di Matteo Gigliucci

post-hardcore.jpg[Proponiamo ai lettori di Carmilla un reportage di viaggio nella scena musicale alternative-post-punk statunitense. L’autore del pezzo ha percorso il perimetro degli USA suonando con la sua band in 32 serate diverse in un viaggio di 38 giorni. Per sua esplicita scelta, Gigliucci non fa mai riferimento a faccende tecnicamente musicali, né cita il nome del suo gruppo] A.P.

Partimmo il primo luglio. Un volo transoceanico ci portò verso la terra promessa, futuro teatro delle nostre vite nelle cinque settimane a venire. Fummo ospitati a New York un paio di sere, giusto il tempo di riassemblare le forze, vedere la Statua delle libertà (un po’ a distanza in realtà) e farci due foto in Central Park. Ricordo più che altro il caldo, il caos, il puzzo e un barbone con una gamba in cancrena in mezzo alla strada lasciato lì a morire.
Il tre luglio ci spostammo verso Philadelphia, Pennsylvania. C’era chi faceva battute su Rocky Balboa, chi sbadigliava e chi si metteva in pantaloni corti. Il posto si chiamava Disgraceland e in effetti era molto disgraziato e cadente. Persone all’interno intente a stampare copertine di dischi. Tutti, di casa e avventori, si presentavano. Finalmente dopo svariate ore si fece viva una tale Courtney, nostra responsabile, con una cassa di birra. Cominciammo a bere. Poi suonammo.


Dopo il concerto ci spostammo nella casa di Courtney. Affamati fino all’estremo della sopportazione ci dirigemmo verso un vicino take-away cinese. Eravamo nel quartiere nero. Noi soli, quattro bianchi nel mezzo di una nottata estiva di Philadelphia, sotto gli sguardi di fuoco di gente che si chiedeva che cazzo ci stessimo facendo lì. Il bancone del take-away aveva il vetro a scomparti antirapina. Portammo via la cena, la consumammo stremati e ci sdraiammo sul pavimento. Eravamo ufficialmente in tour. La mattina dopo era la volta di Richmond, Virginia. Il nostro responsabile era un amico dei miei compari, nonché organizzatore dell’intero tour. A casa sua trovammo pasta cucinata, barbecue vegano e due bussoli di birra ghiacciata. Era il giorno dell’indipendenza ma per noi era come il ringraziamento. Ringraziammo a suon di mascella. Nel tardo pomeriggio andammo al locale, dove ci fu il concerto. Dopo il concerto la festa si spostava in una casa lì vicino. Più di 50 persone in una casa di tre stanze e relativo giardinetto che bevono a più non posso, urlano e si eccitano per un nonnulla. Io credo che bevvi almeno otto birre e svariati whiskey in poco più di tre ore. Ad un certo punto esce un tipo completamente nudo da una stanza, passa in mezzo alla folla e si smaneggia l’abbondante uccello. Finalmente all’arrivo della polizia (evidentemente chiamata da un vicino) riusciamo a guadagnare il letto. Un letto in tre persone. La mattina al risveglio con il crust a tutto volume mi lavai la faccia in un bagno inutilmente devastato. Partimmo alla volta di Knoxville, Tennessee. Il paesaggio era molto bello, colline verdeggianti digradavano verso intensi corsi d’acqua. Molti ponti. Arrivammo a destinazione a serata già inoltrata. Il posto era fuori città, in uno scenario bucolico da profondo sud. Una strada con casette sui lati, ognuna a debita distanza, con fiori selvaggi nei giardini e alberi di noci. Suonammo, fummo rifocillati con panini vegani e pannocchie. Bevemmo birra. Gente ospitale, sincera. Dormimmo nei loro appartamenti sul retro, molto ben tenuti. Al mattino mi concessi addirittura qualche tiro a canestro. Poi partimmo in direzione Chattanooga, Tennessee, dove avremmo dovuto esibirci nel primo pomeriggio. Ci accolse una casa discarica ed un sole che spaccava in quattro. Facemmo ciò che si aspettavano da noi e poi volammo verso Birmingham, Alabama, dove in serata ci aspettava un altro show. Arrivammo ancora in ritardo, le distanze erano, infatti, infinite. Ci accolse un grosso stanzone semideserto dove suonavano dei giovani nu-metallari ed un nero di nome Gino che ci giurò di essere italiano, anche se di Detroit. Suonammo. Dopodiché consumammo un ottimo pasto cucinato, a base di pane di farina di mais e verdure in padella con alloro. Poi fummo dirottati nella casa che ci avrebbe ospitato per la serata. Un’imponente casa sudista con tanto di portico con colonne doriche. Chiacchierammo sul portico bevendo pessima birra con i nostri ospiti e i loro amici. Uno ad uno crollammo verso i nostri giacigli. Stasera materassi. La sveglia ci stuprò molto presto, indicandoci la meta successiva: Dallas, Texas. Superammo il verde Mississippi e un pezzetto della Louisiana del nord, qui attraversammo il maestoso Mississippi River, imponente e dalle acque fangose. Pure il Texas orientale dimostrava che le idee su questo