wolfiebm.jpgPoiché la Presidenza degli Stati Uniti, nella persona di George W. Bush, ha indicato il candidato alla Presidenza della Banca Mondiale, nella persona di Paul Wolfowitz, occorre assolutamente comprendere perché questa mossa si inscriva a pieno titolo in una strategia di controllo da parte delle élite americane. Per capire ciò, occorre assolutamente leggere questo piccolo splendido saggio su compiti e devianze della Banca Mondiale, che riprendiamo dal sito della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, sulle cui pagine invitiamo a visionare anche l’appello contro la nomina dell’angioletto neocon a presidente di suddetta istituzione internazionale.

La Banca Mondiale è una delle creature della Conferenza Economica e Monetaria tenutasi dal 1 al 22 luglio 1944 a Bretton Woods, in New Hampshire (USA), che vide inoltre la nascita del Fondo Monetario Internazionale (IMF). Secondo lo statuto, gli scopi della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (International Bank for Reconstruction and Development – IBRD – il nucleo iniziale di quello che ora è il gruppo della Banca Mondiale) erano i seguenti: “assistere la ricostruzione e lo sviluppo dei territori dei paesi membri, facilitando investimenti di capitali per finalità produttive e promuovere la crescita equilibrata del commercio internazionale. Incoraggiando gli investimenti internazionali, per contribuire all’aumento della produttività, al miglioramento delle condizioni di vita e lavorative”.

La Banca avrebbe operato prestando direttamente dal proprio capitale e fornendo garanzie per gli investimenti privati. Inizialmente la Banca era stata istituita per assistere i paesi distrutti dalla guerra nell’opera di ricostruzione. Il primo prestito fu concesso alla Francia per un valore di 250 milioni di dollari, seguito da altri prestiti ad Olanda, Lussemburgo e Danimarca. Il primo prestito ad un paese in via di sviluppo fu approvato nel 1948, e precisamente per la costruzione di un impianto idroelettrico in Cile del valore di 1,5 milioni di dollari. Il capitale originale della Banca venne fissato a 10 miliardi di dollari, circa 70-80 miliardi di oggi. Il 20% del capitale sarebbe stato effettivamente sborsato dagli stati membri, ed il resto messo a disposizione a titolo di garanzia (il cosiddetto “callable capital”). Ciò permette alla Banca di muoversi liberamente sui mercati internazionali e cercare risorse per finanziare i propri prestiti tramite la vendita di titoli obbligazionari IBRD valutati da Moody’s con “tripla A” (AAA – il massimo dell’affidabilità finanziaria). In questo modo la Banca è stata in grado di concedere nei sessant’anni della sua esistenza prestiti per almeno 270 miliardi di dollari, reperiti principalmente sui mercati azionari internazionali. Solo con la creazione dell’IDA (International Development Association) nel 1960, però, la Banca diventa una vera e propria istituzione di sviluppo. I prestiti dell’IBRD, infatti, vengono ripagati con un periodo di cinque anni di “grazia”, dopo il quale i governi hanno dai 15 ai 25 anni per ripagare il prestito a tassi quasi di mercato. I prestiti IDA, destinati invece ai paesi poveri, sono ad interesse quasi nullo. Mentre per l’IBRD la dotazione di capitale è assicurata dai pagamenti degli interessi suoi prestiti, e dall’emissione di azioni, per l’IDA almeno un terzo della dotazione è garantita con ricostituzioni di capitale tramite le quote associative dei governi dei paesi donatori da versare su base triennale.
Con il passare del tempo ha assunto sempre più importanza il ruolo della Banca di prestito e garanzia assicurativa diretti per le operazioni del settore privato, nonché l’attenzione per la facilitazione degli investimenti diretti esteri, specialmente nei paesi poveri e l’arbitraggio di eventuali controversie. Oggi il gruppo della Banca Mondiale è oggi formato da IBRD, IDA, IFC (International Financial Corporation), MIGA (Multilateral Investment Guarantee Agency) e ICSID (International Centre for the Settlement of Investments Disputes).

Che cosa fa la Banca Mondiale?
