di Vincent Scully

disneyland.jpgQuando esprimi un desiderio su una stella cadente / Non fa differenza chi tu sei /
Quando esprimi un desiderio su una stella cadente / I tuoi sogni si avverano.

Queste parole, palesemente false, esprimono il tema centrale di Disney World,
che nel gran caldo di mezzogiorno, ai piedi del castello di Cenerentola (o del folle re
Ludwig), per un attimo ce le fa credere vere. Vere non in un senso metafisico o
storico, ma assolutamente vere per quanto riguarda i miti della cultura americana.
Questi miti riguardano cose che sappiamo non essere realmente vere, ma
desideriamo fermamente credere che lo siano. Sono la stessa essenza della
repubblica, la forza vitale che l’ha resa differente nelle intenzioni da ogni forma di
governo mai esistita prima: vita, libertà e ricerca della felicità, uguaglianza e
speranza.

Il coro Disney di bei giovani danza e canta ai piedi del castello — sempre con un
afroamericano fra loro — con al centro un animale, Pippo o Paperino o il Lupo
Cattivo, assieme a Cenerentola, Biancaneve o un’altra delle tante virginee divinità,
un’Artemide disneyana perennemente prepubere, la Madre delle Bestie.
Che ruolo svolge l’animismo in tutto questo? Possono gli istinti più profondi
dell’umanità, le credenze, le percezioni, essere incarnate solo in forme animali?
Devono essere mascherati sotto questa forma per essere tollerati, riconosciuti? È
solo l’animale a poter portare con sè i significati che contano per noi? Si pensi alle
danze animali dei Pueblo, e ancor prima alla tragedia greca, alla poesia satirica. Lo
sciamano avvolto in una pelle d’animale è sempre presente per unirci con gli
antenati e col Dio della natura.
Vide questo Disney? Probabilmente non in modo conscio, come per quasi tutti gli
artisti. E, in questo, Disney era un artista e un genio eccessivo. Ha toccato nel
profondo il nostro cuore, un organo sentimentale ignorante, forse indisciplinato. Egli
non ha creato l’animismo, ma non l’ha neppure peggiorato. Bambi è ridicolo, ma
dopo tutto è meglio d’un teppista. E la Main Street di Disney ha giocato negli ultimi
vent’anni un ruolo di primo piano nel salvataggio di diverse vere Main Street
americane.3
Ma sotto tutto ciò c’è sempre l’animale. Oldenburg l’ha capito. È Topolino che
conta. Quando Topolino vien giù dai gradini del castello la folla emette un boato di
benvenuto. Altri, vicini e lontani a noi nel tempo, hanno dichiarato fedeltà ad aquile,
leoni e orsi. A noi, per Dio, è toccato un topo.
Dovremmo essere dei miserabili vecchi spilorci per non sentirsi quanto meno
felici, almeno per un momento, davanti al Dolphin Hotel di Michael Graves [1]. Si
legge rapidamente come se fosse su grande schermo. La prima impressione è la
migliore. Ci avviciniamo per la strada che viene da Disney World, superiamo un
ponte, la vegetazione si apre verso destra, ed eccoli lì: il Cigno [2] e il Delfino a
conquistare il cielo della Florida.

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[1 – Il Dolphin Hotel di Michael Graves a Lake Buena Vista, Florida, 125.000 mq, 1511 fra camere e
suite, cinque ristoranti, vari bar ecc., costo 450 miliardi di lire. Completato nel 1990, dopo lo Swan,
che gli sta di fronte, dall’altra parte della laguna artificiale (da Progressive Architecture, 10, 1990, p.
85)].
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[2 – Lo Swan Hotel di Michael Graves a Lake Buena Vista, Florida, completato nel 1990. Ha 65.000
mq, 758 fra camere e suite, un centro congressi, un club salutista, delle sale gioco, una piscina, due
ristoranti, vari bar ecc. È costato 250 miliardi di lire (da Progressive Architecture, 3, 1990, p. 79)].

