di Francesco “baro” Barilli e Saverio Ferraripiazzafonta2.jpg

Come contributo alla discussione sul film Il romanzo di una strage, e sul libro Il segreto di piazza Fontana al quale il film di Marco Tullio Giordana è in parte ispirato, ripubblichiamo dal sito Reti Invisibili, ringraziando gli autori, la recensione di Barilli e Ferrari (18 giugno 2009), che anticipa alcuni degli argomenti contenuti nel libro di Adriano Sofri 43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film [qui il download]. A questa recensione (accresciuta da questo articolo di Saverio Ferrari) è seguita una polemica tra gli autori e Cucchiarelli, che è possibile leggere qui, qui, e soprattutto qui, dove si apprende che Cucchiarelli millanta un mai concesso assenso di Licia Pinelli, come si apprende dalla lettera di Claudia, figlia di Pino e Licia Pinelli ivi riportata [G.D.M.]

Il segreto di Piazza Fontana, scritto da Paolo Cucchiarelli e uscito per l’editore Ponte alle Grazie (pag. 704, € 19,80), è un lavoro interessante e inquietante nella prima parte, sconcertante e irritante nella seconda. Fonde elementi di inchiesta a voli pindarici dell’autore – che si fanno via via più fantasiosi, depotenziandone il contenuto – e appare viziato alla base da un difetto: il cadere in ricostruzioni azzardate, con concessioni alla più sfrenata dietrologia. Un limite che rende il libro non una sorta di verità definitiva sulla “madre di tutte le stragi”, come è stato pubblicizzato, ma un contributo che rischia di mettere in ombra persino la parte di verità già accertata.

Le due bombe nella banca, quelle “scomparse” e “l’ingenuità” degli anarchici

Quel giorno, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, sarebbero state portate due bombe. Una di matrice anarchica; dotata di timer e trasportata nella banca da Pietro Valpreda, era destinata a un attentato dimostrativo, dovendo esplodere quando gli uffici erano già chiusi e privi di persone. La seconda, più potente, sarebbe stata portata dai fascisti; dotata di accenditore a strappo e di una miccia, fu fatta esplodere prima di quella anarchica, innescando forzatamente pure questa. Fu l’ordigno a miccia a causare la strage, e la strategia era finalizzata ad addossare l’attentato alla sinistra. Più precisamente, i fascisti non intendevano fermare il proprio depistaggio a poche schegge dell’ambiente anarchico, ma volevano arrivare fino all’editore Giangiacomo Feltrinelli. In questa ottica Valpreda, pur restando sostanzialmente innocente, torna ad essere figura assai discutibile: ingenuo burattino dei fascisti, stragista involontario, testa calda che si accompagnava a frequentazioni dubbie, mentitore per necessità. Un conto è però ricordare Valpreda come un ingenuo (anche commentatori più benevoli con l’anarchico lo ricordano così), ben altra cosa è descriverlo come una marionetta teleguidata che segue indicazioni altrui senza porsi domande o dubbi: il suo comportamento, nella ricostruzione di Cucchiarelli, rasenta più l’imbecillità che l’ingenuità. Si pensi solo che avrebbe ritirato la bomba, da collocare alla banca, nella sede degli studenti greci simpatizzanti col regime dei colonnelli…
Gli attentati certi del 12 dicembre ’69 furono 5. A Milano, oltre che in Piazza Fontana, un ordigno venne ritrovato inesploso alla Banca commerciale italiana di Piazza della Scala. Fu fatto frettolosamente brillare, con la conseguente compromissione di materiali che potevano rivelarsi utili nelle indagini. Altre tre bombe furono collocate a Roma. Una esplose nei sotterranei della Banca nazionale del lavoro. Le altre due scoppiarono in successione presso l’Altare della Patria.
Secondo Cucchiarelli quel giorno a Milano sarebbero falliti altri due attentati. Questa voce fu riportata già da alcuni quotidiani nei giorni successivi il 18 dicembre 69: i giornali riferirono di una conferenza stampa tenuta il giorno precedente dagli anarchici del circolo del Ponte della Ghisolfa. Secondo tale fonte, la sera del 12 dicembre sarebbero stati ritrovati altri due ordigni inesplosi, uno in una caserma militare e uno in un grande magazzino; la Questura milanese smentì la circostanza. Ne “Il segreto di Piazza Fontana” si ipotizza che anche questi due ordigni fossero di matrice anarchica, e che pure questi dovessero essere manomessi o raddoppiati dai fascisti, per rendere più pesante il bilancio stragista.
E qui si torna alla “stupidità” degli anarchici, che doveva essere, se si vuol credere al libro, una loro caratteristica endemica: secondo l’autore è Giovanni Ventura a portare l’11 dicembre due bombe ai coniugi Corradini, e sempre secondo Cucchiarelli si tratta proprio dei due ordigni “scomparsi”. Va sottolineato che i Corradini erano attivisti anarchici tornati in libertà solo il 7 dicembre, dopo mesi di carcere per gli attentati del 25 aprile, un’accusa per cui buona parte del loro gruppo era ancora detenuta. In questo contesto appare inverosimile che due persone da poco scarcerate si espongano con leggerezza a una simile operazione: per i Corradini si andrebbe oltre l’imbecillità…

