LA PIANURA FA PAURA

di Danilo Arona

Cite.jpg
Paco (Ignacio Taibo II) sostiene che l’unico rapporto che si deve avere con il genere letterario è quello di utilizzarlo per sovvertirlo. Ne parla lui direttamente su uno degli ultimi numeri di Diario, e alla fine del suo pezzo, tradotto da Bruno Arpaia, sta scritta una delle sue massime che è verità in assoluto, ovvero che “non è la letteratura che deve imitare la vita, ma è la vita che deve imitare la letteratura”. Per chi ha frequentato anche solo come spettatore questa forza della natura che si carbura costantemente a Coca Cola, il concetto non suona come novità, avendone lui fatto l’oggetto di un leggendario intervento di qualche anno fa a ChiaroScuro, festival di letteratura che si teneva in Asti e oggi non è più.

Da buon nativo di Bassavilla, che da Asti non dista molto, trovo quanto mai gratificante sentire uscire dalla bocca di un Paco le mezze verità di cui si sono parzialmente materiate le tante storie delle “città basse”, qui e nel mondo. Anche se, purtroppo, ci sono sovversivi da marketing e sovversivi come Hunter Stockton Thompson, che il genere l’hanno sovvertito davvero e alla fine si sono sparati in testa. Anche in questo caso, che non è l’unico, la vita ha imitato l’arte.
C’è un collegamento tra il clima di pianura (clima che non è solo l’umidità estiva o la nebbia autunnale, ma è soprattutto un paesaggio della mente) e la mimesi della letteratura, tra gli scrittori di provincia e la paura — in senso lato, fosse anche solo quella di vivere. E’ una sorta di demoniaca penombra che bisogna attraversare di continuo, perché ci vivi. Cosa scriveva il nostro poeta di pianura?
Ho paura in pianura, ho paura. I fiumi, i fossati, le rogge esalano miasmi mortiferi. I pesci sono strani, come impazziti. Gli uccelli volano in direzioni inusuali. Una nebbia invisibile avvolge le cose più belle, fattesi radiose, glaciali e impotenti. Morbi subdoli e indecifrabili si aggirano fra la gente. La pianura, la pianura è una iattura. La sciagura avvelena la pianura. In pianura alberga la sventura. La pianura, la pianura è una lordura. Le città di pianura sono cupe e risentite. Emettono brontolii laceranti e suoni spaventevoli. La pianura circonda ormai l’altura. C’è sozzura, in pianura, c’è sozzura. E premura e calura e io ho sonno e paura. E’ una selva selvaggia, la pianura: è una selva oscura”.
Calma, perché vi state ficcando le mani fra le pudende? Avanti, è arte, poesia ovvero la cugina prima della letteratura. Il fatto che in posti del genere, tanto in Texas che in Romagna (o Bassavilla, Piemonte), ci sforziamo sul serio d’imitarla, la vita che viviamo. E’ il risultato è sovversione, appunto, dei generi. Che poi qualcuno se ne accorga, è un altro paio di maniche. Che altri si deprimano come il nostro poeta, altre maniche ancora. Ma esistono tracciati e sentieri da seguire, anche controvoglia. Lo scrittore in Bassavilla è condannato, se non fugge: se resta qui a respirare la pianura, dovrà con lei a lottare ogni giorno, perché è più micidiale di mille polveri sottili. Ma, purtroppo per noi, ha il mortale fascino delle sirene e l’amiamo.
Adesso, dopo tanto funereo preambolo, pensate a un Dino Buzzati e agli anni Sessanta. Una casupola a metà strada fra Bassavilla e Novara, sprofondata nella nebbia. Dentro uno sfigato truffatore, che va e che viene dalla prigione; la moglie abbruttita dal “cancheron” e che si prostituisce; una terribile nonna sulla cinquantina che, dicono, “batta la fisica”, cioè fa la strega; il fratello del truffatore, che tenta di guadagnarsi la vita onestamente facendo il calzolaio, ma è tisico. E un bambino, il figlio della coppia, testimone impotente di un mondo in disgregazione: una nonna che fa paura, i suoi figli che sono in modo diverso due disgraziati, la mamma che si trascina fuori la notte e batte. Poi un giorno la nonna arriva a casa dall’ospedale dove lo zio giace ricoverato e dice al bambino che dovrà fargi un po’ male per migliorare il suo stato di salute e far sì che non si ammali anche lui. Il ragazzino non può far altro che annuire e la nonna gli conficca un numero incommensurabile di aghi e spilli nelle gambe, nelle braccia e nella schiena, persino sotto la pianta dei piedi. Lui urla e lei gli raccomanda di tacere, perché le urla annullano l’effetto salutistico. La cosa si ripete per giorni. Il bambino soffre e non capisce. La nonna strega sta facendo in verità una “fattura a trasferimento”, per togliere la malattia ad una persona e trasferirla ad un’altra. La vecchia, infatti, tutte le mattine prende aghi e spilli nuovi, va in ospedale e li intinge nella saliva del figlio malato. A mezzogiorno torna a casa e gli stessi spilli li conficca nella carne del nipote, perché possa essere lui il malato tisico e non l’unico figlio onesto e lavoratore della nonna strega. Ma il bambino urla, che altro può fare? Dalla strada lo vedono addirittura trascinarsi sul culo sopra l’erba del prato antistante la casa. Si sposta in quel modo perché gambe e piedi sono una mostruosa trafittura di spilli. Qualcuno chiama i carabinieri. I militi, dopo un appostamento, vanno di mattina a vedere il bambino in compagnia di un medico. Costui, perplesso, lo visita e nota con sgomento numerosi e brutti segni ovunque sulla pelle. Infine scopre spilloni e forcine piantati in profondità nelle braccia e fra i capelli.
La manette scattano attorno ai polsi di tutti, nonna, madre e padre. Una successiva radiografia accerta che centinaia di aghi e spilli si sono sparpagliati all’interno del corpo del ragazzino, spostandosi attraverso i fasci muscolari. Qualcuno ha sfiorato il cuore, il fegato e i reni. Però mai alcun organo vitale è stato intaccato. La strega è stata abile. Il successivo processo accerterà che nel giro di tre mesi quasi cinquecento pungiglioni di metallo sono stati piantati nel corpo del bambino. Ci sarà una condanna esemplare.
E’ una storia di pianura, chi dice vera chi dice inventata ad uso e consumo delle “veglie”. Buzzati, appunto, ne ha fornito una versione ambientata nella bassa pescarese nel suo famoso Misteri d’Italia. Ma Buzzati non ha incontrato, come ho fatto io, il protagonista, ormai adulto, di questa storia: stava in un sanatorio, lo sguardo terribile o, per dirla alla John Carpenter, la faccia non umana di Michael Myers con gli occhi del Diavolo che bruciavano chiunque lo guardasse tre secondi più del dovuto. Ma la mimesi artistica era mal riuscita. Al di là della faccia del male, lui era gracile e immunodepresso. Di più, tisico. La fattura “a trasferimento” aveva funzionato.