di Giuseppe Genna

pansaginogenna.jpg[Per chi desiderasse comprendere moventi e mozioni che mi spingono a redigere in tempo reale questo microracconto, che intende essere una risposta narrativa al revisionismo giornalistico di Giampaolo Pansa, rimando all’intervento di Wu Ming 1 pubblicato recentemente su queste pagine elettroniche]

LO ZIO GINO

zioginoliberazione1945.jpgIl tuo nome è un nome antico, l’Italia recuperata, il nome di un tempo di volti smagriti, epidermidi sferzate e ròse dai venti di Nikolajewka e dalle parole fitte tra i coscritti dell’Armir. I tuoi piedi sono bollati da calli che furono vesciche nei panni lenci saturi di acqua tra le nevi russe, chilometri percorsi con la suola fatta di pneumatico, prima avanti, poi non si sa verso dove, nell’immensa distesa bianca della Grande Madre che tutto prende e tutto perde e si sveglierà alla fine seguendo le parole dell’Immacolata Vergine portoghese, che in portoghese ha predetto e profetato a inizio secolo. Finché non hai trovato scarpe: scarpe vere, grazie ai contadini che ti hanno accolto mentre, sagoma scura nel turbinio nebuloso di ghiaccio e neve, proseguivi con la mano tesa in avanti e il cuore decelerava i suoi ritmi irregolari, tu che, comunista, non credevi ad alcuna Immacolata.
Il tuo nome è Gino Genna e ora sei morto ed eri il primogenito, il fratello maggiore di mio padre.

