di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

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Ci scusiamo con la redazione di Hortus Musicus se, nell’anticipare l’intervento di Roberto De Caro Razzismo e legalitarismo, destinato al n. 24 della rivista (a giorni in libreria), lo abbiamo presentato come editoriale, mentre figurerà nella rubrica della posta. Per riscattarci proponiamo l’editiriale vero di una pubblicazione che merita, più di ogni altra, di essere sostenuta. (V.E.)

Viviamo in un mondo che si sta spostando verso l’inferno il più velocemente possibile.
(Terrence Malick, La sottile linea rossa)

E al dio degli inglesi non credere mai
Sono tempi assassini. Il 7 luglio scorso 56 persone perdono la vita a Londra in quattro orrendi attentati dinamitardi. La risposta di Downing Street è la stretta repressiva, come nei giorni dell’Ira, come se quell’esperienza non avesse insegnato nulla.

«Shoot-to-kill», sparare per uccidere, la nuova consegna. Si ripete quasi fosse un’ovvietà che non è in alcun modo possibile paragonare gli uomini-bomba del terrore ai 350 agenti della squadra speciale SO-19. Tuttavia almeno un’analogia c’è, perché anche ammesso, e per nulla concesso, che non si tratti del medesimo circuito in movimento, è palese che la licenza governativa di ammazzare passanti in odor di martirio non può fermare gli attentati.
A che serve allora? È chiaro: a terrorizzare. A terrorizzare tutti, fino in fondo, stabilmente, come testimonia il fulmineo consenso dell’89% dei cittadini britannici all’introduzione della pena capitale ambulante su base indiziaria. Due settimane più tardi, il 22 luglio, la strategia darà i suoi frutti: Jean Charles de Menezes, un giovane di 27 anni, brasiliano, viene stroncato dai killer di Scotland Yard con otto colpi di pistola (sette alla testa, uno al torace) in un vagone della metropolitana londinese, di fronte ai passeggeri atterriti. I serotini giornali popolari non trattengono l’entusiasmo e strillano: «niente pietà», «sparare su tutti i bombaroli». Ian Blair, capo della polizia, rivendica subito la bontà dell’operazione, affermando che Menezes era «direttamente legato» alle indagini in corso sugli attacchi suicidi. Ma il giorno appresso l’evidenza lo smentisce: la vittima è completamente estranea a qualsivoglia attività terroristica, è un elettricista qualunque.
Costretto a scusarsi con i familiari del giovane, Ian Blair racconta come sono andate le cose, e adduce le attenuanti: Menezes era scuro di pelle — al punto giusto, par di capire: né troppo, né troppo poco —, vestiva un lungo cappotto, aveva tentato di fuggire scavalcando il girello delle biglietterie e si era infilato in un treno in partenza. Tutto lasciava supporre che si sarebbe fatto esplodere. E aggiunge glaciale: mireremo ancora alla testa dei potenziali kamikaze «perché colpirli in altre parti del corpo non impedirebbe loro di portare a termine la missione di morte». Tutto bene quel che finisce bene, dunque? No. Le telecamere e le testimonianze raccontano un’altra storia. L’emittente privata Itv svolge una controinchiesta: Menezes indossava un giubbotto di jeans, era entrato in metropolitana a passo d’uomo, aveva regolarmente attraversato le barriere e si era seduto nel vagone a leggere un giornale gratuito che si era procurato subito prima di entrare. A quel punto i poliziotti lo avevano accerchiato, gettato a terra e assassinato. Tre colpi sono andati a vuoto. Inoltre da documenti di Scotland Yard risulta che quella mattina gli agenti speciali tenevano sotto controllo l’abitazione del povero ragazzo, sospettato, chissà perché, di rapporti con le cellule del terrorismo islamico:
Menezes uscì dal suo appartamento alla periferia sud di Londra per prendere il bus per la stazione di Stockwell proprio nel momento in cui il poliziotto incaricato di filmare era in bagno. L’operazione sembrava compromessa, così gli SO-19 cominciarono a seguirlo, fino al cruento epilogo. Viene anche fuori che Ian Blair non solo aveva deliberatamente mentito, ma aveva anche scritto al ministro degli Interni per cercare di stoppare l’inchiesta dell’Independent Police Complaints Commission, che avrebbe ribaltato la sua versione dei fatti. «Ormai è chiaro che Scotland Yard ha detto solo bugie e, cosa più grave, che nessuno ha cercato neppure di correggerle», dichiara Harriet Wistrich, legale della famiglia Menezes. Il rapporto dell’IPCC sarà pronto nel 2006: «nessuno si aspetta che un’indagine di questo tipo sia frettolosa, deve essere ampia e condotta con grande cura», ha detto l’avvocato della Commisione indipendente d’inchiesta. Come andrà a finire? Staremo a vedere.
In Italia in circostanze analoghe si fa così: se le telecamere smentiscono la versione delle forze dell’ordine (come accadde a Genova, quando subito dopo la morte di Carlo Giuliani si disse che erano stati i manifestanti), si assolve per legittima difesa. Se non ci sono telecamere, è meglio. Questo in generale. In particolare, esiste un caso di scuola: quando una bomba fa strage di vite innocenti, si arresta il primo anarchico che passa e si fa strage della sua. Bruno Vespa e L’Unità informano la popolazione che si tratta di un mostro. Enzo Tortora (incauto: ne poenas Nemesis reposcat a te) chiosa su La Nazione: «Il mostro Valpreda, messo alle strette dagli inquirenti, si rotola per terra nella cella, schiumando bava e sangue». Nel contempo si prende un secondo anarchico, lo si tiene tre giorni e tre notti in Questura, lo si porta al quarto piano, lo si mette in una stanza con cinque poliziotti e lo si ritrova moribondo sul selciato. L’indomani il Corriere della Sera risolve entrambi i casi:

Diamo atto, intanto, alla polizia e alla magistratura di un impegno e di una capacità che dovrebbe liberare presto Milano, e l’Italia, da un incubo. Certo tutti avremmo preferito che l’accertamento delle responsabilità colpisse, alla fine, una qualche organizzazione straniera: ci saremmo sentiti liberi dalla vaga oppressione che tuttora ci pesa. Uomini che passeggiavano, forse, accanto a noi, un ballerino all’apparenza frivolo e innocuo, un ferroviere che la sera carezzava affettuoso i suoi bambini, risultano, seppure in misura diversa, implicati in un piano orrendo.

