di As Chianese

Darksac.jpg

Inizialmente, quasi in maniera maniacale, mi ero preoccupato di cosa chiedere e in che forma e modo bussare alla porta di Dardano Sacchetti (1944, Montenero di Bisaccia, Campobasso) uno degli sceneggiatori italiani più significativi degli anni ’70/80 del nostro cinema di genere. Alcune voci lo volevano residente in America e incontattabile: data la lontananza e il suo carattere fumantino.
Invece l’autore de “L’Aldilà”, “Reazione a Catena”, “Dèmoni” e “Il Gatto a Nove Code” e di altre perle dell’horror e del brivido vive, dopo aver comunque lavorato negli States, nella sua Italia: in una villa in campagna che mi piace immaginare simile a quella del Dott. Freudstein in un altro classico del brivido scritto da lui e filmato da Lucio Fulci, disponibile più che mai ad accontentare chi davvero voglia sapere che cosa era il nostro cinema di genere e soprattutto perché è morto. Inviata una e-mail con alcune domande lo sceneggiatore mi ha risposto, dopo altre piacevolissime chiacchierate, con questa lettera/intervista che sotto riporto rendendo vano ogni tipo di incipit o di presentazione: da scrittore che lavora con le parole e le immagini, Sacchetti va a briglia sciolta raccontando fin nei dettagli il ventennio d’oro del nostro cinema, con considerazioni personali e tante, tantissime, chicche che delizieranno gli appassionati e quelli che credono di saperne sempre una più del diavolo.


Ma bando alle chiacchiere, lasciamo che parli lui: signore e signori Dardano Sacchetti…

