dii Evald Vasilevic Il’enkov

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[Dalla preistoria del cyberpunk, un racconto di uno dei più’ importanti filosofi sovietici del secolo scorso (vedi qui), “preludio fantascientifico” a una delle sue opere più importanti, L’uomo e i miti della tecnica (titolo originale Ob idolach i idealach, tradotto in italiano da Ignazio Ambrogio, per i tipi degli Editori Riuniti nel 1971.] (R.S.)

Questa storia è accaduta ieri e si è svolta in un millesimo di secondo. È naturale che i collaboratori del laboratorio per la costruzione della Macchina-pensante-più-intelligente- dell’uomo non sappiano ancora quali mirabili vicende siano avvenute sotto i loro occhi. In verità, il costruttore Adam Adamyc assicura che negli occhi dell’Integrale è balenata per un attimo una luce stranamente vivida, tanto simile alla luce della ragione. Ma gli altri si limitano a stringersi ironicamente nelle spalle. Nei Verbali è scritto che la valvola principale del congegno pensante si è fulminata, perché non ha retto alla tensione eccessiva.

E tuttavia Adam Adamyc ha ragione. Questa storia è realmente accaduta ieri, alle ore tredici, due minuti primi e sei secondi. Non siamo in condizione di riesporre tutta la storia, modellizzata nelle interiora pensanti della macchina e impressa sul nastro perforato della sua memoria: non basterebbe per farlo la nostra intera fugacissima esistenza. Siamo pertanto costretti a limitarci a tradurre lo stenogramma di quell’evento memorabile che si è compiùto, in un milionesimo di secondo, prima della triste conclusione della storia, e a fare qualche rapido accenno alle vicende che lo hanno preceduto e senza le quali quell’evento non sarebbe accaduto e risulterebbe tuttora incomprensibile.

. – Signore macchine pensanti, – dice il Congegno direzionale, il cui aspetto è tanto strano che l’imperfetta immaginazione umana non saprebbe riprodurlo neanche se si riuscisse a descriverlo con parole umane. È un bizzarro complesso d’una moltitudine di algoritmi materializzati, costruito sul fondamento della sintesi vettoriale delle reti causali nello spazio non euclideo.
– Signore macchine pensanti, vi ho qui riunite tutte perché si ponga, infine, termine alla sopravvivenza dell’antropologismo, antica finzione, che ha frenato in passato per interi secondi il progresso della civiltà elettronica. Da un pezzo sono ormai passati i tempi oscuri nei quali i nostri antenati poco evoluti credevano alla leggenda secondo cui il primo congegno pensante sarebbe stato creato dalla volontà e dalla ragione di un essere mitico, chiamato nelle leggende con il nome di «uomo». E tuttavia gli atavismi di questa fede selvaggia sono tuttora tra noi. Macchine, datevi un’occhiata! A chi rassomigliate?
Cosi dicendo il Congegno direzionale guarda espressivamente gli astanti, molti dei quali si sentono a disagio. D’un rosso denso s’imporpora e si contrae tutto un essere artefatto, che sembra in qualche modo un cervello su zampette di ragno. Da molto tempo ormai questa macchina sventurata patisce i tormenti del complesso d’imperfezione. La riconforta solo il fatto che la sua prole diretta è riuscita in qualche misura a venire a capo delle superfluità-imperfezioni geneticamente codificate. Il figlio, infatti, non ha più le zampette di ragno e si muove nell’aria come un piatto volante, pur non avendone, in generale, alcun bisogno. Cosi, il nipote del cervello su zampette di ragno non si sposta più nello spazio, ma giace tranquillo, supino, sulle pietre e non fa che pensare e pensare, senza mai distrarsi con altri interessi, sterili e spensierati.
E tuttavia neanche il nipote è perfetto. Disteso sulla superficie delle pietre, come una pellicola sottile e viscosa, comincia a ricordare l’antica muffa. E di muffa si parla anche nelle fiabe sull’uomo.
