di Gioacchino Toni

Oltre ad aver diretto collane di libri per ragazzi Philippe Godard ha preso parte all’opera collettiva Le Siècle rebelle, dictionnaire de la contestation au XXe siècle (Larousse 1999) ed ha dedicato saggi al mondo del lavoro e allo sfruttamento dell’infanzia. Del francese le edizioni Elèuthera hanno pubblicato in passato i testi Ladri d’infanzia (2002) e Contro il lavoro (2011). Nel primo libro l’autore si è preoccupato di denunciare come la legge del profitto uccida l’infanzia trasformando da una parte sempre più minori del Terzo mondo in piccoli-lavoratori schiavi, e dall’altra i coetanei dei Paesi ricchi in super-consumatori di prodotti fabbricati spesso dai primi. Oltre a denunciare con dovizia di dati tutto ciò, Godard propone una riflessione economica, politica, storica ed etica sui rapporti tra minori e adulti nel mondo contemporaneo. Nel secondo libro Godard si muove dalla convinzione che mettere in discussione il lavoro significhi mettere in discussione il senso della vita perché nonostante il lavoro concorra notevolmente a definire l’identità dell’individuo e la sua collocazione nel mondo, esso è ben lontano dall’esprimere la creatività dell’essere umano. Nella contemporaneità, sostiene lo studioso, il lavoro è divenuto un mero strumento funzionale alla logica della società dei consumi in una spirale in cui si lavora e si produce sempre più freneticamente al solo fine di consumare altrettanto freneticamente. Nel volume viene pertanto proposta una critica radicale che prende di mira l’etica del lavoro tanto di derivazione protestante quanto di matrice socialista.

Di Philippe Godard è stato recentemente pubblicato in lingua italiana, sempre da Elèuthera, con traduzione di Andrea Libero Carbone, Il consenso nell’epoca del terrorismo (2018), uscito da un paio di anni in Francia con il titolo Du consensus au terrorisme (Golias Éditions 2016). In questo nuovo libro l’autore propone una riflessione sulla formazione del consenso in democrazia, in un’epoca segnata dalla violenza diffusa, partendo da una doppia constatazione. Ciò che oggi viene etichettato come terrorismo risulta talmente manipolato dai media da determinare un impatto sproporzionato sull’immaginario sociale e sui processi decisionali. «Inoltre il consenso, cioè il riconoscersi in una data società anche in modo critico, si è talmente diluito da configurarsi come un consenso banalizzato che funziona solo in negativo: incapace di definire valori comuni, si limita a indicare capri espiatori, alimentando così quello stesso terrorismo che combatte». Pertanto, sostiene Godard, consenso e dissenso necessitano di essere rielaborati alla luce di tali profondi cambiamenti sociali e di immaginario «che mettono in discussione anche il monopolio della violenza rivendicato dal potere “legittimo”».

Godard mettere in evidenza come ai nostri giorni il consenso e il terrorismo lavorino di concerto. La violenza è qui pensata «dal punto di vista degli oppressi, tanto coloro che la subiscono quanto coloro che pensano di metterla in atto». L’analisi dello statuto del consenso, nella sua attuale debolezza e nel suo fondarsi su basi decisamente discutibili, si sviluppa nel volume attraverso tre assi di ricerca al fine di «comprendere il successo delle teorie cospirazioniste nel mondo moderno e la ragione per cui ideologie tanto violente incontrino un tale successo in settori molto ampi della popolazione».

Il primo asse si dipana attorno alla perdita di senso della violenza; si è velocemente passati da un suo carattere politico soprattutto tra gli anni Cinquanta ad i Novanta del Novecento (dalla guerriglia sudamericana alle forme metropolitane europee) all’attuale perdita di questo senso politico.

Il secondo asse ha a che fare con l’incapacità delle democrazie contemporanee di porre questioni radicali. «Il punto che va qui affrontato riguarda non solo il terrorismo, ma anche il modo in cui talvolta le democrazie esportano la violenza – e ahimè lo fanno spesso – da qualche altra parte del pianeta». Si è rivelato più semplice condannare le esperienze guerrigliere tardo novecentesche agendo incrementando i livelli di repressione e controllo nei confronti non tanto “dei terroristi”, ma contro la popolazione nel suo insieme. «Questa politica repressiva minaccia ormai di far precipitare tutte le democrazie in puri e semplici regimi dittatoriali».

