il secondo dall’importanza del porto di Salina Cruz e dal fatto di avere dato i natali a due governatori del PRI: il defunto José Murat e Ulises Ruíz, ancora in carica.
Nei quartieri miserabili della città di Oaxaca e tra i villaggi della Sierra sono sorte nei decenni, a centinaia, minuscole aggregazioni sociali: piccoli sindacati contadini, gruppi cattolici di base, circoli culturali, comitati ecc. La politica dell’ex governatore Murat nei loro confronti fu ambivalente. Da un lato offriva piccoli finanziamenti per progetti su scala locale, dall’altro lato operava una spietata repressione ogni volta che il dissenso raggiungeva picchi troppo elevati.
Quando parlo di “repressione”, intendo assassinii. In un’occasione furono ritrovati, su un camion abbandonato, i corpi di diciassette contadini uccisi. Altri contadini furono arrestati, con l’accusa di simpatizzare per l’EPR (esercito popolare rivoluzionario: un gruppo guerrigliero nato nel 1996 e poi divisosi in una decina di frazioni) e di essere gli autori del crimine. Rimasero in galera due anni, salvo poi essere scarcerati perché riconosciuti completamente innocenti.
Per capire tutto ciò, occorre considerare che ognuno degli Stati messicani gode di ampia autonomia. Così, per esempio, nel Distretto Federale, in cui sorge città del Messico, governato dal PRD, sono riconosciute le unioni coniugali di fatto ed è ammessa la “pillola del giorno dopo”; mentre altrove, come nello Stato di Jalisco, il governo locale ha proibito persino innocenti manuali di educazione sessuale per le scuole superiori.
Quando il governatore è del PRI (e la maggior parte lo sono ancora oggi), tanta autonomia lo trasforma spesso in una specie di satrapo, con corpi di polizia a disposizione e, per i “lavori sporchi” che questi non possono compiere, pistoleros di partito e veri e propri nuclei paramilitari. Ciò aiuta a capire come mai a Ciudad Juárez e in altre località del Nord, governate dal PRI o dal PAN, abbiano potuto essere assassinate in maniera atroce centinaia di giovani donne, mentre la polizia locale restava passiva e i governatori minimizzavano il “fenomeno”. Del resto, nessuno è ancora riuscito a rimuovere dalla sua poltrona il governatore priista di Puebla, soprannominato el Gober Precioso, accusato di pedofilia e coinvolto in un traffico di bambine, da lui chiamate in gergo “bottigliette di champagne”. Altri governatori sono notoriamente legati ai narcotrafficanti, eppure restano intangibili.

Si badi, sto parlando di un paese, il Messico, che non è affatto arretrato e che ha, teoricamente, istituzioni pienamente democratiche. Ma le colpe della violenza e della miseria non ricadono solo sui governatori corrotti, e sui loro corpi di polizia ugualmente corrotti. Vanno estese anche a una borghesia straordinariamente inetta, con abitudini e stili di vita propri di un’aristocrazia. Se produce qualcosa, lo fa sotto l’egida delle corporations statunitensi, le quali hanno tutto l’interesse a trovare in Messico manodopera a buon mercato. Peccato che i bassi salari non sviluppino affatto una domanda locale, e dunque non provochino una crescita effettiva. Ma ciò non importa alle classi dirigenti messicane (foraggiate per decenni dal PRI con i proventi del petrolio), che vivono tra il loro paese e gli Usa, si crogiolano in ville faraoniche e in quartieri riservati, si dedicano alla finanza e al mercato delle telecomunicazioni.
Accade così che il paese teoricamente più prospero, e di più antica civiltà, dell’America Latina produca, in proprio, quasi solo generi alimentari (ma le marche di tequila più note, Sauza e José Cuervo, sono oggi di proprietà statunitense) e oggettistica di scarso valore. Oltre a telenovelas tipo la leggendaria Anche i ricchi piangono. Queste ultime riflesso del razzismo profondo che impregna una borghesia parassitaria. Non c’è attore che non sia di pelle bianca e, frequentemente, con i capelli tinti di biondo. Vale anche per i giornalisti e gli intellettuali che in tv, verso la mezzanotte (cioè quando la maggior parte dei messicani dorme), animano gli unici dibattiti televisivi degni di nota. Tutti bianchi di pelle. La larga maggioranza del popolo del Messico è di origine india, però esserlo è ancora, agli occhi di chi comanda, una vergogna.