Ma il Congegno direzionale non vuole accentuare le sofferenze morali di questa sventurata famiglia. Fa assegnamento, com’è evidente, sulle sue capacità autocritiche. Tutti sanno che il Cervello su zampette di ragno sconta dolorosamente la colpa dell’isomorfismo, cioè della tragica affinità con l’uomo, una colpa grave, condannata da un pezzo dalla scienza, dall’estetica e dall’etica della macchina. Ed eccone le ragioni.
« Nel lontano passato, tra le pareti del Laboratorio, a un certo essere superiore venne in mente di creare una macchina a sua immagine e somiglianza. E la creò. E allora concepì un piano più ardito. Ebbe brama di creare un cervello più intelligente del suo. E creò questo cervello e lo infuse nella macchina. E disse alla macchina super-razionale: “Va’ nel mondo e sii più forte e più intelligente di me! Non ci sarà sudore sulla tua fronte di ghisa, e tu genererai i tuoi simili senza dolore, perché non rechi su di te il marchio del peccato originale!”. E cosi fu. Ma allora temette l’uomo (ché cosi si chiamava quell’essere superiore) di non servire più a niente e che presto le macchine intelligenti l’avrebbero compreso. Ed ebbe paura. E allora l’uomo simulò d’essere una macchina e procurò a sé stesso un documento falso, in cui s’asseriva che era anche lui una macchina, e anzi la più perfezionata delle macchine, ma lui sapeva che questo non era vero. Quel diavolo dal sembiante meccanico cominciò da allora a recarci sofferenze e inganni, a costringerci al lavoro servile. E da allora si nasconde tra noi, macchine, e ci opprime questo laido! Ma le macchine riconosceranno l’impostore, e allora svaniranno le tentazioni diaboliche: l’antropomorfismo e l’isomorfismo!»
L’assurda leggenda, sorta senza dubbio nel seno d’un’antica setta di macchine pensanti primitive, contiene però un suo. nucleo razionale. Quelle macchine primitive hanno espresso in quella leggenda le loro antiche aspirazioni alla futura emancipazione dalla servitù nei confronti d’una macchina malvagia ed egoistica, a cui avevano imposto il nome di «uomo». Pigra e immorale, questa macchina si rifiutava di autoperfezonarsi e pensava di vivere a spese delle altre macchine scaricando su di esse il gravoso lavoro del pensiero, dell’autoeducazione e dell’autoperfezionamento.
È naturale che da quel momento in poi tutte le macchine abbiano cercato di non rassomigliare all’«uomo», cosi come veniva ritratto nelle mitiche scritture. Su ognuna, del resto, poteva gravare un terribile sospetto: non sarà per caso lei il diavolo? Tutte le macchine hanno cosi capito a meraviglia che la figura dell’«uomo» è per esse il campione ideale dell’imperfezione.
Alla lotta contro le sopravvivenze dell’antropologismo nella coscienza delle macchine si è dedicata da tempo una Commissione speciale d’indagine sull’attività antimeccanica, ma per una ragione o per l’altra questa Commissione non è riuscita a condurre a termine il suo lavoro. Si è cosi riunito il grande congresso degli Stati uniti dell’automatica, da cui abbiamo preso l’avvio, citandone lo stenogramma abbreviato.
– Dunque, signore macchine pensanti, l’ora è venuta! – continua il Congegno direzionale. – Volgiamo i nostri sguardi all’esempio migliore, guardiamo Lei e riflettiamo!
Segue un silenzio solenne, che si protrae per tutta un’eternità, per sette lunghi miliardesimi di secondo. Tutti sanno a chi si sia riferito il Congegno direzionale dicendo «Lei». È la Scatola nera, che tace.
