di Luca Baiada (da Il Ponte, febbraio 2011)

SchiaviDelFaraone.jpg
[Abbiamo soppresso le note all’articolo, che potranno essere viste sull’edizione cartacea della rivista.]

L’accordo per la fabbrica di Mirafiori è firmato il 23 dicembre 2010 dai sindacati Fim, Uilm, Fismic e Ugl, e dall’Associazione capi e quadri. La Cigl, che ha partecipato alla trattativa tramite la Fiom, resta fuori. Sottoposto a referendum tra i lavoratori, è approvato con il 54%. Su circa 5.000 votanti, lo scarto è di 200 voti, col peso importante degli impiegati.
L’esito di scarsa misura lascia aperte varie possibilità. Nel 1980 si svolse la marcia dei quarantamila. In realtà erano di meno, ma certo erano migliaia. Adesso, anche se qualcuno vorrebbe che bastassero 200 persone a decidere il futuro, il seguito dipenderà da più complesse dinamiche e dai reali rapporti di forza, tale è il peso della questione. Vediamone qualche aspetto.

Il contratto collettivo è squalificato, diventa residuale. È un tal quale da rottamare, e in parte da riciclare, sottraendo forza lavoro da reimpiegare a condizioni più vantaggiose per l’imprenditore. Il remoto operaio-massa, già in crisi dagli anni Settanta, è sostituito dall’operaio-grumo: isolato e spremibile, la sua conformazione sociale e individuale dipende da esigenze flessibili e provvisorie. Il capitale, investibile e disinvestibile, diventa la misura del lavoratore, come il letto in cui Procuste adattava le sue vittime, accorciandone o allungandone i corpi.
La Cgil viene mortificata, come già accaduto nelle ultime vicende sindacali. Quasi due anni prima, al tempo dell’accordo quadro per la riforma del modello contrattuale pubblico e privato, il 22 gennaio 2009, la Cgil non firma ed è scavalcata. L’allora segretario Guglielmo Epifani commenta:

È stato un prendere o lasciare su un testo che non può essere condiviso. Restringe la contrattazione, quella nazionale è fortemente depotenziata in tutti i suoi aspetti: quella aziendale non viene estesa. […] A livello nazionale si procede, strutturalmente, a una riduzione del potere d’acquisto. E non abbiamo firmato perché c’è una norma sul diritto di sciopero assolutamente inaccettabile.

Quella vicenda fa parte di un collaudato sistema di spaccatura del sindacalismo, un modello che è stato ricondotto a quanto inaugurato da Craxi nel 1984 in tema di scala mobile:

La «lezione» di Craxi arriva fino ai nostri giorni, sullo stesso argomento e anche più precisa sotto il profilo dell’arroganza: l’accordo non è il risultato di una mediazione ma di una esclusione, quella della Cgil. La politica, quindi, è la risultante dell’azione dei poteri militari.

