di Franco Pezzini
Orazio Labbate, Cravuni, pp. 128, € 16, Grey Interzona, Napoli 2025.
“Pescò sotto la sedia un pacco di cereali Frostie’s violati da scritte in miniatura quasi da commentario giuridico medievale. La sedia ricordava quelle papali epperò di inferiore qualità, una sedia superstite di molti papi morti su di essa”.
“Nenti, non funzionava l’arma”.
Come in genere le codificazioni mitiche letterarie, anche quella del gotico siciliano di Orazio Labbate si allarga progressivamente sull’onda di creazioni, suggestioni e trovate successive. Chiusa così la prima trilogia (Lo Scuru, 2014 e 2024; Suttaterra, 2017; Spirdu, 2021) che offre un impianto anzitutto linguistico ma anche tematico (ossessioni e possessioni, catabasi ctonie, viaggi sciamanici e ritorno dei morti, ibridazioni cultuali, retaggi inferi arcaici), gettate le basi di una tassonomia febbrile ma perfettamente giustificata per il panorama che ha fondato le sue fantasie (L’orrore letterario, 2022), aperte le porte a una nuova – non diversa perché contigua – ramificazione nella direzione del mito (La Schiaffiatùra, 2024), l’autore le offre ora un nuovo sviluppo triforcuto come una zampa artigliata o il tridente di qualche divinità.
Cravuni (molto bella la veste grafica) è infatti la prima avventura di una trilogia pensata in modo transmediale: se da Lo Scuru stanno infatti emergendo a posteriori un videogioco e un film – linguaggi entrambi seminali per l’orizzonte narrativo di Labbate –, al contrario Cravuni è pensato a monte come prodotto che si muove sui tre piani. Senza tradirne alcuno: la scrittura è quella curatissima, indocile, delirante e francamente mannara degli altri romanzi, lingua delle ombre per scendere sotto le lande dove Ade rapì Kore e dove non si è mai sicuri se interagiamo – se siamo noi stessi – vivi a questo mondo, quindi una lingua letteraria in senso proprio; ma gli sviluppi visivi e d’azione trascinano già dentro gli spazi videoludici e cinematografici, deserti e cieli mossi, luoghi equivoci, miniere. Che ci piaccia o no, i diversi linguaggi sono ormai imprescindibili dall’occhio di un narratore: e come i vecchi gotici si muovevano negli spazi di altre arti – architettura, pittura, ovviamente teatro… – per definire le proprie oscurità, così oggi il gotico migliore si muove nel dedalo di tali differenti dimensioni. Walpole non avrebbe scritto il suo Castello d’Otranto senza l’appoggio del teatro da un lato, di architettura e arti figurative dall’altro; e per altro verso, Füssli ha influito direttamente su Mary Shelley e Poe, Le Fanu e Stoker, non solo nella sagoma-tormentone del suo Incubo dipinto, ma per tutto ciò che in generale vi sta dietro di allucinatorio, spettacolare e febbricitante.
Del tutto coerente dunque lo sviluppo crossmediale per cui è stata appositamente fondata la sinergia Grey Interzona (edizioni Polidoro, casa di produzione multimediale Grey Ladder, sviluppatore di videogiochi Tiny Bull Studios), la natura per Cravuni di “arcade letterario” – nel senso della parola “inglese arcade […], che indica genericamente una galleria commerciale, [e] significa in questo caso sala giochi” (Wikipedia) – con la scelta di un ritmo incalzante e uno sviluppo paginale congruo all’avventura.
Che richiama d’altronde (riflessioni non nuove, ma bello vedervi conferma) a una dimensione di mistero specifica del gotico. Mistero proprio nel senso tecnico, di riti collettivi appartati che nel mondo antico in chiave religiosa definivano attraverso azioni rituali più o meno indicibili il rapporto con la natura (agricoltura, eccetera) e via via con una sopravvivenza oltremondana; ma nella chiave moderna e laica di una società urbana, la natura passa quasi solo attraverso la percezione degli eventi nascita, sessualità e morte, che soltanto una narrazione fortemente intrisa di simbolo può dire. Proprio nell’esperienza di chi vive una sensibilità – e magari prassi comunitarie: rapporto con le arti, eventi, persino abbigliamento – nel segno del gotico è evidente che una certa mitopoiesi non si esaurisca nella facile mascherata, afferendo piuttosto a un linguaggio interiore con cui trattare per simboli e allusioni le grandi domande. Un linguaggio interiore fatto – si è detto – di riti (laici, per carità, ma densi di simbolismo) e brandendo oggetti transizionali e “liturgici”: e a ben vedere anche certe prassi videoludiche presentano elementi in senso lato rituali e il ricorso a certe attrezzature. Cravuni capitalizza tutto questo: la catabasi in scena sembra presentare delle componenti rituali, di azione “sacra” (nel senso di essere compiuta da figure divine).
