di Carlo Gazzotti

Trama3.jpg2. La scena giacobina (1988-89)

L’anno scolastico 1988-1989 si aprì con il mio allontanamento dalle classi quarte e quinte dell’istituto, (troppo pericolose, forse, perchè formate da maggiorenni). Le nuove classi, soprattutto la 1^, la 2^, la 3^ C di quegli anni, luogo punitivo nel quale starsene buoni e remissivi, divennero però il serbatoio dal quale sarebbero scaturiti i nuovi protagonisti di quello che continuava chilometricamente a definirsi ‘Collettivo studentesco di ricerca e di produzione teatrale’. Un gruppo che assorbiva sempre più ogni mia energia e che superava ormai le cinquanta unità. Analogamente estendevo e rafforzavo la collaborazione con la Circoscrizione n. 5 del Comune. Del resto, la sala-teatro SGB eravamo noi.

Ciò comportò per me e per i ragazzi entrare necessariamente in contatto con una serie di interessanti esperienze teatrali di base che a quella stessa sala iniziarono a loro volta a fare riferimento. Latitante, sullo sfondo rimaneva invece la scuola con la quale continuavamo semmai a intrattenersi burrascosi rapporti di conflittualità, anche se Un set per Euripide, il lavoro andato in scena proprio al SGB quell’anno, rappresentò la prima fatica alla quale ebbero modo di assistere anche alcune classi dell’istituto, lì accompagnate dai pochi colleghi che mi erano vicini. Alle due matinées organizzate per dette scolaresche fecero seguito tre repliche serali, con ingresso ad offerta libera, e un fuori – programma domenicale rivolto agli ospiti della casa albergo per anziani e alla cittadinanza residente nel quartiere.
Da questo stesso punto di vista Un set per Euripide significò l’allargamento del collettivo a studenti più giovani, molti dei quali minorenni, e la prima timida apertura ad un pubblico scolastico. Con la surreale situazione che vedeva studenti e insegnanti della scuola assistere ad uno spettacolo messo in scena da alunni del loro stesso istituto lì presenti sulla scena in qualità di studenti assentatisi ingiustificatamente dalle lezioni. Superfluo sottolineare il fatto che la presidenza non ci aveva autorizzato ad allestire dette rappresentazioni. In sintonia con i precedenti lavori la metodologia e l’approccio di fondo al linguaggio teatrale, sovente identificato con un testo classico da ‘fare a pezzi’, senza cioè alcuna particolare attenzione per la corporeità e per la specificità laboratoriale dell’attore, se non in termini di pura e meticolosa costruzione coreografica della trama scenica (ancora una volta sboccata, triviale, infarcita di non pochi sofisticati ermetismi criptici). L’idiozia teatrale che c’eravamo inventati era però già descritta in giro come quella di un gruppo di poetastri omerici e di ‘troiane’, che dopo il Pavese de I dialoghi con Leucò del quale s’è detto, decisi di proporre ai ragazzi Le Troiane di Euripide.
Andato in scena il 28, 29, 30 Aprile 1989 sempre presso il Teatro SGB col titolo poco rassicurante di Un set per Euripide lo spettacolo era ispirato a quella che allora definivo una ‘poetica del sarto’, ovvero al tentativo di costruire, sin dalla fase di allestimento, testo e sottotesto drammatico addosso agli studenti presenti. Come si fosse trattato di fare loro indossare un abito, un ruolo, un vestito da confezionarsi ad hoc e capace di aderire ad ogni loro personalissimo dato fisiognomico, morfologico, corporeo.
Il ‘plot’ narrativo minimalista e la trama demenziale dello spettacolo prevedevano in ogni caso che alcuni presunti funzionari della giapponese “Stiazita Corporation” avessero deciso di finanziare un serial televisivo basato sulle Troiane euripidee da ‘girarsi’ in quel di Rimini, d’inverno. Complici alcuni giovinastri e un divo americano alcolizzato che apostrofava tutti, a cominciare dall’avvenente segretaria di edizione con un perentorio e insieme barcollante “Ma stiazita lei!”.
Mentre il clima bukowskiano degli esordi s’impossessava della classicità ricucendosela addosso delle misure e delle taglie più confacenti a noi tutti, il copione avrebbe fatto bella mostra di sé comparendo direttamente sulla scena. Fatto passare di mano in mano, esso sarebbe stato via via citato, violentato, ridotto in brandelli, sbirciato ora da questo ora da quello. Segno tangibile di un persistente primato della parola, della parola dialogica. Si fosse anche semplicemente trattato di balbettarne i fonemi.
