liseycover.jpgdi Keith Blackmore

sklisey.jpg[Questa intervista, pubblicata da “Times”, è stata ripresa lo scorso ottobre da Repubblica. Per la decisività che La storia di Lisey esercita sul nostro contemporaneo, probabilmente con la medesima intensità del Lunar Park di Bret Easton Ellis, e circa la quale è consigliabile leggere il determinante intervento di Wu Ming 1 apparso su Carmilla, la riproponiamo a uso dei lettori a cui fosse sfuggita. gg]

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Posso chiederle qualcosa su La storia di Lisey? Quando ha scritto la storia originale?

“L’ho cominciata nel dicembre del 2001 e ho terminato la prima stesura verso la fine dell’estate del 2002. La prima stesura, quindi, mi ha preso circa sei mesi e poi ci ho lavorato sopra. Ci è voluto più o meno un anno, dal dicembre del 2001 al dicembre del 2002, per finire la bozza e completare il libro”.

Inizialmente, era un racconto breve?

“No, no, il racconto breve, Lisey e il pazzo, era nella rivista ‘McSweeney’s’. Michael Chabon stava curando l’antologia intitolata Thrilling Tales e mi chiese: ‘Hai qualcosa?’. In quel momento, l’idea, riguardo a La storia di Lisey, era quella di scrivere una serie di racconti diversi che mostrassero come Lisey aveva salvato Scott, usando una sorta di forza dietro le quinte con cui togliere di volta in volta le castagne dal fuoco. Quella storia, in cui a lui sparano a Nashville, era una storia completa. Gli dissi: ‘Sì, ho qualcosa per te’. Si trattava di quel racconto. Quando glielo mandai, verso marzo, il libro era ben lontano dall’essere finito. In quel momento non avevo molto di più. Avevo scritto circa 80-90 pagine”.

Ma l’idea era sempre quella di scrivere un romanzo piuttosto che un racconto?

“Sì, assolutamente”.

Mi ha colpito il fatto che uno come lei, che ha messo tanto in risalto la cultura pop o gli eventi contemporanei, non abbia mai accennato a quello che è successo dopo l’11 settembre, a parte un accenno a George Bush. È stata una decisione consapevole?

“La risposta è che si tratta di un libro talmente interiore che il mondo esterno non interferisce mai con ciò che accade nella loro vita. L’idea del libro era che si concentrasse in modo particolare sulla loro esistenza interiore. In questo senso è più una canzone che un romanzo. È come una canzone di musica country. L’idea è sempre stata questa, volevo che sui lettori avesse lo stesso effetto di una bella ballata di musica country. Che facesse un po’ male al cuore. E per riuscirci, non si può deviare troppo dall’idea di base”.

È un romanzo situazionale, per usare il termine che lei ha usato nel suo libro On Writing, o prevale la trama?

“Be’, è tutte e due le cose. Non corrisponde esattamente a nessuna delle due categorie. Cell è un modello situazionale, c’è quella cosa sui cellulari, quel “se accadesse questo, cosa succederebbe?”. E c’è anche una cosa situazionale in La storia di Lisey riguardo ai manoscritti. Ho sempre avuto questa idea, su cosa poteva succedere se uno scrittore famoso lasciava dei manoscritti non pubblicati e arrivava qualcuno dopo di lui. L’idea l’ho presa da storie che sento da tutta la vita. Chissà se c’è qualcosa di vero, ma dicono che J. D. Salinger sia ancora vivo, e che non c’è nessun dubbio, è nel New Hampshire, ma dicono anche che scrive ancora e che ha scritto chissà quanti libri. Il mio curatore presso la Doubleday, Bill Thompson, mi ha raccontato una storia secondo la quale Salinger sarebbe andato nella banca dove ha una cassetta di sicurezza per depositare un pacco incartato più o meno grande così e una donna gli ha chiesto: ‘Mi scusi, signor Salinger, è un nuovo libro?’. E lui ha risposto: ‘Sì’. E la donna ha detto: ‘Lo pubblicherà?’. E Salinger avrebbe detto: ‘E perché?’. Io ho pensato che fosse una stupidaggine. Quando ho sentito questa storia, ho pensato: cosa succederebbe se ci fosse uno scrittore così e qualcuno rapinasse la banca, non per i soldi ma per impossessarsi dei manoscritti non pubblicati? Quel libro non è mai stato scritto, ma ho pensato: e se uno scrittore famoso morisse e ci fosse un pazzo che vuole i manoscritti non pubblicati? In questo libro, quella persona è Dooley. Alla fine, però, questo elemento è diventato meno importante della storia di fondo. La storia di fondo è diventata la storia principale di quello che è successo a Scott da ragazzino e il dialogo interno del loro matrimonio. Quando ho cominciato La storia di Lisey ho pensato che sarebbe stata una storia ironica e divertente sul fatto che, come si dice, dietro a ogni uomo di successo ci sia una donna di successo. So per esperienza che è vero e falso al tempo stesso. Ma il vero elemento è questo. Le mogli degli uomini famosi spesso sono totalmente ignorate, sono tenute completamente in disparte, eppure sono molto, molto importanti; e ho pensato di mostrare una donna che salva ripetutamente un uomo, ma nessuno lo sa a parte lei”.

