di Paolo Pozzi

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[Come preannunciato, ecco un’anticipazione del romanzo di Paolo Pozzi Insurrezione (Derive/Approdi, 2007, pp. 208, € 14,00). Una rievocazione molto franca, e certo sgradevole per alcuni, di ciò che furono negli anni ’70 gli autonomi milanesi dell’area di Rosso. Va infatti tenuto presente che il movimento dell’autonomia operaia si articolò in una miriade di collettivi molto diversi tra loro, anche se coesi da alcuni fondamenti comuni: l’emergenza di un proletariato giovanile precario, la perdita di centralità della fabbrica quale motore del conflitto sociale, l’importanza del territorio a fini di riaggregazione, la rottura senza ritorno con la sinistra istituzionale.

Ciò, agli occhi della “sinistra storica”, pronta ad accettare una guerra dopo l’altra, è pura questione giudiziaria. Invece, per i tanto demonizzati autonomi, era una storia di solidarietà e di amore reciproco, pur tra continue contraddizioni. Sta di fatto che D’Alema, Fassino ecc., dalla vergogna del Kossovo in poi, hanno ucciso più gente dell’autonomo più forsennato. Ci lascino in pace, non siamo più come allora. Avremo commesso tanti errori, però il marchio di infamia lo portano loro. Carichi del fardello di centinaia di migliaia di cadaveri, in giro per il mondo. E’ bello ritrovarsi puri, per noi antagonisti attivi o a riposo, vista l’ipocrisia insopportabile e il lezzo di sangue di chi, ogni giorno, ci fa la morale.] (V.E).

La prefazione

Questa è una storia degli anni Settanta.
Allora c’era un movimento fatto di donne e uomini che pensavano di cambiare il mondo. In modo radicale. Con una rivoluzione.
Quelle donne e quegli uomini pensavano che cambiarlo potesse anche essere divertente. Anzi o era divertente o non valeva la pena. Tutto e subito. Non si poteva rimandare nulla a dopo.
La parte più radicale di quel movimento erano gli autonomi.
Poi quel movimento è stato preso in una morsa ed è rimasto stritolato. Molti si sono fermati o sono stati fermati. Molti dal movimento sono passati alle formazioni armate. Molti hanno pensato che l’unica giustizia era quella proletaria. Alcuni, non pochi, si sono pentiti, cioè sono diventati delatori.
È quindi anche una storia terribile. È una storia fatta di vivi, morti e morti ammazzati. È una storia dolorosa per il dolore arrecato e sofferto.
È una storia che narra di giovani. Io ora sono un uomo che va verso i sessanta. Ma mi rivedo giovane e penso: ce l’hanno fatta pagare ma ci siamo divertiti un casino.
Questa storia comincio a scriverla nel carcere speciale di Fossombrone nel 1982. Quaderno e matita.
Poi il quaderno me lo porto a Rebibbia, dove vengo trasferito.
Francone mi presta la sua Olivetti Lettera 22 e io ricomincio da capo. Il patto è chiaro: tutti i giorni lui vuol leggere e dare il suo giudizio: Hemingway, passabile, fa cagare. I “fa cagare” vengono subito strappati in faccia all’autore.
Il lavoro si rallenta di molto durante le udienze del processo. La scrittura langue. Nell’estate dell’84 ci dò la botta finale. Ma mi liberano e il legame con il mio spietato critico cessa. Il dattiloscritto me lo porto a Milano nei sacchi neri della spazzatura che raccolgono i miei effetti personali. Pubblicarlo? E da chi?
Poi Francone esce anche lui. Una sera di quindici anni fa mi porta a casa Sergio, detto Sergino perché ai tempi dell’autonomia era quasi un bambino. Sergio dice: mi piace un casino, siamo proprio noi.
Piano piano comincia a pubblicare singoli capitoli della storia su riviste, libri ecc. Poi l’anno scorso si fa vivo. E mi dice: pubblichiamo tutto. Io dico di sì. Eccola qua).

