persichetti1permessi.jpgNon usufruirà di permessi, Paolo Persichetti. Dopo quattro anni di carcere maturato a partire dall’arresto in Francia (in relazione alle indagini sul delitto Biagi, con cui niente c’entrava), Persichetti sconta una condanna per concorso nell’omicidio Giorgianni. Francesco Cossiga più volte ha fatto appello ai magistrati e alla pubblica opinione perché il regime carcerario a cui Persichetti è costretto fosse perlomeno attenuato (l’uomo è stato sballottato da una prigione all’altra per tutta la Penisola) e perché con la sua liberazione si incominciasse un serio dibattito che preludesse alla chiusura degli strascichi di una stagione che il carcere non storicizza. Ora che ne ha il diritto, Persichetti ha fatto domanda per qualche ora di libertà. Negata: il magistrato si è preso la briga, esaminando una domanda considerata routine, di svolgere opera ermeneutica sul libro Esilio e castigo, scritto in carcere e pubblicato in Francia e in Italia.

Secondo la giudice, alla lettura del testo di Persichetti si associa la sensazione di un’avversione nei confronti dello Stato che contrasta con il sistema giuridico democratico – come se invece Toni Negri fosse amico dello Stato, e Curcio anche. Una negazione di libertà che a questo punto si fa esplicita: non è nemmeno più fondata su fatti, ma direttamente su idee. La maschera è sollevata. Persichetti non disporrà di alcun permesso per idee che sono, peraltro, la premessa maggiore alla conclusione del libro: la richiesta di un processo storico di rappacificazione, una soluzione concreta a una stagione drammatica che lo Stato italiano sembra volere tenere spalancata come una ferita da cui sangue reale e sangue mnemonico continua a fuoriuscire.
Pubblichiamo, per solidarietà a Paolo Persichetti, un suo intervento. In calce, i particolari del suo libro, prefato da Erri De Luca.

IL PASSATO RIMOSSO, IL FUTURO CHE MANCA
La vicenda della lotta armata in Italia incombe sul presente anche perché non si è mai voluto procedere a un confronto sulle ragioni che la determinarono. E gli epigoni si sono potuti giovare di questa rimozione.
di Paolo Persichetti
[da Liberazione, 15 aprile 2005]