Il ruolo di Pinelli e la sua morte

lapidepino.jpgPure il ferroviere anarchico dal libro esce innocente, ma non privo di macchie. Quel giorno Pinelli avrebbe intuito la trappola fascista in cui stavano per cadere i suoi compagni e si sarebbe adoperato per evitare che le altre due bombe scoppiassero a Milano. Per questo avrebbe fornito un alibi falso a chi lo interrogava, facendo insorgere sospetti sul suo conto; nella concitazione dell’interrogatorio, sarebbe nata una colluttazione, sfociata nella mortale caduta dal quarto piano della Questura milanese.
Nel caso Pinelli, la ricostruzione della dinamica della caduta appare valida, anche se non viene aggiunto nulla di nuovo al panorama, che già contemplava la colluttazione e la morte “incidentale” tra le ipotesi.
Da sottolineare – anche se a livello di pura aneddotica – che se gli altri anarchici sono rappresentati come sciocche marionette, secondo Cucchiarelli Pinelli avrebbe mandato messaggi cifrati su Valpreda addirittura utilizzando l’enigmistica (pag. 246)! Ci sfugge, in un simile ambiente, chi avrebbe potuto coglierli: certo non i suoi compagni.

Quando la dietrologia inganna

Come già accennato, Cucchiarelli ha sicuramente svolto un grande lavoro di documentazione, e – almeno per quanto riguarda la prima parte del libro – si può supporre che le intenzioni fossero sincere. In un video sul web (C6.tv) ha dichiarato «Gli anarchici sono rimasti vittime di una trappola, predisposta nel tempo (durante tutto il 69, con l’aiuto e la copertura dello stato e dei servizi segreti) affinché fossero il capro espiatorio, coloro che dovevano pagare per questa trappola». Affermazione nella sostanza condivisibile, ma non c’era bisogno di un lavoro così imponente per formularla. Il lavoro giudiziario su Piazza Fontana è stato già notevole: certo, incompleto sul piano degli esiti penali e per questo deludente, ma molte cose sono state appurate, specie nell’ultima istruttoria, conclusa in Cassazione il 3 maggio 2005. In Veneto fu costituito, nell’alveo di Ordine Nuovo, un gruppo eversivo che aveva cervelli e manovalanza principalmente nelle cellule di Padova e Mestre. E’ in questo ambito che vengono realizzati gli attentati del ’69, da quelli incruenti della primavera-estate fino a quello tragico del 12 dicembre. Per quanto riguarda responsabilità personali nessuno è stato condannato, ma su Franco Freda e Giovanni Ventura, principali esponenti padovani del gruppo, tutti e tre i gradi di giudizio hanno espresso una valutazione – citando un commento del Giudice Salvini scritto il 15 maggio 2005 per il periodico dell’ANPI – di «colpevolezza storica, anche se non traducibile in una sentenza di condanna», essendo i due soggetti già stati assolti in un altro processo e per il noto principio giuridico secondo cui nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato, se nel frattempo è stata già emessa una sentenza definitiva di assoluzione. In questo quadro fa eccezione Carlo Digilio, e sul particolare correggiamo un errore – formale ma di un certo rilievo – di Cucchiarelli. Ne Il segreto di Piazza Fontana l’autore annovera pure Digilio fra gli assolti (per prescrizione). In realtà l’artificiere di fiducia di Ordine Nuovo nel Veneto fu condannato in primo grado: si riconobbe che aveva svolto, come confessato, una consulenza tecnica sull’esplosivo poi usato nella strage. Appello e Cassazione non hanno smentito quella sentenza, a cui l’interessato non oppose ricorso. La prescrizione, in questo caso, non inficia la condanna, che è passata in giudicato rendendo Digilio tecnicamente l’unico colpevole processualmente accertato per la strage.