IDA e IBRD concedono: a. Prestiti per progetti. Ovvero progetti per la costruzione di dighe, strade, infrastrutture, sfruttamento delle risorse naturali, tra cui petrolio miniere e gas, gestione delle acque, sanità, energia, etc. b. Prestiti per settori e macroeconomici. Rivolti, cioè, a rafforzare determinati settori produttivi e dell’economia, e vincolati per lo più a programmi di liberalizzazione e privatizzazione. c. Prestiti istituzionali. Elargiti allo scopo di ristrutturare le istituzioni locali al fine di ridurre le barriere al libero accesso di investimenti privati. Ad esempio in alcuni paesi la Banca ha istituito agenzie private nel settore energetico, che potessero facilitare i contatti con investitori privati stranieri (ad esempio l’Energy Generation Agency of Thailand – EGAT in Thailandia). d. prestiti per programmi di aggiustamento strutturale Questi si distinguono in SALs (Structural Adjustment Loans) e SECALs (Sectoral Adjustment Loans). La stabilizzazione delle economie, fattore-chiave per creare un “clima favorevole agli investimenti”, viene garantita tramite l’imposizione di pacchetti di riforma economica che prevedono: * riduzione della spesa pubblica, inclusi tagli ai servizi sociali, (istruzione, sanità) considerati non produttivi in termini economici; * cancellazione dei sussidi per le classi più povere; * restrizioni all’accesso al credito; * privatizzazione delle imprese statali; * liberalizzazione degli scambi commerciali; * riorientamento dell’economia verso i mercati di esportazione; * rimozione delle barriere agli investimenti privati; * deregulation del mercato del lavoro.

Che cosa fanno IFC e MIGA?
IFC (creata nel 1956) e MIGA (creata nel 1985) operano in supporto diretto al settore privato, l’IFC prestando al settore privato, partecipando direttamente a compagnie miste, o sostenendo programmi di privatizzazione, la MIGA concedendo alle imprese assicurazioni per la copertura del rischio politico: IFC e MIGA sostengono principalmente progetti infrastrutturali per lo sfruttamento di risorse naturali in paesi considerati a rischio o dove è necessario attrarre il settore privato perché i rendimenti degli investimenti sono bassi, quali centrali elettriche, oleodotti, porti, strade, progetti di estrazione mineraria, cementifici, ma anche grandi alberghi ed impianti di imbottigliamento, come quelli della Coca-Cola. Tristemente famosi per il loro impatto ambientale la diga di Bio-Bio in Cile (IFC) e la miniera d’oro di Lihir in Papua Nuova Guinea (MIGA).

Come e’ organizzata e chi decide?
Al vertice della Banca siede il Consiglio dei Governatori (Board of Governors) dei 184 paesi membri che si riunisce una volta l’anno, in settembre-ottobre, in occasione dell’Incontro Annuale della Banca. Il Governatore é di norma il Ministro del Tesoro o delle Finanze del paese. Subordinato al Consiglio dei Governatori c’é il Consiglio dei 24 Direttori Esecutivi (Board of Executive Directors) che ha la facoltà di approvare i prestiti IBRD/IDA ed i crediti IFC per riforme strutturali o progetti e le garanzie della MIGA. I cinque grandi stati donatori (USA, Giappone, Francia, Germania e Gran Bretagna) e la Cina, l’Arabia Saudita e la Federazione Russa sono rappresentati da un loro Direttore Esecutivo permanente, mentre gli altri 16 seggi rappresentano un gruppo di paesi (cosiddetta “constituency”), spesso sotto la guida di un paese industrializzato. Ad esempio, il Direttore Esecutivo italiano rappresenta anche Grecia, Malta, Portogallo, Albania e Timor Est. In questo modo i 42 paesi membri dell’Africa Sub-Sahariana nel Board hanno solo due Direttori Esecutivi. Il sistema delle votazioni si basa sul principio di “Un Dollaro (di capitale) = Un Voto”. Ma le decisioni vengono prese quasi sempre per consenso, un metodo che in questo contesto di sbilanciato rapporto istituzionale di forze va sempre a vantaggio dei paesi ricchi o più grandi. Il Presidente della Banca Mondiale è anche presidente del Consiglio dei Direttori che lo elegge. Tutti i presidenti della Banca Mondiale sono stati americani, fino all’attuale, James Wolfensohn. Lo staff ed i funzionari della Banca competenti per singoli paesi sono suddivisi in dipartimenti regionali, ognuno dei quali è controllato da uno dei vicepresidenti della Banca. Inoltre esistono 12 sezioni operative che si occupano di questioni quali personale, finanze, sviluppo sostenibile, sviluppo delle risorse umane, politiche operative e sviluppo del settore privato.