persichetti2permessi.jpgEra una calda sera d’estate quella del 24 agosto 2002 e l’Italia aveva urgente bisogno di recuperare uno di quei giovani maledetti degli anni ribelli per offrirlo in pasto all’opinione pubblica. Una grossolana impostura, escogitata con l’intento di fornire l’immagine truccata di un brillante successo operativo dopo l’attentato mortale contro Marco Biagi, ucciso pochi mesi prima da un piccolo gruppo che aveva riesumato dal museo della storia una delle ultime sigle della lotta armata. Un paese distratto e annoiato, persino futile, conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, era stato scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Irritato dal brusco risveglio, aveva rovistato furiosamente in un passato ormai sconosciuto. Cercava in spazi e tempi lontani responsabili di quei colpi senza radici. Attribuiva al passato quella che era una surreale imitazione figlia del presente. Cercava nelle figure di ieri dei colpevoli per l’oggi. Fu così che all’alba del giorno seguente venni scambiato nel tunnel del Monte Bianco. Metafora di un accordo sotterraneo, siglato al di fuori di ogni trasparenza, concluso nel ventre della terra, lontano dalla luce del sole, distante dal chiarore del giorno, dopo una folle corsa nella notte. Quella furtiva consegna celava una flagrante violazione della legalità internazionale: una persona non può essere estradata per dei fatti posteriori a quelli indicati nel decreto, in assenza di una nuova richiesta e previa verifica del suo fondamento. Pur di avallare il teorema della centrale francese le autorità hanno agito aggirando tutti gli obblighi previsti dalla convenzione europea sulle estradizioni. I passati rivoluzionari faticano a diventare storia, adagiati nel limbo della rimozione, periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che rimangono ostaggio dell’uso politico della memoria. Non un passato che torna ma un futuro che manca. La concomitanza con l’anniversario dell’11 settembre ricordava quanto la musica nel mondo fosse cambiata. Era tempo ormai per un forte richiamo all’ordine, alla riaffermazione dell’autorità, al rispetto assoluto della legge, al ripristino della certezza della pena. In un fondo di Barbara Spinelli, intitolato “Gli assassini tornano di moda”, venivo seriamente redarguito perché i prigionieri e i rifugiati non avevano mai fatto atto di pubblico pentimento. Poche settimane più tardi, nel silenzio cimiteriale di una cella d’isolamento, una lettera anonima riprendeva l’argomento consigliandomi di collaborare con la giustizia,se volevo uscire da quella sentina della terra. Una richiesta surreale che undici anni dopo cercava ancora le prove del verdetto emesso in corte d’appello.
Alla fine di una lunga trafila burocratica, anche il magistrato di sorveglianza non ha autorizzato i permessid’uscita perché «non risulta che abbia pubblicamente assunto posizioni di dissociazione della lotta armata, tanto più necessaria alla luce della grave recrudescenza del fenomeno terroristico dichiaratamente ispirato all’ideologia delle Brigate Rosse». Una richiesta irricevibile poiché costituirebbe una resa di fronte a trattamenti differenziali e premiali che hanno incrinato il principio di eguaglianza di fronte alla legge e trasformato l’inchiesta, il processo e il carcere, da sedi di verifica e ricerca della prova o svolgimento della pena, in mercati delle indulgenze, fiere dello scambio politico, luoghi dove si riceve un po’ di futuro in cambio del proprio passato. Diceva a tale proposito di Jeremy Bentham che «la sfera della ricompensa è l’ultimo asilo dove si trincera il potere arbitrario». I diversi gruppi in cui erano divise le Brigate Rosse degli anni ’80, si sono estinti alla fine di quel decennio. Una netta discontinuità politica fu sancita dai militanti dell’epoca. Lo striminzito gruppo apparso solo più tardi, negli anni ’90, sotto la sigla Ncc, è sorto con un evidente intento polemico nei confronti dei fuoriusciti e dei prigionieri che durante gli ultimi grandi processi dell’87-89 hanno sancito la chiusura del ciclo politico della lotta armata. Ogni confusione con le epoche precedenti è dunque ingiustificata e strumentale. Non ci sono ambiguità intrattenute. Chi sostiene il contrario nel ceto politico, nel governo o tra gli apparati investigativi e giudiziari, offre solo la prova di una sorprendente osmosi culturale, una micidiale simmetria d’atteggiamento con gli autori degli attentati D’Antona e Biagi. I quali hanno tutto l’interesse a rimuovere i percorsi politici condotti dagli ex militanti della lotta armata nel decennio ’90.
La dissociazione è l’esatto contrario di una disposizione dell’animo, un afflato della coscienza, un soprassalto dello spirito che sosterrebbe nobili percorsi di distacco interiore, assolutamente liberi e disinteressati, ma un tipico modello di autocritica degli altri, che ricava vantaggio dall’esportazione delle proprie responsabilità. Paradossalmente il protrarsi della lotta armata, da cui essa pretende un cinico distacco, è il presupposto della sua forza contrattuale. Qualcosa d’assolutamente opposto al divenire politico del fenomeno stesso, al suo approdare altrove, al suo oltrepassare attraverso un tragitto assolutamente autonomo, sottratto a qualsiasi forma di connivenza o compiacenza col potere, come è avvenuto alla fine degli anni ’80
La riesumazione di questo vecchio arnese dell’emergenza, riporta strumentalmente indietro di decenni i percorsi politici realizzati. Una caricatura archeologica che si spiega con la maligna intenzione di costruire un nesso morale, in assenza di quello materiale, tra i militanti degli anni ’70-’80 e gli episodi del 1999 e del 2002. La responsabilità viene così ad assumere una singolare dimensione transitiva, utile per ricacciare indietro il timore di dover riconoscere che quei nuovi colpi d’arma da fuoco siano anche responsabilità di chi ha cullato il paese nella rimozione, di chi quell’oblio ha teorizzato e incensato, di chi in questo modo ha evitato imbarazzanti domande. Il rifiuto ostinato dell’amnistia, mantenendo gli insorti simbolicamente emarginati nei recinti carcerari o nei limbi disciplinari d’esistenze semipenitenziarie,ha congelatoil tempo, cristallizzato leepoche e tentato d’impedire a quel sapere incarcerato, aquelle esperienze sotto chiave o esiliate, di far valere le ragioni dell’irriproducibilità dei modelli di lotta armata trascorsi. Non anatemi morali ma autonome valutazioni politiche udibili dalle componenti sociali antisistema.Tutto questo è mancato. L’Italia è rimasta fedelmente ancorata alle politiche dell’urgenza, allo stato d’eccezione, ai modelli dell’abiura che hanno facilitato il reistallarsi della coazione a ripetere. L’esilio e il carcere hanno alterato la coscienza del tempo, rafforzando nella società la tentazione di considerare immutabile il rimosso. Negli anni passati, prigionieri e fuoriusciti, se non altro per quella saggezza che fuoriesce dal disagio di chi deve confrontarsi con circostanze sfavorevoli, hanno dovuto misurarsi con la sconfitta esplorandone gli aspetti più reconditi, vivendola sui propri tragitti esistenziali, tra esili senza asilo e castighi. All’anatema han no opposto la riflessione. Avrebbero potuto barricarsi nelle torri in cemento blindato delle carceri, trovare conforto nell’isolamento penitenziario che gli era destinato, arroccarsi nel dolor eper le vittime della propria parte, sentirsi l’emblema sacrificale di un martirio metastorico, vivere di una mortifera nostalgia che come scrive Milan Kundera, «non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza». Invece hanno rifiutato tutto questo. Non si sono sottratti alla realtà mutata che rendeva obsolete le loro scelte passate. Hanno cercato, nonostante i muri e le sbarre, di andare oltre. Sono evasi dalla loro pena, sono fuggiti ai carcerieri rimasti a sorvegliare solo i fantasmi di unasocietà attardata, ancora madida di rancore contro le immagini vuote d’icone da odiare.
I “vincitori”, o quel che ne è rimasto, cosa hanno fatto? Adagiati sopra e poi travolti dagli stessi dispositivi concepiti per sconfiggere gli insorti non hanno saputo condurre a termine la benché minima elaborazione collettiva del lutto. Si rimproverano dei singoli per aver eluso un discutibile senso di colpa, mentre la società italiana è stata interamente conquistata dalla rimozione. Ciò che per i prigionieri e i rifugiati, ma anche per settori della società civile, è ormai storia, materia d’indagine e inchieste serrate da discutere con le tecniche fredde delle scienze sociali, per la quasi totalità del ceto politico e della magistratura resta una ferita aperta, una piaga viva che non può e non deve cicatrizzarsi. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone la venerazione di una memoria trasfigurata nel culto di un dolore non riassorbibile. Al lavoro d’incorporazione del passato, doloroso e conflittuale, si sostituisce un atteggiamento di rifiuto che fa di esso una trincea su cui attestarsi. L’elaborazione del lutto diventa in questo modo, secondo una consolidata tradizione inquisitoriale, uno strumento di bonifica delle coscienze che aggiunge alla sanzione sui corpi anche la correzione delle menti. Si afferma in questo modo una narrazione penitenziale della storia contrassegnata da totem e tabù, miti fondatori e comportamenti demonizzati. La complessità sociale degli eventi si riduce ad una rozza contrapposizione tra bene e male, il decennio dei movimenti e dei conflitti diventa storia di delitti. I fatti perdono ogni loro dimensione sociale per acquistare unicamente rilevanza penale mentre la militanza si confonde con la devianza. Come in un perfetto esorcismo, gli anni ’70 diventano il capro espiatorio del Novecento italiano, il capitolo che manca al livre noir du communisme.
A conti fatti, riflettere su questo passato che non passa, cercando di non farlo restare un’ancora, un peso, una zavorra, ma di scioglierlo nel presente, si è dimostrato una inutile fatica di Sisifo. Uno sforzo vano e inviso, causa di pregiudizio e di sospetto perché non recuperabile e integrabile attraverso logiche premiali e dissociative, ma quel che è peggio,oggetto di un vero e proprio misconoscimento, fatto nullo e non avvenuto, circostanza azzerata, pagina sbiancata.