I finti scoop

In un’inchiesta complessa come quella su Piazza Fontana (intricata di suo, inquinata dai noti depistaggi, ormai appesantita da anni che la rendono ancora più difficoltosa) è normale affidarsi, oltre che ai fatti, a ragionamenti logico deduttivi o a intuizioni. L’importante è non farsi accecare dalla voglia di giungere a un risultato, spacciando le ultime per fatti acclarati. Purtroppo è proprio in questo tranello che cade Il segreto di Piazza Fontana.
Tutta la spiegazione sulla doppia bomba alla Banca dell’agricoltura resta una teoria non sorretta da elementi solidi. Peraltro, c’è un dato storico che a Cucchiarelli sembra sfuggire: che i fascisti abbiano ideato una strategia complessa per addossare la strage agli anarchici è cosa ormai condivisa da tutti, e così pure che questa sia risultata efficace per lungo tempo. Perché i fascisti avrebbero dovuto renderla ancora più intricata di quanto già non sia apparsa negli anni?
Come ha ricordato Sofri nel suo ultimo libro (La notte che Pinelli), le indagini si orientarono verso gli anarchici, e su Valpreda in particolare, ben prima del “riconoscimento” di quest’ultimo, avvenuto la mattina del 16 dicembre: addirittura dal tardo pomeriggio del 12 dicembre, quando Pinelli viene invitato in Questura. Pinelli segue da via Scaldasole col proprio motorino il Commissario Calabresi che, con la propria vettura, carica con sé Sergio Ardau, un altro anarchico. È lo stesso Ardau a ricordare che Calabresi e Panessa (funzionario di polizia che avrà un ruolo chiave nella successiva caduta del ferroviere anarchico) gli parlarono già durante il viaggio, accennando già in quel momento alla matrice anarchica dell’attentato e alle responsabilità di Valpreda. I fascisti, insomma, potevano seminare su un terreno già pronto al raccolto, senza complicarsi la vita fra doppie bombe, ordigni scomparsi, manovalanza inconsapevole (Valpreda) e consapevole (il vero attentatore); tutti elementi che, aggiungendosi a una tela già fitta, rischiavano di indebolirla invece di consolidarla. Da notare anche che ne Il segreto di Piazza Fontana si affronta pure un’altra ipotesi che per anni ha affascinato storici e magistrati: quella del “sosia di Valpreda”, ossia del neofascista che sarebbe stato prescelto per compiere l’attentato proprio per la sua somiglianza con l’anarchico. Cucchiarelli in proposito arriva a una conclusione bizzarra: essendo due le bombe da depositare nella Banca, ci fu sì Valpreda, ma pure il suo sosia, entrambi arrivati sul posto con due distinti taxi. Anche in questo caso si tratta non solo di un particolare poco spiegabile (se si aveva la certezza di far compiere l’attentato a Valpreda e di incastrarlo con un riconoscimento, perché anche l’altro attentatore doveva essere un sosia dell’anarchico?), ma pure di un appesantimento organizzativo che poteva mettere a repentaglio l’operazione.
Peraltro, la coltre di silenzi e depistaggi gravante su Piazza Fontana in questi quarant’anni si è parzialmente disgregata anche nell’ambiente neofascista e ordinovista, e pure questo è un elemento non tenuto in debita considerazione da Cucchiarelli. Specie nell’inchiesta Salvini, iniziata alla fine degli anni 80 e sfociata nel processo concluso nel 2005, molti “camerati” hanno parlato, alcuni dando un contributo alla ricostruzione dell’eversione nera e stragista. Digilio, Siciliano, Bonazzi, Vinciguerra e altri hanno aperto il proprio album dei ricordi, alcuni vagamente, altri in modo preciso e circostanziato. Pure sull’intenzione di far ritrovare in una villa di Giangiacomo Feltrinelli timer analoghi a quelli usati il 12 dicembre Cucchiarelli non svela niente di nuovo: nell’ultima istruttoria ne hanno parlato Giusva Fioravanti, Bonazzi, Calore e persino Giannettini (l’agente Zeta del Sid, pesantemente implicato nelle indagini fin dagli anni ’70). Dunque, perché mai in questo mare di rivelazioni (molte delle quali fatte da persone ormai non perseguibili penalmente, quindi contrassegnate da minori margini di ambiguità) non è emerso nulla sulla pista della doppia bomba? Se nell’immediato si trattava di particolari da sottrarre accuratamente alle indagini, i motivi di un’uguale riservatezza in rivelazioni di trent’anni successive non paiono spiegabili.
Considerazioni a parte sono invece dovute a un altro particolare che Cucchiarelli evidenzia nel libro: il ritrovamento di un pezzo di miccia, menzionato nella fase iniziale delle indagini e poi inspiegabilmente uscito di scena, che fa pensare a un ordigno il cui innesco fosse di tipologia diverso da quello ormai consolidato nella storia di Piazza Fontana (ossia: un innesco a miccia in luogo del famoso timer). Questo particolare è forse il più rilevante fra quelli apparsi nella prima e più interessante parte del volume, nonché difficile da controdedurre. Resta però un elemento solitario, da solo insufficiente per avallare ricostruzioni alternative a quella che la Magistratura ha già puntualmente descritto, pur senza arrivare a responsabilità personali. Un elemento che invece Cucchiarelli utilizza davvero come una miccia, per accendere il motore che lo porterà su un percorso che, da qui in poi, si fa arbitrario.