stato erano errate, almeno in parte. Boschi e paludi erano lo scenario che vedevamo dal rettangolo chiamato finestrino. Arrivammo in periferia di Dallas sul presto. Scesi dal furgone fu come essere investiti da un phon gigante. Il vento del deserto, ci dissero. Ci chiedemmo quale fosse la casa di JR. Il locale che attendeva le nostre gesta era un bar lavanderia con un biliardo rattoppato ed un palco in un angolo oscuro. Consumammo la nostra cena (vegan assortito in quantità risibile) e facemmo il nostro dovere. Poi a turno facemmo la conoscenza di Giuliana, ragazza ubriaca dal nome italiano che avrebbe voluto pure i natali italici. Le piaceva sentire l’idioma nostrano. La accontentammo, mentre ci godevamo i suoi sussulti erotici al suono delle nostre parole. Alla fine dopo una quantità di pessime (visti i giocatori e le condizioni del tavolo) partite di biliardo, virammo verso la casa della oltremodo tatuata nostra responsabile, il tutto cercando di non infastidire Liam, figlio cinquenne della nostra ospite, posseduto dallo spirito di un punk redneck. Ci stendemmo nella minuscola casa, in compagnia di un gatto, un coniglio in gabbia, il punk di 5 anni chiamato Liam ed una gran puzza di merda. Svenni. La mattina qualcuno approfittò della piscina condominiale, prima di dirigerci tutti verso un ristorante vegan thailandese dove facemmo gli onori al cuoco. Destinazione ancora più a sud, Austin, Texas. Visitammo uno dei personaggi di punta della scena, era contento di vederci come un fagiano che scorge la lepre. Al locale ci informarono che la loro politica era niente cibo né tetto per le band. Facemmo il nostro capendo l’antifona, e dopo una passeggiata dentro il quartiere giovanil-universitario-fighetto partimmo subito. Dopo qualche ora ci fermammo a riposare in un motel, consci della lunghezza del viaggio. Al locale di Austin avevamo chiesto la distanza per la nostra prossima meta, Albuquerque, New Mexico, e un barbuto per niente sprovvisto di nonchalance e aria cretina ci disse papale: in 9 ore siete fuori dal Texas, poi di lì è una cazzata , 6 ore sole. Smaltite le 15 ore di viaggio entriamo nella più grande città del New Mexico dall’unica via possibile, ovvero quella che arriva da El Paso. Attraversare El Paso, Texas, fu impressionante: una frontiera cadente, costellata di bidonville, sogno agognato di coloro che attraversano il limaccioso Rio Grande, confine naturale tra Stati Uniti e Messico. Albuquerque invece è un’altra cosa, o almeno il quartiere dove eravamo noi. Città universitaria, con bar fighetti e giovani sorridenti ovunque. Bevemmo addirittura un espresso prima di recarci alla Sala della Giustizia e della Pace, luogo atto alla nostra esibizione. Dopo l’offerta della cena a base di patatine e fagioli in scatola, suonammo, caricammo e ci dirigemmo verso la casa ospitante prima che nella suddetta Sala partisse l’allarme in automatico alle 21 e 30. Infatti, per quell’ora la sala doveva essere sgombra e pulita, altrimenti con l’allarme ci avrebbero fatto visita gli sbirri, a detta degli indigeni tra i più violenti degli Stati Uniti tutti. A casa alcuni collassarono, altri parteciparono al festino scatenato fino a mattina inoltrata. Al risveglio il nostro destino si chiamava Phoenix, Arizona. Il driver ci disse che saremmo passati dal Grand Canyon. Evidentemente non ne sapeva un granché perché ciò che vedemmo fu solo deserto, arroyos e decine di armadilli morti ai lati della strada. A Phoenix piovve per tutto il periodo della nostra permanenza, una pioggia fortissima e caldissima. Portata dall’umidità e dai venti del deserto ci spiegò Joe l’indiano. Suonammo in un ristorante messicano, poi ci dirigemmo verso la casa, dove ci attese una piacevolissima sorpresa. Niente party, casa pulitissima e nostro ospite intento a cucinare seduta stante piatti messicani con verdure fresche. Ci accomodammo con la pancia piena, consci che al mattino le ore di viaggio sarebbero state solamente sette, poche come ci aveva tenuto a sottolineare un avventore psichedelico del concerto. Destinazione Pomona, California. Sobborgo dell’infinita Los Angeles. La parte occidentale dell’Arizona verso la California è bellissima, tra monumenti di sasso del deserto e improvvise montagne oltre i seimila piedi. Nei pressi di Flagstaff salendo oltre i seimila piedi il paesaggio montagnoso è abitato da abeti e faggi. Cartelli avvisano l’automobilista di probabili attraversamenti di alci e orsi. Entrati in California si viene invece schiaffeggiati da vallate piatte piene di pale eoliche. Passate le pale si entra nella conurbazione losangelena, ovvero cemento, baracche e devastazione ai lati della strada. Virammo verso Pomona, su una collina ghiaiosa, il cartello