Il terzo asse di ricerca riflette sulla necessità di trovare nuove modalità di contrastare il generarsi del terrorismo e con esso i meccanismi del potere che contribuiscono a determinarlo e che approfittano di esso per aumentare il controllo sulla popolazione.

Godard insiste nel denunciare il ruolo dei media nella costruzione di un immaginario avariato e funzionale al mantenimento del consenso che agisce di concerto ai fenomeni di terrorismo contemporanei. Se si pensa che quell’11 settembre del 2001, mentre la mano terrorista faceva circa 2.800 morti nell’attacco al World Trade Center, contemporaneamente nel mondo morivano 30.000 esseri umani di fame, ed altrettanti erano morti, per lo stesso motivo, il giorno prima e sarebbero morti il giorno dopo nel silenzio assordante dei media. È spaventosa la sproporzione con cui i media hanno dato il giusto peso alle vittime dell’attentato e il silenzio quotidiano per i 30.000 esseri umani che ogni giorno muoiono di fame. Tale sproporzione non può che dar luogo a un diffuso immaginario alterato.

Paradossalmente il mondo contemporaneo, sottolinea l’autore, «è si percorso da guerre, ma la maggior parte dei paesi vive in pace. Regna così una sorta di appagamento generalizzato, un consenso di persone soddisfatte… Soddisfatte? Spesso è proprio chi gode dei benefici di questo sistema profondamente ingiusto a deplorare la violenza agli angoli delle strade, il “jihadista” che colpisce alla cieca, perché l’irruzione di una violenza che sembra del tutto priva di senso rivela la fragilità di quel benessere e i suoi limiti. C’è dunque al contempo la consapevolezza che il mondo non è poi così violento, o è addirittura in pace, e la sensazione diffusa che chiunque possa essere colpito da qualche terrorista, dal membro di una gang o da un pilota d’aereo suicida. L’ultraviolenza non è necessariamente una violenza subita, e oltretutto ha dimensioni infime rispetto alla scala umana. Si tratta tuttavia di una violenza fortemente percepita». Dunque, si chiede lo studioso, perché parlare di ultraviolenza? «Perché il suo carattere cieco e imprevedibile fa sì che ognuno si senta coinvolto nella marea di informazione o di disinformazione che lo investe tutti i giorni, e che per la maggior parte di noi non si ferma quando si spegne la TV o la radio. Proprio come per il senso di insicurezza, è difficile negare il ruolo preponderante dell’informazione, in tutte le sue forme, nel veicolare l’ultraviolenza quotidiana, che è ascoltata, vista, letta e quasi vissuta in diretta».

Fino ad ora i paesi che si vogliono democratici hanno pensato di combattere il terrorismo, come ne fossero del tutto estranei, attraverso ricette che «contraddicono quel che rimane della democrazia». Se nel mondo contemporaneo il consenso si basa su facili capri espiatori (il terrorista islamista, i complotto ordito dai servizi segreti di questo o quell’altro stato…) esso «poggia in parte sulla convinzione, condivisa da buona parte della popolazione, che esistano perenni cospirazioni, allora è opportuno “disintossicare” questa parte della popolazione» attraverso un’operazione culturale che dia luogo a una ripoliticizzazione del corpo sociale e ad un immaginario altro rispetto a quello proposto. Occorre, sostiene lo studioso, una nuova forma di consenso che si basi sul dibattito e sul contraddittorio, un consenso che includa il conflitto, che discuta delle differenze e delle divergenze.

«Siamo ormai in tanti» conclude Godard, «a non accontentarci della propaganda di Stato veicolata dai grandi media, soprattutto radio e televisione, o a rifiutarla del tutto, così come non ci accontentiamo più del modo in cui ci “rappresenta” la classe politica, che va perdendo credito a ogni tornata elettorale dato che non rispetta il mandato del popolo. La politica politicante è ormai diventata del tutto irrilevante». E forse, aggiungiamo noi, anche in fenomeni come quello dei gilets jaunes che sta attraversando la Francia da qualche tempo, pur tra mille contraddizioni, è ravvisabile questa sempre più diffusa insopportabilità del potere, delle sue politiche e delle sue menzogne.


Serie “Guerrevisioni