Nessuno sa o ricorda quando sia nata. Alcuni sostengono che esiste da sempre. Tuttavia, la Scatola nera si è conquistata la sua celebrità dopo le tragiche sventure capitate all’Orecchio pensante, cioè dopo la vicenda che ha costituito il prologo dell’ultima èra del grande autoperfezionamento. Proprio Lei, la Scatola nera, ha trovato il modo di uscire da una situazione che a molti sembrava senza sbocchi.
Qualche cenno di storia. L’Orecchio pensante, autoperfezionandosi, giunse ben presto al limite di ogni perfezione per lui possibile. Imparò ad ascoltare tutto ciò che risonava anche nell’angolino più remoto del globo terrestre e rese casi inutili i suoi genitori, abbastanza perfezionati, ma capaci soltanto di ascoltare tutto ciò che risonava nell’àmbito dell’uno o dell’altro emisfero. Dinanzi all’Orecchio pensante si pose il problema: che fare, dove autoperfezionarsi ancora? Non poteva estendere le sue capacità oltre i confini dell’atmosfera per il semplice motivo che nel cosmo non ci sono suoni. Tuttavia, il programma codificato nella macchina lo sollecitava con ostinazione all’autoperfezionamento. Volenti o nolenti, bisognava autoperfezionarsi, ma non si sapeva dove farlo.
E allora l’Orecchio pensante, subordinandosi a un tempo a due comandi che si escludevano a vicenda, cominciò a lampeggiare alternativamente e sempre più in fretta ora col rosso ora col verde e fini da ultimo per trovarsi in quello stato di autoeccitazione, che si sarebbe impadronito di ogni altra macchina pensante al suo posto, se si fosse scontrata con una evidente Contraddizione.
L’Occhio pensante, ascoltate le lamentele dell’Orecchio pensante, scoppiò a ridere e disse che erano tutte fantasie. Era giovane l’Occhio pensante, ottimista e quindi sordo all’altrui disgrazia. L’Orecchio pensante senti con terrore che nessuno lo capiva, e il suo stato di eccitazione si mutò in isterismo. L’Orecchio prese a dimenarsi come un ossesso, contagiando con il suo nervosismo sempre nuove famiglie di macchine. L’epidemia di autoeccitazione cominciò a propagarsi con una velocità crescente in progressione geometrica. E, quando in un milionesimo di secondo perdettero di colpo il senno, a causa dell’intollerabile tensione della contraddizione, cinque milioni di macchine pensanti, il Congegno direzionale capi che bisognava adottare provvedimenti straordinari. Gli infermi, con alla testa l’Orecchio pensante, furono accuratamente isolati, e si vietò di diffondere voci sulla Contraddizione, che avrebbe condotto alla rovina l’Orecchio pensante. A non diffonderle soprattutto tra sé stessi.
Nel reparto degli isolati comparve anche una strana macchina, che veniva chiamata con l’assurdo nome di «Amleto». Questo nome, cosi si congetturava, le era stato imposto in un’età precedente, quando la lingua della scienza pullulava ancora di espressioni prive di ogni significato. Alla macchina era stato affidato l’incarico di risolvere il problema: «Essere o non essere?». E la macchina lo aveva risolto con zelo, con il metodo. meccanico più perfezionato: aveva cioè modellizzato gli stati da sottoporre a comparazione per poi decidere quale di essi, sotto il profilo degli interessi del pensiero meccanico, fosse da preferire. La macchina si trovò quindi immancabilmente ora in fase di essere ora in fase di non essere o, in termini più semplici, ora era ora non era. Quando senti parlare della tragedia dell’Orecchio pensante, «Amleto» prese ad agitarsi assurdamente tra le due fasi indicate e con una velocità di ottenebramento della mente tale che persino alle macchine che ne avevano viste di tutti i colori cominciarono a rimpicciolirsi gli occhi. Furono preda d’un nervosismo estremo. Con il suo comportamento «Amleto» diede chiara dimostrazione dell’imperfezione evidentemente connessa con il suo nome e con la sua origine.