”Il pensiero si fa in bocca”, uno dei più acclamati motti di Tristan Tzara diveniva così masturbazione oratoria, provocazione allitterante votata a irridere ogni filologia, ogni semantica, per decostruire secondo i dettami di una a/logicità irriverente. Fu lì che iniziai a spendere centinaia di ore per provare insistentemente un dispositivo scenico di tipo meccanico incentrato su di una vera e propria ‘coazione a ripetere’. Un ripetere meticoloso e musicalmente organizzato, battuta dopo battuta, secondo una pratica da qui in poi costante preoccupazione mia e dei ragazzi più addentro alla lezione del gruppo. Io stesso sarei stato sempre più identificato non come ‘il capo’ (che tale ero, anche se la cosa non era da sottolinearsi, più del dovuto) ma come il ‘da capo’. Tanto insistita sarebbe per l’appunto stata questa mia richiesta nei loro confronti a generare tale pratica autoritativa basata sul provare e riprovare automatismi mnemonici dell’improvvisato, del colto al volo, perché li si fissasse identici a loro stessi, infinitamente. Ad accorgersi di questo faticoso training e ad apprezzarlo, tutti coloro i quali, d’ora innanzi, avrebbero deciso di seguire buona parte delle repliche dei lavori del gruppo allo scopo di godere proprio di questa ritmicità oratoria, di questa studiatissima musicalità.
Proprio questa ‘coazione a ripetere’ sarebbe divenuta la marca distintiva del gruppo più universalmente riconosciuta. Una coazione a ripetere e a replicare posta in essere all’interno della pratica quotidiana delle prove come se, per ogni nuovo spettacolo, si fosse trattato di dar vita ad un meccanismo ad orologeria capace di autogenerarsi e di vivere del proprio stesso incedere autoreferenziale, sicuro, deciso. Da qui il numero spropositato di ore dedicate alle prove (mai meno di duecentocinquanta, trecento per ogni spettacolo successivo) che fa apparire improvvisati, azzardati, scarsamente educativi i laboratori scolastici tenuti anche da affermati professionisti i quali in venti, trenta ore pretenderebbero insegnare il mondo.
La regia recò anche questa volta la firma mia. Le musiche invece vennero composte e registrate da Davide, un amico di vecchia data, futuro affermato jazzista. Il pubblico apprezzò timidamente partecipando numeroso.
A novembre di quello stesso anno mandammo in scena, e sempre al teatro SGB, I Giacobini. E il titolo del nuovo allestimento significò anche trovare una ulteriore e oltremodo ingenua definizione teorica del nostro operare. In fondo avevano avuto ragione gli anonimi cronisti della pagina degli spettacoli di un quotidiano cittadino che ci avevano descritti proprio così. Un gruppo di studenti giacobini. Poco contava che l’occasione rappresentata dal bicentenario della rivoluzione francese avesse per qualche giorno, agli inizi, fornito il pretesto (scolasticamente parlando) per la nuova avventura. A essere messe in scena non erano infatti la presa della Bastiglia o le giornate del terrore montagnardo (quelle semmai avevano già alimentato Achille e Patroclo). A essere messi in scena erano proprio i giacobinismi irrequieti miei e dei miei studenti. Il nostro sentirci minoranza intransigente e incorruttibile. Goal!
I Giacobini costituirono anche l’occasione per un primo timido tentativo di allestimento scenico capace d’andare oltre le abituali atmosfere al nero.
Ciò comportò la preparazione di due enormi quinte alte quattro metri ciascuna collocate ai lati della scena, quinte sulle quali campeggiavano due disegni opera di Roberto e assai liberamente ispirati rispettivamente alle figure di Robespierre e di Saint Just. Alcuni praticabili prestatici dal teatro stabile locale finirono invece per essere la scrivania di Marat, il talamo degli amplessi cerebrali di Fulvio e Lella (i Lacroix e Julie de La morte di Danton di Georg Buchner), il giaciglio improvvisato dei nostri marginalissimi Robespierre e Saint-Just. Due clochard beckettiani alla Vladimiro ed Estragone. E’ doveroso ricordare come buona parte degli arredi e delle strutture per il SGB vennero donati a me a ai ragazzi dall’interessamento di alcuni funzionari del teatro stabile locale e dal contributo personale di alcuni filantropi innamorati di teatro. Tanto che i giacobinismi di quei giorni costituirono il primo nucleo di quello che sarebbe poi stato definito dalla stampa locale ‘un teatro fai da te’. La parola d’ordine del nuovo spettacolo ribadiva invece quelle già utilizzate nei lavori precedenti e ne acuiva il sapore parodistico, tragicomico, satirico, disincantato. Si trattava ancora una volta di: “(…) Giocare con la storia, giocare in termini umoristici, pirandelliani, sullo sfondo di un esame di maturità” ovvero di: “(…) citare, camuffare, irretire tutto e tutti (…) fare un gran calderone dell’intruglio così ottenuto e servirlo tiepido, né caldo, né freddo, il giusto!”.
