Difesa, ministro della. (II)
Il professor Parisi e la via militare alla democrazia

di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

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Sintesi del Nuovo Ordine. Caduto il Muro e sdoganata finalmente l’idea di guerra con il concorso dell’interventismo democratico, fin dalla prima metà degli anni Novanta la Sinistra si è affannosamente adoperata per costruire nel paese una «memoria condivisa». Una visione del passato che potesse riunire ciò che la Storia aveva separato, un patrimonio comune sul quale riedificare un genuino sentimento nazionale. Alla Camera Violante riabilitò i «ragazzi di Salò», nei palinsesti televisivi la Chiesa acquisì l’ubiquità, la «Commissione stragi» concluse il suo derisorio percorso e un settennato presidenziale scagliò il suo carme apotropaico contro le sacre ampolle padane: «un Tricolore in ogni casa!».

È in questo quadro che va collocato l’abortito disegno militarista di Parisi. Non furono però rose senza spine. La volontà di Francesco Rutelli, allora sindaco di Roma, di celebrare il «talento» di Giuseppe Bottai intestandogli una piazza della capitale dovette cedere di fronte «all’irriducibile resistenza della comunità ebraica romana», nonostante l’appoggio di «tanti uomini di cultura, storici ed intellettuali, anche di sinistra, assolutamente antirazzisti»,[35] tra i quali Massimo Cacciari. A Genova nel luglio del 2001 un decennale movimento pacifista di tenue determinazione ma numericamente rilevante dovette essere ricondotto alla ragione da una persuasiva reprimenda istituzionale. In ogni modo, dopo l’11 settembre le cose hanno preso un’altra piega e la strategia riunificante della Sinistra ha cominciato a mostrarsi superflua, anacronistica. Oggi suona mero auspicio di circostanza quello del presidente Napolitano affinché il Tricolore resti «emblema» dell’«indispensabile coesione sociale», se al contempo un intellettuale organico e moderato come Edoardo Sanguineti si offre di governare Genova al grido, specularmente innocuo, di «Bisogna restaurare l’odio di classe. Bisogna promuovere la coscienza del proletariato» («È una frase di Walter Benjamin […] senza nessun intento barricadero», si è affrettato a precisare).[36] E quando Fassino sostiene che «ci sono momenti, nella vita di una nazione, in cui occorre ricostituire i suoi caratteri identitari» e che «per riuscirci serve una grande forza politica», come «Roosevelt e il New Deal negli Stati Uniti, Adenauer dopo la follia nazista in Germania, Felipe González nella fuoriuscita dal franchismo in Spagna, De Gaulle e la Quarta Repubblica in Francia», e subito dopo aggiunge che «il partito democratico in Italia serve esattamente a questo» è palese la pretestuosità dell’argomentazione: il suo problema è che «nel settembre 2007 non potremo ripresentarci con un’altra finanziaria da 35 miliardi. Il paese non capirebbe».[37]
La verità è che non è più possibile attardarsi sui dettagli. Premono ben altre urgenze. Come dice Parisi, oggi l’Italia è chiamata a «condividere all’interno dell’Onu la corresponsabilità del governo del mondo».[38] Senza dimenticare che «negli ultimi anni la questione degli abusi commessi dal personale Onu in missione nei paesi più poveri del mondo è diventata di pressante attualità»,[39] su come funziona in realtà il Consiglio di sicurezza dell’Onu e sulla natura della «corresponsabilità» vale, nella sua laconicità, l’autorevole testimonianza di Antonio Cassese: «di regola le iniziative sono prese dagli Usa, che si consultano prima con l’Inghilterra e poi con la Francia. Dopo di che gli occidentali cercano di negoziare con Cina e Russia. Gli altri dieci membri (quelli, come l’Italia, non permanenti) sono consultati a cose fatte».[40] In questo caso però il paese ha capito. La Tavola della Pace ha ufficialmente sposato la causa con la manifestazione milanese del novembre 2006, inneggiando alla missione libanese e pretendendone subito un’altra a Gaza.[41] L’unità degli italiani si proietta così nel futuro, senza bisogno di intaccare gli emisferi cerebrali superiori, regolatori della memoria «ragionativa», che del resto funzionano adeguatamente per conto loro, se i sondaggi registrano costanti la «molta o moltissima fiducia» che i due terzi dei cittadini accordano alle forze dell’ordine.[42] E questo nonostante la prova genovese in mondovisione, che scandalizzò fra i tanti il tedesco Hermann Lutz, presidente del Sindacato europeo di Polizia,[43] e i vescovi emeriti Giuseppe Casale, Luigi Bettazzi e Antonio Riboldi, «che in cinquant’anni di episcopato» non avevano «mai veduto simili efferatezze»: «Di fronte alle immagini di brutale e selvaggia violenza di molti tra polizia e carabinieri – scrissero indignati – ci domandiamo da cosa sia generata questa deriva pericolosa. […] molti agenti picchiavano la gente comune – famiglie con bambini, giovani e studenti appartenenti ad associazioni di volontariato sociale – come se stessero punendo l’espressione di idee non gradite a qualcuno. […] ci giungono notizie di violenze ai danni perfino di ragazzi down, di anziani, di persone religiose».[44] Nessun regime potrebbe desiderare di più da un popolo.

