Sguardo sull’Occidente a dieci anni dalla scomparsa di E. M. Cioran

di Jedel Andreetto

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L’anemia della civiltà. (Il sole tramonta a ovest)

Chi appartiene organicamente a una civiltà non può identificare la natura del male che la mina. La sua diagnosi non conta gran che; il suo giudizio che ha su di essa lo concerne; se le usa dei riguardi è per egoismo. (La tentazione di esistere)

I paesi occidentali abbagliati dai propri successi non tardarono ad assegnare un valore teleologico e un senso alla storia, esaltandola. Essa apparteneva loro, se ne fecero gli agenti, e per questo doveva seguire il sentiero della razionalità. Venne, di volta in volta, messa sotto l’egida della Provvidenza, della Ragione e del Progresso. Ora in vista del loro tramonto, prevedendo l’assenza che li attende cominciano ad acquisire quel senso che era sempre venuto loro meno: la fatalità.

Da soggetti sono diventati oggetti, privi di quel fulgore, di quella mania di grandezza che gli aveva resi chiusi all’irreparabile. Ne sono consapevoli tanto da misurare la stoltezza con il metro dell’attaccamento all’avvenimento. Cosa normale, visto che gli avvenimenti hanno luogo altrove. Solo continuando a primeggiare negli avvenimenti ci si inchina davanti a essi. Ma anche se si continua a vagheggiare il ricordo di una perduta supremazia si persevera nel sogno di eccellere in qualcosa, fosse anche solo nel perdersi. L’Occidente ha lasciato dietro di sé un periodo d’espansione e follia. Ora è giunto il termine dell’insensato e l’inizio della lotta per la difesa. Questa è l’epoca in cui […] Il civilizzato e il barbaro si guardano in faccia prima dell’ultima “spiegazione”. (Quaderni)
Non ci saranno più “avventure collettive”, non ci saranno più cittadini, solo individui in preda al disinganno pronti ad aderire a un’utopia qualsiasi purché non debbano concepirla loro e che venga dall’esterno. Prima si dava la vita per l’inutile gloria, ora solo per la frenesia di una rivendicazione. L’ultimo pregiudizio che resta loro è quello della felicità, da cui le ideologie utopistiche, quali peccati d’ottimismo, traggono energie anche se non sono più in grado di farsi sedurre e di consacrarsi a una causa e alla sua ridicolaggine e bizzarria.
Quando una nazione appassisce si incammina verso la condizione di massa e non basterebbero mille condottieri a smuoverla dalla sua placidità, che si guarderebbe bene dall’interrompere. Non si può terrorizzare qualcuno, i cui riflessi non reagiscono alle sollecitazioni. Se ogni popolo avesse raggiunto lo stesso grado di pietrificazione e di pusillanimità potrebbe intendersi con gli altri, si eliminerebbe l’insicurezza firmando un accordo tra codardi. Contare sulla scomparsa degli istinti guerrieri e confidare sul diffondersi della decrepitezza o dell’idillio significherebbe essere lungimiranti, anche troppo lungimiranti: Utopia presbitismo dei vecchi popoli. (Quaderni)
I popoli giovani, invece, evitando la scappatoia dell’inganno, osservano il mondo attraverso la lente dell’azione: prospettiva direttamente proporzionale rispetto al tenore delle loro imprese. Non ammettono ossimori o posizioni antinomiche, delegittimano ogni idea contraddittoria in quanto sacrificano la felicità sull’altare dell’efficacia e la comodità su quello dell’avventura. Il loro obiettivo è quello di sminuire le nostre inquietudini a colpi di terrore e di rinvigorirci stroncandoci. Quello che più conta per loro sono gli impulsi e a questo, non ai sogni, devono la loro ascesa al successo. L’ideologia, se li attrae, non fa altro che riaccenderne il furore, esaltando la loro barbarie e mantenendoli vigili. Al contrario, l’ideologia, sui popoli vecchi, sortisce effetti opposti di intorpidimento, anche se conferisce una certa febbrilità che induce a sentirsi in qualche maniera vivi. Nulla più che un’illusione.
Una civiltà può sussistere solo tramite atti di provocazione. Se comincia a rinsavire è segno di sgretolamento. I momenti in cui l’Occidente ha raggiunto l’apoteosi sono momenti temibili in cui non ha risparmiato forze ma le ha spese. Non potendo accedere alla supremazia se non deteriorando la sostanza, del suo esaurirsi fa un punto d’onore mettendo al servizio dell’avvenimento il suo genio e la sua vanità. Dopo aver primeggiato ora se ne sta rassegnato a masticare la bile del rimorso, in preda ad apprensioni, lontano dalla luce del suo passato. Guardandosi in volto non sopporta di vedere le rughe. Quelle nazioni che sono state protagoniste di grandi rivoluzioni non riescono a tollerare di non riuscire a scatenarne di nuove. Se sono state “arbitre” del gusto artistico e letterario non cercano più di riconquistarne il titolo. Quando l’unico anelito è l’anonimato essere presi a modello perde ogni senso: a che scopo tenere ancora salotto per intrattenere l’universo? (Quaderni)
A furia di coltivare e valorizzare le virtù che hanno reso una nazione grande e privilegiata, esse si assottigliano. L’ideale di benessere, tipico delle epoche in declino, finisce per possederla totalmente, monopolizzandone i sentimenti, ed è perché essa non è più che un nome per una massa di individui, una società e non una volontà storica. Abbandonando le mire espansionistiche e di dominio la malinconia, sorta di noia generalizzata, ne corrode le fondamenta. Essa è il flagello di ogni nazione sulla difensiva perché annulla la vitalità e dà assuefazione, dà alle nazioni modo di trovare uno spazio tra vita e morte che impedisce di dedicarsi all’una e all’altra cosa. Cadendo in questa ipnosi lucida ambiscono a uno stato di cose eterno e immutabile che impedisce di reagire all’assediante avanzata di civiltà opache. (Quaderni)