Il terreno di Disney World, come quasi dappertutto in Florida, è completamente
piatto; questo è il fascino speciale della Florida sotto il suo cielo vaporoso e
barocco. Fino a oggi, a Disney World, solo il Cigno e il Delfino sfruttano questa
speciale condizione. Apparizioni scioccanti per via della grande dimensione si
allungano sotto l’incomparabile distesa del cielo. Le enormi figure di animali, che
coronano le loro estremità come barbari acroteri, si ergono contro i castelli
torreggianti delle nuvole e sono costantemente riecheggiati nelle loro forme. È un
animismo che vuol trarre linfa dalla natura, ma allo stesso tempo giocare con
poderose urne classiche da fumetto.
Certamente il Cigno e il Delfino sono in tutto e per tutto dei colossali fumetti, le
loro forme sono elementari, ovvie ed enormi. Sono fondamentalmente incredibili e
suggeriscono scene teatrali, brutali fantasie e allucinazioni. L’Hotel Delfino domina.
Il suo alto timpano — il più grande del mondo? — occhieggia sopra la curva lenta del
Cigno. Visto di fronte, il timpano è pieno di autorevolezza, vero signore del cielo.
Visto di lato è così stretto da apparire un po’ silly, un po’ stupidello come i falsi
timpani che vediamo in tanti recenti shopping center.
Al Delfino si entra attraverso il Cigno: la sua entrata carraia è collegata al retro di
quello. Il Cigno è comunque più piccolo del Delfino, è una sorta di preparazione a
questo. Non ha grandi spazi suoi propri. Si deve attraversare il suo stretto corridoio
centrale e poi il terrapieno di pietre massicce che conduce attraverso la laguna alla
facciata veramente incredibile del Delfino. Enormi ali fuoriescono da questa,
coronate da urne versanti acqua. Foglie di banano dipinte rivestono i suoi muri alti
e lisci a scala di Jack—and—the Beanstalk. Un paio di pergole di metallo coperte da
vivaci tende a strisce, con orli tagliati a festoni portano i nostri occhi verso la
facciata attraverso l’acqua. Le pergole sono riprese nel padiglione più basso della
facciata mentre una serie di conchiglie di Venere dentellate guida una copiosa
cascata d’acqua giù dal frontone. Dalle conchiglie superiori l’acqua cade in quella
più grande di tutte, posta in basso e sorretta da quattro delfini “ritagliati”. Tutto ciò
è disegnato con un orlo. Questo sbava.
Entriamo sotto ad esso. È un luogo splendido per stare in una tempesta di tuoni,
la conchiglia che appare alta sopra alla testa, le nubi che ribollono, lo scroscio delle
acque. Dietro, gli spazi pubblici dell’hotel sono alti e ben proporzionati e culminano
in una meravigliosa rotonda, padiglione ondeggiante come se fosse la più grande
tenda del mondo, la Volta Celeste nella sua originale forma etrusca illuminata
dall’alto attraverso oculi.
Di primo acchito le immagini sembrano eccessive, ma rapidamente ci si abitua
forse un po’ intontiti. Tuttavia la scala dell’edificio, sebbene grande, è molto
garbata. I pilastri sono schermati da tralicci, avvolti da rampicanti; la fontana dei
delfini schizza acqua. Questo diventa un buon posto per sedersi, uno dei pochi
corridoi interamente riusciti degli ultimi anni, privo delle paranoie di Portman e del
cattivo gusto di Trump.
Lo schema dei colori è un progresso, rispetto al Cigno piuttosto lugubre. Buone
riproduzioni di quadri di Matisse sono appese dappertutto. Forme e colori di questi
vengono felicemente richiamati in tutto l’edificio. L’insieme è un risultato
imponente, che non sarebbe stato possibile se Graves non fosse un pittore oltre che
un architetto.
I corridoi alle camere sono belli, dipinti a soggetti balneari posti in una
prospettiva per cui ci si sente piacevolmente giganteschi, con il pavimento che
simula una spiaggia con asciugamani e porte a strisce verticali come le cabine
dell’Elba di Aldo Rossi. Il continuo cambiare degli schemi decorativi ricorda i disegni
del vecchio maestro Morris Lapidus; cosi che non si resta stupiti nell’apprendere che
suo figlio Alan ha lavorato ad alcuni dettagli e disegni preparatori (gli schemi sono
comunque tutti di Graves). Il progettista di Fontainebleau disse a proposito degli
ospiti: Si deve far loro sentire che fan parte tutti della medesima commedia
musicale. Lo stesso fa Graves; per questo i suoi muri sono trattati dove è possibile
come tende annodate o schermi dipinti. All’esterno gli enormi moli e i piani inferiori
bugnati che sembrano in muratura suonano cavi sotto le nostre nocche. Perché no?
Tutto fa parte dello spettacolo. E lo show continua anche nei numerosi ristoranti,
tutti a tema. Il più raffinato è il Ristorante Carnevale, dove la polenta con funghi di
bosco ti proietta direttamente in Val d’Aosta. Il personale — che è il più carino
possibile, come ovunque alla Disney — ti saluta con un “buona sera”, e c’è poi una
vistosa signora di Roma che interviene, esaurendo rapidamente il loro italiano.
No, nessuno di loro è ‘vero’. Non si può biasimare Disney World per questo. Al
