di Emilio Salgari

salgarimaha.jpgIl drappello s’affrettava, perché già le prime ombre della sera cominciavano a calare nelle sterminate jungle del Mysore, rifugio di tigri sempre assetate di sangue e di serpenti smisurati, che stritolano fra le loro spire un uomo come fosse un semplice fuscello di paglia.
Halnali, il bel giovane maratto, incoraggiava la sua scorta ad allungare il passo, promettendo doppia razione d’arak all’arrivo e triplice mancia. Non già che egli, valoroso indiano, discendente di una stirpe d’eroi, che aveva già a quindici anni combattuto contro gli inglesi dando prove non dubbie di audacia, avesse paura.
Conosceva la giungla come conosceva i suoi abitanti che più volte aveva inseguiti nei loro tenebrosi nascondigli e non li temeva. La sua fretta aveva un’altra origine: il desiderio di rivedere gli occhi neri e profondi di Naia, la graziosa figlia del vecchio rajah di Guntur, che aveva chiesta in sposa e che da un anno più non aveva riveduta.

Se fosse stato solo, avrebbe lanciato ventre a terra il piccolo e ardente cavallo maratto, dalla lunga criniera adorna di sonagliuzzi e nastri variopinti, pronto a sfidare tigri, serpenti e rinoceronti per giungere al più presto alla abitazione del rajah, ma aveva dietro di sé i portatori di regali e non
voleva presentarsi senza di quelli e correre il pericolo di non vederli più mai giungere. Bel giovane quel Halnali, alto, svelto, leggermente abbronzato, coi lineamenti purissimi e ad un tempo graziosi; con due occhi nerissimi e vellutati come quelli delle donne del Bengala, le più belle dell’India, e doppiamente bello con quella ricca casacca di seta fiorata, a ricami d’oro, che gli scendeva fino alle ginocchia; con quel calzoncini di nanchíno ben stretti alle gambe, quella larga fascia di velluto azzurro a frange d’argento.
Cavalcava con grazia uno splendido cavallo dal mantello bianco, bardato all’indostana .
Il drappello, composto d’una dozzina di servi e di portatori, carichi di pacchi voluminosi contenenti i regali per la bella figlia del rajah, era giunto sull’orlo di una nuova jungla, quando il sole scomparve quasi improvvisamente sotto l’orizzonte.
Le tenebre calavano rapidissime, non essendovi crepuscolo sotto quei climi. Halnali aveva fatto un gesto di impazienza, vedendo le ultime luci dileguarsi con fulminea rapidità.
– Giungeremo tardi, – disse all’uomo che aveva già accesa la torcia, e che gli camminava a fianco, – Il rajah non vedendoci ancora giungere, sarà inquieto.
– E dobbiamo passare presso la torre del silenzio, rispose il servo facendo un gesto di terrore.
– Hai paura dei morti tu? – chiese Halnali con accento sardonico.
– Non è dei morti che io ho paura, signore, bensì di Nurandur.
– Chi è costui? Qualche spirito del male?
– Non ne avete mai udito parlare, signore?
– È la prima volta che odo quel nome.
– Eppure… – disse il servo, scuotendo la testa.
– Che cosa vuoi dire?
– Che dovreste guardarvi da lui.
– Io ! – esclamò il giovane maratto, sorpreso dal tono misterioso del servo.
– Non vi ha mai detto nulla il rajah di Guntur?
– Non mi ha parlato mai di quel Nurandur. Infine, chi è costui?
– Non ve lo saprei proprio dire, signore. Per alcuni è un uomo, per altri è un fantasma, uno spirito, che so io. Il fatto sta che tutti hanno paura, soprattutto il rajah, il quale non oserebbe passare di notte presso la torre del silenzio, anche se gli promettessero un regno due volte più vasto del suo.
– Eppure é un uomo coraggioso, – disse Halnali, che s’interessava assai.
– E tuttavia io l’ho veduto impallidire ogni volta che ha udito parlare di Nurandur.
– L’hai mai veduto tu quell’essere misterioso?
– Se l’avessi scorto una sola volta, non sarei più qui a raccontarvi queste cose – rispose l’indiano che non seppe frenare un fremito.
– E’ fatale alle persone che incontra?
– Si dice che le uccida.
– Allora è un bandito, qualche tug .
– Non lo so, signore, – disse l’indiano. – Vi dico solo di guardarvi da lui. Ecco laggiù la torre dei morti. Che Brama, Sivah e Visnù vi proteggano.
Halnali alzò le spalle e guardò con occhio compassionevole l’indiano. Giovane valoroso e spirito forte, non credeva affatto a quelle storie, né era superstizioso.
Per incoraggiare i suoi uomini che lui vedeva titubanti e stringersi paurosamente l’uno vicino all’altro, staccò dall’arcione la sua splendida carabina, dicendo:
– Se quel bandito oserà mostrarsi, gli farò fuoco addosso e Halnali non falla mai i suoi colpi.
