di Giovanni Giuseppe Nicosia

Non ricordo quante erano, ma non dovevano essere meno di un centinaio. Molte sulla cinquantina, alcune più giovani. Venivano dalla provincia, da Altedo, da Bentivoglio, da altri comuni della Bassa, ma alcune avevano accenti del sud. Poche abitavano in S.Donato. Avevano ricevuto una letterina formale formale, una ciascuna, che annunciava la prossima chiusura dello stabilimento in cui lavoravano ed erano rimaste sgomente. Nulla avrebbe fatto prevedere che in quella fine del secolo XX la Benkiser, floridissima reincarnazione, nel samsara del capitalismo, di un pezzo di Panigal, potesse avere necessità di fare una cosa del genere. I tedeschi avevano comprato da neanche una decina d’anni quel troncone della storica ditta bolognese che produceva detersivi (120 anni di fatica operaia), avevano fatto investimenti per modernizzare gli impianti, avevano assunto operaie e avevano anche finanziato corsi di formazione fino a dieci giorni prima. Nessun segno di crisi. Poi quella decisione: spostare la produzione in nome del risparmio sui costi del lavoro, del profitto aziendale, della libertà del Capitale da ogni umano vincolo.

Non era la prima volta. Già diverse aziende si erano spostate in altre parti d’Italia, laddove il clima era meno favorevole agli operai ed il controllo dei sindacati sull’applicazione dei contratti e delle leggi era più blando. Il Veneto aveva attratto i capitalisti per tutto il decennio precedente. La cultura del Nord Est consentiva anche manovre di evasione fiscale che in Emilia erano più complesse.  Qualche padroncino aveva preferito le Marche.

Ma ora, con i vari trattati di libera circolazione europea le destinazioni erano cambiate verso differenze ancor maggiori. Un ministro romeno, uno che dieci anni prima era stato in prima fila a bruciare i libri dell’Università di Bucarest, era apparso in televisione giurando che nel suo paese certe brutte cose come gli scioperi non si facevano. E i manager avevano cominciato a fare le valigie. L’Emilia cominciava a svuotarsi.

La Hatù-Ico, altra colonna dell’economia locale dall’apparenza incrollabile, aveva cominciato una lunga trattativa per lasciare Casalecchio. Gli operai, soprattutto donne, avevano avuto modo di capire le manovre e si erano mobilitati. La polizia del “governo amico”, quello in cui exdemocristiani e qualche excomunista pentito privatizzavano ogni cosa, si era schierata dalla parte dei padroni, come sempre, ed aveva colpito duro come non si era visto da un po’. Persino il sindaco era rimasto contuso le cortile della fabbrica.

Storie simili si ripetevano in tutto il paese, dalla Liguria alla Lombardia. Arese era ormai un guscio vuoto. Strani intellettuali sorgevano dal nulla con cravatte e titoli a dire sui giornali che tutto ciò era inevitabile e, benché doloroso, giusto: la mano invisibile del Libero Mercato avrebbe poi volto le sofferenze di adesso in un benessere generale. L’economista Modigliani, premio Nobel e decano di diverse istituzioni accademiche internazionali, aveva addirittura invocato la collaborazione degli operai: avrebbero dovuto abituarsi, secondo lui, ad essere periodicamente licenziati e poi riassunti,magari in altre aziende e con altre mansioni, a seconda delle necessità della produzione. Non uomini e donne, non cittadini con una volontà propria, non lavoratori titolari di maestranza e competenza, ma ingranaggi intercambiabili o bestie, di cui i capitalisti potevano disporre a loro talento. Anzi dovevano in virtù di una sorta di sacra missione degli imprenditori di civilizzare il pianeta portando ovunque il capitalismo, che tutti chiamavano “Economia di mercato”. Quella l’unica salvezza dell’umanità, l’unica via per la sopravvivenza e la prosperità futura di tutti. Era una questione di civiltà, dopo la scomparsa delle eresie dell’economia pianificata e dello statalismo. Una questione di libertà. Il Commissario europeo Pádraig Flynn, un politico irlandese di centro destra, aveva invitato la Commissione del per le Pari Opportunità del Parlamento Europeo a sopprimere l’ingiusta discriminazione per cui in quasi tutta l’Unione Europea le donne non potevano andare in pensione alla stessa età degli uomini o avevano trattamenti differenziati nell’accesso agli straordinari, ciò che le rendeva meno appetibili sul mercato del lavoro rispetto agli uomini. Mercato, competizione, libertà di sedurre i capitalisti e farsi salvare da loro e grazie a loro. Valeva per i paesi e per le persone.

Ma le operaie della Benkiser rimanevano ostinatamente deluse ed angosciate per il loro destino. Proprio non riuscivano ad inscrivere la loro disgrazia nella storia di un benessere futuro o di un’ineluttabile legge economica. Avevano affitti e mutui, figli piccoli, paure.

Il sindacato si era mosso, ma i mezzi legali di cui disponeva si erano presto rivelati poco efficaci. Le informazioni soprattutto arrivavano scarse, i manager ci avevano fatto un’astuta strategia. E i delegati erano spiazzati, sempre un po’ più indietro dei fatti.

Non ricordo esattamente come venni a conoscenza della cosa. Credo che fu in via Rizzoli. Un gruppetto di operaie cercava un consigliere comunale per raccontare questa vicenda che trovava poco spazio sui giornali. Il Partito, anche lui piuttosto lento di riflessi, aveva organizzato qualche incontro e aveva messo a disposizione un ciclostile. Ma alle ragazze serviva anche un luogo dove riunirsi e un computer per scrivere comunicati e volantini. Non erano ancora così diffusi al di fuori degli uffici i computer nel 1998. E bisognava saperli usare. La stampante e il ciclostile per volantinare al Partito c’erano, ma si potevano usare solo in certi orari e sotto la vigilanza di certi messi della Segreteria, che temevano sopra ogni cosa che si offendessero certi alleati vicini al Governo. Non era cosa.

