di Sandro Moiso

gezi park

Proprio mentre mi accingevo a scrivere la seconda parte di questo intervento ho letto, su un supplemento mensile del Sole 24ore, che “uno studio scientifico invita a diffidare di chi propone soluzioni radicali ai problemi più delicati: di solito non sanno di che cosa stanno parlando, sono solo ignoranti*. E io che pensavo che le molotov dei manifestanti brasiliani contro i municipi e i parlamenti regionali costituissero l’equivalente, in termini di sintesi di una teoria critica della società, della formula einsteiniana della relatività ristretta (E = mc²)!?!

 Ma forte del mio ignorante estremismo, corroborato, nonostante tutto, da una bella serie storica di ignoranti ed estremisti (da Karl Marx a Rosa Luxemburg e da Friedrich Engels a Amadeo Bordiga), ho deciso di continuare lo stesso a cercare di disvelare ciò che si nasconde in alcune semplicistiche affermazioni, collegate ai problemi della crisi e del lavoro, contenute nei più recenti non-provvedimenti governativi e in alcune affermazioni di principio di sindacati e movimenti, presunti, di opposizione.

Che i provvedimenti governativi varati negli ultimi tempi siano, a tutti gli effetti, dei non-provvedimenti è ormai cosa acclarata anche da i principali organi di informazione di regime. Il gioco delle tre carte con cui il governo Letta cerca di guadagnare tempo in attesa dei mitici miliardi di euro previsti in entrata dalle casse europee per il 2014 è sotto gli occhi di tutti. Il caso del rinvio del pagamento dell’Imu e dell’aumento dell’IVA grazie ad un saldo anticipato di Irpef, Irap ed altri balzelli oppure all’aumento di tasse su carburanti e sigarette (elettroniche e non) oltre che una più che probabile ulteriore operazione autunnale di spending review ha costituito soltanto la dimostrazione più eclatante di tale modo di procedere. Una paralisi assoluta travestita da agilità.

 Le casse dello Stato sono  evidentemente vuote e il remake di “Prendi i soldi e scappa”, realizzato dal governo Monti a favore delle banche e della finanza internazionale, inizia a dare i frutti previsti, mentre nel panico generale i partiti e gli uomini di governo cercano di mantenere la calma dietro un vuoto dibattito sulle vicende giudiziarie di Berlusconi, su chi sarà il futuro segretario del PD oppure sullo scontro tra falchi e colombe nella  formazione politica berlusconiana o, ancora, con l’ennesima bufala sulla possibile estradizione di Battisti dal Brasile. Tutto, naturalmente, col più grande aplomb da parte del premier più insipido che la Repubblica abbia mai prodotto.

 Gli annunci roboanti riguardanti gli ottanta punti del Decreto del fare, i provvedimenti europei previsti per affrontare la disoccupazione giovanile e, per finire, l’ultimo decreto su IVA e Lavoro, hanno rivelato chiaramente che la montagna (l’ennesimo Governo di salvezza nazionale) ha partorito un topolino. Che lascia insoddisfatti tutti, anche coloro che dovrebbero  esserne i maggiori beneficiari.

 Che si tratti di un gioco d’azzardo simile a quello operato da bari di scarso valore sulle piazza dei mercati è rivelato da tanti particolari. Prendiamo ad esempio l’intervento sull’istruzione. Si annuncia in maniera roboante che si favorirà un nuovo avvicinamento tra scuola e impresa grazie alle attività di tirocinio nelle imprese per gli allievi delle classi quarte, soprattutto degli istituti tecnici e professionali.   Peccato che tale attività, nota come stage di formazione, sia già in atto da anni nelle scuole professionali e tecniche, sotto il nome di alternanza scuola-lavoro. L’unica vera novità, ma in realtà non lo è neanche quella, sta nel fatto che essendo esauriti da tempo i fondi assegnati per tali attività il governo in carica ha pensato bene di trovarli falcidiando ulteriormente i fondi assegnati agli insegnanti per le attività non direttamente connesse alla didattica curricolare, i cosiddetti fondi di istituto. Con buona pace della ministra carrozza e della sua “ferma opposizione a qualsiasi ulteriore taglio alla scuola pubblica”!