La luna che sorgeva dietro le montagne, in tutto il suo splendore, cominciava a diradare le tenebre che si erano addensate sulla pianura.
Halnali aveva subito fissati gli sguardi su una immensa torre che s’alzava quasi in mezzo alla jungla. Era una costruzione enorme, di forma circolare, alta una trentina di metri, tutta bianca e senza finestre.
Al di sopra si vedevano volare numerosi punti scuri, i quali s’abbassavano e si rialzavano senza posa e senza mai allontanarsi.
Nel vederli, anche Halnali, non ostante il suo coraggio, aveva provato un fremito d’orrore.
– Li vedete padrone i marabù ? – chiese l’indiano.
– Si – rispose il maratto. – Hanno portato qualche altro morto da spolpare i Parsi ?
– Non vi sono più Parsi in questa regione. Sono molti anni che la torre non serve più, eppure non mancano mai di vitto quegli uccelli.
– Chi li provvede di cadaveri?
– Nurandur, si dice.
Halnali, senza sapere proprio il perché, si sentì una stretta al cuore. Quel nome di Nurandur, cominciava a produrre su di lui una strana impressione.
Erano allora giunti nei pressi della funebre torre del silenzio.
Fra le tante sette religiose che sussistono nell’India ve n’è una che conta pure numerosissimi addetti, che si chiama dei Parsi e che passa per la più antica.
I suoi seguaci non adorano né Brama, né Sivah, né Visnù, né alcun essere potente: non adorano che il fuoco .
Una delle più singolari loro usanze riguarda i morti. Partendo dal principio che gli elementi sono simboli della divinità, pretendono che la terra, l’acqua ed il fuoco non debbano venire in modo alcuno contaminati dal contatto della carne putrefatta.
Da questa credenza deriva uno dei costumi più singolari, che consiste nel lasciar disgregare i cadaveri dei loro correligionarii all’aria libera, lasciando agli uccelli di rapina la cura di farli sparire.
A tale uopo, in parecchie regioni dell’India, i Parsi hanno innalzato delle costruzioni enormi chiamate torri del silenzio sulla cui cima, sopra grate di ferro, depongono i morti. Nel mezzo hanno un pozzo profondissimo che conduce, per un buco praticato nella parete, a quattro canali riempiti di carbone e che sono destinati a ricevere le ossa quando sono state spolpate dai marabù e dagli avvoltoi .
La torre che sorgeva in mezzo alla jungla e che doveva servire d’asilo a quel misterioso Nurandur, che tanto spavento causava alle popolazioni della regione, non differiva dalle altre disseminate per l’India. Era del pari immensa, tutta bianca, più massiccia che alta, senza aperture e spiccava stranamente alla luce lunare, fra il verde cupo delle immense canne che avevano ormai invase le vicinanze.
Il drappello aveva rallentato il passo e s’avanzava guardingo, come se temesse di veder apparire lassù qualche spirito spaventevole. Anche Halnali aveva trattenuto il cavallo.
– Vedi nessuno? – aveva chiesto al portatore della torcia, che gli si era stretto vicino, tenendo la briglia del cavallo.- No, signore, – aveva risposto l’indiano, con voce tremula.
– E tu dici che qui abita quel terribile Nurandur ?
– Tutti lo dicono.
– Io credo che abbiano sognato e quell’uomo non sia mai esistito.
– Eppure l’hanno veduto, signore, ed il rajah potrà dirvi qualche cosa.
– Sogni e …La parola gli si era gelata sulle labbra e aveva fermato di colpo il cavallo, mentre i suoi uomini si erano gettati a terra mandando un urlo di terrore.
Sulla cima della funebre torre, una forma umana, avvolta in un mantello bianco, era improvvisamente comparsa, facendo fuggire colla sua presenza l’immondo stormo di marabù.
Fosse effetto della luna o del terrore che suo malgrado aveva invaso anche il giovane maratto, pareva che quell’essere misterioso, assumesse di momento in momento delle forme sempre più gigantesche.
Rimase un momento immobile, fissando il drappello, poi s’accostò all’orlo della torre, gridando con voce poderosa:
– Halnali, figlio del rajah di Nirmal, io ti saluto.
– Chi sei? – chiese il maratto. – Un uomo o un genio del male?
– Io sono Nurandur: bada che gli occhi della bella Naia non piangano troppo presto.
– Come mi conosci tu?
– Nurandur tutto sa: addio.
– Uomo o demonio, fermati! – gridò il giovane armando rapidamente il fucile.
– Gli occhi di Naia, – gridò Nurandur con voce ironica.- Bada che non piangano troppo.
Halnali aveva puntato il fucile. Un lampo balenò, ma Nurandur era ormai scomparso. Solo in aria si udì un riso stridulo, beffardo, come un riso di iena.
– Signore, fuggiamo – gridò l’indiano che portava la torcia.
– Sì, fuggiamo – gridarono gli altri, pazzi di spavento.
Halnali vedendo che stavano per abbandonarlo, spronò il cavallo e li raggiunse sull’orlo della giungla. Colà giunto si volse verso la torre per vedere se Nurandur era ricomparso. La cima invece era deserta.