Il riferimento all’esame di maturità derivava da una violenta polemica che aveva scosso l’intero Collegio docenti della scuola all’inizio dell’anno scolastico 1989 – 90 e che riguardava da vicino le prove d’esame di quattro dei sei ragazzi protagonisti dello spettacolo. All’apertura d’anno il preside aveva infatti letto con tono mellifluo e sibillino una lettera a lui personalmente indirizzata dal commissario esterno di lettere che contestava il mio programma di italiano riguardo a una presunta “mancanza di letture”, ovvero l’attribuzione della valutazione di 60/sessantesimi a Silvia (tra le principali protagoniste del gruppo).
Il momento di maggior tensione tra gruppo teatrale e presidenza venne però toccato di lì a poco nell’inverno di quell’anno. Il 10 Settembre 1989 decisi d’inviare al consiglio d’istituto una richiesta di autorizzazione a collaborare sul versante teatrale con un liceo genovese (richiesta che non ottenne alcuna risposta). Nel documento prodotto per l’occasione ricostruivo anche quella che io stesso definivo la mia ‘donchisciottesca’ esperienza teatrale scolastica. Il 19 dello stesso mese feci lo stesso con una memoria scritta fatta pervenire al segretario cittadino dello SNALS. Poche righe nelle quali denunciavo il comportamento vessatorio e gratuitamente lesivo dei miei diritti posto in essere dal preside. Il 26 Ottobre la mia programmazione didattica per il nuovo anno conteneva la richiesta di un’aula-prove e la proposta d’acquisto di materiale scenotecnico. Due giorni dopo fece seguito alla precedente una richiesta di aiuti economici presentata all’Assessore alla Pubblica Istruzione del Comune con più di sessanta firme. La richiesta faceva seguito ad una burrascosa riunione di genitori nella quale l’assessore aveva dichiarato di condividere le ragioni di fondo della nostra esperienza teatrale e di volerla aiutare. Il finanziamento, di due milioni e settecentomila lire, sarebbe arrivato al gruppo teatrale nonostante la segreteria della scuola avesse telefonicamente risposto ai funzionari del Comune che simile aiuto economico non era “accettabile”!
Del 30 Ottobre fu invece una mia richiesta di accedere al fondo incentivante come previsto dalla nuovissima normativa in materia. Alla domanda venne altresì allegata una documentazione delle ore da me effettuate coi ragazzi, documentazione prodotta dalla Circoscrizione n.5 del Comune presso i cui locali si era svolta detta attività. Il 25 Novembre il preside mi invitò, con protocollo riservato, l’invito a riformulare i programmi di lavoro per l’anno scolastico 1989 – 90 “(…) Evitando considerazioni che non Le competono e gratuite illazioni nei miei confronti, tutte da dimostrare e che non Le consento.” diffidandomi inoltre dall’organizzare qualsivoglia attività non indicata nei programmi ministeriali e senza esserne stato espressamente autorizzato. Il giorno dopo ricordavo al preside che “(…) esistono procedure più sollecite e più eleganti dei protocolli riservati per interloquire con i propri subalterni.” e che piuttosto che impedire le attività teatrali pur nate nell’istituto con simili “atti di forza” meglio sarebbe stato cercare insieme “la veste giuridica” entro la quale inserirle.
La data fondamentale nella storia dei rapporti tra il preside e il sottoscritto sarebbe però rimasta quella del 24 Gennaio 1990, quando, durante un collegio docenti, un violento e increscioso battibecco tra noi due finì per coinvolgere buona parte del corpo insegnante dell’istituto, con urla, strepiti e schiamazzi a non finire. Singolare mi è sempre parso il fatto che in quella sala io avessi iniziato, quindicenne, i miei primi maldestri tentativi di regia con alcuni compagni di scuola.