L’opposizione alla Banca mondiale
Dalla fine degli anni ’80 la Banca mondiale è finita nell’occhio del ciclone principalmente grazie alle critiche ed alle lotte nazionali e globali della società civile. A dare la spinta iniziale a tali rivendicazioni sono state alla metà degli anni ’80 le azioni non-violente degli attivisti della valle del Narmada in India, segnata dalle disastrose dighe finanziate dalla Banca mondiale. Come reazione, negli ultimi quindici anni la Banca ha cercato continuamente di cambiare, espandendo il proprio campo di azione, pur di non accettare apertamente il fallimento economico e di sviluppo dei suoi interventi passati. Gli aggiustamenti strutturali del sistema di Bretton Woods, pensati per risolvere l’incapacità del Sud del mondo a ripagare il debito finanziario spesso illegittimo verso il ricco Nord, hanno portato solo più miseria e sempre maggiori critiche. Privatizzazioni di enti pubblici, liberalizzazioni del mercato dei capitali, tagli indiscriminati alle spese sociali perché considerate improduttive e produzioni concentrate su pochi beni destinati all’esportazione, per ottenere così moneta pregiata per ripagare il debito, non hanno permesso, specialmente ai paesi più poveri, di avere uno stato sociale ed un sistema di raccolta del risparmio nazionale a sostegno dell’economia nazionale.
Di fronte all’evidenza dei disastri finanziati, all’inizio degli anni ’90 la Banca ha diminuito il suo sostegno a grandi progetti (anche se ora in merito sembra esserci un’inversione di tendenza), accettando la necessità di dotarsi di un minimo di politiche di salvaguardia (safeguards policies) e linee guida ambientali e sociali, ma non sui diritti umani civili e politici, il rispetto dei quali da parte della Banca nei paesi dove opera rimane escluso dagli articoli dello statuto dell’istituzione. In particolare nel 1994 fu creato l’Inspection Panel, tribunale semi-autonomo interno alla Banca al quale le popolazioni locali direttamente interessate da progetti finanziati dalla Banca mondiale possono fare ricorso per presunte violazioni delle linee guida socio-ambientali di cui l’istituzione si è dotata. Conseguentemente alla fine degli anni ’90 queste linee guida ed una politica di accesso alle informazioni sono state estese a tutte le agenzie del Gruppo della Banca mondiale, con la creazione di un Compliance Advisory Ombudsman come tribunale analogo all’Inspection Panel, ma per le operazioni a sostegno diretto del settore privato tramite IFC e MIGA.
Allo stesso tempo questo cambiamento non ha però toccato il cuore economico della Banca, che si è nascosto quasi intoccato dietro la nuova immagine di una “banca della conoscenza”, che può aiutare gli altri finanziatori ed i paesi del Sud a pensare come finanziare lo sviluppo e qualsiasi questione a questo connessa, di fatto interferendo ancora di più nella sovranità nazionale di ciascun paese a decidere il proprio sviluppo. Un approccio che ha generato un vero e proprio mission creep o allargamento delle competenze a numerose tematiche, spesso secondarie, a spese dell’efficacia nell’azione per il compimento del mandato dell’istituzione di lotta contro la povertà secondo uno sviluppo sostenibile.

Governance
Banca mondiale e Fondo monetario, nonostante predichino buon governo un po’ a tutti, oggi sono in realtà le istituzioni internazionali meno democratiche. Il sistema di governo interno di Banca mondiale e Fondo monetario, infatti, rimane sostanzialmente quello di un dollaro un voto, permettendo agli Stati Uniti, la cui quota oscilla intorno al 15 percento del capitale della Banca e del Fondo, di esercitare un vero e proprio diritto di veto, secondo quando previsto dalle maggioranze qualificate molto elevate previste dagli Articles of Agreement delle due istituzioni per quel che attiene questioni cruciali. Gli stati europei, se considerati tutti insieme, controllano una quota di addirittura il 30 percento del capitale. Per di più, il sistema di attribuzione fa sì che 8-9 dei 24 seggi nei Consigli Direttivi della Banca e del Fondo siano occupati da direttori europei, mentre più di 40 paesi sub-sahariani sono rappresentati da appena due direttori. I presidenti di Banca e Fondo continuano ad essere per tradizione rispettivamente americano ed europeo.