Nel libro parla de “la luce e il buio del matrimonio”…

“Due parti. Il buio e la luce”.

Se c’è un tema principale nel libro, è questo.

“Sì, credo che sia esatto”.

I suoi primi libri si sono mai concentrati su un tema così ordinario per gli standard di Stephen King?

“Si sono concentrati tutti su temi piuttosto ordinari. “>Pet Sematary parla di allevare bambini e di vita in famiglia e, in gran parte, Dolores Claiborne è un libro da leggere quando si è malati. Parla di come prendersi cura di una persona anziana e malata. Molti libri parlano della vita quotidiana americana. Per via dei temi che tratto, o degli elementi che uso, non i temi ma gli elementi, la gente mi ha applicato questa etichetta qualificandomi come scrittore horror. Questa cosa i miei editori inglesi l’hanno ampiamente sfruttata, con immagini di mani insanguinate che escono dal suolo e tutto il resto, ed è fantastico, è meraviglioso, mi ha reso possibile mandare a scuola i miei figli e pagare il mutuo. È una cosa meravigliosa. Abbiamo anche potuto dare parecchio denaro in beneficenza. Quindi, per me non è un problema. Mi sta benissimo di essere definito uno scrittore horror”.

Quanti dei suoi libri è corretto definire romanzi horror?

“Definisca romanzi horror quelli che vuole, io non etichetto nulla”.

La storia di Lisey mi è sembrato un libro triste.

“È un libro triste”.

È per via dell’incidente?

“Ho avuto quell’incidente, sono stato investito su questo lato e mi sono rotto tutto da qui in giù, ho avuto le costole spezzate. Mi è venuta la polmonite e nel 2001 sono rimasto in ospedale per due mesi. L’idea de La storia di Lisey mi è venuta all’ospedale, mentre cominciavo a riprendermi dalla polmonite, quando ho smesso di prendere gli antidolorifici e per la prima volta sono riuscito a pensare chiaramente. È stata una visione piuttosto chiara, l’idea di scrivere di qualcuno che sta solo, di mettermi in quella posizione. Ma c’era soprattutto la voglia di scrivere qualcosa che trasmettesse lo strazio del modo in cui sentiamo, della nostra fondamentale solitudine e di come sia possibile amare ma, prima o poi, l’amore finisca. Siamo mortali. È il meglio che posso fare. E volevo dare la sensazione che danno le canzoni di Hank Williams, sa, quelle canzoni che ci fanno piangere. Voglio dire anche un’altra cosa. Uno dei miei compiti in quanto scrittore è quello di assalire le vostre emozioni e forse di aggredirvi – e per far questo uso tutti gli strumenti disponibili. Forse sarà per spaventarvi a morte, ma potrebbe anche essere per prendervi in modo più subdolo, per farvi sentire tristi. Riuscire a farvi sentire tristi è positivo. Riuscire a farvi ridere è positivo. Farvi urlare, ridere, piangere, non mi importa, ma coinvolgervi, farvi fare qualcosa di più che mettere il libro nello scaffale dicendo: ‘Ne ho finito un altro’, senza nessuna reazione. Questa è una cosa che odio. Voglio che sappiate che io c’ero”.

Ne La Storia di Lisey<7a> c’è qualcosa che coincide con la biografia che compare sul suo sito web. Nel 1977 lei venne in Gran Bretagna per restarci un anno ma se ne andò molto prima.

“Venni per scrivere un libro. Pensavo che l’Inghilterra fosse la patria dei racconti di fantasmi, pensavo di trovarci un racconto di fantasmi. Ma non è andata così. Una volta all’estero mi sono sentito completamente appiattito. Era come se mi avessero tagliato il cordone ombelicale, anche se ho avuto un rapporto meraviglioso con tutte le persone che ho conosciuto, non ho bevuto troppo, non ho litigato con il padrone di casa o altro”.