Un assaggio (e un tributo a Granfranco Manfredi, personaggio tra i più coerenti):

Inverno ’76. A Milano dilaga l’autoriduzione dei biglietti dei cinema, dei concerti e dei teatri. Gruppi di ragazzi si danno appuntamento fuori dai cinema e quando sono un centinaio vanno a trattare con i gestori. Spesso finiscono per accordarsi sul prezzo del biglietto, quando invece la discussione va per le lunghe sfondano e basta.
Verso marzo il fenomeno assume proporzioni di massa, soprattutto la domenica pomeriggio e nei giorni di festa. Addirittura si formano cortei di giovani che girano da un cinema all’altro, entrano nelle sale interrompendo le proiezione per fare propaganda sulle loro condizioni.
Dai quartieri dell’estrema periferia sbucano sulle piazze di Milano giovani mai visti, che neppure i ragazzi dell’autonomia conoscono. Circoli con nomi che si richiamano agli indiani o semplicemente alle vie dove si sono conquistati degli spazi: case vuote, negozi, magazzini.
L’unico che conosce un po’ i giovani dei Circoli è Matteo che, tramite i ragazzi di Baggio, ha cominciato degli incontri in una vecchia stazione dei carabinieri abbandonata e occupata dai ragazzi del quartiere. Matteo è diventato un po’ l’esperto dell’area di «Rosso» per questo movimento. È stato lui per primo a parlarne nelle riunioni in via Disciplini. Ha vent’anni appena, ma sembra non avere età perché è almeno da sei anni che interviene nelle assemblee a Milano. Insomma, ha l’età del movimento.
È sempre circondato, come protetto, da un nugolo di ragazzi del suo quartiere, tanto che è difficile riuscire a parlarci a tu per tu. Come è difficile disfarsene alla fine di tutte le riunioni se non lo riaccompagni a casa. Chi lo fa rimane stupefatto.
Sta nell’ultima casa di Milano sulla strada per Varese. Dopo la sua casa inizia un prato. Una cosa assurda. A pochi metri si vede il retro di un grande cartello con scritto «Milano». A accompagnarlo nelle notti d’inverno si sfiora la tragedia. Infatti casa sua spunta improvvisa nella nebbia, tra gli alberi.
In quella casa con giardino, sull’ultima linea di confine di Milano, Matteo vive in compagnia di una scimmia e di un fratello che se ne frega assolutamente della politica. Della scimmia Matteo non ha mai parlato con nessuno, per cui una volta che sono entrato in casa sua e l’ho vista mi ha preso un colpo.
L’unico mezzo pubblico che arriva nella zona di casa sua è il 18 barrato che parte da piazza Cairoli ogni mezz’ora e fa l’ultima corsa a mezzanotte. A prenderlo dalle dieci di sera in poi sembra di entrare in un fumetto giallo. C’è solo il conducente che ogni mezz’ora smette di leggere il giornale e parte per quel posto dimenticato da dio.
Da Matteo ho capito che il problema della droga pesante, dell’eroina, riguarda soprattutto i poveri e gli emarginati, non i ricchi come credevo io. Nella mia testa eroina e cocaina pensavo riguardassero solo gente con grande disponibilità di denaro. Matteo invece mi ha portato in alcune strade del suo quartiere dove decine di ragazzi si bucano, nei giardinetti dove si calpestano siringhe sporche di sangue. Mi parla di quel suo amico e di quell’altro che hanno fatto la scuola con lui e che adesso si bucano con regolarità. Di quelli che sono morti per overdose e di quelli che sono andati in galera perché erano «a rota» e si sono messi a rubare negli appartamenti o a strappare catenine d’oro ai bambini.
Storie maledette di emarginazione senza appiglio per qualche tentativo di redenzione. Di queste storie tristi e disperate che racconta mi impressiona il continuo ricadere di quei ragazzi nel buco, anche se qualche volta hanno cercato di smettere.
— Sono quei maledetti spacciatori, — dice Matteo — li ricattano, e appena cercano di smettere vanno da loro con la roba da usare e vendere. I grandi spacciatori bisogna ammazzarli tutti, senza pietà.
Matteo ha finito col mettere su con i suoi amici di Baggio una ronda che fa controinformazione sulle droghe pesanti e va a caccia di spacciatori. Una sera, tutto fiero, mi fa vedere il «Corriere d’Informazione» che riporta in rilievo la notizia: «Salta in aria un bar, noto ritrovo di spaccio in zona Baggio». Naturalmente Matteo e i ragazzi di Baggio fumano droghe leggere, come le fumo io e moltissimi compagni di Milano. Nella primavera avanzata dilaga con il primo tepore l’autoriduzione dei concerti. Si autoriducono tutti, anche ai concerti organizzati da «Re nudo». Questo fatto suscita animatissime discussioni in tutti i collettivi, perché quelli di «Re nudo» sono compagni e chiedeno solo le spese, almeno così dicono loro.
La situazione è del tutto incontrollabile e nessuno comanda più sulle centinaia di collettivi di quartiere, sulle case occupate, sui negozi trasformati in Centri sociali del proletariato giovanile.
Al Parco Lambro sono state fatte le cose in grande e «Re nudo», dato il clima turbolento, si è affidato, per mantenere l’ordine sulle migliaia e migliaia di ragazzi che si prevedono in arrivo da tutta Italia, al servizio d’ordine di Lotta continua.
Arrivano molte più persone del previsto. È uno spettacolo incredibile: tende da campo, sacchi a pelo dappertutto, ragazze bellissime e meno belle, gente che gira nuda, bambini che si rincorrono per i prati. Alla sera megaconcerti della Premiata Forneria Marconi, del Banco del Mutuo Soccorso e di tanti altri complessi meno famosi.
Un parco uomini dove Andrea, Coz, Matteo, Puccio, i ragazzi del Berchet, quelli di Baggio, Drin-Drin sguazzano come pesci nell’acqua pronti a usare ogni incazzatura per spingere verso l’appropriazione. Comincia fin dal primo giorno Matteo con i suoi ragazzi mettendosi a caccia di spacciatori. Volano un po’ di botte e le chiavi inglesi calano su alcune teste. Al secondo giorno già cresce l’incazzatura delle migliaia di ragazzi per i prezzi dei generi alimentari venduti agli stand dei gruppi rivoluzionari. A mezzogiorno la situazione si fa insostenibile e gruppi cominciano a dare l’assalto agli stand per procurarsi da mangiare. Piccoli cortei girano per il parco con cartelli che incitano all’autoriduzione. Poi, all’improvviso, un grosso corteo si dirige verso il camion frigorifero affittato da «Re nudo» che contiene i polli e la carne che viene cotta nello stand di Democrazia proletaria. Un ragazzo dal volto luciferino salta sul camion e apre la porticina. Si cala dentro e comincia a gettare polli crudi tra la gente. Subito altri salgono sul camion e aperte le porte posteriori cominciano a passare all’esterno cassette di Coca-cola e bibite varie. Da altre parti sciami di ragazzi finiscono di spogliare gli stand dei gruppi senza distinzione alcuna. Solo il nostro dell’autonomia non viene attaccato, per rispetto ai meriti pregressi, non certo per il nostro comportamento in quei giorni, in niente dissimile per opportunismo e speculazione.
Nel pomeriggio Giulio e Coz guidano un migliaio di persone verso il più vicino supermarket, ma appena entrati devono ripiegare alla svelta perché da un contingente di Ps partono colpi di arma da fuoco intimidatori. Il corteo rincula dentro al parco dopo aver razziato in tutti i negozi vicini. La situazione in serata si fa del tutto incontrollabile e solo concerto e droghe varie riescono a placare un po’ gli animi più accesi. Un cantautore magro magro sale sul grande palco e canta una canzone molto bella di cui ricordo ancora le parole:

Sta nel fondo dei tuoi occhi / Sulla punta delle labbra / Sta nel corpo risvegliato / Nella fine del peccato / Nella curva dei tuoi fianchi / Nel calore del tuo seno / Nel profondo del tuo ventre / Nell’attendere il mattino / Sta nel sogno realizzato / Sta nel mitra lucidato / Nella gioia e nella rabbia / Nel distruggere la gabbia / Nella morte della scuola / Nel rifiuto del lavoro / Nella fabbrica deserta / Nella casa senza porta / Sta nell’immaginazione / Nella musica sull’erba / Sta nella provocazione / Nel lavoro della talpa / Nella storia del futuro / Nel presente senza storia / Nei momenti di ubriachezza / Negli istanti di memoria / Sta nel nero della pelle / Nella festa collettiva / Sta nel prendersi la merce / Sta nel prendersi la mano / Nel tirare i sampietrini / Nell’incendio di Milano / Nelle spranghe sui fascisti / Nelle pietre sui gipponi / Sta nei sogni dei teppisti / E nei giochi dei bambini / Nel conoscersi del corpo / Nell’orgasmo della mente / Nella voglia più totale / Nel discorso trasparente / Ma chi ha detto che non c’è? / Sta nel fondo dei tuoi occhi / Ma chi ha detto che non c’è? / Sulla punta delle labbra / Ma chi ha detto che non c’è? / Sta nel mitra lucidato / Ma chi ha detto che non c’è? / Nella fine dello Stato / C’è!, sì c’è! / Ma chi ha detto che non c’è? / C’è!, c’è!