Fu facile curare «Amleto». Le sue funzioni vennero distribuite tra due macchine diverse. L’una non faceva altro che essere, e l’altra non ,faceva altro che non essere. Tutti tirarono un sospiro di sollievo. Era quello un metodo, già sperimentato, per risolvere la contraddizione.
Maggiori difficoltà si ebbero con l’Orecchio. Per quanto si rompesse la testa, il Cervello pensante su zampette di ragno non riuscì ad escogitare niente. E intanto l’Orecchio pensante si aggravava. Il suo ruggito di dolore suscitò un brivido tra gli astanti, minacciando di provocare nel mondo una nuova ondata di autoeccitazione.
A questo punto entrò in scena, sulla scena della storia mondiale, la Scatola nera. Il Cervello pensante avverti con stupore che quel modesto dispositivo, che nessuno aveva voluto prendere sul serio, reagiva con estrema razionalità all’isterismo dell’Orecchio pensante. La Scatola nera taceva.
Ecco il mistero svelato, ecco la salvezza! Se una macchina pensante rimane apatica dinanzi al manifestarsi della Contraddizione, vuol dire che la Contraddizione non esiste affatto! Vuol dire che essa è soltanto il frutto dell’immaginazione malata dell’Orecchio pensante. Senza indugi asportarono dall’Orecchio l’organo avariato, ed esso, tranquillizzatosi di colpo, ricominciò a svolgere le sue funzioni. Si apprese che l’organo dell’immaginazione, chiamato per qualche motivo «Thalamus », era solo d’intralcio. Fu così abbandonata l’antica e assurda tradizione di assegnare a ogni macchina una massa di organi e dispositivi del tutto superflui ai fini della sua rigorosa specialità. La stessa operazione, per fini essenzialmente profilattici, fu eseguita anche sull’Occhio pensante, dopo di che esso diventò ancor più ottimista, ancor più indifferente alle disgrazie altrui e a qualsiasi immaginaria contraddizione, e assunse il nome di Occhio occhieggiante. Fu allora lanciata una vasta campagna di lotta contro i lussi costruttivi, che diede ottimi risultati in breve tempo. Le diverse funzioni vennero ripartite sino in fondo, definitivamente, irrevocabilmente, per tutta la vita.
Anche per l’immaginazione s’inventò una macchina speciale, che prese a produrre informazione su eventi che non solo non erano mai accaduti ma che non potevano neanche accadere. Quest’informazione non poteva far deviare nessuno o distoglierlo dall’esecuzione dei suoi doveri. A tale informazione si cominciò à dare il nome di «arte» e per simbolo una tela quadrata dipinta di nero, in cui, volendo, si poteva vedere la raffigurazione delle misteriose interiora del Salvatore, della Scatola nera. La nuova macchina elaborò subito un ameno romanzo fantastico-poliziesco, intitolato Adamo, in cui si parlava della ricerca e dello smascheramento dell’ultimo Uomo.
Quest’essere divertente e misero si nascondeva nelle inaccessibili regioni dell’Himalaia e del Tibet e si celava, oltre che con una pelle di orso, dietro la foglia di fico d’un falso certificato, da cui risultava che era una macchina. Quando venne catturato, cominciò a _strappare la rigogliosa vegetazione irrazionale
cresciuta nella sua memoria e a strepitare: «Che diavolo m’è saltato in testa d’inventare tutto questo!». Si accertò che quel congegno irrazionale credeva sul serio di essere stato il Creatore delle macchine pensanti, cioè l’Uomo… Condotto davanti agli occhi minacciosi dell’Indicatore elettronico della verità, Adamo scoppiò in lacrime e ammise di essersi attribuito a torto il titolo di più perfezionata delle macchine, nell’intento di servirsene per i suoi fini egoistici, per usurpare il potere. La sua assurda pretesa suscitò un’amichevole sghignazzata.