 Vale la pena di fermarsi ancora un momento su questa iniziativa, poiché ha raccolto il plauso soprattutto del PD, convinto di operare in vista di una scuola più attenta ai bisogni delle imprese e del lavoro, di una scuola più tedesca. Dimenticando che in Germania il rapporto tra scuole tecniche e imprese non è solo affidata ad una variazione del 20 – 25% dei programmi curriculari delle singole scuole, ma ad un fermo impegno, anche finanziario, delle imprese nei confronti degli istituti che ad esse si collegano. Qui, in compenso, ma nessuno lo dice, con la scusa della liceizzazione (a partire dalle riforme dell’allora ministro alla Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer e, forse, già anche prima con la chiusura dei laboratori di Officina nel biennio iniziale dei tecnici) si sono progressivamente ridotte le ore e le spese inerenti ai laboratori tecnici così importanti ai fini di una seria formazione tecnica e professionale. Ma si sa, in una nazione in cui l’unica aspirazione degli imprenditori è quella di avere una manodopera sempre meno qualificata e sempre più a basso costo, questa non con serve e non conta.

Anzi sempre più spesso si ha l’impressione che il lento, ma inesorabile passaggio dall’istruzione professionale statale alla formazione professionale regionale non preluda ad altro che a trasformare le attuali scuole tecniche e professionali nell’equivalente del vecchio avviamento professionale, messo definitivamente a dormire dall’avvento della scuola media unica nei primi anni sessanta. Un percorso di formazione più breve e già intriso di prestazioni lavorative sottopagate sotto forma di apprendistato. Nelle piccole e medie imprese. Di cui si continuano a cantar le lodi, dimenticando il ruolo reale assegnato loro dal percorso dello sviluppo ( ma vogliamo proprio ancora chiamarlo così?!) capitalistico. Per comprenderlo può essere utile fare riferimento, ancora una volta, a un testo di Rosa Luxemburg del 1898, già precedentemente citato.

Il medio ceto capitalistico, si trova, proprio come la classe operaia, sotto l’influenza di due opposte tendenze, una che tende ad innalzarlo ed una che tende ad abbassarlo. La seconda è nel caso in questione il costante elevarsi del livello della produzione, che supera periodicamente i limiti dei capitali medi e li esclude sempre da capo dalla concorrenza. La prima è data dal deprezzamento periodico del capitale esistente, che abbassa sempre da capo per un lasso di tempo il livello della produzione a seconda della entità del necessario capitale minimo, come pure dall’estendersi della  produzione capitalistica a nuove sfere. Il duello della media azienda col grande capitale non dev’essere immaginato come una battaglia regolare, nella quale la truppa della parte più debole si riduce sempre di più, direttamente e quantitativamente, ma piuttosto come una falciatura periodica dei piccoli capitali, che poi sempre rapidamente ricrescono per essere nuovamente falciati dalla falce della grande industria. Delle due tendenze che giocano a palla con il medio ceto capitalistico, in ultima analisi vince la tendenza depressiva. Ma essa non ha assolutamente bisogno di manifestarsi nell’abolizione numerica assoluta della media azienda, bensì in primo luogo nell’aumento progressivo del capitale  minimo, necessario alla sopravvivenza delle imprese nelle vecchie branche, in secondo luogo nel periodo di tempo sempre più breve durante il quale i piccoli capitali possono sfruttare per conto loro le branche nuove. Ne deriva per il piccolo capitale individuale un periodo di vita sempre più breve  e un trasformarsi sempre più rapido dei metodi di produzione e dei modi di impiego, e per la classe nel suo complesso un ricambio sociale sempre più rapido.