Stanchezza.

In queste condizioni l’Occidente non potrà resistere a lungo, si prepara ad affrontare la fine ma non senza dover passare attraverso un periodo di rivelazioni. Una crisi lo attende al varco, nuovi popoli e nuovi “stili” faranno capolino. Per ora raffiguriamoci il caos. Già molti vi si rassegnano. (Quaderni) Mentre invochiamo la storia con l’idea di soccombervi, abdichiamo di fronte all’avvenire e sogniamo per necessità di una speranza contro noi stessi, di vederci sconfitti e così slavati. Lo stesso sentire che condusse l’antichità a suicidarsi nelle promesse del cristianesimo.
Il simbolo dei vizi e delle deformità di quest’epoca allo sbando viene individuato da Cioran, ne La tentation d’exister, nella figura dell’intellettuale stanco. Una figura che non agisce ma patisce e che se dovesse rivolgersi all’idea di tolleranza non vi troverebbe nulla di così eccitante da riscuoterlo dalla narcolessia. L’unica cosa che un’idea del genere, e le dottrine da cui scaturisce, possono provocare in lui è il terrore. probabilmente egli non è altro che la sua prima vittima, ma non se ne lagnerà perché l’unica cosa che lo seduce ormai è proprio la forza da cui viene stritolato. La volontà di libertà è volontà di essere se stessi, ma questo non può che esasperarlo come vagare per le strade dell’incertezza attraverso la verità. L’unica sua aspirazione è quella di essere prigioniero dell’illusione e smettere con le peregrinazioni della Conoscenza. Allora si precipiterà a perdifiato verso una qualsiasi “mitologia” che possa conferirgli la pace e la sicurezza delle catene. Rinunciando a farsi carico delle proprie ansie intraprenderà solo quelle imprese che siano in grado di fornirgli sensazioni che non dipendono da lui stesso, di modo che gli eccessi delle sua stanchezza consolideranno le tirannie. (La tentazione di esistere: Su una civiltà esausta.)
L’origine di ogni chiesa, ideologia, polizia, va cercata quindi, secondo Cioran, nell’orrore che l’intellettuale stanco prova per la sua lucidità piuttosto che nella scempiaggine delle masse: quest’aborto si trasforma, in nome di un’utopia menefreghista, in becchino dell’intelletto e, persuaso di far cosa utile, prostituisce quell’“inebetitevi” che fu la tragica esortazione di un genio solitario come Pascal. Alla disperata ricerca della routine, questo iconoclasta rinunciatario abbandonerà la singolarità trovando la riconciliazione con la moltitudine. L’ultima cosa ch gli rimarrà da rovesciare, prima di sprofondare nella consuetudine, non sarà altro che se stesso. I propri resti lo attrarranno e nel contemplarli creerà nuovi idoli o troverà nuovi nomi per gli dèi di sempre. Spazzata via la capacità di soppesare le verità dovrà accontentarsi di quelle si seconda mano, inchinandovisi. La sua voce si mescolerà a quella del coro.
Ma cos’altro potrebbe fare a questo punto, in cui l’Europa ha perso tutta la sua originalità e il suo fascino? Caratteristiche che sgorgavano dallo spirito critico, dallo scetticismo persino aggressivo e di cui non rimane traccia. In questo modo l’intellettuale frustrato dai dubbi cerca rifugio nel dogma (non molto velatamente Cioran pensava all’esistenzialismo, e particolarmente a quello francese, in cui il marxismo si è insinuato sempre più prepotentemente. E se Camus fu squalificato dalla gloria, Sartre fu «l’opportunista, il filosofo strisciante.») diventando poco più che un ideologo passato per l’analisi e approdato ai confini del nulla che proprio dall’analisi sfocia. La sua condizione di pensatore ibrido e di «fanatico senza convinzioni» è tipica delle epoche di transizione. Si ritrova, per così dire, con un piede in due scarpe: è in debito con uno stile in declino per quanto riguarda la forma della sua intelligenza, e con quello che si intravede all’orizzonte per per le idee che difende: Un sant’Agostino convertito solo a metà, che vacilla e si destreggia, e che del cristianesimo abbia fatto proprio soltanto l’odio per il mondo antico. (La tentazione di esistere: Su una civiltà esausta)