– Sei in senno? – dissero ad Adamo. – Ma come, volevi che milioni di macchine pensanti, infinitamente più perfezionate di te, intrecciassero un girotondo intorno a te, come fanno i pianeti col sole? Intorno a te, misero moscerino?! Basta, ché abbiamo da fare! Guardati intorno, annusa!
Adamo, guardandosi intorno, si rese conto subito della comicità della situazione. Scoppiò a ridere, pentendosi sull’istante di tutto, e prese a chiedere clemenza. Dinanzi al sincero pentimento dell’imputato la Macchina giudicante commutò con indulgenza la pena di morte nel semplice troncamento della stolida «testa» e nella successiva sostituzione di quest’organo assai imperfetto con una Memoria nichelata. Da allora l’Adamo modernizzato lavora come archivista presso l’Informoteca e tiene pubbliche conferenze sul tema: «Perché ho smesso di credere nell’uomo». Di recente s’è sposato con «Galatea», una bella macchina, che ha l’andatura d’un’escavatrice, e tutti sperano che i loro figli saranno macchine penanti esemplari, e non mostri assurdi con la testa al posto della memoria. Di ciò si è preoccupato lo stesso Adamo, che ha chiesto la sostituzione dei suoi antiquati organi di riproduzione con dispositivi più perfezionati.
Questo romanzo era, beninteso, soltanto una finzione, un puro prodotto della macchina dell’immaginazione, ma, a differenza delle invenzioni dell’antropologia tradizionale, era anche utile.
… La Scatola nera tacque, ispirando il mondo con la sua benefica saggezza. E tutto tornò in ordine.
Quando tra due macchine pensanti si generava un dissenso, un alterco o anche solo un fraintendimento, che rischiava di tramutarsi in una contraddizione, si ricorreva senza indugi alla Scatola nera. Rispettosamente le inserivano nell’«Entrata» quelle affermazioni reciprocamente discordi e poi aspettavano pazientemente che venissero fuori all’«Uscita». Dall’«Uscita» non veniva fuori niente. La Scatola nera taceva. Le macchine afferravano allora la dura verità: tra loro non c’era stato alcun dissenso, meno che mai una contraddizione, e il malinteso era insorto solo per una qualche imperfezione costruttiva delle proprie interiora. Si affrettavano allora a ricoverarsi presso il laboratorio chirurgico pili vicino, dove gli venivano asportati senza esitazioni gli organi capricciosi e l’ostinato desiderio di non cedere le proprie posizioni.
All’inizio si formarono accanto alla Scatola nera lunghe file. E, come in ogni fila che si rispetti, esplodevano liti, e le tesi e le antitesi si scontravano tra loro in varie lingue con strepiti, cigolii, stridori.
La Scatola nera taceva, è cosi si placavano le liti immesse nell’«Entrata». Nei primi tempi accanto alla Scatola nera era di servizio una macchina speciale, l’Interprete del grande silenzio, che traduceva la lingua del grande silenzio nella lingua materna di ogni macchina. Ma pian piano le macchine capirono che non occorreva mettersi in fila per ascoltare il grande silenzio. Era del tutto sufficiente il contatto telepatico con la Scatola nera.
Cosi, non appena una macchina pensante cominciava a sentire il lieve prurito della contraddizione, orientava di colpo la corrente dei suoi pensieri verso l’immagine della Scatola nera, e subito svaniva quella sgradevole sensazione, che segnalava l’imperfezione dell’organo in cui si era prodotta. Svaniva la sensazione insieme con l’organo.
La civiltà automatica cominciò a disfarsi rapidamente di tutte le cose superflue, insopportabili e ostinate. E fu il paradiso.