Io, che studiavo matematica, avevo comprato un Cyrix 166 coi soldi di un incidente l’anno prima, ed avevo una certa praticaccia coi volantini. Mi offersi di dare una mano, tanto la sessione era già compromessa e non volevo fare i conti con la mia ignoranza in Meccanica Razionale. Ma rimaneva il problema del posto.

C’era alla Barca il Circolo Iqbal Masih, un locale in cui Dodi, al secolo Domenico Maracino, organizzava serate culturali a tema, concerti e tante altre cose. Lui era stato in carcere molti anni prima, proveniente dalla malavita di periferia; lì si era politicizzato, aveva capito i meccamismi storicosociali che lo avevano portato alla sua situazione ed aveva preso la strada della mobilitazione sociale. All’epoca era consigliere di quartiere. Il suo circolo era un punto di riferimento per studenti, cittadini, immigrati… c’era sempre un via vai di gente che organizzava eventi di controinformazione, si riuniva per qualche problema, discuteva. C’era anche chi ci andava per usare il computerino che, tra i pochi in città, Dodi metteva a disposizione gratuitamente. Si navigava in Internet, si leggeva del Ciapas, si contattavano movimenti in Cile ed in Sahara Occidentale.

Le ragazze colonizzarono il circolo. Fui io a portarcele. Dodi fu contentissimo, partecipò al bivacco, offrì l’impossibile, fece le ore piccolissime, che già di suo faceva le ore piccole, a scrivere volantini e comunicati stampa. Scrivemmo di tutto, stampammo di tutto, telefonammo a mezzo mondo politico e sindacale. Volantinammo tanto. Scoprimmo che la gente proprio non sapeva di quel che si muoveva sulle teste di tutti. Giravano mitologie rassicuranti: da noi no, non poteva accadere. E invece con l’evidenza delle ragazze della Benkiser rompevamo l’incanto: poteva accadere a tutti in ogni momento. Il padrone vede un’opportunità di risparmio, incarta i macchinari e si sposta. I discorsi sull’esperienza dei lavoratori (know how aziendale) e sul contesto dotato di infrastrutture e cultura economica erano ancora da venire, e per certi versi lo sono ancora.

Dodi si impegnò in quella storia a tempo pieno. Con lui andavamo agli incontri nella sede di Assindustria, in via S. Domenico, mediavamo coi poliziotti. Lui ci sapeva fare. Non capitò nessun incidente. Altre donne in altre situazioni erano state pestate per bene.

Le ragazze oscillavano tra la rabbia e la rassegnazione, ma la lotta andava avanti. Era chiaro che il costo dello sciopero e delle eventuali sanzioni delle lentissime autorità i padroni lo avevano già previsto tra i costi dell’operazione. A loro conveniva anche così. Le operaie, invece, dopo una quindicina di giorni erano molto provate. Qualcuna cominciò a disperarsi, ad avere crisi di panico. La solidarietà tra compagne fu immediata e avvolgente. Si andavano a prendere a casa le compagne più fragili, le si accompagnava al presidio in fabbrica o da Dodi, si stava insieme. Quando qualcuna mancava le ricerche partivano immediatamente, e si facevano lunghi discorsi al telefono per capire, analizzare le situazioni personali, o rincuorare con i toni più teneri.

Una stava rompendo col marito, non riusciva a guardare in faccia il figlio, in qualche modo si sentiva responsabile, la tensione sfasciava le relazioni. Un’altra non avrebbe potuto pagare delle rate a fine mese. Un’altra ancora avrebbe rinviato a chissà quando un intervento chirurgico che richiedeva un periodo imprecisabile di convalescenza. E così chi se la pigliava a lavorare? Almeno un altro anno avrebbe dovuto tenere botta e soffrire in segreto. Le più arrabbiate o disperate erano quelle vicine alla pensione, una ventina. Per loro si rimetteva tutto in discussione, tutti i piani fatti coi mariti e coi figli, tutte le loro belle idee, e cominciava un periodo di incertezza angosciosa. Alla fine, comunque, si riuscì a mantenere il gruppo compatto.

Mariti e figli partecipavano a tratti, come potevano. Ma il grosso della faccenda la portavano avanti le operaie.

Cominciarono a farsi sentire anche i costi. Il Partito, squattrinato, poteva aiutare ben poco. Organizzammo una festa a sottoscrizione, con musica e birra, ma non raccogliemmo molto. Gli universitari avevano le feste loro, in cui raccoglievano fondi per altre cose, e in generale lo spezzatino della sinistra bolognese non aiutava. Ogni gruppetto si fissava sulle sue battaglie, consone ai temi suoi, ed era difficile raccoglierli in una mobilitazione di qualche spessore.

Intanto sul fronte sindacale i compagni sindacalisti, tutti uomini, erano riusciti a strappare ai manager, altri uomini, alcuni accordi di prepensionamento e sui TFR. Qualche soldo l’azienda lo tirava fuori.

Nessuna vittoria, ma almeno una ritirata protetta la portammo a casa. Non fu il peggio del peggio.

Pochi mesi dopo alle elezioni Rifondazione Comunista fu spazzata via dal Parlamento e quelle poche cose che prima si potevano fare divennero molto più difficili.