di Anselmo Cioffi

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Daniele Nadir, Lo stagno di fuoco, Sperling & Kupfer, 2005, ill. di M. Ottolini, pp. 784, € 18,00.

Daniele Nadir, giovane torinese di 29 anni, uno dei fondatori della rivista letteraria “Strane Storie”, con questo libro ha dato vita a un’operazione letteraria di notevole spessore. Ha concretizzato, innanzitutto, un’ossessione appartenente all’immaginario collettivo, creando una sorta di frattura all’interno della tendenza narrativa degli ultimissimi anni, tutta incentrata sul revival dell’esoterico, del misterioso e del sensazionalistico, motivata in parte dall’angoscia causata dal passaggio di millennio. Parlare, come fa l’ultima di copertina, di “romanzo storico sugli ultimi giorni dell’umanità”, può essere del tutto fuorviante, anche se in buona parte vero.

La paura per la catastrofe, per la fine del mondo, per l’ignoto è un aspetto culturale centrale dell’epoca in cui viviamo, ma è anche una fabbrica di soldi, per tutti quelli che furbescamante hanno annusato l’affare. Dan Brown, come era logico attendersi, ha fatto proseliti e le libreire si sono riempiti di ciarpame folkloristico assai deprimente e che ha poca attinenza con la letteratura.
Nadir cerca di inseririsi in questo territorio assai desolato e tenta un’operazione di alto profilo intellettuale. Certo, ci sono anche la fine del mondo, i simboli esoterici e tutto quel che ne consegue. Ma uno dei suoi meriti sta nel tentativo di chiedersi anche cosa potrebbe esserci alla base di questa crisi spirituale ed epocale del mondo cristiano occidentale. Alla base c’è una storia, una narrazione, appunto un’ossessione, perchè dopo la fine qualcosa dovrà pur esserci.
Il libro già nella forma si presenta come qualcosa di originale, ma nello stesso tempo come qualcosa di già visto, con una vago retrogusto fastidioso. Quasi a voler trasmettere sin dall’approccio iniziale una sorta di disagio metafisico, ma anche molto terreno. Un déjà vu atavico e imbarazzante. E’ un libro illustrato, che si avvale dei suggestivi disegni del bravissimo Mattia Ottolini, senza queste illustrazioni il libro non sarebbe stato affatto lo stesso. Un plauso incodizionato va, quindi, anche a lui.
Sarebbe sciocco cercare un paragone con l’immenso capolavoro dantesco, pur ritenendo il romanzo di Nadir un ottimo libro. Però sarebbe parimenti assurdo non accorgersi che tra gli intenti del giovane scrittore torinese c’è anche quello di riscrivere il capitolo infernale della Divina Commedia e proprio per questo è inevitabile un paragone. Paragone non sull’impossibile livello qualitativo, ma sugli aspetti estetici e contenutistici. L’opera dantesca nasceva da un esigenza di ordine razionalizzante e da un’etica di valori cristiani ben definiti, un’etica moralizzatrice a tutto tondo, anche se scandalosa per l’epoca.
Dante si ergeva a giudice e a dio e si arrogava il diritto di fustigare personaggi del passato e del suo presente. Un’opera politicamente corretta e con una forte componente ideologica e religiosa. Non a caso l’Inferno era solo il libro primo, che trovava un naturale compendio nei lbri del Purgatorio e del Paradiso. Insomma, Dante era mosso dalla Fede, e dalla certezza razionale che la Fede fosse nel giusto e nella Luce.
Nadir, invece, stravolge il senso dantesco fino a farci percepire un Inferno assolutamente capriccioso nella strutturazione delle pene, e spesso anche nella sua organizzazione. Un Inferno fine a se stesso. Prigione per demoni e dannati. Il feudalesimo infernale di Nadir in fondo altro non è che la speculare copia di quello medievale, sul quale il fantasy ha fondato molte, se non la quasi totalità delle sue fortune. Di conseguenza, le pene risultano piegate e plasmate essenzialmente sui bisogni e sulla logica demoniaca. I Signori, i Maggiori, le Eminenze, i Sottili sono esseri che popolano quel mondo e lo ritengono la loro terra, la loro patria. I dannati, a prescindere dalla volontà divina sono i loro giocattoli, i loro schiavi e la merce per la soddisfazione dei loro bisogni e di loro capricci.
Ma nonostante questa concessione culturale al fantasy medievale che può apparire abbastanza scontata, è un Inferno assolutametne moderno, con paure, immaginario e rapporti di potere, concepiti da una mente moderna, influenzata da quello che potremmo definire “relativismo storico”, quella visione del mondo tanto in odio al rinascente fondamentalismo cattolico. Non ci sono certezze, non ci sono ideologie forti, nè un pensiero religioso unico che riesca a dominare dinamiche e relazioni. Nell’Inferno dantesco, creato per volontà divina, sarebbe stato paradossale il solo pensare a una forma di ribellione da parte dei dannati, in quello di Nadir, no. Anzi, è del tutto logico che questo avvenga. Dio non c’è più, è lontano, ha abbandonato gli uomini e le creature dello spirito al proprio destino. Non esiste più una verità assoluta, se non il Dubbio, che offre la dimensione dell’infinita possibilità di eventi, pensieri e mondi.
Un discorso a parte meriterebbe, a questo proposito, la geografia stessa delle due differenti creazione. L’Alighieri, proprio per rispondere alla volontà razionale che lo muoveva, immagina un’architettura precisa e schematica, con confini ben definiti. Nadir invece descrive un inferno mutabile anche nella sua geografia, mondi e terre che ora ci sono e ora non più, passaggi che vengono aperti all’improvviso, per poi essere richiusi. Unico luogo certo e il lago di ghiaccio posto in fondo all’Inferno, dove è imprigionato Satana.
Ed è spesso un’ansia descrittiva, una febbre parossistica quella che brucia in Daniele Nadir, nel corso della narrazione. Un delirio orgiastico di parole, fatti, immagini, persone, figure. Un discorso narrativo, che si ripiega su se stesso, e che crea tra lui e i suoi lettori una barriera quasi di non comunicazione, uno stallo “infernale”, pieno di assurdità, ma proprio per questo, ritengo, assolutamente voluto.
Dà corpo alle sue ossessioni, quasi fossero i suoi incubi, nei quali egli stesso si dibatte, riuscendone a percepire a stento il significato. Ed è questo paradosso che alla fine trasmette in chi legge. Poi improvvisamente si ferma, si acqueta, tira quasi un sospiro di sollievo, riprende i ritmi e i tempi normali del racconto, la sua prosa diventa di nuovo trasparente, limpida e scorrevole, spinto dalla necessità di interrompere l'”incubo” e di trovare un limbo di normalità alla mostruosità che circonda i suoi personaggi.

