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Solitamente, i manuali scolastici di storia della letteratura italiana citano di sfuggita Igino Ugo Tarchetti (1839-1869). Viene ricordato quale esponente del movimento della Scapigliatura, ma cosa abbia effettivamente scritto normalmente non viene detto.
Una parte della censura che lo ha colpito è stata probabilmente dovuta alla sua ampia produzione di racconti fantastici, che la critica italiana ha sempre considerato con riluttanza. Un’altra parte, però, va collegata alle posizioni politiche di Tarchetti, e in particolare al suo acceso antimilitarismo, maturato allorché partecipò nell’esercito dei Savoia alle feroci campagne contro il brigantaggio meridionale.


Gli Oscar Mondadori propongono ora il romanzo più antimilitarista di Tarchetti: Una nobile follia. Drammi della vita militare (a cura di Roberto Carnero, pp. 210, € 6,80). Scelta estremamente opportuna, in un momento in cui l’Italia ufficiale è tutto uno sbattere di tacchi, un rutilare di bandiere, una costruzione affannosa di eroi fasulli. Riportiamo alcune pagine del romanzo, nemmeno tra le più aspre. (VE)

Quel giorno in cui un uomo ha posto il piede in una caserma, conosce che tutto è finito per lui: quelle mura hanno delle terribili rivelazioni: assorbono le vite e ne mostrano le larve come al di là di un velo trasparente – sono cieche e guardano, sono mute e parlano – sembra che dicano: “Noi abbiamo sepolte migliaia d’esistenze, noi abbiamo alimentato molti dolori, noi abbiamo uccise molte anime, noi abbiamo spento molte nobili intelligenze; l’atmosfera che noi racchiudiamo è velenosa; qui si piange, si soffre e si abbrutisce; ebbene, noi ti racchiuderemo tra le nostre quattro pareti; tu vi rimarrai otto anni, e intanto tua madre morrà di fame, tua sorella si prostituirà per vivere, le persone che ti amavano ti abbandoneranno, gli uomini ti contamineranno la moglie o l’amante; la tua fortuna sarà rovinata: quando tu uscirai di qui, non avrai più nulla di ciò che hai portato teco venendoci, non sarai atto ad alcun lavoro di braccia o di monte, la tua gioventù sarà avvizzita o trascorsa, tu sarai un uomo morto o sciupato, tu sarai un miserabile per tutta la vita”.
Nel primo giorno che si trascorre in quartiere si sentono queste voci, ma non si comprendono. La mente è offuscata, la percettività ottusa, la sensitività assopita: si passeggia per le camerate, si leggono i nomi scritti sulle pareti; si contano i mattoni dello spazzo, si prendono i ragni e le formiche negli angoli, si guarda al ciclo e al cortile, si sente cadere qualche cosa giù per le guance, e non si sa che sieno lagrime; non si possiede ancora la convinzione del proprio stato, la realtà si mostra ancora circondata di un velo; non si spera, non si dispera, non si domanda nulla a se stessi; appena si ascolta una voce nel cuore che chiede: “E domani?”.
Nella prima notte si dorme, si è prostrati da quella inazione faticosa dello spirito nella giornata. Si fanno dei sogni vaghi e sconnessi, si rivede la casa, la stanza, il giardino, ma tutto confuso e indeciso: la mefite del dormitoio produce un sonno pesante e affannoso, il rumore del respiro di tante persone che dormono dà ai nostri sogni qualche cosa d’inusitato e di indefinibile, come quando si giace assopiti in una carrozza, ninnati dal rumore delle ruote durante un lungo viaggio: la prima notte passa, sono le altre che durano eterne.
Viene il domani. Lo svegliarsi ha qualche cosa di spaventevole. Destati di soprassalto dal rullo fragoroso di un tamburo, si ritorna, non a gradi, ma d’un balzo, alla realtà ineluttabile della nostra sventura. La mente affacciatasi ad esaminarla, retrocede atterrita, e si ripiega silenziosa in se stessa. Non si può più dubitare, si crede; si vede tutto; quegli uomini si alzano a quell’ora, sì presto, e perché? Andranno a tracciare dei solchi nei campi, ad aprire la loro officina, a prevenire i bisogni della loro famiglia? Nulla di tutto ciò; essi ritornano al maneggio delle loro armi; escono alla campagna, ma uniti; marciano in fila, imparano come si sorprenda e come si uccida il nemico; ritornano spossati alla sera per risorgere e ricominciare all’indomani. Otto anni di questa vita. Ecco la realtà, ecco la condanna!
Il coscritto la sente, la tocca, la vede questa realtà spaventevole; la scorge avvicinarglisi come un mostro immane e deforme che deve avvolgerlo nelle sue spire, collocarsi presso di lui e vigilare per otto anni al suo fianco: egli vorrebbe ribellarsi e difendersi – è il primo istinto – ma la ragione lo ammonisce che è indarno: allora egli tace e subisce; la lacrima ristagna, ha principio la rassegnazione, l’obbedienza, la passività, il moto pronto e regolare della macchina… Incomincia il soldato.
Ma prima che questa lotta tra l’uomo e il soldato sia definita – prevalga il diritto o la violenza – scorrono spesso degli anni; anni tenebrosi e infiniti, senza epoche, senza gioie, senza rimembranze, senza sorrisi di sole. È una lotta che si combatte nelle tenebre, inermi, piangenti, desolati, e nondimeno implacabili. Molti sono soggiogati, coloro che escono vincitori sono giganti.