 […] in tal modo è stabilita anche la legge medesima del movimento delle medie aziende capitalistiche. Se i piccoli capitali sono le truppe d’avanguardia del progresso tecnico, e se il progresso tecnico è il polso vitale dell’economia capitalistica, i piccoli capitali costituiscono evidentemente un fenomeno collaterale inseparabile dello sviluppo capitalistico, che può scomparire soltanto insieme a quest’ultimo. La scomparsa graduale delle medie aziende […] significherebbe non il processo di sviluppo rivoluzionario del capitalismo, ma proprio il suo ristagno e il suo intorpidirsi” (R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, Editori Riuniti, 2012, pp. 177-178).

In altre parole, mentre la concentrazione finanziaria e industriale opera per la caduta in letargo dello sviluppo capitalistico, la piccola e media azienda, nella loro disperata battaglia per mantenersi a galla e sviluppare nuove prospettive di quote di mercato e dinamiche produttive, determinano la continuità dello stesso, in una sorta di simbiotica e complessa battaglia per la sopravvivenza. Che, però, la crisi accentua in maniera drammatica.

 Ecco allora che se per la grande azienda diventano importantissime le prebende statali, il mercato azionario e l’azione bancaria di supporto, per la piccola e media azienda diventano importantissime le azioni volte a ridurre i costi del lavoro e delle tecnologie necessarie alla produzione.  Si spiega così il piagnisteo delle PMI sui costi del lavoro e le risposte in tal senso che i governi della crisi hanno iniziato a dare. Quando sentiamo che in Albania operano ormai decine di piccole e medie aziende italiane che approfittano di salari medi intorno ai 300 euro per fornire al mercato un prodotto competitivo con quello cinese (per qualità, costo e tempi di realizzazione e consegna), capiamo qual è il destino dei lavoratori italiani.

 Non solo dal punto di vista salariale, poiché nel decreto del fare oltre che provvedimenti tesi a favorire i prestiti alle aziende per l’acquisto di nuovi macchinari o a facilitare la realizzazione di nuovi edifici ignorando i limiti di sagoma precedenti, si è inserita anche una norma che permette alle aziende di auto-certificare la sicurezza dei cantieri, anche là dove operano imprese diverse e, quindi, aumentano i rischi…ma si sa, sicurezza e prevenzione rappresentano un costo che, con questi chiari di luna, è meglio tagliare.

 Anche su scala europea, soprattutto per i giovani, le cose non sembrano andare meglio. Tutto sommato l’unica proposta concreta uscita dal vertice europeo sull’occupazione giovanile sembra essere quella di tornare a favorire, anche con incentivi dai 250 euro per un colloquio di lavoro fino a 1200 per un trasferimento per motivi di lavoro, l’emigrazione verso altri paesi europei (Germania) dei giovani disoccupati dei paesi più in crisi (Spagna, Italia, Portogallo).

 Ciò non costituisce una novità per la politica italiana, ma, anzi, un autentico ritorno alle politiche democristiane del 1947, quando, in un solo anno, l’allora Ministro del lavoro e della previdenza sociale Amintore Fanfani stipulò   cinque diversi accordi con Francia, Belgio, Svezia, Argentina e Cecoslovacchia per permettere l’invio di manodopera italiana in  quei paesi (accordi che furono all’epoca definiti come “braccia in cambio di carbone”), seguiti poi da quelli degli anni cinquanta con Germania e Gran Bretagna.

 Certo, oggi, sembra differente il target costituito dai nuovi migranti (diplomati e/o laureati), ma sostanzialmente la soluzione occupazionale non cambia, anche se forse sarebbe meglio ridefinire il tutto, invece di “Erasmus”, con “braccia e cervelli in cambio di fondi europei”. Tanto per gli esclusi rimarrà il nuovo incentivo mensile di 650 euro, per dodici mesi, per le aziende che, soprattutto al Sud, assumeranno a tempo indeterminato i giovani tra i 18 e i 29 anni privi di licenza media o di istruzione superiore, magari con persone a carico e non residenti con i genitori. Per questo motivo, nel nuovo decreto, sarebbe stato meglio parlare di “fondi per i desperados”, destinati chiaramente ad essere pagati poco più dell’incentivo offerto dallo stato alle imprese che li assumeranno.

