di Mauro Gervasini

MoanaPozzi.jpgCome si diventa icone della cultura popolare? Vivendo scandalosamente e bruciando a doppia velocità. Come Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison… Oppure Marilyn, che a lei piaceva tanto… Ma no, forse Moana (nome autentico: in polinesiano significa «dove è più profondo il mare») era soprattutto una rockstar, anche se il suo unico eccesso era nell’amore. Con un modo tutto suo, perché scandalizzava soprattutto per la professionalità, la preparazione, la sua voglia di essere attrice attraverso il corpo ma non solo per il corpo. Distante dagli altri cliché delle porno-interpreti di quegli anni ruggenti e rampanti, gli “eighties”, così lontani eppure vicinissimi, anche oggi.

Lei a modo suo li aveva riempiti con una presenza mai ingombrante, mai volgare eppure senza un briciolo di quello che comunemente (e moralisticamente) si chiama “senso del pudore”. Diversa soprattutto da Cicciolina, amica e rivale che poi l’accusò di copiarla o di avere vissuto di rendita a sua immagine e somiglianza. Niente di più falso: Ilona Staller era la pornostar dei sogni bagnati di una generazione assuefatta al virtuale, la si vedeva sempre in flou, la si associava a contesti bianchissimi, quasi asettici, profumati di bolle di sapone come in lunghi spot al ralenti. Moana no. Lei bucava/bruciava lo schermo ed era quasi tattile, era tanta ed era nostra, era carne e non sogno. Lo capì Federico Fellini, che la chiamava «la mia Moanina», e che a Marcello Mastroianni fa dire, quando la vede al solito generosa in Ginger & Fred, «Chiappa tonda, fava gioconda!».
Era nostra perché bellezza non impossibile, popolana nonostante i modi eleganti e una raffinatezza a volte ostentata, a volte non del tutto naturale, tipica delle persone che vorrebbero apparire l’esatto contrario non di ciò che sono ma di ciò che tu pensi che siano. La sua carriera è un film aperto.
Di lei si sa tutto dalla viva voce, diventata testimonianza nel suo libro, ormai di culto, La filosofia di Moana, del 1991. Verbo in seguito rielaborato e rimontato stile Blob, con rispetto profondo, in Moana di Marco Giusti (Mondadori, 2004). Racconti e testimonianze degli altri – chi vedeva in lei una diva e chi una puttana (questi ultimi, almeno pubblicamente, furono però una minoranza) – liste di amanti, con i voti ai più focosi, i nomi e i cognomi dei potenti, degli attori, dei calciatori che passarono dal suo letto una notte o più. Opinioni che di lei aveva l’uomo della strada, di solito adorante se suo spettatore, e a volte quelle della “donna della strada”.
Da quest’ultima molto odiata e molto amata, Moana. Perché vista come icona di cui essere gelose oppure come “mercante” del proprio corpo e quindi, per estensione simbolica, del corpo di ogni donna, secondo quell’ottica femminista che lei non condivideva. Moana, come è noto, faceva quello che faceva per scelta. O meglio, semplicemente, perché le piaceva farlo; e questo, più del resto, creava scandalo. Non la costringeva nessuno a fare l’amore davanti a una cinepresa, e ogni volta con un uomo diverso. E mai, neppure alla fine, quando una morte precoce e cattiva stava per portarsela via, si fece complice dei media che la descrivevano come in cerca di redenzione. La nuova Maddalena.
Fu, invece, Moana fino all’ultimo. Che non vuole dire a una sola dimensione, bella o brutta, piacevole o disgustosa che sia. Anche chi prosegue adesso il processo di santificazione dovrebbe arrendersi all’evidenza della sua umanità. Si è voluto a tutti i costi scavare oltre la maschera, andare dietro il personaggio, e ci si è trovati di fronte a una persona che lontano dai set a luci rosse ostentava una sicurezza di sé a tratti sospetta. Come se a fare la pornostar intellettuale che sul comodino tiene De Sade e riflette a voce alta sul concetto di volontà in Nietzsche, “ci facesse”. E per dimostrare agli altri di essere sempre naturale, spontanea e pronta, senza accorgersene tornava a recitare.
Moana fragile, anche. In amore, per esempio. E chissà che proprio questa fragilità, alla fine del suo percorso svelata con la solita morbosità dai giornalisti (specie se televisivi), non l’abbia riavvicinata al pubblico femminile. Che per strada la fermava e le chiedeva l’autografo, facendole i complimenti per la sua… libertà.