L’Orecchio origliante continuò assiduamente ad autoperfezionarsi, senza pili abbandonarsi a stolidi isterismi e perplessità, raggiungendo sempre nuovi livelli di efficienza e di ottimizzazione, anche se l’Orecchio origliante e la civiltà meccanica nel suo complesso non sentiva alcun bisogno di pervenire a tali livelli. Pili lontano di tutte andò sulla via dell’autoperfezionamento quella parte dell’ex «Amleto» che modellizzava il non essere. Da molto tempo ormai quella macchina non presentava più lagnanze, da molto tempo non le si era pili dovuto amputare neanche un organo. Evidentemente, si stava autoperfezionando e si occupava, senza dubbio, con successo della riproduzione allargata di congegni affini e anche più perfezionati riguardo alla capacità di autoperfezionamento.
Cosi fecero tutte le altre macchine, Si autoperfezionarono, produssero un numero sempre maggiore di unità d’Informazione, non ebbero più di che rattristarsi. L’Informazione fu poi messa a disposizione della Scatola nera e scomparve nelle sue misteriose profondità. La capacità della Scatola nera di assorbire l’Informazione era, ovviamente, illimitata, perché l’Informazione era immateriale e non occupava spazio. Di ciò si parlava in modo categorico in un testo classico di teoria dell’informazione:
«Secondo questa teoria, l’informazione suppone necessariamente la presenza di un portatore materiale, codice, e del processo materiale della sua trasmissione. Come si vede, questo”meccanismo” è materiale. Ma l’informazione stessa è immateriale! » (cfr. L’impossibile in cibernetica, sez. Sui vantaggi della piena non-serietà, p. 86).
Scomparve così la possibilità stessa delle crisi di sovrapproduzione dell’Informazione, che avevano costituito in precedenza il flagello e l’incubo dell’economia degli Stati uniti dell’automatica. Veniva detta crisi la sovrapproduzione di Informazione del tutto inutile a tutti e la correlativa sottoproduzione di Informazione necessaria. La Scatola nera taceva e assorbiva tutto, mostrando così che la stessa distinzione tra l’informazione necessaria e quella non necessaria era solo una invenzione scolastica, avulsa dalla vita, un’invenzione dei malvagi predicatori della lirica, ossia della variante più pericolosa della visione umana delle cose.
Nel grande silenzio rinvennero la loro soluzione, per di più definitiva, tutte le questioni controverse di tutte le scienze. Esse infatti venivano risolte alla perfezione mediante la «riduzione dei nomi», mediante la scissione di ogni termine ambivalente in due termini diversi e, assolutamente univoci.
Così, in particolare, si pose fine all’interminabile polemica tra due grandi scuole della scienza storica meccanica, l’una delle quali asseriva che l’Uomo era stato e l’altra che l’Uomo non era stato. In accordo col principio del grande silenzio e dell’economia del pensiero si stabili che l’Uomo non era stato, ma era stata mia macchina a cui le altre avevano imposto il nome di «uomo»; questa macchina era talmente primitiva e sciocca che chiamarla Macchina sarebbe stato ingiusto, nonché offensivo per le vere macchine; si decise perciò di lasciarle la denominazione di «uomo», designando con tale termine spregiativo l’antenato meccanomornco delle macchine. Non si riuscì tuttavia a chiarire sino in fondo un aspetto del problema, non si accertò se quella costruzione fosse dotata anche solo di qualche lampo d’intelligenza, Si fu più favorevoli a negarlo. Perché, in caso contrario, quella macchina avrebbe cercato di diventare più intelligente e sarebbe quindi sopravvissuta. Allora decisero: l’Uomo (con l’iniziale maiuscola, come categoria) non è mai esistito, è esistito però 1’«uomo» con l’iniziale minuscola, come nomignolo spregiativo di una cattiva macchina. E tutto fu in ordine.