Il raccordo con il sistema delle Nazioni Unite, nonostante Banca e Fondo siano due agenzie specializzate dell’Onu, rimane virtuale a causa dell’enorme squilibrio di budget tra i due sistemi. Però, è stata proprio la conferenza “Finanza per lo sviluppo” di Monterrey, nel 2002, co-sponsorizzata dall’ONU insieme con la Banca e il Fondo, a canalizzare la critica dei paesi in via di sviluppo a tale sistema di governance, che non riflette più neanche la distribuzione del potere economico globale odierno. Anche secondo un approccio limitato solamente al “potere economico”, i paesi europei dovrebbero cedere almeno 10 percento delle loro quote di capitale nella Banca e nel Fondo soprattutto ai paesi emergenti, con l’effetto quasi sicuro di una riduzione sostanziosa nel numero dei seggi europei nei Consigli Direttivi. La critica, soprattutto formulata dal gruppo dei paesi emergenti, G-24, è diventata talmente forte nei ultimi due anni che i direttori del Nord in Banca e Fondo si sono sentiti costretti ad avviare una riforma della governance interna. Finora, però, i paesi europei sono riusciti a limitare l’agenda di riforma a cambiamenti cosmetici, tipo lo sviluppo di maggiori capacità analitiche negli uffici dei direttori del Sud. Una riforma sostanziale della distribuzione delle quote di capitale per riportarla almeno al concetto originario del 1944 di riflettere i poteri economici reali dei vari paesi, trova ancora una forte resistenza da parte dei paesi europei, ed un obiezione di principio da parte degli Stati Uniti, che comunque sarebbero meno interessati nella loro quota in concreto.
Sempre in seguito della conferenza ONU di Monterrey, il Comitato Economico e Sociale dell’ONU (ECOSOC) oggi insiste con maggiore enfasi su un ruolo per il sistema ONU di monitoraggio e di coordinamento con la Banca, il Fondo ed anche il WTO per fare operare queste istituzioni maggiormente nell’ottica di contribuire al raggiungimento degli obbiettivi ONU nell’ambito economico e sociale, e specificamente degli Obbiettivi di Sviluppo del Millennio della Comunità Internazionale (Millennium Development Goals, MDGs). Due volte all’anno l’ECOSOC si incontra con Banca e Fondo — ed allo stesso tempo anche con le organizzazioni della società civile globale — per discutere la coerenza dell’operato delle istituzioni finanziarie internazionali, soprattutto per quel che riguarda il loro impatto sull’operato del WTO. La società civile porta avanti tale impegno, sfidando la Banca ed i governi forti responsabili di svuotare il potenziale democratico del WTO con la politica che perseguono.
La riscoperta da parte della società civile della possibilità di strutture di governance esterna alla Banca ed al Fondo tramite l’ONU si è sviluppata molto negli ultimi anni, fino a prevedere la possibilità di costringere Banca e Fondo ad impiegare un approccio allo sviluppo basato sui diritti umani stipulati in ambito ONU e ad riavvicinare le due istituzioni al sistema ONU in quanto tale, per esempio per quel che riguarda la gestione diretta dell’ONU dei fondi specializzati o fiduciari a fondo perduto, oggi largamente gestiti dalla Banca Mondiale.

PRSP
Nel settembre dell’anno 1999, la Banca — insieme con il Fondo Monetario Internazionale — ha cambiato radicalmente il suo approccio verso i paesi IDA, cioè i paesi che godono dell’accesso allo sportello dei crediti agevolati della Banca. Affermando come compito principale dell’IDA quello di contribuire agli obiettivi sociali dell’ONU stabiliti nel Vertice Sociale di Copenaghen del 1995, la Banca da allora chiede ai paesi riceventi dei prestiti IDA di redigere proprie strategie per la riduzione di povertà (Poverty Reduction Strategy Papers, PRSP) che devono essere poi utilizzate come base per ogni operazione di finanziamento da parte della Banca e della comunità dei donatori in generale. I PRSP dovrebbero porre fine alla prassi degli Accordi Trilaterali tra Banca, Fondo e Governo Ricevente (Policy Framework Paper, PFP) e far partecipare attivamente la società civile nei paesi riceventi in un processo continuo di orientamento efficace dell’aiuto allo sviluppo per la lotta contro la povertà.