Chi ero prima di…
Bah: liceo classico, università, studi in giurisprudenza, chimica, storia e filosofia. Militanza politica (a sinistra) sono un ragazzo del ’68, teatro col gruppo MKS, segretario della Bertrand Russell Peace Foundation italiana, giovane poeta. In realtà facevo un mucchio di cose, ma non avevo bene in testa cosa fare da grande. Ero amico di un gruppo di ragazzi di Torino, scesi a Roma per fare cinema. Qualcuno si iscrisse al Centro sperimentale (c’era Rossellini allora). Io li frequentavo. Andavo al cinema con loro tutte le sere. Premessa: ho sempre amato il cinema, vedevo anche tre film al giorno. Molti film li vedevo più di una volta. Adoravo Godard e ho visto 31 volte “Fino all’Ultimo Respiro”, ma… a nove anni vidi quattro volte di seguito (entrai alle tre a cinema e ne uscì alle undici) “Assalto alla terra” , il film dei formiconi. Mia madre leggeva i gialli Mondadori ed io ho cominciato a leggere gialli da quando avevo nove anni, credo di aver letto tutti i gialli Mondadori, Garzanti e Longanesi pubblicati tra il 1954 e il 1966.
Così quando i miei amici di Torino ebbero difficoltà a scrivere (a me era sempre piaciuto scrivere, scrivevo racconti, poesie, affabulavo storie) dissi: ma che problema c’è? e scrissi un soggetto in mezz’ora. La settimana successiva accompagnai Luigi Collo, uno di questi, da Dario Argento. Non sapevo neanche chi fosse. Stava finendo di girare “L’Uccello dalle Piume di Cristallo”. Rimanemmo simpatici a Dario e lui ci chiese di dargli una mano a scrivere una storia. Lombardo, il produttore de “L’ Uccello dalle Piume di Cristallo”, gli aveva commissionato un giallo ambientato nel paleolitico, una storia sull’australopiteco, la scimmia assassina, era appena uscito un saggio di Desmond Morris. Ne venne fuori uno strano giallo, un parallelo tra il primo omicidio tra gli ominidi e dei delitti attuali. Ma Lombardo voleva un film leggero, comico, come “Quando le Donne Avevano la Coda” della Wertmuller. Dario invece voleva fare “Montesa” la storia di un viaggio attraverso l’Europa, una specie di Easy Rider, scrissi la sceneggiatura insieme a Collo, ma il film non si fece mai. Allora io dissi che bisognava scrivere un giallo e in un pomeriggio scrissi il soggetto de “Il Gatto a Nove Code”. Avevo letto un articolo sull’ XYY su American Scientific. Il soggetto piacque a Dario, che lo presento a Lombardo che disse di sì. Così nacque il film. Firmai solo il soggetto perchè Dario non volle che collaborassi alla sceneggiatura, con lui ci fui una lite perchè in una intervista disse che si era inventato il soggetto durante un viaggio in Marocco. A quei tempi (siamo nel ’69/’70) avevo un carattere fumantino (facevo parte del movimento studentesco). Insultai Dario e non ci salutammo più fino al ’79. Ma la sua produzione mi dette un milione di lire.
Allora una 500 costava 595.000 mila lire. Erano una montagna di soldi. Mi comprai uno stereo, 100 padelloni: i vecchi trentatrè giri, la lacca, il miglior modo per ascoltar musica e una giacca di pelle bellissima. Per tre mesi frequentai tutti i night di Roma. Poi successe che mi chiamò il produttore Zaccariello, che aveva appena prodotto i primi due film di Faenza e voleva produrre un film di Mario Bava. La lite con Dario Argento erano finita sui giornali e lui mi chiamò pensando che dietro il successo di questo c’ero io. Così nacque “Reazione a Catena”, che in realtà è un film molto importante e così nasce lo sceneggiatore Sacchetti, praticamente per caso.
Non avevo intenzione di fare cinema, non sapevo neanche cosa fosse uno sceneggiatore, ne come si scrivesse una sceneggiatura. Fare soggetti era facile per me. Avevo sempre scritto. Al liceo scrivevo temi molto importanti, quasi dei saggi. Ho una grande inventiva. Sono capace di trasformare in plot quasi qualsiasi cosa. Riesco a vedere subito il modo di raccontare un fatto o un avvenimento. Ma non avevo mai visto una sceneggiatura in vita mia. La prima che scrissi fu un tormento. In realtà a farmi capire come si scriveva una sceneggiatura fu Umberto Lenzi, che non era un teorico e tanto meno un maestro ma aveva le idee chiare su quelli che si chiamano i fondamentali.
Torniamo a Bava. Con “Reazione a Catena”, siamo nel ’71, nasce infatti un genere: lo splatter o gore. Mario era un individuo affascinante. Ironico, pieno di paure, un vero genio per gli effetti speciali. Dal momento che anch’io ho una mia vena di ironia surreale (adoro Bunuel) ci trovammo subito in sintonia per pensare ad una storia paradossale con delitti strani, pieni di inventiva. Per gli americani (“Reazione a Catena” è stato proiettato per sette anni di seguito nei cineclub specializzati di Los Angeles) il film è stato un apripista. “Venerdì Tredici” copia a basse mani intere sequenze.
Con Mario mi trovai così bene che scrissi subito (eravamo nel ’71 bada bene) la sceneggiatura di “Shock” che allora si chiama “Al 13 di Via dell’Orologio fa Sempre Freddo”. Il film fu realizzato solo nel ’77 perchè la produzione (Loyola) fallì e solo anni dopo la sceneggiatura venne ripresa dal fallimento, quindi le somiglianze con “Profondo Rosso” sono inesistenti perchè il film è di molti anni prima. Per Mario Bava poi ho scritto “Anomalia” un film di fantascienza che doveva essere coprodotto anche da Roger Corman (conservo ancora la sua lettera con gli appunti sulla sceneggiatura) ma Mario morì un paio di mesi prima dell’inizio delle riprese.
Con Dario Argento ho collaborato altre volte. Ho ricominciato con “Inferno”. Aveva scritto la sceneggiatura più volte e voleva solo parlarne con me. Mi pagò ma non fui accreditato, come era nei patti. Poi collaborai per due volte a due serie TV che non sono mai state realizzate, quindi a “Dèmoni”, “Demoni 2” e “La Chiesa”, dove ci fu l’ennesima lite. Fui pagato e pregato di non firmare il film. Dario ed io ci vogliamo bene, ci stimiamo ma non riusciamo a non litigare: personalità contrastanti.