Gli spiriti contemporanei hanno bisogno di verità semplici, di risposte che alleggeriscano dai propri interrogativi. Di vangeli o di fosse. I periodi di raffinatezza celano nella loro fragilità principi di morte. Abusandone si finisce inevitabilmente per fare del catechismo, quale conclusione della dialettica, arrendevolezza di un intelletto privato degli istinti. La filosofia antica, scrive Cioran, invischiata nelle sue remore e nei suoi scrupoli, ha senza volerlo fatto da rompighiaccio al semplicismo di bassa lega. Al pullulare delle sette religiose e delle scuole seguirono, infatti, i culti. Una minaccia della stessa caratura grava su di noi: le ideologie imperversano, alla stregua di mitologie (degradate), in esse troveremo il nostro inaridimento e annientamento. Ci sarà impossibile riuscire a sostenere ancora l’enormità delle nostre contraddizioni.
Ci stiamo accingendo alla venerazione di un idolo qualsiasi purché imposto, che ci eviti di scegliere il nostro personale disastro, o vergogna. In un modo o nell’altro, in futuro, quale esso sia, gli occidentali dovranno recitare la parte di chi sarà ricercato e contemporaneamente disprezzato dai nuovi conquistadores. L’unica cosa con cui potranno cercare di ottenere rispetto sarà l’acrobazia della propria intelligenza o l’artificio del proprio passato. I primi sintomi dell’arte di sopravvivere a se stessi si possono già osservare; ovunque si intravedono i segnali dell’esaurimento. Non c’è più nulla da esprimere. Siamo giunti al fallimento più importante dai tempi dell’antichità. Dopo giungerà la liquidazione: tregua di durata non prevedibile, periodo di facilità nel quale ciascuno, di fronte alla liberazione finalmente giunta, sarà felice di lasciarsi alle spalle i tormenti della speranza e dell’attesa. (La tentazione di esistere: Su una civiltà esausta)

La mediocrità di un impero.

Europa.

Tra indolenze e perplessità, l’Europa mantiene ancora una convinzione che non sembra intenzionata a seppellire: quella di avere un futuro da vittima. Risolutamente si crede perduta, lo vuole essere, lo è. Già da tempo, in molti le hanno indicato il suo destino di sottomissione a nuove razze. (Cioran pensava a come già l’abate Galiani ne constatasse e annunciasse il lento ma inesorabile tracollo già nel XVIII secolo, e a come Rousseau annunciasse che “i Tartari saranno i nostri nuovi padroni”; nonché al detto di Napoleone sui Cosacchi, o alle angosce profetiche di Toqueville, di Michelet o Renan) Si tratta di presentimenti ben consolidati e di opinione diffusa. Per capitolare ci vuole tempo, però; bisogna prima creare una sorta di distacco preposto ad accogliere questa promessa di disfatta.
Una volta consolidato questo atteggiamento di consapevolezza e rassegnazione non intraprenderemo nessuna contromisura di cui non avremmo né i mezzi né la volontà per sostenerla. I crociati, diventati coltivatori di orti, sono svaniti in questa posterità casalinga dove non resta più traccia di nomadismo. Ma la storia è nostalgia dello spazio e orrore di casa propria, sogno vagabondo e bisogno di morire lontano…, ma la storia è proprio ciò che più non vediamo d’intorno. (La Tentazione di Esistere)
Una specie di sazietà spinge alla scoperta e all’invenzione di miti, illusioni che spronano all’azione. Si tratta di fervore non appagato, entusiasmo malato che guarisce fissandosi su di una casa. Un’altra specie invece dissocia lo spirito dai suoi poteri e la vita dalla sua energia, che depaupera “disidrata”. Distorsione della noia, la sazietà sfascia i miti o ne distorce l’uso. Non siamo preda di altro che di un’infermità, quindi. I sintomi non vanno cercati lontano, poiché sono nei segni che l’Occidente ci ha lasciato addosso.