– Credete ora all’esistenza di Nurandur? – gli chiese l’indiano, battendo i denti.
– Non posso negarlo, – rispose il maratto, con voce alterata. – Come può aver saputo che io mi reco dalla figlia del rajah di Guntur?
– Non lo so, signore.
– E come mi conosce? Io non ho mai udito a parlare di lui prima di questa sera.
– E sarebbe stato meglio che non l’aveste veduto nemmeno questa sera, signore, – disse l’indiano. – Ciò vi porterà sventura, ne sono sicuro. Andiamocene da qui, prima che ci tocchi qualche disgrazia.
Stavano per lasciare la jungla ed internarsi in un bosco di banani, quando in mezzo alle folte canne spinose che avevano appena lasciato udirono uno scoppio di risa, che pareva emesso da un pazzo o per lo meno da un delirante, seguito da un grido rauco.
Era la voce di Nurandur che urlava con accento terribile. – Gli occhi di Naia! Gli occhi di Naia!
– Ti strapperò i tuoi! – gli rispose Halnali esasperato.
I portatori di regali e anche l’indiano della torcia, s’erano dati a una corsa pazza in mezzo alla foresta.
Halnali per non rimanere solo, aveva quindi dovuto imitarli, eccitando il cavallo.
D’altronde anche lui avrebbe desiderato meglio trovarsi al sicuro nella dimora del rajah di Guntur, che rimanere più a lungo in quei paraggi.
Quella minaccia inesplicabile, ripetuta per due volte da quell’uomo – ammesso che fosse un uomo, giacché cominciava a dubitare che fosse invece qualche genio malvagio se non peggio – l’aveva profondamente turbato, gettando nel suo animo un vero senso di terrore ignoto.
Gli occhi di Naia! Che cosa volevano significare quelle parole? Vi era di che spaventare anche un uomo più coraggioso del maratto.
Quella corsa affannosa attraverso la boscaglia tenebrosa dei banani, continuò senza posa per una lunga ora.
Era quasi mezzanotte quando giunsero dinanzi alle mura di Guntur, una piccola città situata sulle rive di un fiume, difesa da alte e vecchie torri massicce, sede del rajah.
Halnali con stupore vide che la porta principale era guardata da numerosi guerrieri muniti di torcie e armati come se dovessero partire per la guerra. Parevano tutti preoccupati, anzi spaventati.
– Signore, – disse l’ufficiale che li comandava, appena vide il giovane maratto e la sua scorta. – Il rajah era assai inquieto per la vostra vita. Non avete incontrato Nurandur ?
– Sì, l’ho veduto, – rispose Halnali.
– E non vi ha ucciso?…
– Se mi vedi vuoi dire che sono vivo ancora.
– È venuto a gridare sotto le mura, due ore or sono, che vi aspettava alla torre del silenzio per salutarvi.
– E non l’avete preso?
– Chi potrebbe farlo?
– Dov’è il rajah?
– Vi aspetta al suo palazzo.
Un quarto d’ora dopo il giovane e la sua scorta giungevano dinanzi alla dimora del rajah di Guntur.
Anche nello splendido palazzo del rajah regnava un vero trambusto, come se un gravissimo avvenimento avesse turbato tutti gli animi dei suoi abitanti.
Numerose guardie che vegliavano dinanzi alle porte marmoree, sugli immensi scaloni e perfino sulle terrazze.
Il rajah non s’era ancora coricato, anzi stava impartendo ordini a ufficiali e soldati, quando Halnali gli si presentò fra lo stupore generale.
Il rajah di Guntur era un bel vecchio d’aspetto guerresco, di statura imponente, con una lunga barba candidissima. Re di uno dei più piccoli stati maratti, conservatosi indipendente, dopo sanguinosissime guerre contro gli Inglesi, godeva fama di valoroso fra i valorosi e una stima immensa fra i principi indiani suoi vicini.
Vedendo comparire innanzi Halnali, il vecchio gli si era precipitato incontro colle braccia aperte, mandando un grido di gioia.
– Vivo ancora! aveva esclamato. – Presto, avvertite Naia che il suo fidanzato è giunto e ditele che asciughi le sue lacrime. Brama ha protetto nostro figlio, il futuro erede di Guntur.
– Principe, – disse Halnali che cadeva di sorpresa in sorpresa, – che cosa significa tutto ciò?
Il rajah invece di rispondere lo prese per una mano e lo condusse in una stanza vicina, chiudendo la porta a doppia chiave.
– Che cosa avete, principe, – chiese Halnali, – per essere così spaventato? Ed è quel Nurandur che vi preoccupa?
– L’hai incontrato forse? – chiese il rajah.
– Si.
– E l’hai veduto?
– Come ora vedo voi. —
Una estrema ansietà si era dipinta sul viso del principe.
– Come era?
– Alto di statura, col viso assai abbronzato e una barba nera che gli dava un aspetto ferissimo.
– E che cosa ti ha detto?