Da Lilliput a Brobdingnag. L’esercito professionale ha dunque ricevuto unanime delega. Sinistra e Destra, bellicisti e pacifisti fanno «emergere» l’ustolato «ampio consenso nazionale sul ruolo della Difesa come uno degli strumenti della politica internazionale dell’Italia».[45] Finiti i tempi in cui «il paese era diviso in modo radicale e irrimediabile tra fautori e avversari della Nato, europeisti euroscettici e avversari dell’Europa, per non parlare dei giudizi sull’Onu», ora, osserva con sollievo Parisi, «sia noi che il centrodestra assumiamo per la politica estera e di difesa i valori dell’atlantismo, dell’europeismo e del multilateralismo».[46] A beneficio di un’opinione pubblica sempre desiderosa di non sapere troppo, tale armonia bipartisan ha consentito di barattare con gli Stati Uniti l’ormai indifendibile spedizione irachena con il rifinanziamento di quella afgana e con la nuova avventura libanese.
Riguardo all’Afghanistan, Parisi ha severamente stigmatizzato «l’ipocrisia di chiamare “umanitaria” quella che è solo una “missione militare”», quasi che a definirla così fossero stati gli alieni. Il punto di vista del ministro ha il pregio della chiarezza. A consultare il sito dell’Ambasciata d’Italia a Kabul, intitolato Cooperazione italiana allo sviluppo in Afghanistan, ci si potrebbe confondere, soprattutto visitando la sezione dedicata alle «Opportunità di investimento», in cui si magnificano i pregi dell’economia locale, «ricca di materie prime di ottima qualità, ma povera di capacità tecniche», e si ingolosiscono i volenterosi evidenziando le «promettenti complementarietà» con l’economia italiana, «leader in molti settori tecnologici». «Per stimolare la creazione di un ambiente favorevole – si legge – l’Ambasciata ha intrapreso alcune attività», tra cui il «lancio di un “pacchetto” a favore degli imprenditori italiani che consiste nella ospitalità in Residenza e nella fissazione di incontri con interlocutori istituzionali e associazioni di categoria afghani. Lo Slogan è: “Non venite a investire in Afghanistan. Venite a conoscere le opportunità e poi decidete se investire”».[47] Sembra il dépliant di un casinò di Las Vegas, ma è tutto vero. A Parisi si potrebbe obiettare che ci sono aspetti dell’impegno italiano in quel lontano paese che non possono essere ignorati, ma se si scrutano i numeri del disastro effettivamente non si può dar torto al ministro, poiché sul totale degli investimenti quelli destinati ad uso civile sono appena un sesto di quelli per i militari. Inoltre i numeri dicono il quanto, non il come: «la parte del leone» la fa il «Programma Giustizia», mentre «fanalino di coda sono gli aiuti nel settore sanitario».[48] Nel dicembre 2001, a Bonn, le potenze vincitrici si riunirono per spartirsi oneri e onori della ricostruzione materiale e istituzionale del paese. Nel «settore sicurezza» vennero «individuati cinque pilastri prioritari, che necessitavano di un’urgente opera di riforma, la cui leadership è stata affidata ad altrettante nazioni estere», recita il sito dell’Ambasciata: agli Stati Uniti è toccato l’Esercito, alla Germania la Polizia, alla Gran Bretagna l’Anti-narcotici, al Giappone il Disarmo delle milizie parallele e all’Italia appunto la Giustizia, che è beffa non da poco per i poveri afgani, visto la fama di cui gode in Europa il sistema giudiziario di casa nostra. È come quando si inviano medicinali scaduti ai paesi del Terzo Mondo. Tra i compiti dell’Ufficio Giustizia, oltre a «fornire assistenza al Governo della Repubblica Islamica dell’Afghanistan» c’è l’ammodernamento del carcere di Pol-e-Charki e del Detention Center di Kabul. Inoltre, in collaborazione con UNIFEM (Fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per le donne) e UNODC (Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine), viene portato avanti il progetto di costruzione di un Women Detention Center a Kabul,[49] dove presumibilmente verranno rinchiuse le adultere.[50]
Circa la spedizione in Libano, che tanto entusiasmo ha suscitato tra i pacifisti, il ministro dice: «L’obiettivo dell’intervento è quello scritto nella risoluzione: difendere l’esistenza dello Stato di Israele e rafforzare la statualità libanese. Questo vuole dire riconoscere al Governo di Beirut l’esclusivo monopolio della forza legittima». E se ci fossero ancora dubbi, chiarisce con l’abituale franchezza: «Inutile parlare di missione umanitaria, si tratta di una missione militare. […] Abbiamo un obiettivo qualificante: il disarmo di Hezbollah. Noi dobbiamo intervenire contro ogni atto che muova dal territorio sotto la competenza dell’Unifil. Se Hezbollah riprendesse le ostilità, il comando Unifil sarebbe chiamato a dar seguito alla propria azione». Ma «il generale Mario Buscemi afferma che disarmare Hezbollah è impossibile…», osa il giornalista: «E tuttavia, dico io, necessario», replica il ministro. Rimane da stabilire il da farsi se 1) scoppia la guerra civile, 2) Hezbollah vince le elezioni, 3) Israele attacca il Libano. O anche un miscuglio delle tre cose più varie ed eventuali. Ma non sono interrogativi per Parisi. Lui afferma che «l’Italia ha scommesso sull’ONU» e che questa è l’«unica speranza di cui il mondo dispone per il suo futuro».[51] La medesima cosa si può dire in altro modo, con le parole di Angelo D’Orsi:

«di fronte ai cattivi stanno i buoni. I buoni siamo noi, ossia: la Democrazia. La nostra è via militare alla Democrazia, una forma olistica e totalitaria, onnicomprensiva e che si ritiene onnipotente, che i ricchi impongono ai poveri, i forti ai deboli. Un’improponibile partita tra Occidente e Resto-del-Mondo; d’altra parte nella tesi dello “scontro di civiltà” è contenuta, e forse non pienamente consapevole delle conseguenze, l’idea di una superiorità – da confermare – dell’Occidente, del Nord del Mondo sul “resto” di un’umanità subordinata alla nostra, secondo una logica servile: un impari confronto, nel quale per giunta l’arbitro non c’è, e se c’è è controllato dal contendente più forte».[52]

Das Kapital. Questa pretesa supremazia è appunto «da confermare», in tutti i campi, e la scommessa di Parisi sull’ONU, «unica speranza», deve rispondere del suo effettivo referente: la vacillante egemonia degli Stati Uniti. Il sostanziale fallimento delle campagne in Afghanistan e in Iraq, cui nei sogni imperiali dell’amministrazione Bush avrebbero dovuto far seguito analoghe conversioni democratiche di Siria e Iran e che l’estorsione manu militari del petrolio iracheno non può compensare, non riflette solamente l’irresponsabilità strategica della Casa Bianca e dei suoi Stati tributari, ma è specchio di un’imprevista e assai problematica misura dei rapporti di forza, anche economici, tra «Occidente e Resto-del-Mondo», a partire dal confronto con le altre potenze atomiche. Gli USA incontrano inedite difficoltà pure in America Latina, dove il loro credito non è più quello di una volta. Sull’Europa del Patto atlantico invece provano a conservarlo, come sull’alleanza anglofona che condivide il sistema universale di sorveglianza della National Security Agency denominato Echelon, che è stato oggetto di ripetute quanto vane interpellanze al Parlamento Europeo per la sua attività di spionaggio industriale. Una sudditanza politica e tecnologica ribadita dal recente accordo sulla sicurezza «“imposto” dagli Stati Uniti all’Unione Europea, in base al quale le autorità americane possono controllare carte di credito e mail dei passeggeri in volo verso gli USA». «O si accettava o gli americani avrebbero impedito l’atterraggio nel loro territorio alle compagnie aeree che rifiutavano l’accesso ai dati», spiega Francesco Pizzetti, Garante della privacy, che assicura che entro il 2007 l’accordo sarà cambiato, perché «così è inaccettabile, […] le autorità americane possono accedere direttamente a dati personali senza chiedere il permesso a nessuno. Inoltre, la violazione della privacy avviene in modo indiscriminato, per chiunque. E infine non abbiamo alcuna garanzia sull’uso e sulla protezione di queste informazioni». Oltretutto, sottolinea Mauro Paissan, anch’egli membro dell’Autorità per la protezione dei dati personali, «non c’è reciprocità. Loro possono sapere tutto. L’Europa, se volesse, non può reclamare una parità di trattamento, non può chiedere niente». L’affaire segue di poco «il caso Swift»: «un consorzio – prosegue Pizzetti – che riunisce 8.000 tra banche e istituti commerciali di 200 paesi. Ha sede in Belgio e ha un’archivio speculare a quello europeo negli Usa. Quest’ultimo è soggetto alle leggi statunitensi e così le autorità americane hanno accesso diretto a notizie sulle transazioni finanziarie di privati cittadini, di imprese, di società commerciali in tutto il mondo. È gravissimo. Si può dire spionaggio, se così lo si vuole chiamare». Che fare? «Bisogna convincerli a venire sulla nostra posizione», azzarda Pizzetti. «Preoccuparsi e subito dopo rassegnarsi», confessa Paissan.