IL GRANDE FREDDO

di Danilo Arona

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Succede.
Succede che, rovistando fra vecchie carte alla ricerca di qualche prezioso appunto, ti capiti fra le mani un vecchio fogliettino vergato con una calligrafia che sembra la tua e che invece non lo è più. Gli getti un’occhiata e leggi una parola accompagnata da una data sinistra e precisa: “classifica del 29 gennaio 1976”. Allora si apre per qualche istante una porta fra due dimensioni temporali e ti ricordi, di botto e con precisione, situazioni, eventi e personaggi che giacevano sepolti a qualche chilometro più in basso, nel famoso inconscio.


Bob Orsetti, sulla soglia dei cinquanta, scovò il foglietto in questione una domenica pomeriggio mentre fuori scrosciava una violenta pioggia primaverile. E si ricordò che nel gennaio ’76 lui si occupava della classifica dei dischi più richiesti dagli ascoltatori di Radio Alessandria International. In più, in quell’appartamento all’ultimo piano, a pochi metri dal fiume Tanaro, lui ci andava praticamente tutte le notti a scimmiottare Lupo Solitario. Lassù si trovava la radio, libera e pirata come si diceva allora, in realtà né l’una né l’altra. Là “si facevano cose”, si conosceva gente, ci s’illudeva di cambiare il mondo blaterando scemenze al microfono.
La classifica andava in onda dalle quindici alle quindici e trenta del pomeriggio. Di notte non era possibile, data la notevole quantità di casalinghe impegnate nei mutamenti della graduatoria. Bob allora possedeva una Dyane rossa, con il sedile a tal punto semisprofondato che durante le soste ai semafori gli autisti al suo fianco commentavano solidali: “Guarda quel nano, poverino. Come farà ad arrivare ai pedali?”
A Bassavilla, all’epoca, tutti erano socialisti, anche quelli che non lo erano. Si contavano socialisti attivi e votanti persino sotto terra. Una notissima agenzia di pubblicità che vedeva lontano si era accaparrata l’esclusiva della pubblicità della radio. Bob non aveva legami fissi. Di notte gli telefonavano parecchie ragazze. Da lì a qualche mese, in autunno, una in particolare di nome Melissa lo avrebbe turbato più delle altre. Le Brigate Rosse sparavano una mattina sì e una no. La musica di quel periodo, tutto sommato, faceva abbastanza schifo. Nel cielo si vedevano un sacco di UFO. Il film Ultimo tango a Parigi stava per salire sul rogo a mo’ di pericolosa Giovanna D’Arco in celluloide.
La classifica del 29 gennaio 1976 partiva come tutte le classifiche dal fondo. La cuffia che la radio passava in dotazione pareva un cimelio aeronautico della seconda guerra mondiale, pesante come un boia e fortemente indiziata per l’aggravio della calvizie incipiente. Negli auricolari si udiva la propria voce assieme alla musica, ambedue inscatolate come sardine. Sentendo le sue parole giungere da un’altra parte del corpo, Bob sentiva crescere in sé un altro Io. E, sulle soglie della schizofrenia, quel 29 gennaio 1976 Bob Orsetti aveva di certo considerato la propria voce come quella di un estraneo, un autentico intruso, tanto la classifica gli provocava sofferenza.
Da quel che si leggeva sul bigliettino, all’ottavo posto si piazzava il gruppo “Giardino dei Semplici” con M’innamoro, titoli come pochi originale. Bob quella canzone proprio non la ricordava, ma quella dopo, la settima, gli era rimasta sullo stomaco per parecchio tempo, talmente gli stimolava la peristalsi. Si trattava de Il maestro di violino, una terrificante e furbastra soap in forma di canzone con tanto di assolo proto-rap di bambina deficiente nell’intermezzo, il tutto dovuto al genio della musica popolare Mimmo Modugno.