Anche adesso, l’ombra di Craxi batte un colpo.
Quanto accade alla Fiat viene letto come una pagina del berlusconismo o della globalizzazione secondo Marchionne. Così, per esempio, scrive il quotidiano confindustriale: «Il nuovo accordo è destinato a segnare l’ingresso della globalizzazione nella sfera diretta dei rapporti di lavoro e della loro regolazione» . In realtà, ognuno ha fatto la sua parte, dentro una curvatura filopadronale dei rapporti di produzione, assistita o tollerata dalla politica.
Un ruolo importante, come strumento giuridico, nel caso di Mirafiori è svolto dal meccanismo della new company, già avviato con la vicenda Alitalia. La crisi della compagnia aerea è stata risolta, o piuttosto piegata a beneficio di pochi, costituendo una nuova società che ha assunto solo alcuni lavoratori, si è impadronita dei beni aziendali più ambìti, e ha evitato la responsabilità per i debiti preesistenti . Il modello ha fatto scuola. E che intorno alla vicenda Alitalia si muovessero vasti interessi, anche politici, è stato notato sin dal 2008 persino dall’ambasciata Usa a Roma (l’informazione si deve a uno dei cablogrammi rivelati da Wikileaks).
Ma rispetto alla vicenda Alitalia, c’è un elemento in più. Nel 2010 la Fiat, a partire dallo stabilimento di Pomigliano d’Arco, ha progettato la costituzione di una nuova società non iscritta alla Confindustria, così aggirando il contratto nazionale di lavoro. E ora, il modello prende corpo per Mirafiori. Invece Alitalia-Compagnia aerea italiana si è iscritta all’associazione imprenditoriale, nell’agosto 2009. Dopo il referendum, però, si è parlato di iscrizione anche per Mirafiori.
Prende insomma una nuova piega la protezione offerta proprio dalla Confindustria, «il partito dei padroni». Il ruolo confindustriale, perno di un modello di sviluppo, ne esce differente. Probabilmente per questo, l’operato di Marchionne riceve anche da parte di ambienti moderati commenti equivoci, perché ispirati più al timore di un’incrinatura in un meccanismo di potere, che alla difesa dei settori economicamente deboli. Vanno in questa direzione le parole di Tiziano Treu, già ministro in un governo di centrosinistra: «È un sistema di relazioni industriali che comincia a perdere tutti i pezzi: gli accordi, i contratti, i diritti. Marchionne è uscito da un sistema e si sta facendo il suo “sistemino” di relazioni industriali» . In concreto, è presto per dire cosa succederà, ma è possibile che in Italia un regime pattizio generale sul lavoro sopravviva, come quadro sbiadito di riferimento, e che invece in settori specifici, individuati per ambito produttivo, provenienza del capitale, o persino ubicazione, si affermi una scala di deroghe e di specificità, all’insegna della valorizzazione aziendale, e con la sostanza pratica del maggiore sfruttamento. E anche che alcune imprese escano e rientrino nella Confindustria, in concomitanza con rinnovi contrattuali al ribasso per i lavoratori, prima sperimentati e poi estesi. In fondo, questo è il quadro più favorevole per il capitale, e anche quello che garantisce una sua protezione diversificata, a seconda di varie caratteristiche: collocazione regionale, dimensioni dell’impresa, grado di tecnologia, settore politico di riferimento.
Se si tiene presente questo, le perplessità di Emma Marcegaglia sul comportamento della Fiat diventano umoristiche, anche se per i lavoratori c’è poco da ridere. Marcegaglia ha partecipato al capitale della nuova Alitalia-Cai, pur con una piccola quota. In questo, la vicinanza fra lei e Berlusconi ha espresso un disegno politico, prima che l’appetito su una singola operazione. E proprio allora, il meccanismo new companybad company ha tratteggiato un’importante novità. Dentro la vicenda Alitalia sta il modo in cui il padronato vuole le relazioni industriali negli anni successivi. Adesso, la presidente vede che qualcosa sfugge alla presa. Ma alla situazione attuale ha condotto anche la linea di colei che il ministro Maurizio Sacconi ha chiamato «la sintesi nelle relazioni fra centrodestra e Confindustria».
Si aggiungano gli effetti del mutamento interno della Confindustria, già avviato all’epoca della presidenza Montezemolo, e poi consolidato. Ha riguardato soprattutto il sistema di partecipazione alle spese, e ha determinato un rimescolamento dei rapporti di forza: mentre prima gli imprenditori avevano peso a seconda del numero di dipendenti, ora si tiene conto anche del valore aggiunto e della distribuzione dei luoghi di lavoro sul territorio. Queste novità, unite al fatto che robuste attività imprenditoriali, come Mirafiori, potrebbero in futuro svolgersi fuori dell’associazione, c’è caso che imprimano ai rapporti di produzione, alla fiscalità e alla politica un andamento imprevedibile. Di certo, l’Italia sarà messa alle prese con problemi nuovi; affrontarli richiederebbe un ceto dirigente ben più lungimirante di quello attuale, che ha già da tempo il fiato corto.
Quanto al berlusconismo e ai suoi postumi, tutti gli ambienti imprenditoriali, sia confindustriali che esterni, avranno interesse a cercare di lucrare il più possibile, anche a prescindere da un mutamento del quadro politico, e comunque a tenere sotto scacco le istituzioni. Vale sempre quel che disse Gianni Agnelli nel 1994: «Se perde Berlusconi, perde lui. Se vince, vinciamo tutti» (noi padroni, ovvio). Nel lungo periodo, Berlusconi ha garantito all’imprenditoria cospicui vantaggi, da ultimo con la vicinanza a Emma Marcegaglia. Adesso, la sua incertezza politica fa da sfondo a una linea aggressiva della Fiat, mentre cambia il ruolo della Confindustria. Colmo di beffa, un ceto sociale può trarre vantaggio sia dal sorgere che dal calare di un modello politico e del suo alfiere.
Nell’accordo di Mirafiori, è centrale l’ubbidienza incondizionata dei lavoratori. Qualcosa di più di una clausola di pace sociale. Si noti questo: la Fiat è liberata dai suoi obblighi in caso di comportamenti collettivi o individuali che violino l’accordo «facendo venir meno l’interesse aziendale alla permanenza dello scambio contrattuale ed inficiando lo spirito che lo anima». Le anime e gli spiriti sono importanti. Infatti, dopo il referendum il vescovo di Torino convoca una funzione religiosa nel santuario della Consolata, all’insegna della «riconciliazione». È solo una coincidenza, ma dopo la liberazione di Torino il vescovo di allora spese parole rivoltanti in difesa di un ufficiale delle SS, dicendo: «I torinesi dovrebbero ringraziare la Consolata di avere avuto lo Schmidt al Comando [tedesco] e non un altro».
Ma sono soprattutto i corpi a non sfuggire alla presa, perché c’è di mezzo un modello di produzione ergonomico e minuzioso: una polizia del lavoro. Incombe in particolare, recepito nell’accordo, il sistema Ergo-UAS, rappresentazione protocollare di un biopotere alla Foucault. Vediamo la clausola 5:

Le parti riconoscono che il sistema Ergo-UAS è in grado di fornire una serie di elementi propri della postazione lavorativa (posture, forze, movimentazione carichi e frequenza arti superiori) che sono in grado di agevolare il giudizio del medico competente sull’idoneità specifica del lavoratore alla postazione in esame. Il sistema pertanto possiede la duplice valenza di prevenire l’insorgenza di patologie, attraverso la corretta definizione del rischio in fase progettuale e preliminare e supportare la corretta gestione del personale con idoneità specifiche.

Cioè, il modello produttivo ha già previsto e sottoposto a valutazione economica il logoramento fisico, la malattia e la morte, inserendo tutto nella programmazione aziendale, nella polizia e nella medicina. Questa ingegneria va messa in relazione con un’altra del passato: quella concentrazionaria. Certo, il paragone fra Lager e ergonomia va soppesato con cautela, e non bisogna cadere in equivoci. Eppure, una programmazione che è allo stesso tempo sanitaria e produttiva, biopolitica e securitaria, e che quindi decide di preventivare per l’azienda, in vista della realizzazione di un profitto, l’entrata di corpi sani e l’uscita di tutt’altro, unisce tempi bellici e tempi di pace.
Si assiste a un fenomeno su cui il mondo giuridico dovrà riflettere: l’ingresso in un contratto di prescrizioni su arti, movimenti, posture. Nell’allegato dell’accordo compaiono parole come camminare, piegarsi, abbassarsi, inginocchiarsi, sedersi, rialzarsi, e persino figure; sono disegni di corpi, prevalentemente di profilo, raggelati e stilizzati in pose che per docilità, serialità e ubbidienza ricordano i personaggi che affollano i cicli pittorici dell’antico Egitto dei faraoni. Il tutto, accompagnato da definizioni, programmazioni, algoritmi. L’omino chapliniano di Tempi moderni prefigurava un po’ questa condizione, ma forse non subiva l’attenzione minuziosa sui vari tessuti del suo organismo, e sul loro uso e logoramento. Adesso, ecco norme esattissime sui corpi delle persone. A proposito. Vengono in mente le parole di Marchionne, subito dopo la firma: «È il miglior regalo di natale che potevamo fare alle nostre persone». Il concetto stesso di persona non ha più lo stesso significato per tutti.
Sulle scelte industriali per le fabbriche Fiat, l’informazione è carente, perché si tratta di un tema che il padronato considera una sua prerogativa assoluta. Sono ancora più frammentarie le informazioni su un altro aspetto: il rapporto tra le dimensioni finanziarie dell’investimento e il sindacalismo, in particolare quello Usa. Qui vi si può fare solo qualche cenno. L’operazione unisce strettamente Fiat e Chrysler, facendone quasi un’unica cosa, almeno per i nuovi impegni in Italia. Ma non è chiaro né quanta parte del denaro investito provenga da fondi pensione statunitensi, che amministrano denaro dei lavoratori attraverso la mediazione sindacale, né quali siano i patti sociali sottostanti. C’è il rischio, insomma, che indirettamente si stia consumando la cannibalizzazione fra due modelli di relazioni industriali, con la regia interessata di un ceto manageriale multinazionale. C’è da chiedersi se i lavoratori italiani debbano essere desindacalizzati e impoveriti perché si possano pagare protezioni sociali ai lavoratori negli Stati Uniti. Su questo profilo della vicenda, gli approfondimenti sono rari. In più, al ceto manageriale globalizzato il movimento dei lavoratori in questa fase storica non riesce a contrapporre una dirigenza altrettanto moderna, poliglotta, versatile.