Il passaggio dai PFP ai PRSP esprime un cambiamento concettuale profondo. Anziché partire dal problema dello sviluppo a livello del sistema internazionale, mette al centro il problema della povertà a livello del sistema paese, cioè in tutti i suoi aspetti complessi che spesso sono legati a fattori specifici dentro un paese. Anziché favorire la visione dei governi nei paesi riceventi, spesso orientata verso prestiti internazionali in maniera acritica, chiede che le attività di finanziamento pubblico siano chiaramente connesse con risultati da raggiungere nella lotta contro la povertà nel paese stesso. Questo comporta la partecipazione attiva della popolazione tramite un processo di individuazione di scopi, che genera un maggiore ancoraggio dei programmi di aiuto alle priorità della società civile in ciascun paese (country ownership).
Si può notare subito l’enorme potenziale dell’approccio PRSP nel contribuire alla democratizzazione, allo sviluppo della società civile nei paesi poveri e ad una diversificazione del modello stesso dello sviluppo, aprendo la porta a strategie nazionali alternative ed innovative. Di fatto, le ONG sia nel sud che nel nord del mondo per lungo tempo hanno sostenuto il concetto di avere dei PRSP.
A cinque anni di distanza, però, i risultati sono nella stragrande maggioranza dei casi molto deludenti. Analisi in almeno 30 paesi IDA hanno rivelato che spesso il processo di formulazione dei PRSP nazionali viene gestito in modo elusivo e non-trasparente da parte dei governi. A monte, i PRSP non si distinguano molto dai vecchi PFP. Il potere della Banca e del Fondo di respingere le versioni di PRSP redatti dai governi riceventi e di richiedere revisioni anche sostanziose — causando ritardi nel ricevimento dei fondi – fa sì che i governi nazionali neanche osano di oltrepassare i limiti prefissati dalla Banca tramite le sue raccomandazioni generali, che ancora si basano sul paradigma washingtoniano di liberalizzazione, privatizzazione, deregulation e devolution. Di fatto, ad oggi, in nessun caso un paese ha mai proposto o è stata mai accettata una proposta di politica macro-economica diversa dalla “gabbia di ferro” del neoliberalismo come interpretato dalla Banca e del Fondo.
Mentre rimane vero che in alcuni paesi poveri i PRSP hanno contribuito alla democratizzazione della vita politica, è altrettanto giusto parlare di un colossale inganno riguardo la democrazia internazionale: con il concetto dei PRSP redatti e sottoscritti nella responsabilità dei suoi beneficiari, la Banca — incaricata dall’ONU di gestire lo sviluppo globale – si solleva sin dall’inizio della sua responsabilità per eventuali strategie sbagliate. Anzi, ciò le permette di richiedere ai paesi poveri un allineamento molto più profondo alle sue strategie rispetto a quanto succedeva con i suoi vecchi PFP. La decisione della Banca e del Fondo nel loro incontro annuale di ottobre 2004 di nascondere in modo linguistico il loro potere nell’approvazione dei PRSP — il loro staff non dovrà più “accertare” un PRSP (Joint Staff Assessement), ma produrrà soltanto una nota per l’approvazione dalla parte dei Consigli Direttivi (Joint Staff Advisory Note) — cambia poco nella sostanza ed ormai l’approccio PRSP entra a far parte della storia fallimentare della Banca nella democratizzazione dell’economia globale per promuovere un autentico sviluppo sociale.

Condizionalità
Se con l’approccio PRSP si accetta almeno in linea di principio astratto che spetta ai governi del Sud fissare le priorità del proprio sviluppo in consultazione con la società civile, alla stesso tempo ed in modo assai meno astratto la Banca svolge un ruolo di ingerenza politica tramite una nuova generazione di condizionalità per avvalersi dei crediti che ruotano sul concetto quanto mai soggettivo di “buon governo”. In sostanza la Banca elabora una valutazione di un singolo paese sulla base di parametri da considerarsi sempre più politici che determinano l’ammontare dei crediti che si possono concedere. Ad esempio i CPIA (Country Policy Institutional Assessments), che vengono elaborati all’interno della Banca e non sono resi pubblici affatto.
Questa nuova generazione di condizionalità si propone come un quadro accettabile di ingerenza da parte della Banca nella sovranità dei paesi riceventi, visto che molti fattori determinanti per il voto complessivo dei CPIA valorizzano l’efficienza nell’allocazione degli aiuti, nel seguire fedelmente gli obiettivi descritti nei PRSP nel combattere la povertà e nel democratizzare e rendere più trasparente la vita economica e politica interna ai paesi. Anziché violare la sovranità nazionale tramite prestiti di aggiustamento strutturale (del tipo Structural Adjustment Loans or Sectoral Adjustment Loans) legati direttamente a centinaia di condizionalità politiche e ampiamente contestati dalla società civile in molti paesi riceventi, la nuova generazione di condizionalità premia i risultati ottenuti in vent’anni di tale aggiustamento strutturale a livello paese e segue in modo dinamico l’andamento di un paese verso un sempre miglior “buon governo”.