Metafisica del regresso.

La debolezza è virulenta. Non è semplice opporsi al contagio. se i debilitati sono una massa non possiamo fare a meno di paralizzarci e venire schiacciati. Come contrastare un intero continente di indolenti?
Essendo la carenza di volontà piacevole, è difficile opporre resistenza. Non c’è nulla di più dolce e allo stesso tempo ragionevole che trascinarsi al di qua degli avvenimenti. Il gesto ci sarebbe precluso, come ogni forma di iniziativa, se non fossimo affetti da una qualche forma di demenza. La ragione è il freno alla nostra esuberanza. Una dose di pazzia cova nelle nostre viscere. Solo tramite essa siamo portati all’“avventura”, se dovesse venirci meno scomparirebbe anche la nostra capacità di respirare. Da essa dipende persino il fatto che permettiamo al sangue di continuare a circolare. Se la perdessimo rimarremmo soli. Ci è impossibile quindi coniugare normalità e vita. Solo una falla nella mente può consentirci di concepire il futuro, di rimanere […] in una posizione verticale e accingersi a colmare l’istante che giunge. (La Tentazione di Esistere)
Il fatto d’esistere e d’agire dipende dalla mancanza di senno. Non è altro che il rendersi concreto di un vaneggiamento. Se ritrovassimo la saviezza quindi saremmo impauriti da ogni cosa e ci lasceremmo scivolare verso l’assenza, la vita senza movimento. Solo tramite la mancanza di coraggio si accederebbe alla recondita essenza delle cose, costretti a un abisso inutile che separa dal divenire.
L’estinzione di un individuo, al pari di quella di un popolo, avviene quando prova ribrezzo per i progetti e gli atti scellerati, quando non si lancia verso l’essere ma vi si rifugia, si ripara. (Si tratta appunto di una metafisica della regressione – arretramento verso l’aldiquà, il primordiale). Così l’Europa, paradigma di tutto l’Occidente, nella sua eccessiva cautela, si rifiuta da sola, ricordando il suo passato fatto di impertinenza e temerarietà e addirittura al questo suo debole per l’inevitabile, onore nella sconfitta. Allergica a tutti gli eccessi e a tutte le vitalità, essa delibera e lo farà sempre anche dopo la sua scomparsa: non fa già l’effetto di un conciliabolo di spettri? (La tentazione di esistere: Su una civiltà esausta)
Il suo ostinarsi a volere è un compito che non è in grado di condurre in porto, e allora si lascia andare alle delizie della sua stessa letargia. Accortasi che la rovina ha il sapore della voluttà, in qualche modo esulta. È soddisfatta dal gusto dell’abbandono. Il fatto che il tempo scorra non la preoccupa, lascia questo compito ad altri, ignari di ciò che si prova a crogiolarsi nel presente senza sbocchi. Vivere in Europa significa morire, e andarsene da un’altra parte suicidarsi. Ormai l’intero globo, anche gli angoli più remoti, è stato corroso dalla cancrena. I popoli “supercivilizzati” sono stati i principali fornitori di disperazione, basta osservarli per perdere infatti ogni speranza, osservare i loro tristi complotti, la povertà dei loro desideri ormai spenti: Dopo aver così a lungo peccato contro la propria origine e trascurato il selvaggio, l’orda – loro punto d’origine -, sono obbligati a constatare di non possedere più una sola goccia di sangue unno. (Quaderni)
La stanchezza dell’impero romano era enorme ma comunque carica di inventiva, nel disordine infatti riusciva a coltivare il cinismo, il lusso e la ferocia. Mentre quella di oggi non possiede minimamente questa capacità di illudersi nella sua grigia mediocrità. Eccessivamente sicura richiama alla mente un male perfetto, senza sbavature o dubbi: l’agonia. Agonia degna di quei popoli che dopo aver respinto la “superstizione” che stimola la vita, non accettano nemmeno quella che la giustifica e la sostiene: il pregiudizio del divenire. Precipitarsi collettivo nel vuoto, ma non il