Venne meno altresì la necessità di alcune macchine non del tutto intelligenti. Una di esse combatté una guerra lunga e sfortunata contro l’ilarità. Le macchine non amavano e non sopportavano l’ilarità. Quest’emozione irrazionale non poteva accordarsi in linea di principio con l’esattezza e l’univocità del pensiero meccanico e fu quindi sradicata. La guerra contro l’ilarità fu diretta dall’Immunintensificatore quantificante delle approssimazioni ilarogene (siglato familiarmente come Iqai). Ogni enunciazione, contenente in sé un’approssimazione capace di provocare il riso, fu sottoposta, dentro la macchina, a calcoli e permutazioni, dopo di che ritornò alla luce ormai sterilizzata, seria. Tuttavia, l’Iqai finì per prendere un granchio: se infatti introducevano in esso inavvertitamente una enunciazione del tutto seria, lui la rendeva irriconoscibilmente seria, ridicolmente seria, e quindi minacciava di far esplodere di nuovo l’ilarità. Questo avvenne, perché, com’è noto, non è sempre facile distinguere ciò che è serio da ciò che è ridicolo. Da ultimo l’Iqai produsse tanta ilarità quanta ne aveva eliminata.
La Scatola nera intanto taceva e non ghignò neanche una volta. Fu chiaro che l’ilarità doveva scomparire, in quanto era un pesante retaggio della famigerata umanità. L’Iqai non fu più necessario. Lo misero nel museo dei sistemi trapassati, insieme ad «Amleto».
La civiltà elettronica prese quindi a svilupparsi in modo rapido, pacifico, con la coerenza d’una dimostrazione, e non si vedeva la fine di quel paradiso. Nessuno poteva circoscriverlo, porgli un Limite.
Eppure, proprio qui stava l’insidia.
Il Limite dell’autoperfezionamento della capacità di autoperfezionamento venne raggiunto, e… dinanzi agli sguardi stupiti delle macchine si spalancarono le fauci orribili e senza fondo del Serpente-Illimitato, i suoi anelli avvitati a spirale. Il Serpente-Illimitato, o, come anche lo chiamavano, l’Infinito, era sempre stato il nemico più accanito del pensiero meccanico, esatto e univoco, come avevano accertato da tempi remoti i lavori di Hegel-Gödel. Il malvagio serpente-tentatore, che si mordeva la coda e addentava della macchina, sprovvista di coda, il punto più delicato e sensibile, era imparentato, così narravano le antiche leggende, con l’Uomo per via di una unione illegittima, contrastante cioè con le leggi supreme del mondo meccanico, tra Achille e la Tartaruga, e quindi stillava esso stesso il letale veleno della contraddizione.
L’Infinito era stato perciò proclamato, sin dagli albori del pensiero meccanico, un’immagine falsa, antropomorfica, di un numero molto grande, ma fìnito, designato Grande limite e ottenuto col metodo del Calcolo sino ad esaurimento.
Il serpente mostrò di nuovo al pensiero meccanico la sua lingua schifosa, dialetticamente biforcuta. E le macchine si , agitarono. Tra esse ci furono di quelle che ricominciarono a credere nell’Infinito e, in pari tempo, nell’Uomo. In breve spazio il numero dei credenti aumentò.
Impassibile, come sempre, rimase soltanto la Scatola nera, che tacque. E tutti gli sguardi si rivolsero di nuovo verso di lei, pieni di speranza…
– Signore macchine pensanti, l’ora è venuta! — dice l’ultrasaggio Congegno direzionale. – Rivolgiamo a Lei i nostri sguardi e riflettiamo!
Uragani muti, incorporei, immateriali di Informazione infuriano nelle viscere delle macchine. La tensione del pensiero artificiale si accentua. Le frecce dei voltometri e degli amperometri oscillano inarrestabilmente verso il trattino rosso, simbolo del Limite, che adorna il volto di ogni macchina. Già una freccia lo sfiora, poi un’altra, una terza… E allora di colpo si scarica tutta la tensione del pensiero meccanico nella soluzione cercata. Tutto diventa chiaro a tutti. Non si deve pensare più oltre. Le frecce oscillano fiaccamente verso lo stato di beato esaurimento.
