di Alessandra Daniele

simpson-225x300.jpgCome in molti avranno intuito, Carmilla non  non ha nessuna ”linea unica”, e il fatto salutare che le opinioni d’un redattore divergano da quelle di altri non causa la sua espulsione dal portellone del Galactica, ma al massimo un amichevole scambio su queste stesse pagine.
In genere, sono fra i molti che apprezzano il piglio cazzeggione col quale il nostro Dziga dal suo divano lancia lattine vuote e mutande usate (a volte in segno di ammirazione) contro i Classici e i Cialtroni del cinema di tutti i tempi.
Anche quando dissento dalle sue gonzo review, come dalla sua inspiegabile imperitura passione per Bertolucci, di solito non penso di contestarle. A quest’ultima puntata delle sue Divane Visioni però sento il bisogno di replicare.

Dziga insiste a stroncare ferocemente (e superficialmente) tutti i film che meglio riprendono le tematiche di Philip K. Dick. Dopo Cube, stavolta se la prende con Il tredicesimo piano, e con lo stupendo Dark City, tralaltro commettendo per entrambi lo stesso errore d’interpretazione del finale. Se quei grattacieli futuribili da Continuum di Gernsbach che chiudono Il tredicesimo piano gli sono sembrati così fasulli, è proprio perché lo sono, devono sembrarlo, è qualcosa di voluto. Infatti, quel ”futuro” non è altro che una realtà virtuale come tutte le altre viste nel film, è questa la (geniale) chiave de Il tredicesimo piano: non esiste nessuna ”realtà vera”, solo una Matrioska d’illusioni concentriche, non c’è nessuna ”persona vera”, solo brandelli di coscienza vaganti fra un’illusione e l’altra.

Qualcosa di molto simile si può dire dell’altro finale svisto dal divano di Dziga: anche quella pittorica marina assolata che chiude Dark City è esplicitamente un’illusione, stavolta però non plasmata dagli alieni (il cui aspetto cita più Murnau, che Hellraiser) ma dall’umano. È questo il punto del film: tutto dipende da chi è il Demiurgo. L’Occhio nel Cielo, avrebbe detto PKD.

La svista peggiore però è un’altra. Con un paio di righe, avvolte nel suo consueto autobiografismo, Dziga liquida come deludente e noioso l’originale Dawn Of The Dead di Romero. Cioè la più fedele, spietata e profetica rappresentazione della civiltà occidentale mai apparsa su uno schermo. Scusa Dziga, di fronte a una divanata così non potevo tacere.