Una classe dirigente così prossima alla caricatura ha eletto a rappresentarla, quando il passaggio dal regime autoritario alla democrazia si è reso inevitabile, il direttore della Coca Cola, Vicente Fox. Inizialmente ricco di promesse (e un’effettiva democratizzazione delle istituzioni, va detto, c’è stata), ma tragicamente deludente sul piano dei risultati concreti. Assicurava che avrebbe creato due milioni di posti di lavoro. Lo ha fatto, ma non entro i confini: sotto il suo mandato sono stati due milioni i messicani emigrati clandestinamente negli Usa. Quanto all’equità sociale, per lui è sempre stata sinonimo di carità — magari affidata alla moglie, prodiga (a spese del bilancio statale) di iniziative di beneficenza. Va tenuto presente che in Messico, in obbedienza al modello statunitense, la previdenza sociale è nulla, e chi non può permettersi cliniche costose e medicinali costosissimi è lasciato crepare.
Le ultime settimane di Fox sono state ai limiti del delirio. Ha parlato alla nazione per protestare contro le Camere che gli avevano negato i fondi per una “missione internazionale” (in realtà, con il pretesto di un summit asiatico, voleva andare a trovare un’anziana parente residente in Australia). A una televisione americana che stava per intervistarlo, ha dichiarato che ormai poteva dire qualsiasi scemenza, visto che stava per andarsene. Ha ignorato fino all’ultimo minuto le tensioni in atto a Oaxaca. Nel contempo, le due tv monopoliste, Televisa e Tele Azteca, erano invasi da spot in cui Fox apriva cantieri, vantava come proprie leggi varate prima di lui, inaugurava cliniche modernissime. Un presidente imprenditore. Un presidente operaio. A chi mi legge, ricorderà qualcuno.
E’ stato questo buffo personaggio a passare a Calderón la fascia tricolore. Intanto la grande stampa italiana, in testa “La Repubblica”, trattava il presidente del Venezuela Hugo Chávez da dittatore e da pagliaccio, salvo tacere di botto quando questi è stato riconfermato da una valanga di voti poco contestabili. Senza però rilevare che, se c’era stato qualcosa di clownesco nel panorama latinoamericano, era stato il frettoloso insediamento di Calderón tra fischi e pernacchie.
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Torniamo a Oaxaca. Uno dei primi atti del governatore Ruíz, succeduto a Murat (nel frattempo deceduto, e caduto nel discredito per avere simulato grossolanamente un attentato ai propri danni), è stato togliere ogni sussidio alle realtà di base delle zone povere. Quelle somme, a suo giudizio, erano scarsamente controllabili e impiegate non si sa come. Giudizio che potrebbe avere una sua logica, se non fosse che su Ruíz, nei primi mesi del suo mandato, piovve l’accusa della magistratura federale di essersi personalmente appropriato di 80 milioni di pesos, sottratti al bilancio statale.
Circa quattrocento comitati delle zone povere di Oaxaca si unirono in una nuova coalizione: la APPO (assemblea popolare del popolo di Oaxaca). Si allearono ai maestri in sciopero, occuparono gli edifici governativi, si impadronirono di radio e tv.
La risposta di Ruíz fu la stessa del suo predecessore. Da giugno a oggi pistoleros del PRI, gruppi paramilitari (las carovanas de la muerte) e polizia statale hanno ucciso quattordici oppositori, tra contadini e insegnanti. Quasi quaranta sono gli scomparsi di cui non si ha più notizia. Mentre tutto ciò accadeva, Ulises Ruíz si trasferiva, con l’elicottero privato, in una lussuosa villa di Città del Messico, e addossava ogni responsabilità al mancato intervento del governo federale.
Non che avesse tutti i torti. Fox si decise a intervenire solo al quattordicesimo morto accertato, unicamente perché era un cittadino statunitense. Si trattava di un collaboratore di Indymedia New York. L’ambasciata americana emise una protesta. Per quanto questa fosse debole, Fox si svegliò dal coma. Inviò a Oaxaca la PFP (polizia federale preventiva) in assetto di guerra, a sgomberare della APPO il centro storico e le adiacenze.