Come per i PRSP, però, anche per l’approccio di “buon governo”, l’inganno risiede nel dettaglio. Solo in parte, tramite i CPIAs un paese riceve i voti sulla base di fattori riguardanti direttamente l’efficienza, la trasparenza del suo operato governativo e la democrazia economica e politica interna. Un’altra parte dei CPIAs riguarda, invece, il livello raggiunto nell’apertura del mercato nazionale all’economia globale, le garanzie ed i diritti garantiti agli investitori stranieri nel penetrare l’economia nazionale e rimpatriare i profitti senza controlli, lo stadio di ricevimento nella leggi nazionali delle decisioni prese nell’ambito multilaterale riguardo ad esempio il WTO, ed il pagamento dei debiti esteri tramite l’attuazione di una austerità fiscale che richiede al settore pubblico necessariamente di privatizzare i servizi essenziali. Tutti fattori con effetti alquanto dubbi sulla lotta contro la povertà e inerenti aspetti di vitale importanza per la vita quotidiana della popolazione, le cui decisioni dovrebbe spettare alla scelta democratica dei cittadini — come vera prova del “buon governo”.
Per di più, la nuova generazione di condizionalità del tipo “buon governo” viene di pari passo con una condizionalità nascosta del tipo “aiuto amministrativo” gestito direttamente dagli “esperti” della Banca, per esempio riguardante le norme derivanti dal WTO. Ormai parte degli aiuti finanziari della Banca non arriva più in contanti nei paesi poveri, ma va a pagare direttamente migliaia di esperti a cui la Banca richiede di spiegare ai governi dei paesi poveri i vantaggi del libero commercio e di rivedere le priorità nelle spese pubbliche secondo l’agenda fissata a Washington e Ginevra. Spesso tali aiuti sono condizionati ad un voto in favore della liberalizzazione del commercio e della privatizzazione dei servizi essenziali da parte dei governi riceventi nell’ambito dei negoziati del WTO, sulla base di un accordo “di convergenza” stipolato nel 1998 tra Banca, Fondo e WTO che subordina l’operato della Banca al sostegno dell’agenda di liberalizzazione commerciale del WTO. Ed anche qui, la Banca può sempre dire che non fa nient’altro che aiutare ad attuare scelte a cui il governo ricevente ha già acconsentito liberamente. Superfluo notare come tale “aiuto amministrativo” possa incidere sullo stesso processo PRSP e quindi sulla country ownership.

Debito
Una citazione d’obbligo per comprendere a pieno il ruolo della Banca nell’attuale processo di globalizzazione va senza dubbio fatta in riferimento alla questione più generale degli attuali flussi finanziari Nord-Sud. Secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 1996 in poi il flusso globale finanziario è andato dal Sud verso il Nord del mondo, totalizzando più di 200 miliardi di dollari nel 2002. Tutto ciò nonostante l’aiuto allo sviluppo, i crescenti investimenti privati nei paesi in via di sviluppo e le rimesse sempre più sostanziose degli immigrati spostatisi a lavorare nei paesi del Nord. A pesare in maniera schiacciante è il debito, che rimane la catena che blocca la crescita e lo sviluppo autonomo del paesi in via di sviluppo. Il problema strutturale del debito del Sud del mondo, per la cui soluzione erano stati applicati i fallimentari aggiustamenti strutturali a partire dagli anni ’80, risulta ancora irrisolta. La Banca mondiale, insieme al Fondo monetario internazionale, controlla circa 400 miliardi di dollari dei 2.500 miliardi che il Sud complessivamente deve al Nord, ma allo stesso tempo gode di uno status di creditore privilegiato, ossia tra i primi a cui bisogna ripagare vi sono la Banca ed il Fondo. L’iniziativa HIPC del 1996 per la cancellazione del debito dei 42 paesi più poveri ed indebitati al mondo si avvia alla sua conclusione con un risultato quanto mai discutibile: debito cancellato alla fine per 8 paesi finora e per altri 19 paesi in prospettiva per un totale di 31 miliardi di dollari sui 103 miliardi dollari previsti inizialmente. Banca e Fondo si sono sempre rifiutati di far ricorso alle proprie riserve per una tale cancellazione chiedendo così soldi addizionali ai ricchi governi del Nord, che snobbano comunque sempre più la propria contribuzione agli aiuti allo sviluppo, ed a livello bilaterale conteggiano le proprie cancellazioni del debito come aumento dell’aiuto allo sviluppo. Di fronte al fallimento della HIPC, per la prima volta agli incontri annuali 2004 si è discusso della possibilità di procedere ad una cancellazione totale senza precedenti del debito dei paesi HIPC controllato da Banca e Fondo. Purtroppo l’accordo è mancato, visto il disaccordo sul come reperire fondi addizionali per una tale operazione.