I timer: ricostruzione interessante, conclusioni discutibili

piazzafonta.jpgCucchiarelli fa una lunga dissertazione sui timer (da 60 e 120 minuti) comprati dal gruppo di Freda e Ventura per Piazza Fontana e in generale per l’operazione del 12 dicembre. In particolare si sofferma sull’intercambiabilità e sulla modificabilità dei “dischi orari”. Il suo intento è dimostrare che un timer da 120 minuti potesse essere trasformato in uno da 60, ingannando così un potenziale “attentatore in buona fede”, il quale si sarebbe convinto di posare un ordigno la cui esplosione era stata programmata due ore dopo l’innesco, mentre in realtà il tempo concesso alla detonazione era dimezzato.
La riflessione sulla manomissione dei dischi-tempo è interessante, ma crea alcuni buchi logici nella stessa ricostruzione di Cucchiarelli, di cui l’autore sembra non accorgersi o liquida con superficialità.
Se la bomba “anarchica” era destinata a esplodere per induzione, cioè grazie a quella posata accanto dai fascisti e con l’innesco a miccia, perché si doveva modificare il timer? A quel punto sarebbe andato benissimo il temporizzatore da due ore, il risultato sarebbe stato analogo. Anzi, tutto sommato sarebbe stata una metodologia persino più sicura: si sarebbero evitate operazioni ridondanti (la modifica del timer) scongiurando pure l’ipotesi – seppure remota – che l’attentatore potesse accorgersi della manomissione.
Inoltre, l’ipotesi di alterazione dell’orario di scoppio sembra accordarsi, più che con la teoria cara a Cucchiarelli del doppio attentatore, con quella del gesto singolo. Si tenga conto che anche nell’ambiente ordinovista molti attentati, almeno fino al dicembre 69, erano puramente dimostrativi. In questo contesto, la sostituzione del timer poteva essere funzionale a vincere eventuali resistenze – etiche o semplicemente pragmatiche – di un singolo esecutore materiale, pedina parzialmente inconsapevole di una regia superiore, che avrebbe portato la bomba nella banca convinto di non causare una strage. Questa ipotesi spiegherebbe pure le voci, circolate per molto tempo anche nell’estrema destra, della “strage per errore”: pur essendosi rivelata una convinzione errata (e probabilmente da certuni fatta circolare ad arte) non è escluso che nell’ambiente ci fosse chi aveva validi motivi per essersela formata. Questa soluzione manterrebbe la strage nel solo alveo fascista, e sarebbe pure coerente col quadro organizzativo generale ordinovista, laddove, è bene ricordarlo, era presente una compartimentazione piuttosto rigida, in cui non sempre la “bassa manovalanza” era pienamente consapevole delle decisioni assunte ai livelli superiori.
Cucchiarelli pare accorgersi dell’incongruenza, ma la liquida con poche parole: «con i timer contraffatti con le manopole da 120 minuti ci si era assicurati che il disastro avvenisse, anche se fosse esplosa solo la bomba anarchica». Un po’ poco per supportare la teoria.
Anche nel caso dei timer la ricostruzione de Il segreto di Piazza Fontana risente di due limiti. In primo luogo, si allunga la filiera organizzativa dell’attentato, andando a supporre una ricchezza di elementi che – seppure concatenati razionalmente – rendono la strategia dei fascisti troppo machiavellica, quando una più lineare sarebbe stata non solo ugualmente funzionale, ma soprattutto maggiormente priva di rischi d’intoppo: raddoppiando gli ordigni si aumentano il personale necessario e i margini di incertezza (basta il ritardo o l’anticipo di pochi minuti nell’entrare nella banca, e tutto diventa più difficile da gestire), in definitiva si aumenta la possibilità di venire scoperti. In secondo luogo, Cucchiarelli denota un limite che permea pure il resto del lavoro: nel seguire una propria deduzione non tiene conto del fatto che le intuizioni spesso portano a strade alternative. L’autore, invece, in questo come in altri casi ne segue una sola, quasi che – affascinato da un solo percorso – abbia trascurato ogni alternativa che lo possa portare a conclusioni diverse. Ad esempio, tutta la vicenda delle due bombe scomparse potrebbe avere ben altra spiegazione: il loro ritrovamento potrebbe essere stato impedito per lo stesso motivo per cui fu fatta brillare la bomba alla Commerciale Italiana, ossia per evitare che si risalisse in breve tempo alla matrice fascista degli attentati.