vuoto che il buddhismo vede come sede della verità (Buddha, Aforismi e discorsi), in quanto non si tratta né di liberazione o di compimento, né di conquista della salvezza o positività negativa (Bardo Thödol, II libro tibetano dei morti, Sidpa Bardo) ma di semplice “slittamento” scevro di passione e nobiltà. Essendo stato concepito da una metafisica anemica esso non può essere il premio di una ricerca o il termine di un’inquietudine. L’Oriente procede verso la vacuità, prosperandovi e trovandovi il suo compimento. L’Occidente si imbriglia nella sua di vacuità, perdendo tutte le sue risorse. Ogni cosa nella coscienza di un occidentale si corrompe venendo meno alla sua purezza, vuoto compreso.
Tante conquiste, acquisizioni, idee, dove andranno a perpetuarsi? In Russia? in Nord America? Entrambe hanno già tratto le conseguenze del peggio dell’Europa… L’America Latina? il Sudafrica? l’Australia? È da quella parte che bisogna, così sembra, aspettarsi il rimpiazzo. Rimpiazzo caricaturale. L’avvenire appartiene alla periferia del globo. (La tentazione di esistere)
Nel ritratto che Cioran traccia di Borges (Quel Borges mostro geniale, in “Corriere della sera”, 1983, 20 feb), a proposito della periferia del globo, quale spazio culturale minore, anonimo, simile ai Balcani della sua giovinezza, scrive che esso non ha nulla da offrire. Dramma e vantaggio di esserci nati. Tutto ciò che è straniero si illumina di una luce diversa che conferisce una sete quasi malsana di peregrinazione attraverso le filosofie e le letterature di tutto il mondo. Come nell’Europa dell’est, in Sudamerica, il livello di curiosità e informazione è molto più elevato di quello provinciale degli occidentali. È il nulla di questi luoghi marginali, a rendere gli scrittori, i filosofi, i pensatori più aperti e vivi degli europei, immobili, imprigionati dalle loro tradizioni e incapaci di sfuggire alla «loro prestigiosa sclerosi. (Esercizi di ammirazione)
Confrontando i successi dell’ingegno umano dal Rinascimento in poi, non potremmo certo sperare di soffermarci su quelli della filosofia, in quanto quella occidentale non supera quella indiana, cinese o greca – tutt’al più la raggiunge in alcuni punti – ed essendo solo una parte della riflessione metafisica generale potremmo farne a meno. In Oriente i pensatori occidentali più “curiosi” non sarebbero stati presi seriamente a causa delle loro contraddizioni, motivo per cui a queste latitudini sono fonte di interesse.
Quello che ci preme in fin dei conti non è il pensiero, ma la biografia di un pensiero, le esagerazioni, le aberrazioni, le incompatibilità che vi trovano spazio. Amiamo gli spiriti, che non riuscendo a trovare il modo di essere compatibili con se stessi e con gli altri, mentono e ingannano per voluttà o per caso. Il loro segno distintivo? Un pizzico di finzione nel tragico, un accenno di gioco perfino nell’incurabile… (L’inconveniente di essere nati).
Solo nella musica moderna occidentale, secondo Cioran – fenomeno che non torva confronti in nessuna altra tradizione – l’Occidente può svelare la sua natura e andare in profondità. Non avendo creato né una metafisica né una poesia che non siano in qualche modo derivative, ha proiettato nell’esperienza sonora ogni briciola della sua forza, di mistero e di capacità di ineffabile. Nonostante abbia amato a dismisura il lume della ragione, la sua vera genialità fu genialità dei sensi. Il male che più l’onora? L’ipertrofia dell’anima. (Quaderni)
Privo della musica, antidoto alla metafisica del regresso, l’Occidente avrebbe prodotto un modus vivendi insignificante e banale. Essa sarà l’unica traccia che potrà testimoniare che non è stato tutto vano, che effettivamente avevamo qualcosa da perdere. (Visto che il suicidio è la conclusione logica di tutto) l’irrazionale è l’unica cosa che ci rimane.