Grandi progetti infrastrutturali
Con l’avvento dell’amministrazione Bush negli Usa, la Banca sta vivendo una vera e propria involuzione. Come accennato in precedenza, per rispondere alle esigenze delle grandi industrie del Nord ed anche per pure esigenze bancarie di mantenimento di un elevato ritorno sugli investimenti per i paesi azionisti, la Banca mondiale sta riconsiderando il suo intervento nel settore delle grandi infrastrutture tramite grandi progetti. Con la discussione al Board del nuovo “Infrastructure Action Plan” c’è il rischio che si ritorni a finanziare dighe, come quelle nella valle del Narmada, o grandi oleodotti in Africa o nell’Asia centrale. Di qui il bisogno di far arretrare tutte le regolamentazioni ambientali e sociali che la Banca si era data, dal momento che sarebbero un impedimento a questi nuovi progetti. Al momento, solo per fare un esempio, dopo molti anni in cui non finanziava la costruzione di una grande diga, la Banca sta considerando il finanziamento, e la conseguente copertura politica, della diga di Nam Theun 2, in Laos e di quella di Balbina in Sierra Leone. Gli stessi esperti del settore energetico della Banca mondiale sono scettici su un progetto come quello di Nam Theun 2 che potrebbe portare ben pochi benefici alla popolazione locale e grandi introiti per le compagnie coinvolte. La diga di Pak Mun nella vicina Thailandia con i suoi impatti ambientali devastanti fissa un precedente molto significativo in merito all’opportunità della realizzazione di opere di questo tipo nella regione. Allo stesso tempo sono stati approvati o sono in corso di approvazione molti altri progetti infrastrutturali come la costruzione di impianti per la produzione energetica, troppo spesso da fonti non rinnovabili, o per la produzione di alluminio, e grandi oleodotti per lo sviluppo di nuove aree petrolifere non-OPEC.

La nuova Strategia per i Paesi a Reddito Medio
Le statistiche ci dicono che dal 1999 fino ad oggi i prestiti IBRD sono diminuiti. Come probabile motivazione la riluttanza della Banca a partire dalla metà degli anni ’80 a prestare denaro per la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali. La nuova “Middle Income strategy” (MIC) della Banca si propone di invertire questo trend aumentando i prestiti per progetti infrastrutturali nei paesi a medio reddito, quali India o Brasile. Intitolato “Enhancing World Bank Support to Middle Income Countries”, il testo, circolato al Consiglio dei Direttori della Banca all’inizio del 2004 e per il quale è stato disegnato un Piano di Azione, verrà messo in atto entro la fine del 2004. Tra i criteri proposti per decidere sull’allocazione dei nuovi prestiti sembra essere inclusa la proposta di considerare come punto di riferimento i sistemi di regolamenti e legislazioni ambientali e sociali dei vari paesi in cui la Banca presta, invece che le politiche di salvaguardia e gli standard interni della Banca. In questo contesto il ruolo dell’Inspection Panel, l’organismo indipendente di controllo della Banca, verrebbe ulteriormente indebolito. Ad oggi la nuova strategia non è stata resa pubblica e la società civile non è stata consultata in merito.