Poi qualche anno dopo arriva un giudice democratico, indipendente pure lui of course, sentenzia che la morte di Pinelli non è omicidio, che il suicidio è «possibile ma non verosimile» (e comunque non provabile, quindi non si tratta neanche di omessa custodia), che si dev’essere trattato di un malore con «alterazioni del centro di equilibrio». Proscioglie tutti e archivia per sempre. Senza risarcimenti. Senza scuse.

Scegli una carta.
Nei medesimi giorni in cui secondo le leggi della retorica old England la vita dei sudditi di Elisabetta doveva continuare come sempre — e quindi, come un D’Alema qualunque, Blair e famiglia passavano le vacanze su un motoscafo alle Barbados (con conseguente pubblica polemica: non per l’inopportunità di darsi alle feste nel grave momento, ma perché pare che il viaggio fosse a spese dei contribuenti, e speriamo sia vero), in Italia il professor Alberto Burgio — ordinario di Storia della Filosofia Moderna all’Università di Bologna, Segretario generale della Internationale Gesellschaft für dialektische Philosophie. Societas Hegeliana, nel Comitato di direzione di Marxismo oggi — giustificava tutti e ognuno dei suoi molti titoli accademici dicendo quasi tutta la verità sulla «nuova fase — nuova e più dura — del dopo-11 settembre» in un articolo sul manifesto del 13 agosto: Il totem della sicurezza. Allarmano giustamente il professore le «“misure urgenti” contro il “terrorismo internazionale”», le quali, decise in un’Italia «ripiombata nel clima dell’unità nazionale», «riducono le garanzie, aggravano la già insostenibile (e anticostituzionale) legislazione contro migranti e richiedenti asilo e rinsaldano i già robusti semi di razzismo insiti nelle menti dei nostri concittadini»; il professore stigmatizza anche i nuovi provvedimenti adottati da Blair «in aggiunta a una legislazione draconiana (l’Anti-Terrorism Act, varato all’indomani dell’11 settembre) ispirata alle leggi di Bush»; assicura che — a parte «Livia Turco (che discorre di “misure estreme ma da condividersi”) e Gianni Riotta (che vi coglie nientemeno che accenti dettati da “malinconia illuminista”)» — tutti hanno riconosciuto il «salto di qualità» che subordina esplicitamente «i diritti umani (nel nome dei quali durante gli anni Novanta si sono benedette alcune guerre) a un valore sommo — quello della “sicurezza” — che oggi costituisce il nuovo totem insindacabile e onnipotente».
Però, aggiunge criticamente il professore, questa non è tutta la verità; bisogna, dice, «ampliare il discorso», «mettere in discussione il significato stesso della parola sicurezza»: infatti «non c’è soltanto il terrorismo» ad alimentare la paura, ma anche l’«incertezza del e nel lavoro», «l’impossibilità materiale di progettare il futuro per sé e per i propri figli», la «coscienza che dopo il collasso della social security un incidente o una malattia possono da un momento all’altro sconvolgere definitivamente i nostri piani di vita». Proprio così, professore: questa sì è critica sociale, non si è a caso professori, e marxisti per giunta. Infatti la prognosi, se non nuova, non è però meno critica della diagnosi, anzi un po’ più critica, ma in un altro senso:
«C’è un solo modo — assicura il professore — per uscire dall’incubo in cui la “rivoluzione conservatrice” ci ha scagliati oltre vent’anni or sono: ridare spazio alla speranza di un’altra società, diversa dal capitalismo, ritrovare il coraggio di dire che il mercato è solo uno strumento e che non è più il tempo del colonialismo e della guerra. Se non ora, quando?».
Giusto, professore: il comunismo all’ordine del giorno. Com’è allora che non appena detta la parola magica il panorama tragico dell’esistente descritto criticamente dal professore d’un subito si trasforma nel quadro grottesco e torbido di una sempiterna vigilia elettorale? Nemmeno il professore sembra più lui. Assistiamo infatti ad una di quelle metamorfosi professorali che rendono indimenticabili certe pagine di Guattari, la marsina della Hegeliana Societas diventa la bandana del Partito della Rifondazione Comunista, il segretario generale della Internationale Gesellschaft si trasfigura nel Responsabile Nazionale Giustizia e Legalità del suddetto. Non ha rinunziato però alla dialektische Philosophie, come si vede dal mazzo di carte che mescola con agili dita. Mentre il lettore se ne sta a bocca aperta, ammirato non meno dalla metamorfosi che dalla geniale semplicità della soluzione del problema della sicurezza — certe volte basta pensarci! — e resta in trepida attesa di sapere chi farà tutto ciò, il Responsabile Nazionale porge il mazzo e sussurra invitante: Scegli una carta. Certo un Responsabile Nazionale è uomo d’onore: ci ingannerebbe mai? Prendiamo dunque la carta per sapere la risposta e, oh meraviglia!, è il jolly: la «sinistra di alternativa», «quelle forze — per parlare del nostro paese — che non hanno contribuito alla approvazione del “pacchetto Pisanu” e che, d’altra parte, hanno coscienza del nesso che lega la paura alla guerra e alle devastazioni del cosiddetto liberismo».
Be’, l’indicazione identitaria è troppo precisa per non andare a vedere chi c’è nelle vesti gioiose del jolly. Il «pacchetto Pisanu» sull’ordine pubblico e contro il terrorismo è stato approvato alla Camera da 385 deputati, uno si è astenuto e 20 lo hanno respinto. Ecco, la sinistra di alternativa sono quei 20, sono loro che ci fanno sperare in una società diversa, che mortificherà l’arroganza del mercato riducendolo a mero strumento (qui magari meglio toccare ferro, in memoria della NEP).
Ma rimaniamo al mondo sublunare, dove la società diversa può attendere e nella società uguale incombono appunto le elezioni. Qui, dunque, «è urgente affrontare da un punto di vista critico la questione della sicurezza. Il compito, va da sé, spetta in primo luogo alla sinistra di alternativa». Sicuro, professore, va da sé: e dove va? Infatti si danno due opzioni: o «l’autonomia culturale e politica della sinistra e di tutte le forze di progresso» indurrà «risposte concrete in materia di politiche economiche e sociali, a cominciare dalla legislazione sul lavoro e dalla ricostruzione dei sistemi pubblici di welfare […], o sarà inevitabile cooperare all’attuale deriva».