E proprio coi piedi ben saldi tra miti e misteri, Labbate narra nella lingua e coi topoi del gotico siciliano – il rapporto tra America polverosa delle grandi strade e calcinate origini trinacrie, le mostruosità e il sincretismo ctonio – la vicenda naturaliter poliziesca (cfr. le partizioni individuate in L’orrore letterario) di un detective un po’ all’Angel Heart. Ma il paganesimo che sostanzia l’oscurità non è qui quello dei culti ibridati degli schiavi, bensì quello del mito antico mediterraneo, non meno meticcio e incerto. Se nella prima trilogia il substrato “cristiano” – con tutte le virgolette del caso, perché grondante antichi miti inferi del paganesimo – era più marcato, qui la sovrapposizione / compenetrazione è con gli dei di una grecità ben poco luminosa: siamo nei territori minacciosi dell’Apollo con il coltello in mano di Detienne, dei cani inferi di Ecate – l’uomo-cane Calorio (di nome Larrie, come l’uomo lupo Larry Talbot dei vecchi horror Universal) –, di una mafia trasfigurata in consorzio spettrale.
Il detective Frank LaBella, orbato di un occhio nel segno di quelle mutilazioni mitiche che lo accomunano a Odino e altri ciclopi, abbandona l’Oklahoma per tornare a Riesi in provincia di Caltanissetta, da dove veniva suo nonno. Sta seguendo una pista privata, l’orrendo omicidio di sua madre, e intanto specula sul Divino, in una continua opposizione venata di blasfemia tra le sue divinità misteriche – sfuggenti come i Grandi piccoli di Samotracia – e il Dio cattolico. Non è troppo strano: LaBella è a sua volta una divinità, un Apollo impegnato in una teomachia notturna, allucinata e fitta di oggetti simbolici e desueti alla Francesco Orlando come improbabili attrezzi liturgici (spadini, una forchettina a due punte, un graal di metallo, una bottiglietta di amaro, coltellini, “varie piccidde armi nate da un accoppiamento tra armi che facevano parte di altre armi”, su un altare “svariati oggetti che sembravano da toilette”, immaginette eccetera) nonché d’ombre di Cerberi e Arpie. Ma tutto il quadro è fervente di echi: i cannocchiali di Pino Badrose, carpentiere e “archeologo delle coscienze” (Efesto? vive tra i fornelli), sembrano usciti dalla bottega dell’equivoco Coppola de L’uomo della sabbia di Hoffmann, a ricollegare alla più solida tradizione gotica dell’onirico e della visione smaniante.
Dimentichiamo le malinconie romantiche da ritorno dell’emigrato, canzoni come Torno a casa o Paese mio. Qui come per il Giuseppe Buscemi di Suttaterra – amico del nonno di LaBella – è un ritorno dal sapore di morte legato a un bigliettino: la scrittura, in Suttaterra di una lettera, ha sempre potenzialità nel segno del passaggio. Il vilain con cui fare i conti è il tenebroso Boss Tony Lavuru (un Ermes degradato, deformato come in un altorilievo tardivo) di una Mafia spiritica, e LaBella dovrà affrontarlo.
La presenza di cereali (Kellogg’s Frosties, Kellogg’s d’Ermes e altro), in tutta questa storia, rimanda al loro ruolo negli antichi misteri, Eleusi e non solo, ma anche a un’antieucarestia nel segno dell’infezione; e lontano dagli scintillii di La Cabala di Thornton Wilder e dall’umbratile claustrofobia fiamminga di Malpertuis di Jean Ray, il ritorno degli antichi dei – a volerlo definire con Aby Warburg – si consuma nel sordido. Con Jung e Hillman “Gli dèi sono diventati malattie”, ma di statuto divino è anche l’incredibile psicopompa Cuncittina Bity con cui nascerà un amore. Nonché un nuovo sottogenere narrativo, il thriller della mitologia siciliana criminale, che qui trova qui un visionario, iniziatico cominciamento al ritmo serrato del videogioco. “Siamo costituiti di membra condite da stanchezze mostruose”. E a sovvenirvi, tanto più nei nostri tempi bui, ci sostengono le storie.