Un nuovo rapporto con il settore privato
La Banca mondiale, inoltre, oggi da un lato richiede insistentemente sempre più risorse ai paesi donatori per raggiungere gli obiettivi di sviluppo del millennio, specialmente in Africa, per poter investire lì dove il privato non ha interesse a muoversi, ma allo stesso tempo mira sempre più a facilitare gli investimenti esteri privati, ipotizzando nella sua nuova strategia per il settore privato approvata all’inizio del 2003 (Private Sector Development Strategy) addirittura la possibilità di sostenere con sussidi e donazioni a fondo perduto le imprese multinazionali private nei loro investimenti nei paesi più poveri. In questo modo, secondo il nuovo paradigma che vede il settore privato sempre più attore principale dello sviluppo, incarnato nelle cosiddette Public Private Partnerships promosse dalla Banca a livello internazionale, le imprese ricevono una copertura politica contro i rischi su investimenti che hanno poco a che fare con lo sviluppo delle popolazioni locali, finendo addirittura per operare con la garanzia della banca in aree di conflitto o dove i diritti fondamentali ambientali e delle popolazioni locali non sono garantiti, se non repressi.

Le raccomandazioni dell’Extractive Industries Review: la Banca mondiale smetterà di finanziare l’estrazione di petrolio e carbone?
Dopo due anni di valutazioni sugli impatti dei prestiti della Banca Mondiale per progetti di estrazione di petrolio, gas e progetti minerari, la Extractive Industries Review (EIR), commissione indipendente composta da rappresentanti di diversi settori di tutto il mondo, ha pubblicato il suo rapporto nel gennaio 2004. Nei suoi 60 anni di attività, la Banca Mondiale ha sostenuto compagnie petrolifere con un passato equivoco ed in paesi con regimi dittatoriali. Stime recenti dimostrano che nell’ultimo decennio più dell’80% dei profitti derivati da investimenti della Banca Mondiale per il petrolio in paesi poveri è ritornato nei paesi donatori poiché più dei due terzi del petrolio al mondo è estratto per essere esportato e consumato nel Nord. Basti pensare che le 10 società petrolifere più grandi al mondo sono in testa alla lista delle imprese che hanno ricevuto più fondi dalla Banca negli ultimi dodici anni.
Commissionata durante l’incontro annuale di Praga nel settembre del 2000 dal presidente della stessa Banca Mondiale, James Wolfensohn, la revisione indipendente EIR è stata affidata ad Emil Salim: ex ministro dell’ambiente indonesiano, ex direttore della più grande compagnia del carbone indonesiana, presidente del segretariato e consigliere di Kofi Annan al vertice di Johannesburg sullo Sviluppo Sostenibile.
Le raccomandazioni del rapporto chiedono un immediato stop ai finanziamenti per i progetti concernenti il carbone, mentre per quelli relativi al petrolio il termine ultimo previsto è fissato nel 2008.
È un elemento di assoluta rilevanza che gli effetti dannosi di questi investimenti siano dunque riconosciuti da una commissione di così alto livello sotto l’egida della Banca mondiale, che consiglia alla più grande Banca di sviluppo di invertire la tendenza del finanziamento per la promozione dei combustibili fossili. Per questa ragione le raccomandazioni dell’EIR sono state ben accolte dalle Organizzazioni non governative (Ong) internazionali che hanno seguito i lavori della commissione. Ma non solo, anche sei Premi Nobel per la Pace, Jody Williams, Desmond Tutu, Rigoberta Menchu Tum, Sir Joseph Rotblat, Betty Williams e Mairead Maguire, si sono spesi in prima persona per chiedere alla Banca mondiale di accogliere le raccomandazioni dell’EIR, consapevoli di come troppo spesso lo sfruttamento dei combustibili fossili siano stati fonte di disastrosi conflitti nei paesi del Sud del mondo.
Il 31 marzo 2004 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede ai governi europei di sostenere le raccomandazioni del rapporto EIR. Anche la Commissione Europea ed il governo indonesiano ed olandese si sono pronunciati in favore del rapporto.
Purtroppo, ad agosto il consiglio direttivo della Banca Mondiale ha deciso di non adottare le raccomandazioni del rapporto EIR, ma si è limitato a dare seguito soltanto ad alcuni aspetti specifici. Ciononostante, oltre ad evidenziare i problemi ambientali collegati all’estrazione e consumo di combustibili fossili il rapporto EIR rimane una storica denuncia del fallimento del modello di operazioni di sviluppo della Banca Mondiale in merito al suo mandato: la lotta alla povertà. Non si tratta, infatti, di impedire ai paesi poveri di utilizzare le loro risorse! Nei due anni di ricerche e missioni in tutto il mondo, consultazioni con l’industria, i governi e la società civile, il team che ha svolto la valutazione non è stato in grado di trovare una sola prova del fatto che almeno un progetto petrolifero o minerario abbia aiutato davvero a ridurre la povertà.