Be’, questo è parlar chiaro, proprio da professore di lotta e di governo. E se il dilemma è questo e se l’esperienza conta qualcosa, sappiamo già che cosa «sarà inevitabile» per la sinistra di alternativa, per quella transgenica e per tutte le forze di progresso. Non dubitiamo della sincerità del professore nella sua accorata versione elettorale del dilemma: «O saremo in grado di prendere in mano noi, a modo nostro, il discorso sulla “sicurezza”, o verremo letteralmente travolti dalla destra, che è riuscita sin qui a imporre la propria egemonia ideologica e la propria agenda».
Però, caso mai il dilemma pretendesse di esprimere non mere preoccupazioni elettorali ma possibilità reali di cambiamento nella cornice del sistema politico italiano, sarebbe manifesto (absit iniuria) che si tratta di un falso dilemma, di cattiva dialettica che non onora l’Internationale Gesellschaft. Ostano infatti due dati refrattari, nonché ad una «società diversa», ad ogni utopia — se mai qualcuno oltre a Burgio ci sperasse ancora — di «autonomia culturale e politica della sinistra»: ostano l’invarianza del ceto politico e un elettorato deprivato d’ogni memoria.
Sul primo punto, è di tutta evidenza che l’unica legge in Italia davvero a tutela dei lavoratori è quella che garantisce inamovibili i «politici di professione». Che abbiano vinto o perso, governato bene o male, rubato in proprio o per gli amici, corrotto o concusso, nessuno è in grado di licenziarli, tanto meno gli elettori. Prendiamo la parte sinistra della faccenda, quella spacciata dal professore. Candidi come se non avessero un passato, nel 2006 si ripresenteranno gli stessi del 1996, a cominciare dal capo: nessuno che abbia pagato un prezzo politico e dunque senza incentivi a pentirsi di cinque imperdonabili anni di centrosinistra al governo, i Prodi, D’Alema, Fassino, Veltroni, Rutelli, Diliberto, Bertinotti, Bianco, Di Pietro, Dini, Cossutta (in due, per diritto ereditario), Parisi, Amato, Berlinguer (le petit: la famiglia ha diritto a un palco), Napolitano, Turco, Del Turco e tanti altri che è bello tacere.
Sarebbero questi, professore, «quanti osservano sgomenti quanto sta accadendo e si pongono il problema di porvi rimedio»? Lei forse, professore, distratto dagli alti pensieri della dialektische Philosophie, dimentica che in mano loro ci siamo già stati, che i loro modi li abbiamo conosciuti, sempre con l’accompagnamento dei pifferi della sinistra di alternativa. Poiché non ci piace la destra, diventerebbe migliore la sinistra, che «all’attuale deriva» ha molto più che «cooperato», ha costruito in proprio e continuerà a farlo? Lasci stare un momento la dialettica, professore, e si ricordi del principio di non contraddizione. Lei lo sa che Blair, Livia Turco e Riotta sono di sinistra e che non sono eccezioni. Lo sa che la precarietà sul lavoro è stata sancita dal «pacchetto Treu» (votato da Rifondazione); che la «legislazione contro migranti e richiedenti asilo» è iniziata con la legge Turco-Napolitano (votata da Rifondazione); che il peggior manifesto sulla «sicurezza» lo ha scritto Luciano Violante nel 1995 (Apologia dell’ordine pubblico, in Micromega, 4/95, pp. 124-140: che bel titolo comunista!) e si è puntualmente tradotto in legge nel 2000, con l’autonomia all’Arma dei Carabinieri (un passo che mai i democristiani avevano osato compiere, sul quale ci permettiamo di rimandare a Gaspare De Caro – Roberto De Caro, La sventurata rispose. La Sinistra e l’Ordine pubblico, in AA.VV., Guerra civile globale. Tornando a Genova, in volo da New York, Odradek, Roma 2001, pp. 163-228); che quando D’Alema era primo ministro Palazzo Chigi veniva definito «l’unica merchant bank in cui non si parla inglese»; che Oliviero Diliberto alla Giustizia ha istituito i GOM, i reparti speciali di guardie carcerarie che si sono così ben portati a Genova; che le guerre umanitarie, quelle che hanno provocato «innumerevoli violazioni del diritto internazionale» e «della Costituzione repubblicana» (Giovanni Palombarini, Giudici a sinistra, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, p. 332), le ha fatte anche la Sinistra (dai banchi dell’opposizione non si è lasciata sfuggire in seguito neanche quella contro il popolo afghano). Né, professore, avrà dimenticato la partecipazione del governo di centrosinistra alla madre di ogni terrorismo, il blocco economico decretato da Clinton contro l’Iraq, che condannò a morte mezzo milione di bambini. O forse pensa anche lei, come il Segretario di Stato Albright, che ne valesse la pena?
Vede, professore, gli slogan sono capaci tutti di coniarli: non è la Mussolini che pretende il ritiro immediato dall’Iraq? non è Fini che invoca il voto agli immigrati? non è Fassino che afferma di essere cattolico? non sono Storace e Alemanno che vogliono tassare le rendite finanziarie? E sarebbe meglio Prodi che minaccia nuovi «sacrifici»? Che dice — senza rimorsi, senza vergogna, senza nessuno tra loro che si indigni — che quando tornerà lui ai «clandestini» sarà riservata la «massima severità»? A parte il fatto, per nulla secondario, che un linguaggio simile da quella fonte contribuisce assai più delle sguaiate bestialità leghiste a rinsaldare «i già robusti semi di razzismo insiti nelle menti dei nostri concittadini», andrà ricordato che in materia il governo Prodi esordì ufficialmente, il 28 marzo 1997, con il massacro dei profughi della Katër i Radës, calata a picco in acque internazionali (!) dall’urto con una corvetta della Marina Militare (un centinaio di morti), in virtù di accordi bilaterali con l’Albania, e che fu ancora Prodi ad istituire i detentivi e dissuasivi Centri di Permanenza Temporanea, secondo le direttive della sua Europa: cosa mai intenderà fare di più «severo» ai clandestini?
Probabilmente i «nostri concittadini» — incluso, eccome!, il «popolo della sinistra» — meritano tutto ciò e sicuramente non abbiamo né titolo né voglia di lamentarci in loro nome. Però fa impressione ad ogni vigilia elettorale vedere un professore, un Eco, un Cacciari, un Sylos Labini, un Burgio, che si sente in diritto di farsi avanti e suggerire: Scegli una carta. Ma la scienza non ha bisogno di loro? Non sarebbe ora di essere seri? O almeno pudichi? E se non ora quando?

