di Federica Vicino

Espresso15-7.jpgSa molto di manager on holiday portarsi sotto l’ombrellone un periodico con la “P” maiuscola: impegno, politica, poca cronaca (diluita nel tempo), società, costume e cultura. Già, cultura. E così, non per sentirmi più “in”, ma perché mi piace leggere di cultura, mi porto in spiaggia L’Espresso, quello del 15 luglio. Pregusto la sezione che prediligo, e manco a farlo apposta ci trovo dentro un pezzo che sembra scritto per me e per i miei gusti. Si intitola “Scrittori in gabbia”: strano titolo, rimugino. Ma parla del mio genere preferito, la fantascienza, e — nello specifico — del mio scrittore preferito, Valerio Evangelisti. Mi tuffo nella lettura. Si tratta di una recensione del libro Sotto gli occhi di tutti, che lo scrittore bolognese ha pubblicato con l’Ancora del Mediterraneo. Niente a che vedere con l’arcinota saga dell’inquisitore Eymerich o con l’incisivo ciclo del Metallo urlante, no: stavolta Valerio Evangelisti parla di sé, del suo lavoro, del suo ruolo e, in generale, del suo pane quotidiano: la scrittura.
Finalmente, dico in cuor mio.


Si mette a fuoco la cosiddetta “narrativa di genere”. E si mettono a fuoco i suoi problemi. Vizi e virtù, focalizzati attraverso un’analisi di alto profilo. Finalmente. Lo fa, coraggiosamente, Evangelisti nel suo libro, e — vivaddio!- finalmente ci prova anche qualche testata giornalistica di rango.
Nemmeno il tempo di rallegrarmi, che dalla recensione vedo saltar fuori concetti che trovo dapprima poco attinenti con il testo di Valerio Evangelisti, poi poco attinenti in generale con il contesto letterario in esame.
Dopo aver riconosciuto a Sotto gli occhi di tutti il merito di essere un testo che allarga sapientemente il campo, dal fantascientifico tout court al fantascientifico quotidiano (violenza, guerre, miseria, neoliberismo e neocolonialismo di inizio millennio), senza rinunciare a una misurata, ma tagliente dose, di sana e pura controinformazione, la giornalista de L’Espresso autrice della recensione, Carla Benedetti, scrive qualcosa che dà da pensare. Un avvertimento. Dice: va bene, nella nicchia della fantascienza covano, vivono, agiscono e scrivono autori di spessore, capaci di infondere alla scrittura stessa una forza dirompente, “politicamente agguerriti”, ma — aggiunge a questo punto – non sarà che, chiusi nella loro bella nicchia, questi scrittori rischino di autoghettizzarsi? O magari di creare una sorta di nuova élite di pensiero, ristretta a pochi adepti e quindi completamente decontestualizzata?
Non per nulla, la giornalista de L’Espresso parla di scrittori in gabbia. Intendendo per “gabbia” proprio quella narrativa di genere che ribolle come un vulcano pronto per una devastante — e fantascientifica — eruzione. Come dire: chiuso nel contesto “fantascientifico” (e si intende per fantascientifico un range estremamente ampio d’azione, che ingloba il noir, l’horror e quant’altro ci sia di assimilabile) qualsiasi messaggio — anche il più rivoluzionario — viene annullato, anestetizzato, privato di ogni forza d’impatto sulla realtà oggettiva.
E qui mi fermo. Rifletto.
Ripasso a mente un romanzo (attenzione: non romanzo di fantascienza, ma romanzo!) che mi ha profondamente colpito: Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.
Quei libri che bruciano… il pompiere Montag che rabbrividisce di fronte alla vecchina che sceglie di bruciare assieme ai suoi libri… immagini…
Un piccolo universo visionario, che si può definire in mille modi, tranne che “decontestualizzato rispetto alla realtà”; o, per volerla dire con L’Espresso, “incapsulato nei meandri del genere”. Un messaggio forte; uno scenario messo su dalla poderosa fantasia di Bradbury, ma che — in fondo — di fantasioso ha ben poco.
E il potere videocratico di 1984 di Orwell? E gli scenari da medioevo prossimo-venturo che padre Nicolas Eymerich attraversa con la disinvoltura del perfetto anti-eroe?
E ancora, le cupe atmosfere metropolitane di Eva della Vallorani, o la lucida ironia di Guerra agli umani di Wu Ming 2? Di esempi se ne potrebbero fare ancora molti. Come definiamo tutto questo? Letteratura di serie B? Letteratura poco coraggiosa, che si “uniforma alle maglie del genere — sempre per dirla con L’Espresso — e quindi si normalizza, depotenziando scrittura, pensiero e attese del pubblico”?
Io, che sono il “pubblico”, direi proprio di no. Davvero non riesco a essere d’accordo.
Mi spingo oltre. Se c’è un campo ancora parzialmente inesplorato, un rovescio della medaglia, un sommerso letterario ancora da esperire, questo porta il nome di nuove, nuovissime generazioni di autori, che ci sono e a modo loro, con il linguaggio che la nuova realtà quotidiana concede loro (un linguaggio duro e tagliente, ma vivo e vero, autentico e pulsante), danno voce a un prodotto letterario incisivo, beffardo, difficile da contestare, difficile da non amare. Soprattutto — direi — difficile da controllare. E ciò che è fuori controllo può turbare lo statu quo, questo si sa.
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Capisco. Meglio tenerli in gabbia, questi sovversivi.
Questo penso. Da lettrice e da appassionata di fantascienza. Soprattutto, da lettrice. In tutta la mia vita non ho amato tanto i libri che mi hanno raccontato delle storie, quanto piuttosto i libri che mi hanno dato da pensare. E non mi è mai capitato di chiudere un libro di science fiction & affini senza dirmi in cuor mio: “ma guarda un po’, a questo proprio non avevo pensato!”.

Federica Vicino (nella foto) è autrice di romanzi, raccolte di poesie e lavori teatrali.