Fulci!
Dunque, ho conosciuto Fulci nel 1975 in occasione di “Sette Note in Nero”, che allora era ancora “Terapia Mortale”. Dopo i film con Mario Bava, fui chiamato da Dino De Laurentiis che mi fece un contratto per tre anni in esclusiva, poi Dino andò in america. L’avvocato Todini, braccio destro di Dino e mio grande estimatore, quando uscì “Roma a Mano Armata” di Umberto Lenzi, che ebbe un successo enorme, mi chiamò e mi presentò a Luigi De Laurentiis e suo figlio Aurelio (rispettivamente fratello e nipote di Dino). Loro da tre mesi avevano sotto contratto Fulci e Gianviti per realizzare un film dal romanzo “Terapia Mortale”, ma non riuscivano a tirare fuori una storia efficace.
Venni coinvolto. Ci fu molta diffidenza reciproca tra Fulci e me. Lui mi prese come un uomo dei produttori messo lì a sorvegliarlo, io francamente conoscevo poco il cinema di Fulci e non mi fece una buona impressione, mi sembrava un mestierante con poche idee molto confuse che andava dai film di genere musicale ai comici con Francchi e Ingrassia, ai western ecc. Per quanto riguarda il giallo aveva una ammirazione sconfinata per la “vecchia” (Agatha Christie) ma non sapeva costruire plot adeguati, tantomeno Gianviti.
Dopo qualche mese di inutile tentativo fu messo da parte “Terapia Mortale” e inventai uno spunto su una sollecitazione di Fulci. Lui diceva che al destino non si sfugge, anche se lo conosci in anticipo. Io scommisi con lui che si poteva costruire un meccanismo dove il destino poteva essere beffato. Nacque così “Sette Note in Nero” (titolo di Fulci) con il carillon (idea mia che Fulci ha sempre ritenuto geniale). Il film non fu realizzato più dai De Laurentiis.
Ci perdemmo di vista, poi nel ’78 un produttore lesse un numero di Tex Willer dove Tex era alle prese con gli zombi e mi chiese di pensare ad una storia western con gli zombi, io invece scrissi insieme a Elisa Livia Briganti (che era ed è mia moglie) una storia con gli zombi ma avventurosa, a me è sempre piaciuta la contaminazione tra i generi. Non è vero che i produttori non fossero contenti, al contrario. Il Titolo “Zombi 2” è del produttore Tucci, Argento si lamentò, ma Fulci gli fece notare che nel film di Romero non si parla mai di zombi quanto di morti viventi e che comunque a partire dagli anni trenta c’erano almeno venti film con la parola zombi nel titolo, che quindi non era una invenzione di Dario.
Il produttore si associò ad altri due (uno era De Angelis) e misero in piedi il film. Chiamarono Enzo G. Castellari, che però chiese 40 milioni per la regia. La sceneggiatura era già pronta e tradotta in inglese da un paio di mesi. Alla fine scelsero Fulci che era in disgrazia (i suoi ultimi film erano andati male, la moglie tedesca era scappata con i soldi, la figlia era caduta da cavallo) e Fulci accettò di girare il film per sei milioni.
In quel momento Fulci non era un regista d’horror, al contrario. Girò la sceneggiatura esattamente come era scritta senza inventare nulla. La famosa scena dell’occhio era scritta dettaglio per dettaglio. Il film ebbe un successo clamoroso, soprattutto all’estero. I produttori guadagnarono più di seicento milioni a testa (milioni del ’79). Ma nessuno dei tre pensò di fare subito un altro film. Fulci non divenne un regista d’horror, ovvero si convinse delle sua capacità nel genere, solo dopo il successo che “L’Aldilà” ebbe a Parigi. Fino a quel momento, Fulci pensava al “salotto buono” del cinema italiano, pensava a tornare a fare commedie con attori importanti, ma era snobbato e lui ci soffriva. Dopo Parigi, quando trovò il suo pubblico e si rese conto che nel genere poteva trovare un suo posto, si trasformò e cominciarono i problemi di rapporto fra lui e me. Fino a quel momento il “creativo” ero io, ero io il “pazzo” che ama l’horror, da allora in poi volle esserlo solo lui e cercò di sminuire il mio apporto, e i rapporti si fecero tesi. I film successivi furono difficili, con molti contrasti, poi io me ne andai in America da Dino DeLaurentiis a scrivere “Ogre” insieme a Colin Wilson, “Flash Gordon 2”, “Man Wolf” e “Ghost Rider” dai fumentti della Marvel. Fulci fece “Conquest” nel tentativo di abbandonare il genere horror. Gli andò male e finì a fare dei filmetti o a vendere la sua firma. Fu un gran peccato. Ci rincontrammo un anno prima della sua morte grazie a Dario Argento. Scrissi per Lucio su suo input un bellissimo trattamento: “La Mummia”! Dario si incazzò. Disse che era una stronzata. Tre anni dopo gli americani fecero “La Mummia” e fu un grande successo. La cosa strana è che la prima parte della mia storia e il film degli americani è simile, molto simile.
La frase finale di James sui bambini, alla fine di “Quella Villa Accanto al Cimitero”, richiama la frase finale di “Reazione a Catena”, i finali legati ai bambini sono una mia fissa.