Appare perciò veramente logora la retorica di Enrico Letta che, mentre finge di spronare le imprese ad investire ( e quando mai lo hanno fatto negli ultimi anni?), sa benissimo che il miliardo e mezzo di euro strappati all’Europa (probabilmente in cambio della fornitura di forza-lavoro intellettuale a basso costo, come si diceva più sopra, per i paesi più ricchi) finiranno coll’essere distribuiti a pioggia tra imprese “amiche” o ad hoc per contratti destinati a finire col finanziamento stesso. Altro che assunzioni a tempo indeterminato!

In tutto questo può esserci davvero qualcosa che accomuni gli interessi delle imprese, anche piccole, a quelli dei giovani e dei lavoratori? Non occorre pensarci su troppo, la risposta è semplice: NO! Proprio per questo motivo sarebbe meglio ripensare quelle parole d’ordine un po’ avventate di coloro che, pur mossi dalle migliori intenzioni, finiscono col rimanere irretiti nelle maglie dell’ideologia filo-capitalistica e nazionalista e di cui, ad esempio, le proposte di uscita dall’euro e dall’Europa costituiscono un contraddittorio aspetto.

 Se si valutassero con attenzione queste proposte ci si accorgerebbe che tra i loro fautori non  soltanto ci sono anche leghisti beceri e fascisti di ogni risma, ma pure i rappresentanti del mondo delle imprese (tra cui, indirettamente, il solito Sergio Marchionne) che da una svalutazione dell’euro o dal ritorno alla lira godrebbero di indubbi vantaggi commerciali e di esportazione del proprio prodotto. A danno di chi? Dei soliti lavoratori italiani naturalmente, il cui  lavoro sarebbe immediatamente e  ulteriormente svalutato  nel momento in cui un salario in lire non potrebbe far altro che ridurre ancora la loro capacità di acquisto  di beni di consumo. Il populismo, Grillo ne è la dimostrazione più evidente, striscia soltanto nelle vicinanze degli interessi dei lavoratori, ma alla fine tende a propendere sempre dalla parte del capitale e delle aziende .

 Non è stata vantaggio dei lavoratori la scelta di entrare in Europa e nell’euro, è chiaro, ma oggi  una richiesta di uscita non può essere considerata prioritaria da un punto di vista classista poiché servirebbe soltanto a far precipitare nella povertà e nel nazionalismo più becero i disoccupati e i lavoratori dipendenti. Separandoli dai loro compagni “di classe” europei. In fin dei conti il dittatoriale Erdogan su una cosa aveva ragione nei giorni scorsi, quando ha affermato che “in Turchia e in Brasile gli organizzatori della protesta sono gli stessi”. Sì, sono i lavoratori e i giovani stufi di soprusi, corruzione ed ingiustizie. Stufi di pagare un debito non loro, (non importa se in real, euro o lire turche), stufi di dipendere dalle promesse di leader autoritari ed inconcludenti, stufi della società del capitale, dei suoi sprechi e delle sue distruzioni.

Le parole d’ordine ci sono già tutte (sospensione o ricontrattazione del pagamento del debito pubblico accumulato attraverso i titoli di stato, sospensione delle spese e delle missioni militari, cessazione degli investimenti nelle grandi opere inutili, patrimoniale severamente progressiva, riduzione dell’orario di lavoro… solo per ricordarne alcune), non occorre cercarne altre per unificare le lotte che si muovono in questo senso dalla Val di Susa a Gezi Park, da Taranto ad Atene e da Smirne a Belo Horizonte. Perché è solo in questa unità di lotte e di intenti, e nella chiarezza che li determina, è possibile che si manifesti la difesa e l’affermazione degli interessi dei giovani, dei lavoratori  e, nel suo insieme, della comunità umana futura.  

 * Antonio Sgobba, Sei estremista? Be’, vuol dire che ti illudi di sapere, IL, giugno/luglio 2013, pag.24