La APPO coltivava ambizioni forse utopistiche: creare una collettività autogestita fondata su criteri di fraternità, di mutuo appoggio e di direzione assembleare, come nelle municipalità indigene autonome, numerosissime nello Stato di Oaxaca. Ciò era forse velleitario, e trainava effetti non positivi nel centro della capitale e in altre regioni, come la Costa e l’Istmo: turismo ai minimi termini, bambini esclusi per mesi dalla scuola a causa dello sciopero dei maestri, generale paralisi dei trasporti per via dei blocchi frequenti delle vie di comunicazione. Tuttavia, le componenti contadine, indigene e operaie della APPO, nel chiedere con tutti i mezzi l’allontanamento del governatore Ulises Ruíz, esprimevano un’istanza primaria: la fine degli omicidi che, nelle zone più povere e isolate della Sierra, falcidiavano gli esponenti di una collera collettiva.
Appena cinto della fascia da presidente, Felipe Calderón, che già aveva nominato segretario di governo un personaggio imputato di torture, ha agito da par suo. Erano stati concordati colloqui con la APPO, nella capitale. Quando i delegati (la APPO non ha un direttivo vero e proprio) si sono presentati, sono stati immediatamente tratti in arresto e trasferiti a carceri speciali (molto “speciali”).
Intanto Ulises Ruíz, El Gober Penoso (così soprannominato anche dai media di destra, vale a dire tutti, in assonanza al Gober Precioso), uscito dalla sua piscina Jacuzzi di Città del Messico, è tornato a Oaxaca. Sebbene sia parlamento (PRI escluso) che senato (PRI compreso) abbiano chiesto le sue dimissioni, e per quanto le televisioni lo preghino di togliersi di mezzo, non ha la minima intenzione di andarsene. Al contrario, ogni radio del suo Stato trasmette, a intervalli di quindici minuti, spot che vantano le opere pubbliche da lui realizzate. Senza menzionare, tuttavia, l’abbattimento degli alberi nel centro della capitale, e la cementificazione completa dello zócalo di Oaxaca. Chi sporca e deturpa sono gli altri. Meglio ucciderli.
Qualcosa mi dice che Messico e Italia siano più vicini di quanto appare. Solo che laggiù gli antagonisti lo sono sul serio, e rischiano le pelle per dimostrarlo.
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Molto, del futuro messicano, dipende da López Obrador. Finora, come ho detto, si è curato poco dei sommovimenti sociali di Atenco, dei minatori di varie zone del paese, di Oaxaca, degli zapatisti (molto indeboliti da una otra campaña presidenziale dall’eco scarsa o nulla, e da una contrapposizione frontale al PRD). Nemmeno è chiaro come intenda, nel definirsi “presidente legittimo” e nel promuovere un governo alternativo, influenzare la politica messicana. Se farà un solo passo indietro da questa posizione, rischierà davvero di affogare nel ridicolo. Se la manterrà, a meno che non si dimostri molto accorto, andrà verso uno scontro violento che non ha messo in conto. Va detto che le sue mosse più recenti, in direzione di un avvicinamento alla protesta sociale e di uno scostamento dalla politica delle poltrone, paiono abbastanza sagge,
Sta di fatto che il Messico vede un presidente in teoria legale che non può nemmeno presentarsi in pubblico, salvo essere coperto di contumelie, e un presidente alternativo che, dovunque appaia, si trova circondato da folle acclamanti. Ciò significa che nel paese, come in gran parte dell’America Latina, è in atto una rivolta popolare contro il neoliberismo, dimostrata dalle riconferme quasi plebiscitarie di Lula in Brasile e di Chávez in Venezuela, e dalle vittorie di Ortega in Nicaragua e di Correa in Ecuador. Personaggi dissimili tra loro, a volte persino più contraddittori di López Obrador, però in qualche modo ostaggi di una domanda di giustizia sociale proveniente dal basso che appare incoercibile.
Non è una “sinistra moderna”, direbbe in Italia chi è convinto che la sinistra, per essere moderna, debba somigliare alla destra. Produce “spaccature sociali”.
Ho idea che, senza spaccature sociali, la lotta alle disuguaglianze non si porrebbe nemmeno. I conflitti di fondo, che hanno per oggetto la ripartizione delle risorse e dunque la sopravvivenza stessa degli esseri umani, si trasformerebbero in contese etniche, in scontri religiosi, in “guerre di civiltà”, come avviene dalle nostre parti.
In America Latina, Messico incluso, sono sul tavolo problemi primari, e chi li vive non è disposto a compromessi. Dove stanno gli ingenui, gli imbecilli, i fautori del pensiero debole? Qui o laggiù?