– Di non far piangere troppo presto gli occhi di Naia. Sapreste spiegarmi che cosa significano quelle parole?
Il rajah invece di rispondere si era alzato in preda ad una visibile agitazione mettendosi a passeggiare per la stanza.
– Che nessuno sappia spiegarmi questo mistero? – chiese finalmente il maratto. – Chi è quell’uomo che sparge tanto terrore intorno a sè? Lo conoscete, voi, principe?
– No – rispose bruscamente il vecchio rajah.
– Credete che sia un uomo od uno spirito infernale?
– Deve essere un uomo.
– Perché allora non mandate le vostre guardie a ucciderlo?
– Nessuno oserebbe.
– Se andassi io a cercarlo nella torre del silenzio e ucciderlo?
– Tu oseresti tanto? Non sai che Nurandur mi odia a morte e che odia pure te che stai per diventare mio figlio? – esclamò il rajah.
– Vi odia? Perché?
– Non ne so nulla, – rispose il vecchio – Sarei ben lieto che quell’uomo scomparisse, ma tremerei per la tua vita e, se tu morissi, per quanto piangerebbe Naia.
– Non comprendo nulla.
– Meglio per te, – disse il principe, quasi brutalmente.- Ami Naia?
– E potreste dubitarlo?
Domani faremo gli sponsali, poi tornerai subito nel tuo stato. Là almeno sarai ben più sicuro che qui. Vieni, Naia ti aspetta. S’avviò verso la porta, giunto però sulla soglia s’arrestò improvvisamente, poi tornando indietro e fissando il giovane gli disse con strano accento:
– M’hai detto di non aver paura di Nurandur.
– E quando lo vorrete ve lo proverò.
– Un giorno un principe del Nizam, bello e prode come te, mi aveva chiesto la mano di Naia ed io gliela avevo concessa. Allora nessuno aveva mai udito a parlare di Nurandur. Gli sponsali erano stati fissati, i regali scambiati ed i bramini si erano preparati ad unire i due giovani. La felicità pareva che dovesse sorridere ai miei figli, quando la notte precedente fui svegliato da una voce terribile che gridava sotto le finestre del mio palazzo: “Domani gli occhi di Naia piangeranno. E’ Nurandur che lo dice”. E l’indomani Naia piangeva lungamente sul cadavere del fidanzato. Una mano sconosciuta l’aveva strangolato nel suo letto.
– Chi era stato?
– Non lo si seppe mai, ma certo Nurandur. L’anno seguente, un altro principe, uno del Coromandel, chiedeva la mano di Naia e tre settimane dopo mia figlia piangeva ancora.
Anche il secondo, la notte precedente degli sponsali, era stato strangolato. Tu sei il terzo e la morte forse sfiora anche te. Persisti a sposare Naia?
– Più che mai – rispose il giovane, senza esitare.
– Sei un valoroso ed un giorno sarai l’erede di Guntur, – disse il vecchio. – Vieni ora, Naia ti aspetta.
Lo prese per una mano e dopo d’averlo condotto attraverso a numerose gallerie guardate da soldati armati fino ai denti, lo introdusse in una meravigliosa sala di marmo bianco, colle pareti coperte di arazzi scintillanti d’oro e d’argento e illuminata da un enorme globo di vetro rosa.
– Ecco Naia. – gli disse.
Naia, la figlia del rajah di Guntur passava, e con ragione, per la più bella fanciulla dell’India occidentale.
Alta, slanciata, pieghevole come un giunco, aveva la pelle quasi bianca anzi pallida, occhi di una bellezza meravigliosa, neri come carbonchi, dall’espressione dolce e malinconica, dentini che somigliavano a chicchi di riso e una capigliatura opulenta d’un nero intenso.
Come tutte le principesse indiane, sfoggiava un lusso affatto sconosciuto nei Paesi occidentali. Il suo sari di seta bianca a fiori, che le scendeva di sotto le ginocchia, era tempestato di diamanti scelti certamente tra i più belli del Golconda e del Guzerate, la sua fascia che le stringeva la sottile vita, era adorna di perle, le due scarpettine di pelle rossa, a punta rialzata, non più lunghe d’una mano, erano scintillanti di rubini.
Vedendo apparire Halnali, la giovane indiana si era fatta pallidissima, poi un lieve rossore aveva imporporato le sue gote, mentre i suoi occhi si erano illuminati d’un lampo fugace.
Il maratto, abbagliato da tanta bellezza, era caduto in ginocchio dinanzi alla giovane, esclamando:
– Oh mia Naia! Io non ho occhi bastanti per contemplarti !
– Mio valoroso Halnali, – disse la principessa con voce armoniosa – quanto ho tremato per te in queste lunghe ore d’angosciosa attesa. Permetti, o Brama, che il nostro sogno si compia e che la felicità arrida almeno questa volta alla povera Naia.
– Nessuno la minaccia, mio dolce raggio di luna.
– Chi sa, – disse la giovane con un triste sorriso. – Il genio del male aleggia sempre intorno a me per veder piangere i miei occhi.