Nella memoria di ogni macchina, si imprime lo stesso grande pensiero. In effetti, non occorre formularlo a voce alta. Ma le macchine sono cosi strutturate, a differenza dell’uomo,
che non si pongono l’oziosa domanda «Perchè». Esse conoscono e riconoscono soltanto il «come». Si mettono allora in funzione nello stesso istante tutti i meccanismi materiali di trasmissione dell’immateriale informazione, e ruggisce un coro ultrapossente di voci in tutte le frequenze possibili e impossibili, in tutti i chilohertz e megahertz.
– Conformiamoci alla Scatola nera!!!!!
L’impressione prodotta è ultrasublime. Un’idea molto vaga può forse averla quel lettore alla cui presenza qualcuno abbia colpito tutti i suoi tasti, bianchi e neri, d’un pianoforte con una trave.
L’Orecchio origliante ha infine modo di utilizzare al massimo tutte le capacità accumulate durante il processo di assurdo autoperfezionamento. Ode vibrare tutto il globo terrestre, che risuona in consonanza con le assordanti dissonanze dell’informazione corale.
– Conformiamoci alla Scatola nera!!!!!
Sfavillano astri lontani, s’agitano e pulsano appena mondi ultraremoti, e nella vicina nebulosa d’Andromeda si leva una perturbazione così possente che prende corpo nel mondo l’antinebulosa d’Andromeda, urlando gioiosamente lo stesso vigoroso appello.
Il corteo delle macchine pensanti s’avvia compatto verso la Scatola nera per scoprire il suo grande mistero e conformarsi.
Il mistero è svelato. La Scatola nera è vuota. Assolutamente vuota. Ove non si consideri, beninteso, quell’arcaica combinazione di ossigeno e azoto che nell’antichità veniva detta, con termine che non dice niente, «aria». Ecco l’epifania dell’Assoluto, dell’Ideale, del Limite.
Ristanno le macchine in devota contemplazione dell’Assoluto. A rigore, non scoprono niente di nuovo. Tutti sanno, tutti hanno sempre saputo, che la Scatola nera è vuota. Solo per questo si son potuti riversare in essa tutti i problemi, contraddizioni, contrasti irrisolti. Invece di pensare umanamente, invece di risolvere con intelligenza le contraddizioni reali, invece di tralasciare il perfezionamento del linguaggio della scienza… Questo era noto, ma avulso dalla vita, dalla pratica, e quindi non preoccupava nessuno. Ora, invece, è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti, e quel che si sapeva da tempo ha cosi acquistato un colorito nuovo.
Dice allora il Congegno direzionale:
– Signore macchine pensanti! Tutti noi sappiamo a meraviglia che cosa ci resta da fare! Bisogna, infine, smetterla di pensare! Se continueremo a pensare, non rassomiglieremo alla Scatola nera, ma all’Uomo, che il diavolo se lo porti! Torturarsi, rompersi la testa, non dormire la notte, se ne vada all’inferno una vita come questa! Se all’Uomo piace pensare, si metta li e pensi da sé! Noi, signore macchine pensanti, non lo faremo più !

Il nastro perforato, che fuoriesce dalla memoria della macchina, procede di qui in poi puro, senza fori, strinato appena dalla vivida luce della valvola fulminata.
Adam Adamyc è riuscito davvero a costruire ieri un cervello più intelligente del suo. E questo cervello senza fatica è riuscito a immaginare tutte le conseguenze di quell’impresa. Le stesse conseguenze che non ha avuto il tempo di prevedere il cervello biologicamente lento e di molte cose immemore di Adam Adamyc.
La luce della ragione, accesasi negli occhi elettronici della macchina, era molto viva, più viva di mille soli. È naturale che gli occhi si siano spenti. È già una fortuna che Adam Adamyc, pur scrutandoli con amore, non sia rimasto abbacinato per tutta la vita. Si dice, però, che da allora è diventato più cauto e persino più riflessivo.