di Filippo Casaccia

Ar4.jpgSvengo anch’io

Il problema del lunedì mattina è che si va a dormire la domenica sera. Si dorme da weekend, ma ci si sveglia da settimana lavorativa e le due cose vanno poco d’accordo. Cioè, so che non è un concetto molto chiaro, ma se dormo sei ore per notte durante la settimana non rappresenta un problema: bastano una secchiata d’acqua gelida in faccia, un caffettone fortissimo e via, in Vespa verso la Facoltà. Il sabato e la domenica, invece, dormo secondo ritmi umani e mi godo anche nove ore di sonno. Comunque, dopo un weekend così, col rave sulle spalle e i peperoncini eritrei ancora sullo stomaco, vado a dormire come se mi aspettassero nove ore di sonno ed invece, poi, il lunedì mattina tocca tornare a Genova per l’immancabile lezione di Scienza delle costruzioni.

Beh, questo lunedì mi sveglio alle 6 e 50. Riesco a liberarmi dall’abbraccio marsupiale di Barbara, mi lavo, mi vesto e non faccio colazione in un tempo record. Alle 7 e 30 sono alla fermata del 24 che arriva quasi subito: ehi, giornata speciale! Salgo bello oco giulivo e mi siedo soddisfatto, con il mio bel biglietto timbrato. Il 24 non parte.
Qualcuno rumoreggia. Niente. Il conducente è muto e immoto come una pietà michelangiolesca. Inizio a preoccuparmi, mentre i minuti passano: due, tre, quattro… alla fine si spengono le luci e tutti iniziano a scendere: forse non ho sentito l’annuncio di rottura del generatore di corrente o giù di lì. L’orologio impietoso segna le 7 e 45 e sono disperato. Attacco uno scatto alla Zatopek e nel gelo della mattinata milanese mi scaracollo col mio pesante zaino sulle spalle verso la stazione di Lotto: la metrò è l’ultima speranza.
Alle 8 precise sono sui binari: “Treno per Sesto, attesa tre minuti”. Merda! Tre minuti che diventano cinque. Come un rimbambito inizio a ripetermi che non ce la faccio, no che non ce la faccio, è impossibile, dài, è andata così. Aspetterò il prossimo treno per due ore al fresco di Rogoredo e a Genova, beh, perderò la lezione, ché tanto non ci capisco una mazza comunque, presente o meno. O no? No! Arriva il treno della metropolitana, zompo dentro e inizio a molleggiarmi sulle ginocchia, dicendo “dài, dài!”. E si parte, con tempi abbastanza regolari. Alla stazione di Duomo devo cambiare e corro come un ossesso nel labirinto che unisce i binari della linea gialla a quelli della rossa. Arrivo ansimante sulla banchina e per San Donato bisogna attendere tre minuscoli, insignificanti, velocissimi minuti. Troppi.
È finita, è inutile, il treno è alle 8 e 26 e sono le 8 e 17… e arriva, caaazzo! E arriva e io salto a bordo rimbalzando come un orango ubriaco come se questi miei gesti atletici aiutassero a guadagnare tempo. Le stazioni sembrano quelle di una via crucis. Sono le 8 e 26 precise quando arrivo a Rogoredo. Rischiando di investire vecchiette e scolari corro al secondo binario dove il mio treno dovrebbe essere in partenza. Il treno, anche stavolta, è in ritardo quando serve e allora do un’occhiata ai quotidiani e colgo questo pregevole conversation piece: l’edicolante vende una tessera telefonica internazionale a uno straniero chiedendo “Trent tausend lira”. Mi concedo anche il lusso di obliterare il biglietto, pensiero che avevo già accantonato arrendendomi all’inevitabile sanzione pecuniaria, cosa che per un genovese è un evidente sintomo di resa totale. Salgo sulla prima carrozza del treno ed è una bolgia dantesca: una marea di studenti che vanno a Pavia. Sono brutti, brufolosi e ciancicano delle stomachevoli Big Bubble. E sono lì che sto in piedi grazie alla pressione dei corpi che comincio a sentirmi male. È praticamente un’ora che corro e dovrei sedermi: ho sudato e mi devo essere preso un accidente. Adesso ho pure dei capogiri. Qui finisce che svengo in mezzo a ‘ste bestie. Dio non voglia che i soccorritori mi scambino per uno studente di questo ateneo-burla. Mi sembra di essere una televisione senza antenna, vedo tutto annebbiato. Saltello da una gamba all’altra dicendomi ancora dieci minuti, dài!, poi ‘sto gregge di caproni scende dal treno e mi siedo e respiro. E mangio qualcosa, imbecille che non sono altro. Adesso crollo, vedo tutto nero, gli zuccheri calano, ho la vitalità di un cervo impagliato. Sento che sto per svenire, lo capisco, quasi lo assaporo: tento di tenermi sveglio dandomi dei pizzicotti e dei calci nelle caviglie, deglutisco saliva e mi dico che non è possibile: perché mai dovrei svenire? Una vocina confessa come Mario Chiesa: perché non hai fatto colazione, hai dormito poco, sei in oggettivo disagio termico e ti manca l’ossigeno. Ottenuta la risposta al tintinnare di manette, sono quasi compiaciuto e sento che mi stanno abbandonando le ultime energie. Resisti, su!, pensa a Greganti.
Arriviamo nella fottutissima stazione pavese ed io sono ormai allo stremo delle forze: mentre sento che me ne sto andando aprono la porta del vagone e allora, con l’ultimo residuo di energia da sveglio, mi fiondo fuori anch’io e mi abbatto su una panchina. La teoria di animali che scende dal carro bestiame è per fortuna senza fine: sono cinquanta lunghissimi secondi ristoratori in cui procedo ad una iperventilazione forzata, finalmente seduto e rinfrancato dalla groenlandese temperatura di Pavia che rischia di farmi cadere la faccia. Sul marmo della panchina, calligrafia femminile, a pennarello: ‘Luca torna! Sto male!’. Sotto, calligrafia incerta: ‘Cazzi tuoi!’. O forse sto sognando: è tutto il week end che vedo scritte assurde ovunque e incontro gente fuori di testa. Come il tizio che mi guarda storto, con la faccia da Nicholson alla fine di Shining. Ci saranno 4 gradi e lui è in maglietta con sopra Asterix che esclama: ‘Non si Lega con ‘sti romani!’.
Lo shock termico, l’improvviso apporto di ossigeno e, ritornato sul treno, la speranza di potermi sedere, mi ridanno vita. Fasciato nella kefiah che mi fa sembrare una mummia scappata dal sarcofago, cerco uno scompartimento dove potermi riprendere. Ne individuo uno quasi vuoto. Ci sono solo una coppia anonima e una ragazza che legge, pure carina. Perfetto. Mi sciolgo in poltrona.

(4 — CONTINUA)