Sistema
Se Katrina è figlia delle acque surriscaldate del Golfo del Messico, sembra irresistibile l’idea della Nemesi contro chi ancora ieri, in nome dei superiori interessi dell’economia statunitense, ha ufficialmente derubricato l’Effetto Serra. E se la Guardia Nazionale, da lui per sete di petrolio mandata a terrorizzare le disperate folle irachene, è richiamata in patria a sparare sulle folle disperate e impazzite dei poveri del Sud, come non pensare alla vendetta divina, in veste classica o in quella biblica del dio che acceca chi vuol perdere?
L’idea è suggestiva, e non solo per i credenti, anche perché in qualche modo pertinente a chi nello studio ovale sente le voci. Tuttavia non è davvero il caso di concedersi divagazioni nel trascendente, per loro natura sempre elusive e fuorvianti, né di insistere sulle responsabilità individuali di chi per individuali qualità non è più di una figura allegorica. Katrina ha scoperchiato ben altro che lo stadio di New Orleans con i suoi orrori senza difesa — la fame, la sete e le violenze dei gangster —, ha messo a nudo non tanto l’inettitudine e la turpe indifferenza di un leader e di un’amministrazione, ma le inadempienze, necessarie, strutturali, inguaribili, di un sistema sociale. Non c’è difesa per i poveri contro gli uragani o contro la quotidiana catastrofe che è la loro vita, se i valori sono quelli che lui ha evocato nel suo primo messaggio dopo la distruzione di New Orleans: tolleranza zero per i saccheggi e per le truffe contro le Assicurazioni. Ecco che cos’era importante affermare, mentre a decine i superstiti di Katrina erano lasciati cinicamente morire: il terrore a difesa della proprietà, fosse pure ridotta in macerie, e delle oneste regole del mercato. A New Orleans come a Bagdad.

Terrorismo, patriottismo, utopia
Cinque settimane di «bombardamenti intelligenti». Tra gennaio e febbraio 1991 gli Stati Uniti e le forze alleate, sotto l’egida dell’ONU, scaricarono sul popolo iracheno 88.500 tonnellate di esplosivo, uccidendo decine di migliaia di civili e militari altrettanto inermi: Tempesta nel deserto la chiamarono. Fu guerra «giusta», come si affrettò a certificare Norberto Bobbio? No, fu un’infamia e sbagliarsi in materia non è lecito. Fu anche l’inizio della fine del «tabù della guerra», che non resistette a un paio di mesi di accurata propaganda televisiva e che negli anni successivi fu definitivamente infranto dal ghigno omicida dei nuovi progressisti.
Eppure quel tabù era l’unica cosa umana uscita dalla Grande guerra mondiale del ’14-’45 contro il nemico interno, la classe operaia. È bene riflettervi, perché di quella storia siamo figli. Anche per questo è consigliabile la lettura di un libriccino pubblicato lo scorso anno dalle Edizioni Spartaco di Santa Maria in Capua Vetere: Marie Louise Berneri e Vera Brittain, Il seme del caos. Scritti sui bombardamenti di massa (1939-1945), a cura di Claudia Baldoli. Vi sono raccolti alcuni testi londinesi di due donne generose e determinate, che seppero esprimere durante la catastrofe, ciascuna a suo modo, un dissenso tanto radicale quanto, di conseguenza, isolato verso la logica bellica e affrontarono per questo le calunnie, l’ostilità, il disprezzo di un mondo che scelse invece, come opzione ragionevole, di massacrare indiscriminatamente il prossimo.
Se la statura morale di entrambe è indiscutibile, è però necessario sottolinearne le differenze. Vera Brittain era una scrittrice di successo, femminista e pacifista fin dalla Prima guerra, quella «per finire tutte le guerre», in cui si arruolò come infermiera e perse fratello, fidanzato e molti amici. Apparteneva alla buona borghesia inglese, e ciò ne condizionò fortemente l’indubbia volontà di ribellione all’iniquità strutturale dei valori vittoriani, limitandone al contempo la capacità di analisi. In cambio usufruì di privilegi altrimenti inimmaginabili, come riuscire a mettere in salvo i figli negli Stati Uniti all’inizio del secondo conflitto, quando scriveva, in una delle sue meno riuscite e anche per questo più significative dichiarazioni contro la guerra:

Noi che abbiamo lottato inutilmente per la pace, ricordiamo e pentiamoci degli errori dell’Inghilterra e della sua partecipazione alla follia distruttiva che ancora una volta ha contribuito a trascinare il mondo nel dolore. Ma ricordiamo che l’Inghilterra ha fatto anche cose grandi, sagge e misericordiose, e che ne realizzerà altre se noi, il suo popolo, siamo determinati a crederlo. Ora noi dobbiamo lavorare, per mitigare il peso imposto al paese e ai suoi cittadini, di cui noi siamo parte, e per lottare per mantenere i nobili valori della civiltà nelle ore oscure che ci aspettano.

Nel suo ottuso nazionalismo, non la sfiorò mai il dubbio che i «nobili valori» di cui andava fantasticando fossero i medesimi che avevano più volte «contribuito a trascinare il mondo nel dolore». L’infezione da «fardello dell’uomo bianco» scorre nelle sue inconsapevoli vene: Vera ne è portatrice sana. Una persona degnissima, intendiamoci, colei per la quale «il pacifismo non è altro che fede nella vittoria finale dell’amore sul potere», ma non per questo innocua, al pari oggi di uno Zanotelli o di un Gino Strada. Proprio l’involontario e incessante contributo all’esiziale mitopoiesi dell’identità britannica — nella cui «fibra» per esempio scorgeva la «fiducia ereditaria» del pur criticatissimo Churchill: un sentimento complementare alla «fiducia inglese nell’onestà e la tolleranza» che nutrivano coloro che avrebbero avuto il compito di «mantenere il coraggio e gli ideali in un mondo oscuro» — le impedì di evitarsi perlomeno lo strazio di un’insostenibile contraddizione. Poiché ella sapeva. Fin dai tempi in cui curava i reduci delle trincee:

Quando osservai i soldati britannici a Étaples parlare ai miei pazienti tedeschi feriti, capii che i combattenti volontari e i pacifisti hanno molto più in comune di quanto entrambi non abbiano con i ‘vecchi’ che mandano i primi a morire e i secondi in prigione.

E molto intuiva anche del nuovo conflitto:

La ‘sinistra’ che una volta era progressista è diventata reazionaria; è alleata a forze che plaudono al totalitarismo e alla guerra. Preferisce semplicemente una forma di totalitarismo a un’altra.

Tenace ed altruista, Vera aborriva la «mentalità del “combatti per farla finita”» e considerava un dovere «protestare contro l’odio, la crudeltà, l’egoismo e la falsità ogni volta che ce li troviamo davanti, senza ritirarci per l’impopolarità che inevitabilmente ne seguirà». Ma non voleva sapere tutto. Per lei la guerra, «malattia mortale della nostra civiltà», doveva essere bandita se si voleva che la civiltà continuasse. La sconfitta dell’hitlerismo sarebbe servita «soltanto ad aggravare la malattia», se non se ne fossero demoliti i pilastri: «il capitalismo monopolistico, il nazionalismo imperialista, la povertà, la fame, la disoccupazione e la repressione», anche se «abbiamo finora ben poche prove che coloro che conducono la guerra nel nome delle Nazioni Unite intendano porli sotto controllo».
I due aggettivi, «monopolistico» e «imperialista», sono esemplari dell’impotenza a capire, dell’abdicazione religiosa in nome della fede in un capitalismo umano, in un nazionalismo positivo, in un progresso illuminato dalla ragionevolezza di una legislazione internazionale sulla guerra «ancora in evoluzione», ma che con la Convenzione di Ginevra nel 1925 aveva conseguito grandi risultati, tra i quali la rinuncia all’uso dei gas in combattimento. Tuttavia doveva subito riconoscere che non c’era motivo di sentirsi «compiaciuti per aver rinunciato a questo tipo di guerra chimica. Le torture a cui abbiamo assoggettato i civili, bambini inclusi, nei nostri “raid di saturazione” vanno molto oltre le sofferenze causate dai gas tra il 1914 e il 1918».
Quanto sgomento, dunque, nell’apprendere che a causa delle incursioni «della Royal Air Force, migliaia di persone innocenti e indifese nelle città italiane, tedesche e dei paesi occupati dalla Germania sono fatte oggetto di forme di morte non paragonabili nemmeno alle peggiori torture nel Medio Evo»; nel constatare che «una vendetta ‘alla pari’ o peggiore significa la riduzione di noi stessi al livello dei nostri nemici, i cui valori perversi ci hanno indotto a combattere […] che è l’infliggere sofferenze, molto più che il sopportarle, che danneggia moralmente l’anima di una nazione». E quanta amarezza nel sentire Churchill esortare il Bomber Command a «cacciare la vita fuori dalla Germania»; nell’ascoltare una trasmissione alla radio nazionale in cui veniva «chiarito che i nostri ‘sogni sadici’ non escludevano la morte e il ferimento di bambini», che «“le donne tedesche, e perfino i bambini tedeschi”» che avevano «“esultato per le attività della Luftwaffe”» avrebbero appreso da un cielo dispensatore di morte «“a riconoscere il male e a rifiutarlo”».
«In che senso», si chiedeva inutilmente Vera, «l’alto numero di bambini nato in Germania dopo lo scoppio della guerra ora bruciati e mutilati […] dovrebbero imparare a riconoscere e rifiutare il male?». La risposta arrivò puntuale il giorno dopo, dal News Chronicle: «“con la ferocia della nostra rappresaglia”», vi si leggeva, «“la popolazione tedesca deve sentire nelle sue stesse ossa il significato degli ideali crudeli e distruttivi dei suoi stessi leader”». Il che — tradotto in numeri da lei stessa in un pamphlet citato anche dalla Berneri, Massacre by Bombing — significava, al primo ottobre 1943, un milione e 200.000 civili tedeschi vittime delle bombe alleate, a fronte dei 50.000 britannici di cui si vantavano le fonti nemiche: le trionfali «dichiarazioni ministeriali» al riguardo mostravano quanto fosse «stata ripida la discesa del livello di moralità dall’inizio della guerra».
Ma anche in questo caso, Vera non voleva sapere tutto:

Mi rifiuto di credere — e infatti non credo — che le popolazioni generose della Gran Bretagna siano cambiate completamente negli ultimi tre anni. Quello che credo — come ha suggerito anche il New Statesman del 18 dicembre 1943 — è che gli inglesi non conoscono i fatti o, quando sospettano la verità, chiudono volontariamente le finestre della loro immaginazione. Molti voltano apposta le spalle alla conoscenza, pieni di vergogna e terrorizzati dall’idea di accettare la realtà che si aprirebbe davanti a loro se affrontassero i fatti.

E non si rendeva conto che così era anche peggio. Il suo ingiustificato ottimismo a volte si trasformava in maiuscolo grido d’indignazione, in disperato anatema:

Mi sento di profetizzare con sicurezza che la fredda crudeltà che ha causato la distruzione di vite umane innocenti nelle città europee più popolate, e il vandalismo che ha annientato i tesori storici in alcune delle città più belle, APPARIRÀ ALLA CIVILTÀ FUTURA COME UNA FORMA ESTREMA DI MALATTIA CRIMINALE DALLA QUALE I NOSTRI LEADER POLITICI E MILITARI HANNO VOLONTARIAMENTE SCELTO DI VENIRE COLPITI.

Come opportunamente ricorda Claudia Baldoli nella sua intelligente introduzione al volume, la statua che nel centro di Londra celebra l’eroico patriottismo del generale Arthur Harris, dal 1942 a capo del Bomber Command, sta a dimostrare che la profezia non si è ancora avverata: i «nobili valori» hanno vinto un’altra volta.

Assai diverso è il caso di Marie Louise Berneri, figlia di Camillo, assassinato dagli stalinisti a Barcellona nel 1937, e di Giovannina Caleffi, che raccolse l’eredità del marito in seno al movimento anarchico. Maria Luisa nacque nel 1918 ad Arezzo e fin da bambina condusse la sua vita in esilio, prima in Francia, motivo della trasformazione onomastica, poi, dal 1937, in Inghilterra, dove sposò l’anarchico di origini italiane Vernon Richards, con il quale collaborò alla redazione di alcuni periodici di rilievo: Spain and the World, War Commentary, Freedom.
Sebbene giovanissima, il suo approccio teorico alla questione bellica è di tutt’altro spessore rispetto a quello della Brittain. Marie Louise possedeva gli strumenti della Kritik der politischen Oekonomie, conosceva la storia del regime sovietico e lo individuava lucidamente come una variante dell’estrazione del plusvalore, imperialista e totalitaria (sul tema pubblicò nel 1944, per la Freedom Press, Workers in Stalin’s Russia). Aveva meditato profondamente sulla guerra di Spagna e vissuto empaticamente la tragedia dei profughi. Durante gli anni del conflitto non cessò di manifestare il proprio irriducibile internazionalismo antimilitarista. Nei suoi scritti esortava i lavoratori a boicottare «la guerra capitalista», tanto che nel 1945 fu processata per sedizione. Lottava, Marie Louise, e rischiava. Nel dicembre del 1939, in un articolo intitolato L’America governerà il mondo?, intuiva il bipolarismo che si andava preparando:

Se è ancora presto per fare previsioni accurate sul risultato di questa guerra, si può comunque già stabilire che gli Stati Uniti promettendo il proprio aiuto alle democrazie, e la Russia promettendo il proprio alla Germania, sono pronti a dividersi i frutti delle loro astute manovre.

