di Danilo Arona

Welles3.jpgDopo il prologo e il bollettino meteorologico descritti con minuzia da John Houseman in Panico: arrivano i Marziani!, ecco che giunsero inaspettati due flash. Il primo si spacciava per un bollettino ufficiale dell’agenzia intercontinentale Radio News in cui il professor Farrell dell’Osservatorio di Mont Jennings di Chicago informava la comunità scientifica americana di avere osservato parecchie esplosioni di gas incandescente prodursi a intervalli regolari sul pianeta Marte. Il secondo era quello, mitico, proveniente da Grover’s Mill, nel quale il “giornalista” Carl Phillips si avvicinava al meteorite, attestando che si trattava di un disco volante e così descriveva la cosa che ne stava uscendo:
«Signore e signori, è la cosa più spaventosa che abbia mai visto in vita mia. Un momento, attenzione… Qualcuno, o piuttosto qualcosa, esce trascinandosi. Nel buio vedo risplendere due cerchi luminosi… forse un paio d’occhi… forse un viso… forse… Mio Dio, questa cosa se ne sta uscendo scivolando nell’ombra come un rettile. Ce n’è un altro, un altro ancora… e altri! Hanno un aspetto tale che giurerei che sono provvisti di tentacoli. Un momento, ora vedo il corpo intero della creatura. E’ una grossa massa grigiastra, ha la taglia di un orso e brilla del luccicore dei vermi. Ma il viso! E’… signore e signori… è incredibile. Talmente ripugnante che posso a malapena guardarlo. La bocca ha la forma della lettera V e da questa apertura senza labbra sembra zampillare un liquido strano. Adesso la cosa si alza, la folla arretra!»

Subito dopo la notizia esplose con la devastante potenza dello scoop: «Signore e signori, almeno quaranta persone sono state uccise. I loro corpi sono bruciati. E’ impossibile identificarli.” Seguiva una comunicazione del generale Montgomery Smith che dichiarava l’entrata in vigore della legge marziale in tutta la regione.
Da quel momento fu il panico. Una “paura della paura” che dilagò, coinvolgendo almeno un milione di persone.

