di Roberto De Caro

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La mattina del 21 marzo, in quell’esemplare città di Legge e di Scienza che si è dotata da qualche tempo di più moderna ed efficiente giunta clerical-riformista, è stato ordinato lo sgombero di una trentina di rumeni in attesa di risposta alla domanda di asilo politico. Gli allogeni erano già stati allontanati la settimana precedente da uno scalo migranti chiuso durante l’operazione. Dopo due notti in stazione hanno optato per i comfort di una baraccopoli lungo il fiume. È qui che li ha raggiunti il braccio democratico della legge: vigili del reparto sicurezza, coadiuvati da polizia, carabinieri e ruspe, hanno posto fine allo scempio edilizio e alla pratica dei condoni. Il dirigente dell’ufficio stranieri del Comune si è detto del tutto all’oscuro dell’operazione, ma la prudenza non è mai troppa: prima che altri si appropriassero del merito e raccogliessero il plauso cittadino, il sindaco è intervenuto in Consiglio comunale ed ha imperiosamente dichiarato: «Lo sgombero l’ho deciso io!». Nessuno ha osato più toccarglielo ed anzi, la rivendicazione varrà anche per i prossimi, annunciati interventi su «altri insediamenti abusivi, dove — come si legge sulla stampa locale — vivono in condizioni spaventose almeno 100 persone, minacciate dal freddo e dalle improvvise piene» del fiume.

Il sindaco ha aggiunto paterno che il Comune non tollererà più avventati artifici architettonici «rischiosi per l’incolumità di chi li realizza», ma è anche stato «molto duro» verso chi «fa un uso distorto del diritto d’asilo», che «riguarda chi è perseguitato politicamente nel suo Paese non chi è genericamente in condizioni di povertà».
La sostanza del messaggio, che correva il rischio di risultare un po’ criptico, è stata illuminata dal vicesindaco, il quale la sera stessa ha maternamente ricevuto alcuni dei senzatetto rumeni in municipio. Il colloquio non è durato a lungo: a nome di tutti, un distorsore particolarmente sfrontato gli ha rivolto una sola domanda — «Dove andremo a dormire stanotte?» — ricevendone parimenti una sola risposta — «Questo fa parte del suo progetto di vita quando ha deciso di venire in Italia».
Il vicesindaco ha voluto caritatevolmente spiegare che se putacaso vengono qui senza che nessuno li perseguiti per le loro idee — e magari poi si scopre che i fedifraghi non sono neanche intellettuali, o al limite, to’, giornalisti —, se son giunti spinti solo dalla miseria e dalla fame dico, se ne devono andare di corsa, per mai più non tornare, a meno di non seguire le apposite, razionali procedure.
Si potrebbe obiettare all’austera sovracittadina che difficilmente le sue sagge parole convinceranno gli ostinati turbatori del nostro civile convivere ad affrontare in patria, con serena fiducia, i rigori della Divina Provvidenza. È piuttosto da credere che furbi come sono apporteranno qualche sostanziale modifica al loro «progetto di vita», inclusiva della medesima bontà con la quale sono stati accolti all’arrivo. Ma tant’è, e del resto alla bisogna, come si è visto, la democrazia sa reagire da par suo.
Ora, io nell’occasione non discuto lo zelo degli amministratori — che svolgono con talento umanitario e ferma determinazione, come si addice ai buoni, il compito loro affidato di sorvegliare e punire —, perché sarebbe come dire che è colpa del banchiere se ruba. È che se cammino per le strade di questa compiaciuta e edificante città, o anche solo apro le finestre di casa, avverto sempre più insopportabile e nemico il fetore, prima morale poi politico, di coloro che li hanno votati, che li hanno preferiti per il miglior uso persuasivo del manganello, per scendere in piazza e picchiare con quello, e che quando hanno vinto, in quella piazza hanno pure festeggiato lo scampato pericolo.