Non essendo obnubilata da «nobili valori», ne riconosceva la sostanza. Nell’ottobre del ’42 usava coraggiosamente il sarcasmo per denunciare la grottesca indecenza della propaganda patriottica:

Il Sunday Times è stato lirico la settimana scorsa nel riferire il meraviglioso esempio dato alla nazione dal nostro Re. Si legge: «[…] l’esempio è più persuasivo della norma; e siccome siamo fedeli ai nostri regnanti, l’esempio del Re è il più influente di tutti. Nel caso attuale potrebbe addirittura essere decisivo». Non saltate ora alla conclusione che il Re si sia unito al reparto paracadutisti e che sia lì lì per partire per il secondo fronte. No, è tutto in relazione al bagno in vasca con soli 5 pollici d’acqua che d’ora in poi faranno il Re e tutta la famiglia reale. Continuava l’editoriale: «Seguiamo l’esempio […]. Ci permettiamo di consigliare al ministero dell’energia che il rapporto sulle drastiche misure di economia realizzate dal Re nelle sue case sia stampato in forma di volantino e ne siano spedite copie in tutte le case del paese. La sua influenza sarebbe incalcolabile». L’unico intoppo è: come potrà la popolazione seguire l’esempio del Re «nelle proprie case» dal momento che non esistono vasche da bagno nelle case? […] In questo paese ci sono 31 bagni ogni 1.000 persone.

Non c’è tema importante di quegli anni che Marie Louise non abbia acutamente affrontato: dal colonialismo francese alla Spagna clerico-fascista, dall’antisemitismo tedesco al razzismo statunitense e inglese («“le truppe di colore non vengono servite a questo banco. Entrata dall’altro lato”», si leggeva nei pub, dopo l’intervento delle autorità militari che non tolleravano le spontanee manifestazioni di «simpatia e amicizia […] verso i neri»), dalle questioni monetarie al «sistema del gold standard», dalle strette repressive all’escalation degli armamenti, dal dramma dei rifugiati alla persecuzione dei dissidenti, dalla struttura dei differenti imperialismi ai futuri scenari geopolitici, dal ruolo del Giappone a quello dell’URSS, di cui mostrava il vero volto:

Secondo Stalin, il socialismo può sconfiggere e sconfiggerà il sistema capitalista «perché in grado di fornire un modello lavorativo superiore, una maggiore produttività rispetto a quella dell’economia capitalista […]». Lo scopo della rivoluzione sovietica non era, come ci si potrebbe aspettare, la riduzione delle ore di lavoro e il miglioramento della vita dell’operaio, ma far produrre sempre di più. […] L’unica differenza tra lo stakanovismo e i vecchi metodi di sfruttamento capitalistico consiste nel far credere ai lavoratori che essi non sono per nulla sfruttati, ma che stanno in realtà lavorando per costruire uno stato socialista. Si chiede loro di smettere di difendere il proprio salario, di lavorare di più e di anteporre l’interesse dello stato al proprio interesse.

Sul piano politico individuava immediatamente i nodi fondamentali. Per esempio denunciava

l’inestimabile aiuto della sinistra al servizio della destra, nel distogliere l’attenzione della classe operaia dal proprio compito fondamentale: la conquista di una società senza classi in questo paese.

Attaccava il Labour Party, che accettava «la guerra capitalista […] con la speranza di dirigerla» e invitava i lavoratori ad «abbandonare la loro unica arma efficace di lotta di classe, lo sciopero»:

Il leit-motiv dei partiti di sinistra è che gli operai devono controllare il più possibile il governo. Questo, che in effetti può sembrare un’idea costruttiva, significa semplicemente che i capi laburisti entreranno nel governo adottando le politiche della destra. Per gli operai comporterà nient’altro che sacrifici e la perdita di qualsiasi libertà in cambio del privilegio di vedere i ‘propri’ ministri seduti ai banchi del parlamento.

A quanti, pur riconoscendo a lei e al suo giornale di fornire «un’analisi preziosa della situazione attuale», l’accusavano di «non avere una politica costruttiva» e richiedevano «soluzioni “pratiche” per la lotta al fascismo e al capitalismo» replicava respingendo con fermezza

slogan, manifesti e programmi che offrano in poche frasi alla classe operaia i mezzi per arrivare non solo alla sconfitta del fascismo ma anche a un’era di felicità per tutti i lavoratori […]. Vota laburista e andrà tutto bene! Paga la tessera del sindacato e la sicurezza sarà assicurata! […]. Questo è ciò che hanno sostenuto per più di un quarto di secolo, in ogni momento difficile, quei partiti che dicono di avere una politica «realistica» e che considerano le «utopie anarchiche» con il più grande disprezzo. I loro rimedi si sono dimostrati inutili […]. E ciò nonostante gli stessi metodi continuano a venire riproposti per affrontare la situazione attuale […]. Non è cambiando ministri — uomini così colpevoli! — o pubblicando dichiarazioni, che il fascismo e il capitalismo saranno vinti.

Nessuna consolante scorciatoia:

La questione richiede una trasformazione completa nell’atteggiamento attuale della classe operaia. Non puoi cambiare un regime quando non esiste spirito rivoluzionario, quando i lavoratori non conoscono nemmeno le verità fondamentali: 1. Che operai e capitalisti non possono avere una causa in comune; 2. Che l’imperialismo è la prima causa delle guerre, e che la causa deve essere sradicata; 3. Che i governi, conservatori e laburisti, sono sempre strumenti di oppressione, e che i lavoratori devono imparare a fare senza di loro; 4. Che i partiti cercano il potere soltanto per il proprio beneficio, quello di una minoranza. […] Non possiamo costruire fino a quando la classe lavoratrice non si sarà liberata dalle proprie illusioni, dall’accettazione dei padroni e dalla fede nei capi. […] La nostra soluzione, rifiutarci di rattoppare un mondo guasto e invece lottare per costruirne uno nuovo, non solo è costruttiva ma è anche l’unica via d’uscita.