4) Oltre dieci anni fa lo psicanalista Pierangelo Garzia propose di battezzare come “sindrome Goethe-Welles” l’apparente relazione di causa ed effetto tra partecipazione emotiva ad alcuni media e comportamenti definibili come “abnormi” . Senza entrare nel merito se la proposta abbia avuto o meno riscontro, è interessante verificare come il romanzo I dolori del giovane Werther, ispiratore due secoli fa di una famosa quanto funesta catena di suicidi verificatasi in Germania, e la trasmissione del 1938 siano in qualche modo equiparabili nel loro livello di invasività. Johann Wolfgang Goethe pubblicò il libro nel 1774 e il fenomeno suicidale al seguito della sua diffusione raggiunse dimensioni tali da indurre i governi di alcuni paesi europei a proibirne la vendita. Lo stesso Goethe partecipò a un funerale di una dama di corte che si era annegata nel fiume a poca distanza dalla casa dello scrittore, tenendo in mano una copia del libro. Questo accadeva il 16 gennaio del 1778.
Un effetto analogo lo si registrò in Italia, nel 1802, al seguito della pubblicazione del romanzo di Ugo Foscolo Le ultime lettere di Jacopo Ortis.
Ancora oggi si tende a parlare di “effetto Werther” per segnalare un’ipotetica influenza esercitata dai mass media sui comportamenti suicidi, soprattutto se in dimensione “epidemica”. Giusto per citare due casi molto lontani tra loro nel tempo, di questo tema si parlò molto negli anni Sessanta al seguito della morte di Marilyn Monroe, quando lo psichiatra americano Jerome A. Motto commentò l’incredibile aumento del 40% di suicidi riscontratosi a Los Angeles nel mese successivo alla scomparsa dell’attrice. Il fatto che dopo il suicidio dello scrittore Ernest Hemingway non si fosse osservato un analogo incremento dei suicidi portò Motto a sottolineare l’importanza, oltre alla notizia del suicidio in sé e al modo in cui è stata presentata, dell’identificazione con il suicida. Egli riteneva pure che l’imitazione potesse essere sì un fattore importante, ma non unico, che potesse attivare dinamiche già presenti in persone in grado d’identificarsi con chi ha si è dato la morte per primo, magari personaggio pubblico o comunque al vertice della catena.
In tempi più recenti, in un paese del Galles che si chiama Bridgend, dall’inizio del 2007 si contarono per alcuni mesi 17 suicidi tra giovani, tutti legati fra loro da un’assidua frequentazione della rete. Dove, peraltro, tutti lasciarono un messaggio prima di darsi la morte. Gioverebbe ricordare che da molti anni, soprattutto in Giappone, si assiste con impotente scoramento al fenomeno delle “catene mortali”, patti suicidi fra i giovani frequentatori dei networking, così come non va dimenticato che, fra i media contemporanei, la rete veicolata dal PC è quello più complesso e più esteso, perché in grado di “contenere” tutti gli altri.
Ma non divaghiamo e torniamo quindi alla trasmissione di Welles per rinnovare la domanda: sono equivalenti la sindrome Werther e l’effetto Welles? Si potrebbe obiettare che nel secondo evento nessuno risultò ufficialmente suicidato, però… però leggete quel che racconta Stephen King in Danse Macabre:
«Una volta mia madre mi raccontò che una delle sue sorelle si era tagliata le vene nella vasca da bagno durante la trasmissione de La guerra dei mondi di Orson Welles. Non era stata una decisione presa in tutta fretta: lei stava guardando fuori dalla finestra del bagno e, lo disse più tardi, non si sarebbe tagliata le vene fino a che non avesse visto le macchine di morte dei marziani affacciarsi sull’orizzonte. Si potrebbe dire che mia zia aveva trovato troppo sconvolgente la trasmissione di Welles.»
Sconvolgente al punto di “vedere” le macchine aliene apparire sull’orizzonte? A quanto pare, sì. Perché il punto è proprio questo: la zia di King non morì e fu salvata. Ma le vene se le tagliò. Quindi cosa vide (se vide…)?
Il caso della parente dell’illustre scrittore probabilmente non restò isolato quella notte. Qualche altra signora, difficile ipotizzarne un numero, tentò blandamente di “iniziare” un suicidio, ma venne di sicuro bloccata sul nascere da amici e parenti: un caso accertato lo riporta anche John Houseman. Di sicuro, dati alla mano, non ci riscontrarono morti al seguito della trasmissione. Perché, in realtà, la gente che in massa aveva abboccato all’amo di Welles cercava la salvezza. E non va dimenticato che il mito negli anni a seguire ingigantì di molto le reali conseguenze della burla mediatica.
Però Goethe e Welles, ognuno rapportato al suo tempo, possono coesistere nell’ipotesi (affascinante) di una sindrome di possessione. Soprattutto se sul terreno si riscontrano ulteriori circostanze concomitanti. Nel caso del ’38: la destabilizzazione emotiva dovuta alla situazione economica interna americana e ai venti di guerra provenienti dall’Europa (lo stesso Houseman ricorda che la trasmissione successe di sole cinque settimane alla notizia della crisi di Monaco); una sorta di ansia “miracolistica” che aveva seguito il prodigio dell’aurora boreale del gennaio del ’38 e che nel profondo sembrava comunicare al pianeta quel che poi lo scrittore sloveno Drago Jancar avrebbe razionalizzato nel suo romanzo Aurora boreale come «il segnale dell’avanzata del Male, ovvero la crepa che si stava allargando in in mondo all’apparenza perfetto» ; la data della trasmissione, ovvero la previgilia di Halloween; infine, la forza pervasiva del medium radiofonico.
Messe assieme le quattro “aggravanti”, non si fa fatica a capire perché da molti americani quella storia fantastica venne ritenuta autentica. Non si trattò soltanto di un’automatica risposta di panico momentaneo, ma di una reazione più complessa: le paure levatesi in conseguenza degli eventi europei e della presenza nel mondo del Diavolo-Hitler si nutrirono di tutta la forza metaforica ancorata alla rappresentazione collettiva della paura tipica della ricorrenza di Ognissanti. Una sorta di Dark Carnival in grado di annullare i confini tra reale e immaginario. Come riporta infatti Joanna Bourke, molti ascoltatori di quella notte si chiesero se quelli che venivano definiti “marziani” non fossero in realtà tedeschi o giapponesi. Nelle parole di un ascoltatore, «sapevo che erano i tedeschi che cercavano di gasarci tutti. Quando l’annunciatore continuò a chiamarli marziani, pensai che fosse un ignorante e che non sapesse che li aveva mandati tutti quanti Hitler». Ci furono sospetti che il meteorite fosse un nuovo tipo di Zeppelin. Come disse un altro ascoltatore, «mi sintonizzai per caso su quella stazione quando il meteorite era appena caduto. Non so come, alla fine sono riuscito a capirlo. Non ho mai creduto veramente che si trattasse di marziani. Pensavo fosse un nuovo tipo di velivolo e una nuova tecnica d’attacco.»
Il tutto ovviamente reso più che credibile dal fatto che lo si sentiva “per radio”. Come ebbero a scrivere diversi analisti dell’epoca (tra tutti, Cantrill e Allport), la radio, più di qualsiasi altro mezzo di comunicazione, era capace di formare un’opinione pubblica tra individui separati fisicamente gli uni dagli altri. In grado cioè di creare il concetto di “folla” virtuale senza la preoccupazione della vicinanza reciproca. Fu infatti la “folla” a rispondere nelle sue tipiche modalità di corpo sociale fuori controllo alla subdola provocazione di mister Welles. E al riguardo non è un caso la data di trasmissione. A poche ore dalla notte di Halloween.