Sei tornato dalla Russia a piedi. Soltanto in Croazia sei riuscito, e miracolosamente, a farti caricare su un camion diretto in Italia e alla frontiera ti sei nascosto sotto la motrice. Hai raggiunto a passi lenti, mentre la carne delle ferite aveva invertito il processo di marcescenza, la consapevolezza che la casa ti attendeva come estremo rifugio, nido per un costato ambulante, per mandibole che al confine con la Polonia si spalancarono e le dita ne trassero un incisivo, semplicemente, senza dolore, come un uovo fossilizzato.
ziogino.jpgTi attendeva la casa ambigua, popolare, dove tuo padre fascista aumentava il suo odio verso di te, il figlio degenere come gli altri quattro, ma più degenere in quanto primo: tutti e cinque i figli erano comunisti. Inizialmente per avere seguìto il tuo magistero fatto di pietà e aggressività alla situazione, al tempo, alle ingiurie che si perpetravano in quei vent’anni; e poi per strade proprie, sondabili a posteriori, nelle lente parole di mio padre scritte a vent’anni sul quadernetto che gli ho ritrovato in casa due giorni dopo che è morto. E tuo padre, milite della Prima guerra mondiale decorato per avere perso un occhio sostituito da un esemplare in vetro, seduto sui vimini tratteneva imprecazioni che riversavano bile nel sangue e che quando moristi, tu, etilista ma ancora comunista, uscito fuori strada verso Reggio Emilia nei Settanta, riversò quell’odio su di te che scomparivi, negli attimi postumi a quello spazio minimo di coscienza che il coma concede talvolta prima della fine.
E sei arrivato.
Come un miracolo, sei arrivato, come migliaia di altri, a piedi, scarnificati, dalla disfatta russa.
E attorno è l’inferno, e le delazioni fasciste si moltiplicano e tu, intabarrato perché non ti riconosca nessuno nel cortile a corte viennese, dove molti sono i simpatizzanti del Duce pronti a denunciarti (gente che poi applaudirà in piazzale Loreto le ginocchia livide della Petacci e la carne flaccida e pallida del Duce, smagrito ma tornato gonfio, e giallo, con la testa capovolta verso l’asfalto) – tu sei l’Anonimo, il tanto Atteso, il Partigiano in germoglio: raschiato fino all’osso, rifiorirai.
Arrivi e suoni il pesante trillo del campanello, strumento grezzo rimasto finché non lo suonai io, adulto, tuo nipote – e tua madre non sa chi sia quel mendicante coperto di teli, finché non ti sveli.
L’abbraccio di tua madre mette a nudo il costato cristico, l’abbraccio ti fa male, la stretta comprime i polmoni: scricchioli, ombra d’uomo venuto a piedi dalla Russia.
Giorni e giorni nascosto a riprenderti in casa, i fratelli che rinunciano a parte delle misere porzioni raccattate dalla madre, in coda per gli scarti al Macello comunale a cento metri da casa, il pane appesantito dal marmo commisto alla farina – il pane mistificato, bollato, tesserato.
Ma qualcuno sa, viene a sapere che sei lì, nascosto nella casa tua, e tu non sai chi sia, e quello corre dal responsabile del fascio e parla.
Sono trascorsi pochi giorni. Il tuo respiro è meno affannato, la carne si ritempera nell’occultamento, il tuo sangue è meno nero, il tuo comunismo esige compagni di lotta e i tuoi fratelli frenano la tua febbrile ansia di congiungerti ai partigiani, e ti informano, procurano per te i contatti per quando sarai pronto, Gino Genna, partigiano imminente.
Ma sfondano la porta mentre a casa sono lì con te Egidio tuo fratello e mio padre che ha sei anni, e sfondano e sono giganteschi e neri e con placche di metallo incatenate che scendono sul petto nero e parlano la lingua che è maestro di morte, la lingua ottusa delle umlaut impietose e scandite, poiché la pietà abbraccia e l’empietà si scandisce, si separa in proiettili di suono grave, rauco, accusatorio. E ti trascinano via.
Ti trascinano direttamente alla stazione e ti caricano su un convoglio verso Dachau, fa freddo, hai con te un sommario giaccone e vedi appena la sagoma di tua madre che ha saputo, è corsa alla stazione, sta cercando di barattare qualunque cosa per il figlio, merce contro fisiologia, denaro surreale contro pulsazioni d’amore vitale, ma il treno accelera lentamente, caracolla e stride e ti porta a Dachau.
Tua madre e i tuoi fratelli osservano tornando lo sguardo del delatore, l’uomo che ti abitava a una decina di metri, e il suo sguardo è vuoto come quello di un bove, il suo sguardo bovino osserva la serie di disperazioni chiamate fratelli Genna e Luigia Forcolin in Genna loro madre, e tutta questa scena, più in alto, è vista dal monocolo vivente di tuo padre, decorato di guerra con l’occhio di vetro, che vede i suoi famigliari e vede il delatore e il delatore appoggia i gomiti sullo spesso balcone di pietra e l’occhio che vede coglie il brillio casuale della brillantina unta che mantiene lisci i suoi capelli insani, disordinati per vocazione.
E non sono trascorse due ore di treno, e nessuno lo sa, e tu non sei più sul treno, perché hai sfondato un finestrino non blindato, fasciandoti la testa col rozzo giaccone e tuffandoti nel vuoto in corsa e incrinandoti tre costole. E nessuno può fare niente sul treno ormai lontano, non lo fermano perché nessuno si accorge e tu segui i binari a distanza di decine di metri, nel folto.
E torni: la seconda volta torni.
Aspetti fuori della casa, di notte e tiri un sasso alla finestra dei tuoi fratelli, dormono in quattro nella stanza gelida e umida, che io adulto mai sono riuscito a bonificare. Si sporgono su via Tommei, da dove il delatore non può vederti. E sussurri come un urlo che spacca le atmosfere in direzione d’Orione che raggiungerai entro mattina il nucleo operativo dei partigiani nel Lodigiano (la 111ma Armata? E’ giusto? Non ricordo. Non ricordo. Non ricordo!).
Parteciperai a un clamoroso scontro a fuoco, una delle battaglie decisive fuori Milano, per la presa della tua città, un massacro, il nome della località che finiva in “ina” io non lo ricordo perché mio papà è morto e io non l’ho appuntato quando me lo raccontava, io non lo ricordo, faccio ricerche ma non lo ricordo, non ricordo quel nome che tanto importante è per me, che fu la tomba e la resurrezione, da cui Gino Genna mio zio uscì con una ferita nel braccio, tanto che, quando furono finalmente decomposti i suoi resti, ritrovarono il proiettile incastonato per tutta la vita nel braccio.
E quando fu liberata Milano tu arrivasti in via degli Etruschi alla tua casa popolare, intatta nonostante i bombardamenti, schivando le fosse degli ordigni esplosi a cento metri da casa tua, tu arrivasti con un motocarro carico di viveri e di bambini, trionfante, nella corte della casa popolare e le serrande dell’appartamento del delatore si chiusero all’istante.
Tu vedesti l’impronta della SS venuta a cercarti senza trovarti, impressa nell’armadio, restata come traccia di un nematelminta per quarant’anni, finché non la carezzai io, adulto, nella camera stessa dove crescesti tu.
Tu tornasti e chiedevi vendetta.
Tu chiedesti chi aveva fatto il tuo nome, chi aveva tradito, lo estorcesti a forza dalle bocche infiammate e distorte dei tuoi fratelli, e armasti la rivoltella, finché mio padre che aveva sei anni ti tirò per un lembo della giacca militare posticcia e ti disse di non farlo, stridendo come una piccola scimmia.
E tu non lo facesti.
E anni così, a pensare di avere costruito un mondo rinnovato, anche per quel gesto di astensione, di astinenza dal disumano, la pietà che l’ha vinta sul rancore maledetto, e invece nulla era rinnovato, se non i gargarismi etilici che ti stordivano la consapevolezza di quanta carne marcescente fosse di questo mondo non illuminato, non equo né fraterno, alcool per stordire l’impulso comunista a riprendere la battaglia, a tornare dove eri stato, a nasconderti e a combattere chi? Chi? Chi?, ti chiedevi mentre nel 1974 la tua utilitaria sbandò perché tu entrassi in coma, morissi non empio, uomo giusto, che il tempo di me adulto è disposto a infangarti, le penne immerse nel fango umano, nell’ipocrisia, nella melma di sé, nella merda e nel sangue altrui ormai disseccato e dilavato dalle molte pioggie, a decenni di distanza, per combinare l’affare, la seconda e postuma delazione, l’architetto della tua seconda lapide invisibile che ha scolpito l’antirequiem e l’insulto, il deportatore fuori tempo massimo ti vorrebbe seduto al tuo posto sul treno per Dachau, e viene ripreso al telegiornale, e si gonfia, il rospo gigante e velenoso del mio tempo adulto straparla dei vincitori, dei vinti, del dolore, degli anni Settanta che cercarono di raccogliere e fruttificare la tua disperazione, e mentre scrivo scavalco le cronologie e le ere che ci separano e tu sei mio figlio che proteggo, il mio bimbo partigiano addormentato tra le mie braccia che muovono dita sulla tastiera.
La pietà vince l’empietà.
La verità è storia.
L’uomo ha il suo nemico.
Il suo nemico è tra le file dei suoi simili: non è umano, non è vero, è empio.