Non coltivava facili illusioni Marie Louise. Percepiva l’irreparabilità della sconfitta, l’annientamento del proletariato europeo nelle trincee della Marne e del Carso, il disfarsi della coscienza di classe nelle repressioni leniniste degli scioperi del ’19 e nelle epurazioni del ’20, nei processi stalinisti, nei gulag, nell’avvento dei fascismi, nel disastro catalano, nella «Seconda Guerra Imperialista». Ma il degrado morale e politico della classe operaia, fino al venir meno dei più elementari sentimenti di solidarietà, non aveva scusanti: non si poteva perdonare «l’indifferenza» degli operai francesi «verso la liberazione delle popolazioni coloniali», né il loro silenzio quando i profughi della guerra di Spagna furono abbandonati «a centinaia di migliaia […] senza tetto e affamati sul territorio francese. Trattati come animali» e in molti casi riconsegnati a Franco. Né meno forte era la condanna dei «lavoratori americani» per altrettanta «indifferenza» nei confronti dei «fratelli rifugiati […] che, dopo tante difficoltà, sono riusciti a lasciare l’Europa» e ora, nel disinteresse dei governi che «si definiscono democratici», rischiavano di «morire di fame su navi d’inferno o in campi di concentramento». «Fino a quando — scriveva indignata — i lavoratori permetteranno ai propri governi di agire in modo così disumano?».
Alla fine del conflitto, Marie Louise si angosciava per la sorte del «popolo tedesco», che moriva di fame a causa del «saccheggio sistematico da parte delle forze di occupazione» e delle deportazioni:

a Berlino e nelle provincie orientali ci sono tra i dieci e i dodici milioni di persone espulse senza cibo o vestiti dalle loro case nella terra dei Sudeti, nella Germania dell’est e nella Prussia orientale. Questi rifugiati, principalmente donne e bambini, stanno morendo in massa lungo la via, sulle ferrovie e sulle strade, e quelli che raggiungono la loro destinazione non trovano né cibo né alloggio. […] Il cibo è qui, i camion sono fermi, le navi hanno cessato il loro compito bellico. Quello di cui c’è bisogno è la volontà da parte dei lavoratori britannici e americani di aiutare i loro fratelli tedeschi. […] Attraverso agitazioni nelle fabbriche e nelle cooperative, i lavoratori di questo paese potrebbero obbligare il governo a spedire aiuti immediati alla Germania. Un governo laburista sarà responsabile di migliaia di morti quest’inverno, tuttavia la responsabilità non è solo del governo ma anche dell’apatia dei lavoratori britannici, che devono agire prima che sia troppo tardi.

Non lo fecero. I decessi durante il trasferimento furono due milioni e 100.000, cui si aggiunsero un milione e 700.000 tedeschi che sempre a guerra conclusa, in piena sovrapproduzione alimentare, furono lasciati morire di fame nei campi di concentramento francesi e statunitensi. La ‘vendetta’ seguiva la logica terrorista dei bombardamenti a tappeto sulle città nemiche, del massacro di milioni di civili, inutile sotto il profilo militare: una strategia che Vera Brittain non riusciva a spiegare se non in termini di «malattia criminale», là dove la Berneri, che non si stupiva affatto delle crudeltà democratiche, ne coglieva soprattutto le componenti politiche. Per esempio nel modo, in apparenza incoerente, in cui veniva condotta la guerra in Italia dopo il 25 luglio e il crollo del fascismo:

Quando il porto di Napoli viene bombardato, a soffrire è soprattutto il quartiere operaio e densamente popolato nei dintorni del porto. Le bombe non colpiscono le ville sontuose dei ricchi fascisti lungo le spiagge della baia napoletana […] Malgrado vent’anni di oppressione fascista, i lavoratori italiani hanno […] rifiutato di agire come strumenti volontari nelle mani dei padroni. Sono scesi in sciopero, hanno sabotato le fabbriche di guerra, hanno tagliato i fili del telegrafo e interrotto i trasporti. Qual è la risposta della Gran Bretagna democratica alla loro lotta antifascista? Bombe e ancora bombe. […] I nostri politici dichiarano di volere la rivoluzione in Europa per rovesciare il fascismo. Ma ora è più chiaro che mai che sono spaventati dalla possibilità che il fascismo venga rovesciato da una rivolta popolare.

Guerra preventiva, insomma. Nell’agosto del 1944, a conferma dell’analisi scriveva:

Il popolo italiano ha dimostrato di non voler aspettare che la libertà gli venga portata dalle baionette alleate, ma di volerla conquistare da solo. […] In tutto l’agosto 1943 a Milano, Roma, Torino, Bologna e una dozzina di altre città i lavoratori italiani hanno proclamato scioperi generali e hanno combattuto nelle strade. Il movimento rivoluzionario è stato così radicale ed esteso che sarebbe di sicuro riuscito a estirpare il fascismo dall’Italia una volta per tutte. Gli alleati che per tre anni hanno parlato della necessità di una rivoluzione nel continente non hanno però dato un entusiastico benvenuto ai movimenti rivoluzionari in Italia. Tutt’altro […]. Avendo di fronte una rivoluzione che non era stata ordita negli uffici del ministero dell’informazione o davanti ai microfoni della BBC, l’unico pensiero dei governi inglese e americano fu di schiacciarla il prima possibile. Churchill aveva imparato l’arte della controrivoluzione ai tempi in cui si cercava di sopprimere la rivoluzione russa; non essendo in grado di inviare una spedizione dell’esercito a combattere gli operai di Torino e Milano, ha invece inviato bombardieri a seminare la distruzione sui centri industriali rivoluzionari.

Marie Louise, la compagna Marie Louise, morì di parto nel 1949. Lottò guardando sempre il comando negli occhi, senza timore. Non poteva cambiare le cose, e sapeva perché, ma non si arrese, non rinunciò a testimoniare.