– Halnali lo ricaccerà nell’inferno – disse il vecchio rajah. – Ho preso tutte le precauzioni perché non possa entrare nel mio palazzo. Che cosa temi tu dunque?
– Nurandur – mormorò la giovane con accento così lieve che parve un soffio.
– Io ti porterò la sua testa come regalo di nozze – gridò Halnali, che dinanzi a quella bellissima fanciulla si sentiva capace di compiere qualunque miracolo.
Un fremito di spavento aveva scosso il bel corpo della principessa.
– Non toccarlo! – esclamò. – Egli è fatale a tutti! Per due volte ha fatto piangere i miei occhi.
– Saranno i suoi occhi che questa volta piangeranno, te lo prometto, Naia. Prima di domani sera egli sarà morto e più nessuno avrà paura di lui. Se è un mortale come noi, lo decapiterò col mio tarvar, se è uno spirito infernale lo ricaccerò nell’abisso da cui è uscito.
– È tardi, – disse il vecchio rajah – e tu, Halnali, devi essere stanco e per intraprendere la lotta devi essere ben riposato. Se tu libererai il mio regno da quell’uomo, oltre mia figlia ti darò tutte le mie ricchezze ed anche il mio regno.
– Avrò l’uno e l’altro, – rispose il giovane.
– Ho paura, – disse Naia.
– Domani non ne avrai più, mio dolce raggio di luna. Noi festeggeremo le nostre nozze colla morte di Nurandur e colla distruzione della torre del silenzio.
Baciò appassionatamente le piccole mani della fidanzata e seguì il rajah il quale lo condusse nella stanza che gli aveva destinata.
Sulla soglia vegliavano quattro guardie scelte tra le più coraggiose di Guntur, armate di scimitarre e di lunghe pistole.
– Non hai paura? – gli chiese il rajah, prima di lasciarlo.
– No, – rispose il giovane senza esitare.
– Se odi qualche rumore, chiama le sentinelle.
Il vecchio gli augurò la buona notte e uscì.
– Ecco un mistero inesplicabile, disse il giovane, quando si trovò solo. – Che io non riesca a sapere chi sia questo Nurandur e conoscere il motivo perché ha uccisi tutti i fidanzata di Naia? Vi è qui sotto un segreto, che forse solo il rajah conosce e che non vuole svelarmi. Signor Nurandur, se avete il coraggio di venirmi a trovare, vi aspetto.
Quantunque coraggioso, non osò coricarsi sul letto per paura di addormentarsi e di venire assassinato come lo erano già stati i due primi fidanzati di Naia, il principe di Guzerate e quello di Coromandel.
Un silenzio profondo regnava nel palazzo.
Halnali si sforzava di tenere aperti gli occhi, tuttavia a poco a poco si sentiva invadere da una irresistibile sonnolenza. Per combatterla, di tratto in tratto si alzava mettendosi a passeggiare per la stanza, tenendo in mano la scimitarra.
Fosse un vago senso di terrore che suo malgrado s’impadroniva del suo animo o fosse realtà, gli pareva sovente di udire dei rumori strani negli angoli più oscuri della stanza e la voce terribile e minacciosa di Nurandur che gridava in lontananza:
– Non far piangere troppo presto gli occhi di Naia.
Era però certo di ingannarsi perché nella stanza non v’era nessuno e quando riusciva a vincere il sonno, non udiva più quella voce.
Tuttavia verso l’alba provò un colpo al cuore. Verso un angolo della stanza aveva udito distintamente due colpi sordi picchiati contro il muro, poi dei brontolii rauchi.
Quel rumore era però subito cessato non appena Halnali s’era diretto verso quella parte, e non sera fatto più udire.
Appena spuntato il sole, il vecchio rajah, accompagnato dai suoi ufficiali, s’era affacciato alla porta.
Vedendolo entrare pallido, coi lineamenti stravolti, Halnali s’era messo a ridere.
– Credevate di trovarmi morto, è vero? – gli chiese.
– Sì, mio valoroso – aveva risposto il vecchio.
– Non l’hai veduto Nurandur ?
– L’ho atteso invano.
Invece di rasserenarsi, la fronte del rajah era diventata cupa.
– Andrai a cercarlo? – gli chiese con ansietà.
Giacché lui non è venuto da me, andrò a trovarlo io alla torre del silenzio, rispose il giovane.
– Dimmi, quanti uomini vuoi?
– Dodici cavalieri scelti tra i più prodi e credo che saranno di troppo.
Un’ora dopo Halnali, armato fino ai denti, usciva da Guntur seguito da dodici guerrieri scelti fra i più prodi dell’esercito del rajah.
Essendosi sparsa la voce che il valoroso maratto andava a combattere quel terribile Nurandur che da tanto tempo spargeva il terrore in tutto il principato, una folla immensa lo aveva salutato dall’alto dei bastioni, per augurargli la vittoria.