(Interludio critico: oggi, nel 2005, Bob avrebbe di sicuro un’altra opinione su Il maestro di violino. I ribaltoni nel giudizio a quasi trent’anni di distanza dalla prima proposta sono una regola. Tutto quello che a noi, avanguardisti per principio, allora appariva come pacchiano, triviale e popolare nel senso più deteriore della parola, oggi lo si ripropone come geniale, rivoluzionario e intelligente. E’ il teorema di Pupo, già applicato per Ciccio e Franco. Oggi morti e sull’altare del genio. Però L’Esorciccio era già allora un capolavoro. Probabilmente Il maestro di violino sta, con il senno di poi, a Frankie HI-NRG MC quanto i Beatles a Robbie Williams. Oppure no. Ma, in fin dei conti, è così importante?)
Al sesto posto non si andava meglio. Un nero, grande come un armadio grosso, che si presentava come Jimmy Castor Bunch, ruffianava e s’ingorillava con un pezzo dal titolo King Kong, probabilmente per agganciarsi al film con Jessica Lange da poco uscito. Insomma, a vederla da una distanza temporale di una trentina d’anni, risultava chiaro che la mezz’ora di classifica a Bob non piacesse. Si trattava con evidenza di un pegno da pagare per trasmettere di notte. Eppure quelle erano proprio le canzoni che andavano di moda. Chissà com’erano quelli che le richiedevano? E lui? Era così tanto diverso? 1976, un milione di anni fa…
La serie nera si risollevava vaghissimamente con il quinto e quarto posto, SOS degli Abba e Nevica del cantante locale Claudio Damiani, musicista di fiducia del “Donovan” italiano Gian Pieretti, e neanche malaccio rispetto alla menosissima media qualità del periodo. A leggere il titolo del terzo però le pudende di Bob iniziarono ad arroventarsi perché la scaletta prevedeva Sandokan degli Oliver Onions, respirando immediatamente al seguito una brezzolina primaverile con Antonello Venditti e la canzone Lilly, quasi decente per essere una specie di nenia funebre.
Purtroppo la melodia regina sprofondò Bob nell’abisso: un gruppo italico che si faceva chiamare Beans (alla lettera, “I fagioli”) trionfava con l’orripilante Come pioveva, pseudo-plagio citazionistico di una vecchissima canzone del tempo che fu, inframezzata da gorgheggi effeminati e ululati col riverbero.
Bob si rabbuiò. Scostò una tendina, notò che la pioggia aveva aumentato d’intensità e stracciò il biglietto in mille pezzi. Un po’ con rabbia, inspiegabile ma concreta, e un po’ con rimpianto, questo comprensibilissimo. Per quanto invecchiato e bolso, Bob amava molto di più la musica del nuovo millennio. Amava molto più il Bob che vedeva allo specchio di quello del ’76. Persino la Bassavilla contemporanea, senza più i socialisti e meno vivibile, appariva migliore di quella città del passato che in quegli anni plumbei faceva amari conti con decadenza industriale e cervelli in fuga.
Insomma, Bob, con mezzo secolo sul groppone, si sentiva molto più vivo di quel Bob da hit parade del gennaio ’76. Ma, nel mezzo di queste silenziose e solitarie considerazioni su sé stesso e il sesso degli angeli, la radio, accesa in un angolo buio della stanza a basso volume, irruppe con I cugini di campagna e la lamentosa Anima mia. Le palle, già roventi per il ricordo dei Beans (che in un inarrestabile “effetto Farfalla”, avevano richiamato dal pozzo dell’inconscio: Cerrone, Hamilton Bohannon, Daniel Sentacruz Ensemble, Panda, Santo California, Boney M., Van Mc Coy e Village People), si rosolarono ancor di più. E tutta la zona pelvica prese a fumare.
“Ho detto che mi preferisco oggi, cazzo!”, urlò nella casa vuota.
Spense la radio. Uscì nella pioggia. Senza ombrello e senza un’adeguata protezione. Quando si ritrovò inzuppato nel centro di un’irriconoscibile Bassavilla inondata e fangosa, lo ammise: invecchiare non è affatto comodo.