Ma è appunto l'”incubo” tutta la chiave di volta del romanzo, incubo nel quale si ritrovano poi a confluire sia l’Inferno dantesco che lo Stagno di Nadir. Incubi diversi, l’uno nato dall’allucinazione letteraria e religiosa del Poeta, che dilaga nella storia di questi nove secoli, riempiendo tutto l’immaginario cristiano, ma non solo quello. L’altro nato dalla penna del giovane torinese, ma che si sostanzia nella sintesi delle paure ancestrali degli uomini, paure, ma anche piaceri “peccaminosi”, in cui il “diabolico” vive ed esiste solo grazie agli uomini stessi. E allora vengono naturali i richiami a Lovecraft, a Hyeronimus Bosch, a Tolkien, a Stephen King, a Philip Dick, a Lewis Carroll o a tutti gli altri che l’autore stesso cita nella postfazione. Attori della letteratura e dell’arte posteriori a Dante Alighieri, che con distorsioni e intenti diversissimi hanno contribuito, volenti o nolenti, alla costruzione dell’immaginario infernale.

Ma a parte Dante, sono altri due gli autori che hanno in special modo, a mio parere, influenzato Nadir: il già citato Tolkien e Neil Gaiman. Il primo per la struttura formale stessa del romanzo che riporta automaticamente a quella del Signore degli Anelli, e non solo per i sei protagonisti che attraversano lo Stagno, che risultano essere quasi una riproposizone della Compagnia dell’Anello, o per le immagini delle moltitudini in battaglia. L’altro per le invenzioni narrative più moderne, tra Sandman, Nessun dove, ma soprattutto American Gods, per il richiamo chiaro e netto alla decostruzione dei miti ancestrali e per l’impostazione fiabesca che inevitabilmente sta facendo scuola, tipiche entrambe della produzione dello scrittore inglese. Si guardi inoltre anche all’ideazione della locanda di “Juda’s” e alla vicende connesse al suo piano narrativo.