Al domani si vuoi conoscere più dappresso il nostro stato; si vede tutto, si esamina tutto, si interroga tutti; il cuore ammutisce e la mente parla; si prova una crudele avidità di sapere ogni cosa, d’immergersi nella propria disperazione: si guarda la nostra ferita, la si vede, la si tocca, la si esulcera; si sente che il dolore ha delle attrazioni, e che quando non si può fuggirlo è meglio abbandonarvisi : si decide, e vi si getta risoluti.
Alla sera si è prostrati ancora; lo si è sempre – è l’astuzia della disciplina, uccidere l’attività morale coll’attività fisica – si guarda il cielo, ma come per maledirlo; non si vede più nulla nel cielo; Iddio ne è sparito; il suo occhio non veglia più sopra di noi e sopra la nostra famiglia; l’armonia si è confusa, il filo si è spezzato, voi ne siete abbandonati per sempre.
Allora incomincia la grande ribellione, la gran morte: la fede si estingue, la speranza si estingue, la vita è circoscritta dall’ora, l’avvenire sparisce, non si prega più, non si pensa più, non si spera più nulla dal cielo – la prima trasformazione è ottenuta – l’uomo morale è ucciso.
Le prime notti sono spaventose.
La coscienza assopita si ridesta e dà degli assalti formidabili. In quella stanza vi sono cento coscienze che vegliano, mentre le anime dormono: è una veglia faticosa, tutte quelle menti combattono: l’uomo sospira, si agita o mormora; si ode l’anelito, si ascolta la parola sussurrata nel sonno; vi sono delle braccia che si agitano convulse, delle lacrime che scorrono inavvertite, degli insonni che gemono e mutano fianco; e la fede non entra più in quella camera, la preghiera ne rifugge, non vi ha un angelo che vegli su quelle vittime: l’abbandono è spaventoso ed enorme.
Occorrono delle ore nel giorno, in cui le abitudini della vita trascorsa ne presentano, sotto l’aspetto più orribile, quelle della vita attuale. Le ore della passeggiata, del pranzo, dei convegni amichevoli, delle radunanze festose… Non v’ha uomo sì povero che non conviti colla famiglia o coll’amico, che non si apparecchi una mensa, che non senta la solennità di quell’ora casta e soave in cui si rinnova il sacrificio del vino e del pane: gli stessi mendicanti si radunano sugli angoli e sotto gli atrii delle porte; mettono in comune le loro stoviglie di legno, dividono le loro elemosine, e sorridono alle donne e ai fanciulli, cinguettando della scarsa beneficenza e dei tristi tempi che corrono.
Il soldato pranza nel cortile, siede corrucciato in un angolo, divora convulso, guarda alla parete, picchia colle dita sul fondo del suo recipiente di latta, e quando ha finito lo getta col piede sotto la gronda, perché la pioggia lo lavi, o perché il sole lo asciughi. Il coscritto ripensa intanto alla sua famiglia, alla tavola apparecchiata sulla soglia della capanna, al desco frugale ma lieto, alla benedizione impartita dall’avolo colla destra tremante, alle grida, alla ghiottoneria dei fanciulli, alla dolce vivacità del conversare… e vede il suo posto deserto, e la famiglia muta e piangente, e pensa che ciò non è che incominciato, che ciò deve durare otto anni.
Il cuore del soldato non ama più gli uomini, essi lo hanno troppo offeso; ama di rado la donna, non cerca da lei che il piacere; la sua affettività ha subito delle strane modificazioni; egli riprova le tendenze, i gusti, le simpatie dei fanciulli; ama gli uccelli e gli insetti, è lieto se prende un moscone o una vespa; divide il suo pranzo coi topi, solleva i mattoni per cercarvi gli scarafaggi, distribuisce le briciole del suo pane alle formiche, e se talora la sorte gli concede la compagnia di un cane, fosse pur brutto e sciancato, e se la disciplina del quartiere lo tollera, egli si reputa ancora il più fortunato degli uomini. Il soldato adora i fanciulli; avvezzato a sentir pesare sopra di sé la mano di tutti, ama tutto ciò che è innocente ed innocuo. Povero essere! egli vorrebbe perdonare, vorrebbe avvicinarsi ancora agli uomini, vorrebbe riamarli, ma la società lo respinge.
È impossibile darsi ragione, con qualche principio fisso, dei pensieri che si svolgono nella mente del coscritto durante i primi giorni della sua vita militare. Le evoluzioni, il passo, il moto misurato e meccanico, la cadenza assordante del tamburo, la novità dell’abito, l’asprezza del comando e della disciplina stordiscono la sua mente, la distolgono da una riflessione seria e costante, creano nuovi bisogni, nuove idee, nuove parvenze. Si vede tutto attraverso a una nube; sembra che i pensieri abbiano dei profili indecisi e fantastici, nessuna cosa ha forma o natura che non apparisca strana ed instabile: non si distingue più tra fatti ed idee; vi è qualche cosa che sta tra di essi, e non è né l’uno né l’altro – un coscritto mi diceva: «Ho sempre delle idee verdi che mi passano d’innanzi agli occhi».
Durante le prime evoluzioni, tutti hanno provato questo stato: è una fantasmagoria continua, il corpo cammina e l’anima sogna. Si vedono passare i carri e i cavalli, si vede correre un cane, volare un uccello, aleggiare una mosca, e tutto ciò come lo si vedrebbe sognando. Nella notte si rivede tutto, il domani vi si ritorna ancora: è un sogno continuato.