ci avvisò che lì vivevano 7000 disperati. Arrivammo a destinazione. Scoprendo che da lì eravamo a Rowland Heights ci si parò davanti un parcheggio, con un negozio di wrestling amatoriale con, sul retro, un palco per la musica e un ring. Suonammo di fronte a circa 200 ragazzini messicani. La cena era consistita in pasta sfatta condita con soia e fagioli. Dopo il concerto andammo a dormire a Long Beach, nel retro di un negozio di dischi do it yourself, casa-prigione di due gatti. Svenimmo dopo un ottimo veggieburger, con le zaffate feline nel naso. Il giorno seguente seguimmo la strada interna verso la bay area. Il driver ci disse che la costa era bellissima, e quindi, nel suo stile, optò per una strada di merda. Miglia e miglia di frutteti. Finalmente arrivammo, dopo circa sei ore, a Berkeley, California. Teatro delle nostre gesta il mitico Gilman. Ci accapigliammo per una mezz’oretta nel canestro interno del locale. Poi mangiammo delle pannocchie e degli involtini messicani ripieni di fagioli. Quindi suonammo, ci sgomentammo e andammo a dormire (non prima di aver speso qualche inutile ora a ciondolare a un party) a casa di un tipo convinto di avere una casa molto spaziosa. Due di noi si accomodarono su un divano ribaltabile che si infossava al centro al minimo spostamento, gli altri si stesero in pezzi di pavimento rimasti liberi. Eravamo a Okland, per l’esattezza. Al mattino colazione a base di frutta acquistata in un vicino supermarket e poi come destinazione l’altro lato della baia, San Francisco, California, dove avremmo suonato in una galleria d’arte. Il posto era situato nel Mission district, cuore antico di S.F. Non si poteva indossare niente di rosso, colore nemico della gang locale. Chiusi in un locale da dove era impossibile uscire (pena le ire del gallerista che non voleva punk a ciondolare sul suo marciapiede) facemmo il nostro show, caricammo e andammo a dormire in una casa di quattro stanze completamente vuote, tranne la cucina usata come discarica. Ci sistemammo sulla moquette in attesa del sonno. La mattina dopo partimmo verso nord, direzione Arcata, California.(Attraversammo il Golden Gate con la nebbiolina di metà mattinata, scorgendo l’infame isolotto noto come Alcatraz). Ad Arcata faceva freddo, il sole era assente, in più c’informarono che l’organizzatore del concerto se l’era data a gambe un paio di giorni prima. Ci fu detto che comunque potevamo restare e magari poter suonare il giorno seguente visto che avevamo in programma un day-off. Non ci restava molta scelta, quindi rifocillati a un vicino super market biologico ci apprestammo a fare la conoscenza della fauna locale. Arcata era per lo più nota per essere un residuato della controcultura hippie anni ’60. Ogni angolo del paese, oltre alla piazza principale era occupato da giovani hippies armati di chitarre, chi dormiva sui prati, chi ballava, chi si sballava. Zaini e sacchi a pelo ricoprivano la superficie cittadina e ogni due minuti qualcuno ti chiedeva soldi, sigarette, conforto o meno onorevolmente ma più sinceramente se desideravi dolce compagnia. Un ragazzo all’angolo sulla strada esponeva un cartello con su scritto: “Why lies, I need a beer”. Trascorremmo così i nostri due giorni tra caffè e passeggiate nelle locali foreste di sequoie e tentando di scansare i giovani avventori paesani. Ci scappò pure il tempo di assistere a qualche innings della locale squadra di baseball. Alla fine del secondo giorno suonammo, ci stendemmo sul pavimento ricoperto di merda di coniglio (non prima di averlo tappezzato di giornali) e aspettammo così il sorgere di un nuovo giorno, direzione Eugene, Oregon. A Eugene ci aspettava un bar molto frequentato. Vicino al bar passava una ferrovia con treni merci. Ad ogni passaggio di treno i punk-hippies-bestia locali saltavano sul treno al volo per poi scendere qualche centinaio di metri dopo. Doveva essere una strana usanza locale, perché i macchinisti salutavano i vagabondi con gran trombe. Ci furono offerte due ottime birre biologiche, rimandando l’ora dell’agognato cibo alla casa dopo lo show. Con questa promessa, scaricammo, suonammo, ricaricammo e ci avviammo verso la cena che ci spettava di diritto. Alla casa il solito party, una cena che se volevamo, ci disse il nostro ospite, ci saremmo dovuti cucinare e per letto una cantina dove scorazzavano i topi. Cucinammo, tutti gli ospiti del party mangiarono, dopodiché a un orario impossibile stendemmo i nostri giacigli nel soggiorno, nel bel mezzo del party, pur di non fare la conoscenza dei tarponi. Capite le nostre intenzioni di lì a poco la gente prese la via di casa. Noi, dal canto nostro, svenimmo all’unisono.

[La seconda e ultima parte uscirà nei prossimi giorni]