Le fonti e la loro attendibilità

Lo ribadiamo: dopo un inizio interessante, è nella seconda parte del libro che Cucchiarelli perde il senso della misura. A un certo punto sembra abbandonare l’approccio investigativo (inizialmente seguito meticolosamente, pur se con conclusioni discutibili) per scegliere quello fantapolitico. Ma nel cambio di registro narrativo lo scrittore fa di peggio, avvicinandosi non alla fantapolitica lucida e metaforica di Orwell, ma a quella molto meno nobile di Dan Brown. Lo schema è lo stesso: un segreto inconfessabile a conoscenza di pochi all’origine di una battaglia nascosta tra uomini e apparati. Alcuni vengono assassinati per il segreto che hanno scoperto. Cucchiarelli decodifica segni e messaggi indecifrabili, raccoglie verità da personaggi ancora nell’ombra…
Ma chi sono le fonti rivelatrici delle nuove “verità” di Cucchiarelli? Innanzitutto, Silvano Russomanno, ex dirigente del Sisde, ossia un funzionario di quei servizi segreti che operavano anche infiltrando neofascisti negli ambienti di sinistra, in particolare in quelli anarchici. E poi c’è Mister X, nella descrizione di Cucchiarelli «un fascista operativo, uno che sapeva e che agiva». In altre parole, un pezzo grosso della destra extraparlamentare dell’epoca, che protetto dall’anonimato conduce il libro alle “scoperte” più eclatanti. È Mister X a confermare l’esistenza delle bombe anarchiche e della miccia, a rivelare il particolare del doppio taxi e del doppio attentato, a ricostruire il percorso delle borse… È dunque un personaggio anonimo a tracciare trama ed essenza del libro: lasciamo al lettore ogni valutazione circa la necessità di altri riscontri oggettivi o circa l’attendibilità che possa attribuirsi a tale fonte.
Su Il segreto di Piazza Fontana l’impressione complessiva è che Cucchiarelli si sia fatto prendere la mano dalle sue ricerche, in una specie di bulimia investigativa che gli fa vedere segreti dove segreti non esistono, che gli fa scambiare la dietrologia, solo perché ben documentata, il mezzo più opportuno per risolvere non solo Piazza Fontana, ma pure il caso Pinelli, l’uccisione di Mauro Rostagno (secondo l’autore ucciso da Lotta Continua, conclusione in contrasto con evidenze giudiziarie emerse di recente), la morte di Feltrinelli e l’omicidio Calabresi (ad avviso di Cucchiarelli assassinato, per aver scoperto “il segreto”, da Lotta Continua in combutta con i servizi segreti). Decisamente troppo per un libro che denuncia il proprio limite fin dalla copertina, dove si afferma «finalmente la verità sulla strage», con un’enfasi che del volume sottolinea, più che la natura, i limiti di una scarsa umiltà. Il segreto di Piazza Fontana è, se non un depistaggio, un’occasione mancata. O forse un’operazione politica utile a ingenerare confusione e mettere in ombra importanti acquisizioni giudiziarie, tra cui l’innocenza degli anarchici, approfittando di un clima revisionista e cialtronesco che oggi rende possibile far rientrare dalla finestra veleni e sospetti già da tempo usciti dalla porta principale della storia.