[53] Sic transit, com’era facile intuire, la «rivoluzione del silicio», la via informatica alla liberazione, di cui si è nutrita per qualche lustro la vacua ideologia del professionismo antagonista.
Nel frattempo la Cina prosegue l’assalto al cielo della finanza mondiale, trascinando i mercati asiatici. Nel 2006 la ICBC – Industrial and Commercial Bank of China, la maggiore banca cinese – ha scavalcato nelle classifiche la Bank of America ed è divenuta la seconda banca al mondo; la Borsa di Shanghai con un rialzo del 121% è risultata prima per incremento; il sistema borsistico asiatico nel suo complesso ha per la prima volta sopravanzato gli Stati Uniti nella raccolta di capitali; in Cina il Pil è cresciuto del 10,5%, in India del 10,4%, in Vietnam dell’8,2%. A fine anno il governo cinese ha pubblicato il «Libro bianco sulla strategia militare», in cui si annuncia la decisione di «costruire una forza marittima moderna e operativa a largo raggio, dotata sia di armi convenzionali sia di armi nucleari». Nel mirino eventuali spinte indipendentiste di Taiwan e soprattutto «l’alleanza sempre più stretta tra Tokyo e Washington»,[54] ora che il Giappone ha rimandato i suoi soldati sugli scenari di guerra e reclamato il «diritto a possedere armi nucleari a “un livello minimo” necessario per l’autodifesa» e che Bush ha intenzione di investire 100 miliardi di dollari su «un nuovo tipo di testata» con cui armare i sottomarini nucleari.[55] Ma è facile ipotizzare pure l’esigenza di proteggere le rotte commerciali oceaniche e le coste, incluso lo scambio con l’Africa, dove Pechino agisce secondo un’ambiziosa ed efficace pianificazione di rapporti bilaterali,[56] offrendosi in alternativa agli Stati Uniti e alla Francia anche in sede ONU. Il Sudan ad esempio sta godendo della protezione del diritto di veto cinese e nel contempo «oltre la metà dell’export sudanese di greggio va al colosso asiatico, coprendo così il 5% del suo fabbisogno».[57]
La Russia dal canto suo nel novembre scorso è entrata a far parte del WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio: un traguardo che «non sarebbe stato possibile senza la volontà politica del presidente degli Stati Uniti», ammette Putin.[58] Chi ha più da preoccuparsi è proprio l’Europa, perché a fronte del forte protezionismo agricolo che condivide con gli USA, a differenza di questi non potrà partecipare all’enorme area di libero scambio cui l’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) sta lavorando dal 1989. Non a caso anche per il Vietnam comunista si sono aperte le porte del WTO. Mentre gli Stati Uniti sono pronti a concedere qualcosa in materia di sussidi all’agricoltura per un accesso facilitato ai mercati emergenti soprattutto nel settore bancario, assicurativo e del terziario avanzato, l’Europa rischia la paralisi isolazionista, con ovvia accentuazione della dipendenza dagli