Fondo d’Istituto a parte, la tesi sottesa a tutto quanto il ragionamento del preside era che non essendo, a suo dire, il teatro un’arte …non poteva avere diritto di cittadinanza in una scuola come quella, che appunto all’arte era dedicata! Zittito da più parti e apertamente insultato mi fu solo possibile rispondere al preside, che se, sempre a suo dire, io ero un truffatore, lui …era un farabutto. Puntualissima, tre giorni dopo, mi venne recapitata una contestazione d’addebiti con la quale mi si preannunciava l’irrogazione di una sanzione disciplinare per quanto avvenuto, ovvero mi si richiedeva giustificazione scritta. Il 30 Gennaio inviai al Provveditore agli studi, al Presidente del Consiglio d’Istituto ed alle organizzazioni sindacali CGIL-scuola e SNALS una “Denuncia del comportamento lesivo del servizio, nonché vessatorio e antisindacale” posto in essere dalla direzione nei miei confronti.
Il 21 Febbraio 1990 il preside decise di procedere con la sanzione disciplinare della censura, ovvero di richiedere al proprio superiore gerarchico il mio trasferimento per incompatibilità ambientale in quanto la mia presenza “nuoce al prestigio dell’ufficio e costituisce elemento di turbativa della collegialità.” “Contegno scorretto verso i superiori, denigrazione e insubordinazione” gli elementi in base ai quali il preside richiedeva al Provveditore di applicare ulteriori sanzioni di sua competenza, quali quelle previste dagli artt. 80 e 81 del T.U. DPR n.3/1957. Il giorno dopo, sollecitato da più parti in tal senso, delegai il sindacato CGIL-Scuola di Modena a rappresentarmi “con pieno mandato per il contenzioso in atto con il Preside davanti allo stesso Provveditorato agli Studi” e sollecitai, ancora una volta, il pagamento del compenso previsto dal fondo di incentivazione.
Il 31 Marzo 1990, per tutta risposta, il preside diffidò formalmente me e chiunque altro ad “(…) usare il nome della scuola in qualsiasi forma, titolo, modo o situazione, senza autorizzazione del rappresentante legale e unico dell’Istituto.” A conferma del clima di rottura aperta nei confronti di buona parte dello stesso corpo insegnante, chiesi a mia volta venissero presi provvedimenti disciplinari nei confronti di alcuni colleghi i quali avevano a più riprese interrogato i miei studenti in Italiano e Storia (materie non di loro competenza) sostenendo poi che simili programmi non venivano da me svolti. Va da sé che, nonostante la gravità dell’episodio, simile richiesta non venne nemmeno presa in esame.
Il 12 Aprile, sollecitato in tal senso da alcuni legali nel frattempo consultati allo scopo di tutelare me e i ragazzi, mi venne suggerito di presentare l’ennesima richiesta al Consiglio d’Istituto per il riconoscimento anche formale dell’esistenza di un gruppo teatrale della scuola, ciò anche perché le nuove normative scolastiche avevano finalmente iniziato a prevedere simili opportunità, legandola alla problematica incentivante. Il tutto, quantomeno allo scopo di tutelare me e gli studenti in caso di infortuni. Per tutta risposta, con l’inizio del nuovo anno scolastico, l’11 Ottobre ricevetti la visita di un ispettore ministeriale che presenziò ad una mia lezione, prese in esame le prove assegnate agli studenti e le mie annotazioni in calce ai compiti in classe, interloquì con alcuni miei colleghi. L’ispezione non produsse però gli effetti sperati dalla direzione scolastica e chiuse inopinatamente il caso con un nulla di fatto che sapeva più di censura per l’operato dello stesso capo d’istituto che d’altro.
Iniziò così l’ennesimo apparente disgelo, in un alternarsi di bastoni e di carote da voltastomaco tanto che già il 23 Ottobre i colleghi di Italiano e Storia fecero pervenire al preside e al collegio docenti un diplomaticissimo documento nel quale compariva una richiesta relativa alla costituzione di un “laboratorio teatrale d’istituto”. Eppure, mi ripetevo, un laboratorio teatrale in quella scuola esisteva ormai da quattro anni. Mezza città lo sapeva…
Nel Novembre 1990 vennero inviate ufficialmente al Comitato Tecnico Provinciale del Provveditorato agli studi di Modena le “Linee generali per un progetto di laboratorio teatrale d’istituto”. Oggetto della missiva: la “Richiesta di finanziamenti per il progetto d’Istituto su: ‘Prevenzione ed educazione alla salute. Progetto Giovani ’93”. Dieci giorni dopo si riunì, per la prima ed unica volta, il coordinamento degli insegnanti responsabili nominati dal collegio docenti e dalla presidenza. Il 23 Novembre fu lo stesso Preside ad autorizzarmi a svolgere le attività concernenti la ‘Commissione teatrale’ e ad accedere al fondo d’incentivazione. Una settimana più tardi mi venne comunicato dalla direzione che “(…) nulla osta alla effettuazione del Laboratorio Teatrale nelle giornate di Lunedì e Giovedì dalle ore 14.30 alle ore 17.30.”