Il rajah lo accompagnò fino ad un miglio dalla città, non cessando di raccomandargli di essere prudente e di non esporsi da solo ai colpi dell’abitante della torre silenzio. Prima di lasciarlo lo abbracciò, dicendogli con una profonda commozione:
– Tu sei degno di succedermi. Io ti proclamo il più coraggioso guerriero dell’India.
Halnali, più risoluto che mai ad affrontare Nurandur, si era inoltrato nella folta jungla, seguito dai dodici cavalieri.
Il sole si era già alzato indorando le alte cime del bambù spinosi, le immense foglie dei banani, i ciuffi dei cocchi ed i rami smisurati dei targ e dei pipal .
Da quel caos di verzura, quasi impenetrabile, gli uccelli s’alzavano a stormi, salutando con gioconde grida l’astro diurno fiammeggiante sulle cime dirupate del Gulbarga e volteggiando, senza mostrare alcun timore attorno all’ardito drappello.
La torre del silenzio, tutta bianca, spiccava nettamente in mezzo a tutto quel verde, giganteggiando sopra quel mare di canne ondeggianti al sole della brezza mattutina.
Sopra la sua piattaforma si vedevano i marabù ed i falchi a svolazzare.
I cavalieri avevano rallentata la marcia. Si avanzavano con prudenza, in silenzio, cogli occhi in guardia e le dita sul grilletto delle carabine.
Guardavano le canne giganti e la torre mostruosa, con inquietudine crescente.
Sembrava però che la jungla ed il sepolcro dei Parsi fossero deserte, giacché non si udiva rumore alcuno, nè si vedeva apparir alcun essere umano.
Erano già giunti quasi in mezzo alla jungla, quando i cavalli cominciarono improvvisamente a dar segni d’inquietudine. Sbuffavano, s’impennavano, nitrivano e cercavano d’indietreggiare e di darsi alla fuga verso Guntur.
– Preparate le armi – disse Halnali. – qualche cosa sta per accadere.
– Udite, signore, – disse il capo della scorta, un vecchio ufficiale che per valore non era certo inferiore al maratto.
Dei fischi dolci modulati, appena percettibili, si udivano fra le gigantesche canne, a cui rispondevano altri fischi che partivano da varie parti e questi aspri, taglienti.
Halnali guardò il vecchio ufficiale, interrogandolo collo sguardo.
– Non comprendete? – chiese questi.
– Dei serpenti
– Sì, signore e molti senza dubbio e che qualcuno aizza.
– E chi li caccia verso di noi ?
– Sarà Nurandur.
– Che comandi anche ai rettili?
Spronò risolutamente il cavallo facendogli fare un balzo immenso, ma allora si vide una cosa assolutamente spaventevole, e che fece gelare il sangue al giovane valoroso.
Due fila di smisurati serpenti dalle scaglie verdi azzurre, ad anelli irregolari, si erano avanzate da ambo le parti del sentiero, frapponendosi fra Halnali e la sua scorta.
Erano pitoni, rettili formidabili per la foro forza straordinaria e per la loro ferocia, temuti perfino dalle tigri.
I cavalli della scorta, vedendoli avanzare, si erano dati ad una fuga precipitosa attraverso la jungla nonostante gli sforzi dei loro padroni, ormai impotenti a trattenerli. Halnali era rimasto solo.
Anche il suo cavallo, colpito da pazzo terrore, si era messo a spiccare salti disordinati cercando di sbarazzarsi del cavaliere.
D’un tratto qualche cosa cadde addosso al maratto e lo avvolse. Un laccio di pelle intrecciata era stato lanciato fra le canne e gli si era stretto attorno al corpo, imprigionandogli le braccia.
Non ebbe nemmeno il tempo di gettare un grido che si sentì strappare dalla sella, poi trascinare in una corsa vertiginosa in mezzo alle canne, finché smarrì i sensi.
Quando tornò in sé, si trovò sulla cima della torre del silenzio, adagiato su una delle grate di ferro che un tempo avevano servito a ricevere i cadaveri dei Parsi.
Aveva le mani e le braccia legate così strettamente da non poter fare più alcun movimento e si sentiva tutto pesto. I suoi abiti erano in brandelli, lacerati dagli sterpi e dalle canne durante quella corsa furiosa attraverso la jungla e che doveva aver durato qualche tempo.
Di fronte a lui, accoccolato come una fiera in agguato, stava un uomo di forme atletiche, colla pelle assai abbronzata, con una lunga barba nera ed incolta e avvolto in un lungo mantello bianco.
Gli occhi di quello sconosciuto, che avevano dei bagliori strani, lo fissavano con tale ostinazione, che Halnali se li sentiva penetrare fino in fondo al cuore.
Quantunque avesse l’aspetto feroce, era tuttavia un bell’uomo dai lineamenti regolari, cosa che nell’India si nota solamente nelle persone d’alta distinzione e di casta elevata .
Halnali, nel vederlo, si era sentito gelare il sangue nelle vene, giacché in quell’uomo aveva riconosciuto Nurandur.