USA. Anche la Russia sta mettendo sotto pressione l’UE – che già attinge alle sue forniture di gas per un quarto del fabbisogno giornaliero – ostacolando i tentativi delle imprese europee di sfruttare direttamente i giacimenti russi aggirando Gazprom, società il cui fatturato equivale al 7% del Pil nazionale. Contemporaneamente «Gazprom si sta sforzando di risalire la catena del valore aggiunto (produzione, trasporto, distribuzione, vendita al dettaglio) secondo la più classica ricetta capitalistica», il che «significa mettere il fabbisogno europeo sempre più nelle mani del Cremlino». Inoltre Putin sta vincendo la partita con molte delle repubbliche ex sovietiche per il controllo della produzione e della distribuzione delle fonti energetiche, che «per i paesi del Caspio e dell’Asia centrale» rappresentano «l’unica risorsa spendibile».[59] Da ultimo ha piegato il presidente Aleksander Lukashenko, costringendolo ad un accordo per la cessione di metà della Beltransgaz, la compagnia energetica bielorussa, e ad accettare il raddoppio del prezzo del metano, pena la sospensione delle forniture. La brutalità di Mosca è racchiusa nella sequenza. Il 29 dicembre Lukashenko afferma: «Se il ricatto del gas continua ci rifugeremo nei bunker. Non ci arrenderemo: meglio vivere in una capanna che diventare una colonia. […] Quello proposto da Gazprom non è un semplice aumento del prezzo, ma la distruzione di qualsiasi rapporto con la Russia». Alle 23,59 del 31 dicembre, «un minuto prima della scadenza dell’ultimatum», Minsk cede: «in questo clima pesante, abbiamo firmato un accordo spiacevole», dichiara il premier Sergei Sidorsky. Lukashenko si rivolge ai bielorussi per gli auguri di buon anno: «Sono in arrivo tempi duri. La nazione deve affrontare non solo l’offensiva dell’Occidente, ma si deve guardare anche dal neoimperialismo che viene dall’Oriente».[60] Da non dimenticare, à propos di Unione Europea, che il cancelliere Gerhard Schröder durante il suo mandato ha impostato un rapporto bilaterale privilegiato con Putin, favorendone la politica energetica con l’appoggio di Deutsche Bank e dell’industria nazionale e resistendo alle pressioni inglesi e statunitensi. Nel 2005, perse le elezioni, è stato immediatamente nominato presidente del Consiglio di sorveglianza della joint venture russo-tedesca Gazprom-BASF-E.ON (di cui i russi possiedono il 51%), incaricata di costruire sotto il Baltico un gasdotto che dal 2010 «trasporterà dalla costa russa a quella tedesca 27,5 miliardi di metri cubi di gas l’anno», tagliando fuori Polonia e paesi baltici.[61] L’accordo era stato benedetto da un incontro tra Putin e Schröder proprio qualche giorno prima delle elezioni, il che ha provocato non poche proteste, in patria e all’estero. Tuttavia, dopo il borbottio d’esordio di Angela Merkel pare che l’interesse nazionale abbia prevalso.
Insomma, mentre i movimenti pacifisti si affidano senza se e senza ma alla buona volontà delle armi e informazione e propaganda diventano indistinguibili, le grandi potenze muovono decise i pezzi ricollocati sulla scacchiera dopo la caduta del Muro. La fase d’apertura è conclusa, siamo nel medio gioco. Il Capitale è in guerra. Il resto è retorica.
[Fine. La prima parte di Difesa, ministro della qui]