suo meglio, che io penso sia il Magic Kingdom, è veramente un grande parco dei
divertimenti; come il Savin Rock di West Haven dove, quand’ero bambino, andavo
d’estate in una carrozza aperta. La differenza, certo, è che anche i poveri potevano
entrare a Savin Rock e vagare fra le sue meraviglie anche se, come dicevamo
allora, un dollaro durava poco in quel posto. Disney World è troppo isolato e per
questo come parco a tema è troppo costoso. Il vero povero non ci può andare e per
molti la visita impegna i risparmi di anni.
Ad ogni modo Disney ricrea anche le carrozze, come se fossimo ancora persone
tutte uguali, e la vecchia Main Street a una scala ridotta che, abbastanza
curiosamente, non fa sembrare le persone particolarmente grandi, ma ingigantisce i
cavalli quasi fossero quello di Troia. Il cavallo gigante ci conduce al Castello di
Cenerentola e attraverso questo a Fantasyland e da lì a Frontierland e
Adventureland e forse verso il Paese Natale di Topolino. E c’è sempre qualcosa che
va in scena, folle sterminate in movimento, musica, canti, gente che spara ad altri
dai tetti o che prende il largo sulla zattera di Huck Finn o in una canoa di Cooper.
Noi ci addentriamo nella struttura di un cervello cercando la complessità del mito
attraverso i suoi corridoi.
L’esperienza è dionisiaca, disorientante. Quando i meravigliosi uccelli — papere,
sparvieri, uccelli “da mucca” e gru — vengono e ci pregano di dar loro un pezzo di
hot—dog, pare che recitino come personaggi di Disney. Ne usciamo pazzi, ma è per
questo che c’è il carnevale. La vita contiene più elementi di realtà di quanto
possiamo sopportare. Abbiamo bisogno di vagarci una volta ogni tanto. Questo
influirà sulla nostra capacità di prendere decisioni razionali in altre occasioni?
Esattamente l’opposto, secondo il pensiero greco.
A questo scopo servono il Cigno e il Delfino? Certamente essi rappresentano un
nuovo indirizzo nel pensiero della Disney. Sono concettualmente piuttosto distanti
dal Magic Kingdom e sono intesi come cuore iconografico del nuovo Disney World
che, secondo la mia opinione, rispetto al precedente è qualcosa di più pretenzioso,
di meno attraente, di meno amabile. I due hotel sono molto costosi, in nessun
senso popolari. Ospitano grandi congressi di dirigenti sobriamente vestiti che ad un
occhio innocente sembrano fuori posto a Disney World. I nuovi hotel non
attireranno le grandi folle giornaliere che si radunano (per il tè!) negli altri della
Florida. E neppure lo desiderano. Rispetto agli alberghi più vecchi, sono più
interamente coinvolti nella cultura dell’automobile; è passato il tempo in cui
pensavamo alla monorotaia come orgogliosa precorritrice del futuro. Fuori dai
mistici confini dell’impero Disney, un’urbanizzazione casuale, provocata dall’auto,
va prendendo orrida forma, distruggendo il territorio da Orlando a Kissimmee.
“Dentro” tutto è invece tranquillo. Un cosiddetto ‘tram’ collega i nuovi alberghi con
Epcot Center, tutto scienza e problemi elevati, e una lancia a motore li congiunge
per via d’acqua con gli Studi della Disney MGM, la città del cinema del periodo Art
Deco Hollywood Narcisitico, parzialmente in uso. La nave arriverà anche
all’insediamento di Robert Stern — in un garbato shingle style — ora in costruzione,
collocato in una vicinanza piuttosto surreale con il Delfino. Questo, come ci dice il
capitano, riprodurrà un quartiere costiero del New England fine ‘800, completo di
un’autentica nave naufragata.
In generale c’è una certa brutalità imperiale nel Cigno e nel Delfino, che serve
bene questo nuovo Disney World. Il film è Intolerance. Il set è Babilonia. Le fontane
di questo Paradiso servono a dei re sgraziati, riccamente decorati, i cui totem
animali, illuminati dal basso, cavalcano in un cielo di velluto nero.
Ma, chiederete, dov’è la stella? Cielo, dov’è Topolino?

[Titolo originale: “Animal Spirits. Vincent Scully visits the Dolphin Hotel — with stops at
Cinderella’s Castle and Main Street USA”, in Progressive Architecture, 10, 1990, pp. 90—91. Qui riportato
in riferimento alle lezioni sulla comunicazione, l’etica e lo humour.
Nel medesimo numero di Progressive in cui è apparso quest’articolo, M. A. Branch esamina il
complesso delle architetture della Walt Disney, descrivendo in particolare il Dolphin Hotel a Epcot,
Florida situato di fronte allo Swan Hotel, completato sempre da Graves pochi mesi prima (cfr.
Progressive Architecture, 3, 1990, p. 76). R. Miller presenta invece Euro Disneyland a Parigi, con opere
di Predock, Stern, Gehry, Venturi—Scott Brown, Tigerman, Grumbach, Graves, ecc. Tutti questi architetti
— come ricordo in >etica — sono stati tacciati (sempre nel ’90) di immoralità e di ‘svacco’ (dove andremo
a finire!) da Gregotti su Panorama, rivista curiosamente edita dalla Mondadori, ai tempi la casa editrice della
rivista Topolino in Italia.]