La battaglia, se di battaglia poteva parlarsi, era stata vinta, anche se continua, sotterranea, calunniosa l’attività di censura perpetrata ai miei danni da parte della presidenza e di buona parte dei docenti della scuola sarebbe continuata negli anni a venire, non venendo mai meno. Manco oggi. Del resto, è mia personalissima opinione che a vincere da sola la partita fosse stata, in quel frangente, la collaborazione nel frattempo da me iniziata col teatro stabile della città e la certezza che il gruppo avrebbe comunque portato in scena il prossimo proprio lavoro nel più importante teatro di prosa gestito dall’ente. In fondo, io e i ragazzi avevamo via via sperimentato che il modo migliore per difendersi dall’ottusità scolastica era di operare direttamente nel territorio, andando in scena, sempre e comunque. Altrove.
Tenere a freno gli strali dell’istituzione scolastica non bastava. Per questo il 1° Febbraio del 1990 tra i promotori dell’associazione ‘Arcoscenico-compagnie teatrali’ è fatta espressa menzione del sottoscritto e di un nutrito numero di studenti e di ex studenti della scuola. Nei mesi successivi un’apposita convenzione firmata tra lo stesso Arcoscenico, e la Circoscrizione n.5. gettava le premesse per la realizzazione da parte nostra di una serie di rassegne teatrali. Proposi di chiamare l’iniziativa ‘Ottobre Teatrale’ e la cosa passò. Il clima di entusiastico fervore allestitivo, i successi di pubblico e di critica suscitati delle rassegne, la constatazione che intorno ad una sala fatiscente da tempo abbandonata a se stessa era cresciuta in pochi mesi una realtà costituita da decine di gruppi di base con cento e più persone stabilmente impegnate a provare ed a mettere in scena lavori teatrali, indussero il P.C.I. della zona a propormi una candidatura nelle liste circoscrizionali in qualità di indipendente per le elezioni amministrative del Maggio 1990.
In realtà, il sistema delle preferenze manovrato abilmente dalle sezioni locali del partito impedì per pochi voti la mia elezione. Ciò nonostante decisi di far partecipare i ragazzi a due festival circoscrizionali de ‘l’Unità’, pur non amando simili uscite pubbliche che potevano supporre una qualsivoglia simpatia di schieramento. Quelle stesse partecipazioni dimostrarono però solo la miopia politica e culturale dei responsabili locali del partito che, alla prima uscita del gruppo, sistemarono lo spazio riservato agli spettacoli a ridosso di uno ‘stand’ attrezzato a balera. Il frastuono proveniente da detto ‘locale’ impose si sospendesse le rappresentazioni per l’impossibilità materiale di udire le battute dei ragazzi nonostante fossero intervenuti all’appuntamento oltre trecento spettatori. La decisione di interrompere prima e di annullare poi l’evento scatenò una polemica furiosa tra funzionari di partito, genitori e ragazzi.
Problemi sorsero anche per il pagamento (in nero, ndr) dell’altro spettacolo tenuto nel festival collocato a ridosso del Palazzo dello sport. L’intera vicenda lasciò i rapporti tra gruppi teatrali e Circoscrizione alla mercé dei successivi accordi politici di vertice intervenuti tra le federazioni provinciali del P.C.I e del P.S.I, accordi con i quali venne deciso di non prendere in esame il progetto di ristrutturazione della sala proposto da ‘Arcoscenico’ e opera degli studenti della scuola.
Tolti di mezzo noi, dato vita all’accordo di vertice portato avanti sottobanco dalle segreterie provinciali dei due partiti, fu poi facile far dirottare sulla sala un gruppo teatrale di orbita socialista già ampiamente sovvenzionato. Le burocrazie politiche e amministrative locali avevano così giocoforza finito per fare il paio con quelle scolastiche. Del resto, la storia di questo gruppo teatrale sarebbe stata sempre la storia di luoghi e di spazi negati, ovvero di luoghi e di spazi ritrovati altrove, in un caleidoscopio deambulare di sedi, ambienti, strutture che fu anche e soprattutto deambulare attraverso trame, epoche, problematiche storiche le più diverse e tra loro lontane.
Forse anche per questo, in quei giorni, diedi alle stampe un volumetto ambientato durante l’epopea napoleonica in città. Titolo: Novelle ducali. Come Napoleone per i giacobini d’Italia, così il Partito Comunista, per noi.

(2-CONTINUA)