Da tutta questa prospettiva, fa semplicemente sorridere la catalogazione di questo romanzo nel genere fantasy, con tutta la buona volontà e con tutta la dignità che questo genere letterario a volte esprime, nonostante l’immodizia che riempie le librerie. E non devono trarre in inganno certe errate valutazioni, che lo dipingono come un’opera superficiale che male intende mischiare e copiare generi ed autori diversi. E che lo vogliono, anche se colto, molto pretenzioso e soprattutto furbo. L’originalità di Nadir, influenze a parte, è indiscutibile, e lo pone anni luce distante dalla media qualitativa dei prodotti letterari italiani.
Il problema è però quel vuoto, che lo scrittore farebbe bene a colmare nelle sue prossime opere, quel vuoto che si crea ogni tanto, ma in maniera ripetuta, tra i due livelli della narrazione, a cui facevo riferimento più sopra. Quel vuoto che spezza la continuità del racconto tra la parte “delirante” e quella fluida e scorrevole. Quel vuoto, che lascia abbastanza straniti e che a volte non chiarisce con la dovuta cura alcuni passaggi, lasciandoli solo immaginare al lettore e a volte neanche quello. Quel vuoto che porta a errate conclusioni circa la qualità del romanzo stesso.
Ma tutto ciò è comprensibile e ben si giustifica con la giovane età dell’autore. Nadir, a mio parere, ha intuito il legame narrativo universale che lega alcune esperienze della tradizione occidentale, ha intuito la connessione che questo ha con la storia recente e passata dell’uomo. Ha intuito ma non ha razionalizzato, come Dante invece aveva fatto in maniera così perfetta, tutto quello che accade nella vicenda e che al nostro immaginario sfugge. Sfugge a Nadir e sfugge ai suoi lettori. Proprio per questo Nadir a volte, anche se raramente nel corso del libro, si rifugia nella superficialità, nel gioco fantasy, che in qualche modo risulta rassicurante.
Ma come ogni buona fiaba ha la potenzialità di donare al lettore un percorso narrativo ed interpretativo aperto, per questo è dunque moderno e storicamente attuale, lasciando ad ognuno di noi la scelta di seguire quello suo personale. E in questo la sua modernità esce confermata. Nadir, quindi, sceglie con consapevolezza, di affrontare terreni precisi anche abbastanza minati, i quali però, date le condizioni storiche attuali, non sarebbe possibile evitare, a meno di non peccare di reale superficialità. Lo fa con diplomazia, ma anche con lungimiranza. Rimangono, è vero, solo degli accenni, ma degli acceni importanti, che danno la sensazione al lettore attento che il romanzo vada interpretato a diversi livelli.
San Michele in fondo fa un viaggio, alla fine del quale sembra realizzare che può esistere una sola comprensione delle cose: quella che leghi tutti gli esseri umani insieme, a prescindere dalle singole verità. E, concedendomi la massima libertà interpretativa di lettore, ancor più di quanto fatto finora in questa recensione, mi permetto di aggiungere che è la stessa consapevolezza a cui bisognerebbe far riferimento anche e soprattutto nel nostro mondo, in questo passaggio epocale che stiamo ancora vivendo. Tutte le culture, le fedi e le tradizioni ci appartengono e vanno preservate dal pregiudizio. Dio è un’idea complicata e assurda da concepire, perchè è infinitamente semplice: Dio è l’Anima Mundi e lo Stagno di Fuoco è il suo specchio, lo specchio delle paure, delle ossessioni e dei pregiudizi. E’ stato costruito dagli uomini, ma prima o poi si infrangerà.

[Nel lodare, con Anselmo Cioffi, il coraggio e il talento visionario di Daniele Nadir, mi permetto di segnalare un’altra opera fantastica ambientata all’inferno, che non credo Nadir possa conoscere (d’altronde molto lontana, per intenti e svolgimento, dalla sua). Si tratta delle Chroniques infernales della scrittrice del Canada francese Esther Rochon. E’ una saga in diversi volumi, pubblicata dall’editore Alire di Beauport (Québec), in cui gli inferni si moltiplicano, invadono il nostro mondo, vi riversano le anime dannate. Un’opera meno “estrema” di quella di Nadir, dato lo stile ironico, ma altrettanto delirante e complessa. Credo che in Italia non la leggeremo mai.] (V.E.)