Sempre sugli aspetti sindacali, va notata una cosa, forse più di una coincidenza. Gli accordi interconfederali del 1993, premessa della concertazione, si collocano nell’anno del referendum Segni che apre la strada al sistema elettorale maggioritario. Ora che la partecipazione alle elezioni è ridotta a un simulacro, si tenta di liquidare definitivamente la concertazione mentre la politica è prigioniera di un sistema elettorale impresentabile. Insomma, come il sistema elettorale detto «porcellum» ha peggiorato persino il maggioritario, così il regresso a prima del 1993 nelle relazioni industriali peggiora la già deludente concertazione.
Più in generale, su Mirafiori i giuslavoristi dovrebbero reagire. Per ora, si segnala il placido commento di Pietro Ichino: «Dobbiamo essere grati a Marchionne almeno su un punto: l’aver avviato una riflessione sui difetti gravi del nostro sistema di relazioni industriali che contribuiscono a chiudere l’Italia agli investimenti stranieri». La posizione di Ichino è incongruente e ambigua. Incongruente, perché nel 2008 si è schierato contro l’operazione Alitalia, in cui è stato collaudato il sistema della new company e un investimento straniero è stato realizzato a danno dei lavorator . Ambigua, perché Pietro Ichino è stato formalmente contrario al testo del cd. «collegato lavoro» (poi approvato con la legge 4 novembre 2010 n. 183), ma di fatto ha avuto un atteggiamento debole.
Naturalmente ha già preso posizione, se si può chiamarla così, il quotidiano confindustriale. A fine 2009, nominò Tremonti uomo dell’anno. Contemporaneamente, indicò fra i candidati Draghi, Emma Marcegaglia e Marchionne. A fine 2010, ha nominato uomo dell’anno, presentandolo con una fotografia in cui sorride mostrando i palmi delle mani come un taumaturgo, proprio Marchionne. E fra i candidati? Ebbene sì: Draghi, Emma Marcegaglia e Tremonti. Per il quotidiano della Confindustria, come per i faraoni, il mondo è immutabile. Chissà se almeno per il 2010 la scelta è stata davvero frutto di una consultazione; quella per il 2009 sembrò fatta in tutt’altro modo. Ma torniamo a cose più concrete.
Quanto all’elasticità del lavoro e alla mobilità del capitale, c’è il rischio che nel lungo periodo questo penalizzi gli investimenti a maggior valore aggiunto, cioè quelli che garantiscono l’appartenenza alla civiltà industriale, ma che presuppongono alti livelli di istruzione e di ricerca. È possibile che affermandosi un modello sociale basato non su investimenti fissi con ricco retroterra progettuale e intellettuale, ma su iniziative settoriali, all’occorrenza più facilmente smobilitabili, e che comportano il logoramento convulso di macchinari da tenere in costante movimento, anche il sistema della formazione venga penalizzato, come infatti è appena accaduto con la controriforma universitaria Gelmini.
Oggi, l’operaio deve avere figli ignoranti, in Italia: un’istruzione miope e standardizzata è funzionale al ricambio di corpi dentro una struttura industriale che non deve crescere troppo. Il corpo dell’operaio è misurato e programmato, perché le sue braccia e le sue gambe possano logorarsi in un tempo prestabilito, e poi essere sostituite con quelle di suo figlio: genitori e figli, intercambiabili e servizievoli come le figurine stilizzate del sistema Ergo-UAS. Altrimenti, il faraone si preoccupa. Una canzone degli anni Sessanta diceva: «Anche l’operaio vuole il figlio dottore, e pensi che ambiente ne può venir fuori; non c’è più morale, contessa».