– Sei tu Nurandur – gli chiese, vedendo che quell’uomo si ostinava a fissarlo senza parlare.
– Si, io sono Nurandur, – rispose allora il bandito.
– Sei tu che mi hai rapito?
– Sono stato io.
– Che cosa vuoi ora da me?
– Far piangere i begli occhi di Naia.
Halnali si sentì correre per tutto il corpo un brivido di spavento e bagnare la fronte di un freddo sudore.
– E’ la mia vita che vuoi? – gli chiese cercando di nascondere il suo timore.
– Sì, – rispose Nurandur, con un riso feroce.
– Perché vuoi togliermela? Io nessun male ho fatto a te.
– Tu venivi per uccidermi, lo so o almeno l’avevo indovinato. D’altronde ti avrei egualmente soppresso.
– Perché?
– Perché ho giurato che Naia non si sposerà giammai per lasciar perire la razza dei rajah di Guntur.
– Che cosa ti ha fatto Naia?
– La odio come odio suo padre.
– E vuoi vederla piangere?
– E piangerà – disse freddamente Nurandur – e suo padre morrà di crepacuore.
– Spiegami almeno il motivo di tanto odio.
– Che importa a te il saperlo?
Si era bruscamente alzato guardando la immensa jungla che circondava la torre del silenzio.
– La tua scorta è fuggita, – disse. – Tornerà forse, ma sarà troppo tardi. I marabù hanno fame e reclamano la loro preda.
– Miserabile, che cosa vuoi fare di me? – gridò il povero giovane.
– Giacché la notte non ho potuto strangolarti, ti ho serbato ad una morte più crudele. Oh, l’agonia non sarà lunga. È solido il becco dei miei marabù e anche quello dei bozzagri .
Si allontanò d’alcuni passi, tenendosi in equilibrio sui margini delle grate di ferro e s’arrestò sull’orlo del profondo pozzo che s’apriva nel centro della torre e nel cui fondo in un caos pauroso, si vedevano teschi umani, tibie, costole, ossami d’ogni forma e dimensione.
– È qui che tu finirai – disse volgendosi verso Halnali e indicandogli il pozzo. – Le ossa del maratto si confonderanno con quelli dei Parsi che ti hanno preceduto nella tomba .
Uno scoppio di risa uscì dalle labbra del miserabile.
– Ecco che gli occhi di Naia piangono. È la terza volta che il suo cuore sanguina.
Si sedette sull’orlo della torre, dalla parte opposta ove si trovava il disgraziato giovane, colle mani appuntate sul mento, dardeggiando sulla vittima uno sguardo fiammeggiante. I marabù, i corvi ed i bozzagri, quasi avessero compreso che abbandonava a loro quella preda vivente, s’erano innalzati volando furiosamente sopra il maratto, ansiosi di lacerarlo.
Halnali aveva gettato un lungo grido d’angoscia e aveva chiuso gli occhi, mentre il terribile Nurandur, impassibile come la statua della vendetta, continuava a fissarlo ed i voraci uccelli s’abbassavano sempre più, schiamazzando.
Alla notizia recata in città dalla scorta i cui cavalli, pazzi di terrore non si erano arrestati che al di là delle mura, uno scoppio di furore aveva invaso tutta la popolazione.
Si giudicava che era troppa l’audacia di quell’uomo che da tre anni terrorizzava una popolazione di quarantamila anime e che era giunto il momento di gettare da parte le paure e le superstizioni e di farla finita una buona volta.
La cattura del valoroso giovane, che tutti avevano salutato alla sua partenza stupiti di tanto coraggio, era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Un urlo solo era scoppiato da un angolo all’altro della città: – Andiamo a salvarlo! Alle armi! Alle armi!
Guardie, popolani, contadini, s’erano precipitati come un torrente verso il palazzo del rajah per pregarlo di mettersi alla testa della sua popolazione e di guidarlo alla torre del silenzio.
Il vecchio, già avvertito della disgraziata sorte toccata al futuro principe di Guntur, non era rimasto sordo al grido dei suoi sudditi.
Salito su un bianco cavallo, armato fino ai denti, era uscito dal suo palazzo risoluto a vendicare la morte del giovane maratto e a liberare il paese da quel terribile uomo.
Erano sette od ottomila uomini, armati di fucili, di scimitarre, di lancie, di pistoloni, un vero esercito che l’ira da tanto tempo trattenuta, rendeva pericolosissimo.
Tutta quella massa di uomini, preceduta dal rajah, e dalle sue guardie, s’era rovesciata come un torrente che straripa attraverso la giungla, abbattendo con furore le canne, le quali cadevano falciate come se fossero percosse dall’uragano.
Erano giunti presso la torre quando s’udirono gli uomini d’avanguardia a gridare:
– Vi è un uomo lassù!
Ed era vero. Seduta sull’orlo della torre si vedeva una forma umana perfettamente immobile, rannicchiata su se stessa.
Il rajah ed i suoi cavalieri, in preda a mille angoscie s’erano lanciati ventre a terra spronando furiosamente i cavalli.