[35] Alessandra Longo, E alla fine Rutelli cede su via Bottai, in la Repubblica, 19 settembre 1995.

[36] Cfr. Tricolore: Napolitano, «Rappresenti la coesione sociale», Agr, in www.corriere.it, 7 gennaio 2007; Raffaele Niri, Sanguineti: restauriamo l’odio di classe. La provocazione del poeta candidato sindaco di Prc, Pdci ed ex-Ds alle primarie, in la Repubblica, 6 gennaio 2007; W.V., Genova, scontro su Sanguineti. «Come Pol Pot», ivi, 7 gennaio 2007.

[37] Massimo Giannini, «Riforme subito o rischiamo grosso», intervista a Piero Fassino in la Repubblica, 7 gennaio 2007.

[38] Nese, op. cit.

[39] Francesca Caferri, «I caschi blu violentano i bambini»: scandalo sulle truppe Onu in Sudan. Sulla base di un rapporto Unicef, il Dayli Telegraph denuncia abusi sistematici nei confronti dei minori, in la Repubblica, 4 gennaio 2007. Di recente «denunce di abusi sessuali sono arrivate da Haiti, dal Burundi, dal Congo e dalla Liberia. Da gennaio 2004 319 inchieste interne sono state aperte e 179 persone – fra civili e militari – sono state riconosciute colpevoli di sfruttamento di minori o della prostituzione» (ivi). Gli abusi accompagnano spesso le prestazioni dei caschi blu. Per esempio, nel luglio 1993 il Guardian scriveva: «A Sarajevo i soldati dell’ONU sono diventati profittatori di guerra. Banchettano sui resti di una città morente» (cit. in Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino 2002, p. 303).

[40] Antonio Cassese, L’importanza delle battaglie perse, in la Repubblica, 3 gennaio 2007.

[41] Cfr. Flavio Lotti, «Coordinatore Nazionale della Tavola della pace», Facciamo come per il Libano. Chiediamo l’invio immediato di una forza di interposizione dell’Onu nella Striscia di Gaza, comunicato stampa del 9 novembre 2006, in www.tavoladellapace.it.

[42] Cfr. da ultimo Ilvo Diamanti, Italia 2006, sintesi del IX rapporto su Gli italiani e lo Stato, in il Venerdì di Repubblica, 978, 15 dicembre 2006, p. 29.

[43] Cfr. Stefania Di Lellis, Cortei a Londra e Berlino. «Inchiesta sui pestaggi», in la Repubblica, 29 luglio 2001.

[44] Lo sgomento dei vescovi. «Violenze mai viste dal ’45», ivi, 30 luglio 2001.