persichettiesilioecastigo.jpgPaolo Persichetti
ESILIO E CASTIGO

Scritto in prigione e pubblicato per la prima volta in Francia, questo libro è la rappresentazione fedele di un caso di ingiustizia esemplare e costituisce uno stimolo efficace per la ripresa del dibattito sugli avvenimenti di quegli anni cruciali, al di là delle sciocchezze reticenti e delle turpitudini interessate che la vulgata ufficiale continua ad accreditare. Detenuto nel carcere di Viterbo, l’autore sviluppa qui una critica rabbiosa della procedura penale, di cui è divenuto ostaggio. Attraverso l’analisi della ‘democrazia giudiziaria’ e della ‘giudiziarizzazione’ dello spazio pubblico, Paolo Persichetti presenta una riflessione incalzante su problemi non risolti della società italiana, risalenti agli anni ’70, e che avevano già allora disvelato la natura classista e persecutoria delle istituzioni e le gravi responsabilità di una certa ‘sinistra’. La requisitoria dell’autore è di un’attualità scottante, in un’epoca in cui lo stato d’eccezione tende a imporsi nello spazio giudiziario europeo e, più in generale, a livello internazionale.

«La cella addosso a Paolo Persichetti è saldata con la fiamma fredda del rancore. Prima il raggiro, la truffa di una finta accusa per poterlo estradare, e la complicità dei funzionari che si sono prestati a trafugare un corpo in libertà per consegnarlo ai carcerieri. Poi la penitenza di scontare pene per le rivolte politiche del 1900 […]. Rancori: in Italia non si perdona l’azione di chi andò allo sbaraglio senza alcun tornaconto personale. Chiamano volentieri terrorismo qualunque azione non abbia un riscontro economico. Da noi si perdona tutto, purché commesso per arricchimento […]. Incomprensibile e perciò imperdonabile è la generazione politica della quale Paolo Persichetti è stato uno degli ultimi iscritti, il più giovane dei noialtri di allora». (Erri De Luca)

Paolo Persichetti (Roma, 1962) partecipa alle grandi lotte dell’inizio degli anni ’80. Nel 1987 è arrestato per organizzazione di banda armata. È poi accusato, senza elementi, di aver partecipato all’omicidio Giorgieri. Si rifugia in Francia, dove — nonostante la richiesta di estradizione che il governo francese ‘congela’ come per tutti i fuoriusciti — insegna scienze politiche all’Università di Parigi VIII. Nel 2002 è arrestato con la falsa accusa di complicità nell’uccisione di Marco Biagi, ed è estradato in Italia dove viene incarcerato a Viterbo.

Paolo Persichetti – ESILIO E CASTIGO – Città del Sole – 15 euro