Quella forma umana rimaneva sempre immobile. Né le grida furiose di quella massa di gente, né i nitriti dei cavalli, né il fragore d’armi l’avevano scossa.
I cavalieri erano giunti sotto la torre e l’avevano circondata e quell’uomo non s’era ancora mosso.
II rajah aveva alzati gli occhi e aveva riconosciuto subito quell’uomo:
– Nurandur! – aveva esclamato. – Miserabile assassino, rendimi Halnali.
A quel grido il bandito si era alzato, guardando la jungla brulicante di gente che tendeva minacciosamente le armi verso di lui.
Un sorriso sinistro contorse le sue labbra.
– Hanno pianto i begli occhi di Naia? – gridò. – Rajah di Guntur, io sono vendicato ed ora puoi uccidermi.
Poi prima che i fucili si spianassero contro di lui, si era slanciato nel vuoto, sfracellandosi alla base della Torre del silenzio.
Quando il rajah cd i suoi ufficiali irruppero sulla piattaforma della torre, un orribile spettacolo s’offerse ai loro occhi.
Due o trecento volatili, marabù, bozzagri, corvi e falconi neri, si accalcavano sopra uno scompartimento della grata di ferro, azzuffandosi, mentre sotto di loro si vedeva agitarsi disperatamente un essere umano che cacciava urla orribili.
Tutti s’erano scagliati contro questi uccelli percuotendoli coi calci dei fucili e colle scimitarre. Halnali era comparso, coperto di sangue dalla testa ai piedi, colla pelle a brandelli, le vesti stracciate, il corpo crivellato in cinquanta luoghi dai becchi aguzzi dei marabù e dai rostri dei falconi.
Il rajah, atterrito, angosciato, gli si era gettato sopra, singhiozzando disperatamente e chiamandolo:
– Halnali! Mio valoroso! Mio figlio!
Il povero giovane pareva morto, aveva gli occhi aperti, dilatati dal terrore, vitrei e le labbra coperte da una schiuma sanguigna.
Gli ufficiali si erano affrettati a tagliargli le corde che gli stringevano le braccia e le gambe e l’avevano tratto, con infinite precauzioni, dalla grata di ferro che formava una specie di cassa.
Ad un tratto un grido sfuggi a tutti:
– È vivo! È vivo! Un sordo gemito gli era sfuggito dalle labbra.
Quindici giorni dopo Halnali e il rajah, si trovavano uniti sulla alta terrazza del palazzo.
Il vigore e la gioventù avevano trionfato sulle ferite riportate dal povero giovane.
Era quello il primo giorno che aveva lasciato il letto e primo pensiero del rajah era stato quello di condurlo lassù, da dove lo sguardo poteva spaziare liberamente sulle immense jungle che si stendevano a perdita d’occhio, intorno a Guntur.
– Guarda – gli aveva detto, stendendo il braccio verso il luogo ove avrebbe dovuto sorgere la torre del silenzio. – Essa non sussiste più. Noi l’abbiamo abbattuta onde non rimanga nemmeno un ricordo del miserabile che ti aveva condannato a quell’atroce supplizio.
– Grazie, padre, – rispose Halnali.
– Ami sempre Naia?
– Più che mai.
– Domani sarà tua ed il mio popolo festeggerà la vostra unione.
Poi facendolo sedere presso di sé, su un divano di sera, gli chiese a bruciapelo.
– Hai mai indovinato il motivo che spingeva Nurandur a sopprimere i fidanzati di Naia?
– No, padre, ignoro ancora chi fosse quel terribile Nurandur.
– Un giorno era stato un guerriero valoroso, uno dei più stimati del Guzerate, e se una passione senza speranza non gli avesse troncata la carriera, chissà dove sarebbe arrivato.
Era giunto alla mia corte come ambasciatore del rajah suo signore ed era rimasto abbagliato dalla bellezza di Naia. Senza calcolare l’abisso che lo separava da me, principe, aveva osato chiedermi la sua mano. Respinto, giurò di vendicarsi e di far piangere a lungo gli occhi di Naia. Un giorno scomparve, senza lasciare traccia alcuna di sé.
Io credevo che fosse tornato presso il suo signore, invece aveva cercato asilo nella torre del silenzio per sorvegliare da vicino. Il guerriero era diventato un bandito.
Come egli si sia vendicato, tu l’hai veduto, anzi provato. Naia ha pianto a lungo la morte del suo primo fidanzato, ha pianto quella del secondo e piangerebbe anche la tua ora, senza lo scoppio del furore che aveva invaso il mio popolo. Ecco chi era Nurandur ed ecco il motivo per cui odiava tanto me e la povera Naia.
– Una semplice vendetta.
– Che per poco non ti costava la vita senza averne colpa veruna – disse il rajah. – Ora tutto è finito, Nurandur è morto, la torre stessa non sussiste più, più nessun pericolo minaccia la tua felicità e quella di Naia.
Due giorni dopo i bramini di Guntur benedicevano le nozze della bella Naia e del valoroso Halnali.