[45] Arturo Parisi, Missioni e ritiri. Né indifferenti né isolazionisti, in Corriere della Sera, 14 giugno 2006.

[46] Piccirilli, op. cit.

[48] Em. Gio., Afghanistan, i conti dell’Italia, in www.lettera22.it, 11 novembre 2006.

[49] Cfr. L’Italia in Afghanistan. L’evoluzione dell’intervento militare in Afghanistan, in Senza Censura, 18, novembre 2005, un contributo puntuale, «scritto avvalendosi», tra l’altro, «della consultazione delle seguenti riviste mensili: Panorama Difesa; RAIDS Italia, mensile di addestramento e operazioni militari; Rivista Italiana Difesa; Tecnologia e Difesa».

[50] Enrico Piovesana, L’Afghanistan e la sua legge. Storie e volti di un sistema giudiziario misogino e conservatore difficile da riformare, in www.peacereporter.net, 22 febbraio 2006. Cfr. anche Massimo De Angelis, Il ritorno dei talebani, Speciale TG1, Rai Uno, 3 dicembre 2006.

[51] Cfr. Damilano, op. cit.; Pelosi, op. cit.; Setta, op. cit.

[52] D’Orsi, op. cit., p. 67.

[53] Cfr. Cinzia Sasso, Terrorismo, stretta su chi vola negli Usa, in la Repubblica, 2 gennaio 2007; a.fon., «Un sopruso, ma è impossibile fermarli», ivi; Elsa Vinci, «Entro l’anno stop ai controlli Usa su e-mail e carte di credito», ivi, 6 gennaio 2007.

[54] Cfr. Federico Rampini, «Gengis Khan era cinese». Pechino si appropria del mito, ivi; Id., Cina e India, l’anno dei record: le ‘tigri asiatiche’ sono tornate, ivi, 2 gennaio 2007.

[55] Renata Pisu, Il Giappone: «Abbiamo diritto all’atomica», ivi, 15 novembre 2006; Usa: New York Times, «Bush vuole nuova testata nucleare», Agr, in www.corriere.it, 7 gennaio 2007. Secondo il rapporto Atomic Audit di Stephen Schwartz, 1998, «si stima che dal 1940 al 1996 gli Stati Uniti da soli abbiano speso per le armi nucleari 5,5 trilioni di dollari in valuta del ’96»: «più del totale» che nel medesimo periodo «il governo federale ha speso per istruzione, formazione, impiego, servizi sociali, agricoltura, risorse naturali e ambiente, ricerca scientifica e spaziale, comunità locali, giustizia, energia elettrica» (cfr. il Venerdì di Repubblica, 982, 12 gennaio 2007, p. 45).

[56] «Ufficialmente, il punto di partenza di questa crescita esponenziale nei rapporti commerciali tra le due parti è da fissare tra il 10 e il 12 ottobre 2000, quando a Pechino si riunirono i ministri degli Esteri e della cooperazione internazionale della Cina e di 44 paesi africani, creando il Forum sulla cooperazione Cina-Africa»: cfr. Irene Panozzo, La Cina invade l’Africa, in Limes, 3, 2006, ora anche in www.carmillaonline.com, 28 dicembre 2006.

[57] Ivi.

[58] Federico Rampini, Russia e Vietnam nel Wto: cambia il commercio mondiale, in la Repubblica, 20 novembre 2006.

[59] Cfr. Maurizio Ricci, E Putin mette un altro tassello per la ricostruzione dell’impero, ivi, 2 gennaio 2007.

[60] Cfr. Giampaolo Visetti, Bielorussia, Lukashenko sfida l’Europa, ivi, 30 dicembre 2006; Alberto Mattone, Gas, la Russia impone l’accordo, ivi, 2 gennaio 2007.

[61] Mauro Martini, Schröder, il socio europeo di Putin, in www.lettera22.it, 18 dicembre 2004; Giuseppe Oddo, Alleanze per il gas: il disegno del Cremlino, in www.ilsole24ore.com, 19 dicembre 2006.