5) Come ho scritto più volte nel corso degli anni, Halloween è una “festa” che, a partire dalla fine dell’Ottocento, risiede dentro alla mente e allo spirito di milioni di americani. Nata dalla connessione tra l’Ognissanti cristiano e il giorno dei morti degli antichi Druidi, la ricorrenza è celebrata come una vera e propria parata “di folla” la notte del 31 ottobre. E negli ultimi trent’anni l’usanza è dilagata un po’ tutto il mondo, ritornando in modo particolare a quell’Europa che l’ha in realtà generata.
La rappresentazione della perdita cosciente del Sé è l’ingrediente tipico delle feste di folla. Dalla demenziale corsa di Pamplona alle varie movide, dai Carnevali latinoamericani a certe surreali domeniche calcistiche italiane, senza dimenticare le più sanguinarie processioni del nostro sud a metà strada tra paganesimo e militanza religiosa “di frontiera”, i fenomeni di panico teatralizzato paiono essere un ingrediente in aumento esponenziale. Come ha ben analizzato Henry Pierre Jeudy , la festa di folla è in un certo senso la parodia del panico e la sua degenerazione, con relativa perdita del senso di realtà, pare in molti casi inevitabile.
Ricordando un celebre studio di Elias Canetti, Jeudy ricorda che “una volta nata, la folla si propaga con enorme violenza. Rare sono le persone capaci di resistere al suo contagio; essa tende ad aumentare incessantemente, non ha limiti imposti dall’interno. Può nascere ovunque gli uomini siano riuniti; la sua spontaneità e la sua subitaneità sono inquietanti. Essa è multipla e pertanto coerente.”
Folla, massa, contagio e panico. L’input è quello di un virus mediatico a rapidissima propagazione attraverso un corpus sociale con un sistema immunitario in quel momento fortemente provato. Con un casuale condizionamento “sincronico” (Halloween) che predispone lo spirito collettivo ad accettare di buon grado un supplemento d’irrazionalità. Questa è forse l’unica chiave per capire le ragioni profonde della notte che gettò in allarme un pezzo d’America.
A onor del vero, andrebbe ricordata una scuola di pensiero che negli ultimi anni ha preso progressivamente piede negli Stati Uniti e che considera il mito della notte dei dischi volanti di Welles come un puro fictoid, ovvero come un fattore fittizio e giammai provato unicamente speso per dare forza a una qualsivoglia tesi. In altre parole, pur di non smontare un mito entrato a far pare della storia del costume americano e che rappresenterebbe il contraltare comportamentistico di un fictoid studiato a tavolino da Orson Welles e il suo team, il sistema mediatico avrebbe alimentato negli anni a seguire la fine della guerra tutto quanto l’impianto della presunta isteria di massa per continuare a generare una serie di prodotti “vendibili” a una larga parte di pubblico parimenti interessata ad argomenti come UFO, paure di massa, Orson Welles e “fantasmi” radiofonici.
Di quest’ipotetica operazione d’imprinting mitologico farebbe pure parte il film televisivo The Night That Panicked America di Joseph Sargent (1975), trasmesso anche dalla TV italiana alla fine degli anni Settanta, un’opera senza infamia e senza lode che sposa la tesi della dimensione “estesa” a proposito dell’isteria di massa in modo quanto mai onesto e verosimile. Che poi il gioco faccia parte dello spirito yankee non è una novità: a Grover’s Mill è stato eretto addirittura un monumento per ricordare l’arrivo dei marziani. Sulla pietra è stato scritto a caratteri cubitali:
On the evening of October 30, 1938, Orson Welles and the Mercury Theatre presented a dramatization of H.G. Well’s The War of the Worlds as adapted by Howard Koch. This was to become a landmark in broadcast history, provoking continuing thought about media responsibility, social psychology and civil defense. For a brief time as many as one million people throughout the country believed that Martians had invaded the earth, beginning with Grover’s Mill, New Jersey.
Vale a dire, un monumento all’immaginazione. O, forse, alla paranoia.

BIBLIOGRAFIA

Danilo Arona, Possessione mediatica, Tropea, Milano 1998
Joanna Bourke, Paura – Una storia culturale, Laterza, Bari 2007
Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981
Drago Jancar, Aurora boreale, Bompiani, Milano 2008
Henry Pierre Jeudy, Panico e catastrofe, Costa & Nolan, Genova 1997
Walter Lippman, Interpretations, Nevins, New York 1932
Stephen King, Danse Macabre, Theoria, Roma 1992